Meeting News luglio 2025

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LUGLIO/AGOSTO 2025

Speciale mostre Meeting 2025

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LUGLIO/AGOSTO 2025

Questo numero è stato chiuso in redazione il 15/08/2025

Mattoni nuovi per il mondo

San Francesco, Nicea, Ermanno lo storpio: la forza che genera

Tre mostre raccontano l’impatto della fede sul presente: un ragazzo di Assisi che diventa punto di riferimento per i secoli, un concilio che afferma la verità del Dio che ama, un monaco disabile che canta la pienezza della vita.

Quali sono le fondamenta su cui si costruisce una civiltà, una speranza, un futuro che non crolli alla prima scossa? La storia è un cimitero di imperi e ideologie che si credevano eterne. Eppure, ci sono costruzioni che resistono, non fatte di pietra e cemento, ma di una materia umana incandescente, forgiata da un incontro. Tre mostre eccezionali ci invitano a riscoprire tre di questi “cantieri” dell’anima, guidati da architetti improbabili: un giovane che si spoglia di tutto per rivestirsi solo di Dio, un’assemblea di vescovi che cesella le parole per difendere una Paternità impareggiabile e un monaco storpio che, dal suo letto di dolore, innalza canti che raggiungono il cielo. “Io, frate Francesco”, “Luce da Luce – Nicea 1700 anni dopo” e “Un tesoro in vasi di creta – Ermanno lo storpio” non sono lezioni di storia, ma viaggi immersivi per scoprire quali mattoni servono, oggi come allora, per edificare qualcosa di veramente umano.

Il primo cantiere è l’anima stessa di Francesco d’Assisi. La mostra “Io, frate Francesco” evita la trappola dell’agiografia per condurci a un incontro a tu per tu con l’uomo. L’allestimento, curato dai Frati Minori della Porziuncola, ci avvolge in teli che ricordano la ruvidezza

della sua tunica, invitandoci a un’esperienza di spogliazione. Il cuore pulsante del percorso è il suo Testamento, dettato poco prima di morire. Non è un testo giuridico, ma un’autobiografia spirituale, un’eredità bruciante. Qui Francesco ripercorre la sua “svolta antropologica”: l’inizio non fu una visione celestiale, ma l’incontro con la carne sofferente dei lebbrosi. “Ciò che mi sembrava amaro – scrive –mi fu cambiato in dolcezza di anima e di corpo”. In quel gesto di misericordia, la sua vita si capovolge. La mostra evidenzia l’unità della sua persona: spirito, anima e corpo sono un tutt’uno nel rapporto con Dio, con sé, con gli altri, con frate Sole e sora Luna.

Questo testo dialoga mirabilmente con le opere di fr. Sidival Fila, artista francescano contemporaneo che dà nuova vita a tessuti antichi e materiali di scarto. La sua è un’arte di resurrezione: come Francesco trovava la perfezione nella povertà, Fila trova la bellezza in ciò che il mondo ha buttato via. Il culmine emotivo è l’incontro con un volto: la tempera su tavola di Cimabue del 1290, proprietà del Museo della Porziuncola. Considerato uno dei ritratti più veritieri del Santo, ci fissa con occhi che hanno visto l’essenziale, un volto scavato dalla penitenza ma illuminato da una pace conquistata. Prima di uscire, un piccolo spazio è dedicato a Santa Chiara, colei che ha custodito il testamento di Francesco non solo materialmente, ma vivendolo e facendone testimonianza luminosa.

Si esce con una certezza: la “grande avventura” di Francesco non fu una fuga dal mondo, ma un modo radicale di ricostruirlo, mattone su mattone, partendo dagli ultimi. Dalla ricostruzione fisica della chiesetta di San Damiano, ci spostiamo

A questa idea, che rendeva Dio un monarca lontano e il suo amore un’opzione, si opposero i circa 300 vescovi riuniti da Costantino. Dopo dibattiti feroci, guidati dalla figura di Atanasio, forgiarono nel Credo una parola che cambiò tutto: homoou-

a un’altra, ben più complessa, ricostruzione: quella verbale e concettuale. La mostra “Luce da Luce” ci proietta a Nicea, nel 325 d.C., per il 1700° anniversario di un evento che ha plasmato l’Occidente. Che senso ha, oggi, parlare di una disputa teologica antica? La mostra, promossa dalla Pontificia Università della Santa Croce, scommette sulla sua sconvolgente attualità. Al centro c’era la crisi ariana. Il prete Ario di Alessandria proponeva un’idea logica e seducente: Gesù, il Figlio, non poteva essere eterno come il Padre; era la prima e più perfetta delle creature, ma non Dio stesso. Una sfumatura? No, un abisso. Se Cristo non è Dio, allora Dio non si è veramente fatto uomo. Se il Figlio è una creatura, allora Dio non è Padre per natura, ma ha deciso di diventarlo. Il suo amore, quindi, non è la sua stessa essenza, ma un atto di volontà, forse revocabile.

la verità che libera. Come afferma il teologo Rowan Williams, citato nella mostra, “false interpretazioni di Dio producono false interpretazioni dell’umano”. Un Dio arbitrario genera un uomo solo e impaurito. Il Dio di Nicea fonda la dignità umana su una roccia. L’allestimento ricalca la pianta di una basilica, a simboleggiare come questa fede abbia fecondato le strutture del mondo. Davanti alla riproduzione del Cristo Pantocratore di Hagia Sophia, volto di quel Dio definito a Nicea, e all’imponente Cosmografia Biblica di Gianluca Bosi – l’intera Bibbia riscritta a mano su papiro – si comprende che quelle parole non erano arida filosofia, ma la difesa del volto di un Dio vicino.

Dal dogma alla carne, dalla definizione della fede alla sua incarnazione più fragile. “Un tesoro in vasi di creta” è un pugno allo stomaco e una carezza al cuore. Ci fa conoscere Er-

sios, “consustanziale”, della stessa sostanza del Padre. Gesù è “Luce da Luce, Dio vero da Dio vero”. Ciò significa che Dio è relazione, è Amore trinitario, non può fare a meno di amare, così come la luce non può fare a meno di splendere. Questa è

manno di Reichenau, monaco dell’XI secolo. Il soprannome, “lo storpio”, è riduttivo. Nato con paralisi spastica e labiopalatoschisi, non poteva stare in piedi, camminare o parlare chiaramente. Un “vaso di creta”, appunto, fragile fino all’inverosimile. Secon-

do la nostra logica efficientista, una vita da scartare. Invece, nel monastero dell’isola di Reichenau, allora uno dei più grandi centri culturali d’Europa, Ermanno fu un “tesoro”. La mostra, che prende spunto da una riflessione di don Luigi Giussani, non lo descrive come un eroe che sconfigge il limite, ma come una “persona viva perché abbracciata”: dalla sua famiglia, che lo affidò ai monaci, e da una comunità che vide in lui non un peso ma un dono.

Questa positività generò un miracolo. Ermanno divenne uno degli intelletti più acuti del suo tempo. Scrisse il Chronicon, una storia universale dal tempo di Cristo al suo. Fu un matematico e astronomo brillante, perfezionando l’uso dell’astrolabio. E fu un musicista sublime. A lui la tradizione attribuisce due dei più commoventi canti mariani della storia, il Salve Regina e

l’Alma Redemptoris Mater. Preghiere nate non dalla perfezione, ma dalla crepa, dal bisogno, dal grido di un uomo che poteva solo “guardare in alto”. La mostra ci interroga: è possibile vivere il limite non come una negazione, ma come un invito a una

Francesco, i Padri di Nicea, Ermanno. Un Poverello, un Concilio, uno Storpio. Insieme, ci mostrano che le uniche costruzioni che durano non sono quelle fondate sulla forza, sulla ricchezza o sulla salute, ma quelle che nascono da una debolezza che

pienezza diversa? Dove si trova la dignità quando tutto sembra negarla? Accostando la sua storia a volti ed esperienze di oggi, il percorso ci documenta che ogni vita, anche la più fragile, se accolta e amata, può fiorire in modo impensabile.

si lascia abbracciare da un Amore più grande. Sono questi i mattoni che, ancora oggi, possono ricostruire il nostro mondo.

COSTRUIAMO FUTURO COSTRUIAMO FUTURO

DOVE SEMBRA DOVE SEMBRA IMPOSSIBILE IMPOSSIBILE

In luoghi dimenticati o difficili, seminiamo senso e visione. In luoghi dimenticati o difficili, seminiamo senso e visione.

Perché il futuro si prepara oggi, anche dove non sembra

Perché il futuro si prepara oggi, anche dove non sembra

crescere nulla. crescere nulla.

Grazie a ricerca, tecnologia e scienza rendiamo fertili

Grazie a ricerca, tecnologia e scienza rendiamo fertili anche le sfide più dure. anche le sfide più dure.

Vite ferite speranze custodite

Quando la pace si fa testimonianza: c’è chi non si arrende anche quando tutto intorno è disperazione

Dal dolore della guerra alle parole che custodiscono il futuro: un viaggio tra Ucraina, Algeria, Medio Oriente e Russia per scoprire il coraggio di chi sceglie il bene.

Esiste un’umanità che resiste. Non è quella urlata delle propagande, né quella cinica dei calcoli geopolitici. È un’umanità silenziosa, tenace, che fiorisce nelle crepe del dolore, che sceglie la mitezza di fronte alla violenza, che custodisce la speranza quando tutto intorno è disperazione. È un’umanità ferita, ma non sconfitta.

Quattro percorsi espositivi ci conducono in un pellegrinaggio laico nel cuore di questa resistenza, un viaggio che attraversa i teatri di guerra e i deserti dell’anima per incontrare chi, con la propria vita, diventa una parola di pace. Dalle voci che si levano dalle macerie dell’Ucraina (“...Ma sono vivo”), agli “artigiani” di pace in Medio Oriente e Africa (“Profezie per la pace”), dal sacrificio luminoso dei martiri d’Algeria (“Chiamati due volte”) fino alla lotta solitaria di un grande scrittore contro i totalitarismi del Novecento (“Vasilij Grossman – La forza dell’umano nell’uomo”). Non sono mostre che spiegano la guerra, ma che rivelano il segreto per vincerla, un segreto che risiede nel cuore indistruttibile dell’uomo.

Il nostro viaggio inizia nel presente più crudo. “...Ma sono vivo” – Voci dall’Ucraina” non è una mostra da guardare, ma da sentire. L’obiettivo, come chiedeva papa Francesco,

è “toccare la carne di chi soffre”, superare l’assuefazione delle notizie e lasciarsi ferire dalla realtà per poterla comprendere. L’esposizione non si compiace del dolore, ma documenta una sorprendente trasfigurazione: come l’ingiustizia e la sofferenza possano diventare “energia di bene”. Le innumerevoli

care e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare». Questo “non inferno” non è un’idea, ma sono i volti di uomini e donne che restano umani, che illuminano il valore della Croce non come simbolo di sconfitta, ma come fondamento di una speranza che vince la morte.

storie raccolte mostrano un popolo che, sotto le bombe, sceglie di costruire. La sofferenza condivisa non ha annichilito le persone, ma le ha unite, rendendole più consapevoli della propria identità e del valore inestimabile della libertà.

Attraverso testimonianze che spaziano dalla cultura all’economia, dal volontariato all’educazione, emerge una sete di vita che è molto più che mera sopravvivenza. La mostra lancia la sfida di don Giussani, che citava Calvino sull’inferno: non abituarsi ad esso, ma «cer-

È la testimonianza di una vita che, anche nell’abisso, grida la sua indomabile dignità.

Da un conflitto specifico, lo sguardo si allarga. “Profezie per la pace” è un antidoto al cinismo globale. Promossa da Gioventù Studentesca, la mostra adotta quella che il cardinale Pierbattista Pizzaballa definisce una “strana logica”: invece di analizzare le cause dell’odio, va a cercare i “risorti di oggi”, quelle persone che, dentro la guerra, sono capaci di vedere e generare luce. Un gruppo di studenti è an-

dato alla ricerca di storie di pace che sembrano “impossibili”, eppure sono reali. Dalla Palestina ad Haiti, dal Rwanda al Myanmar, la mostra presenta dieci testimonianze di “artigiani” di una pace costruita “dal basso”.

contesti politici, culturali e religiosi avvelenati dall’odio, ma che non si arrendono. La mostra ci mostra i loro volti, che la guerra vorrebbe cancellare, indicandoli come una possibilità concreta di speranza. Non è un’utopia, ma un realismo

Non sono leader mondiali o negoziatori, ma persone comuni che hanno vissuto sulla propria pelle la violenza e che, contro ogni logica, hanno scelto il perdono, il dialogo, la riconciliazione. Sono insegnanti, medici, preti, madri che operano in

Questa scelta di rimanere e testimoniare una speranza più grande assume contorni tragici e sublimi in “Chiamati due volte – La storia dei martiri d’Algeria”. Il titolo racchiude un destino: una prima chiamata alla vita consacrata e una seconda, ancora più radicale, a rimanere fedeli al popolo algerino durante il terribile “decennio nero” (1992-2002). La mostra, promossa dalla Fondazione Oasis, rende omaggio ai 19 religiosi e religiose uccisi in quegli anni, tra cui i sette monaci trappisti di Tibhirine, la cui vicenda è stata raccontata nel film Uomini di Dio. Erano pienamente consapevoli dei rischi, ma scelsero di non abbandonare un popolo che era anch’esso vittima della violenza fondamentalista. La loro non fu una scelta ideologica, ma di amore incarnato. La loro fede si esprimeva nel dialogo quotidiano, nei legami di amicizia con i vicini musulma-

profondo: la pace non nasce dai trattati, ma dalla conversione del cuore dell’uomo. È un invito a riconoscere che, anche nello scenario di una “terza guerra mondiale a pezzi”, esistono alternative concrete alla logica della violenza.

ni, con cui avevano “fatto corpo”, come disse il postulatore della loro causa.

Il percorso espositivo è un memoriale commovente: i volti sorridenti dei 19 martiri, le loro storie, lettere

e oggetti personali. Spicca la veste liturgica di Mons. Pierre Claverie, l’ultima vittima, su cui è impressa in arabo la frase “Dio è amore”. È la sintesi del loro martirio: un amore che non conosce confini di fede o cultura. Beatificati a Orano l’8 dicembre 2018, questi 19 uomini e donne offrono un messaggio universale, dimostrando che è possibile costruire ponti anche sull’orlo dell’abisso e che il dialogo è l’unica arma contro l’odio.

Infine, il nostro pellegrinaggio approda nell’universo di uno scrittore che ha guardato in faccia i due volti del Male assoluto del XX secolo. “Vasilij Grossman – La forza dell’umano nell’uomo” celebra i 120 anni dalla nascita di un gigante della letteratura. La mostra, il cui percorso è ispirato alla forma destrutturata della stella di David, ci guida attraverso l’evoluzione di Grossman, dalla giovinezza segnata dall’ideale socialista fino a un realismo che diventa metafisico e religioso. Passiamo per i luoghi-simbolo della sua vita e della sua opera: Berdičev, la sua città natale e cuore del mondo ebraico; Treblinka, l’inferno della Shoah dove perse la madre; Stalingra-

do, l’epica e terribile battaglia che raccontò come corrispondente di guerra.

Nel suo capolavoro, Vita e destino – sequestrato dal KGB e considerato tanto pericoloso da poter es-

Raffaello al Museo Puškin di Mosca segna per lui una svolta, aprendolo al mistero della bellezza e della maternità come risposta al disumano.

La mostra ci invita a riflettere sulla possibilità di un destino felice per

sere pubblicato solo secoli dopo –Grossman fa qualcosa di inaudito: denuncia la natura totalitaria e disumana sia del nazismo che del comunismo, mostrando come i grandi sistemi ideologici finiscano sempre per schiacciare l’individuo. Ma il cuore del libro non è la denuncia, è la scoperta di ciò che salva. Grossman lo chiama “il bene insensato”: un gesto di gentilezza immotivato in un lager, una parola di verità sussurrata a un amico, la condivisione di un pezzo di pane. È la “forza dell’umano nell’uomo” che resiste. La visione della Madonna Sistina di

l’uomo, fondato non su grandi ideali, ma sul riconoscimento della verità e sulla misericordia.

Da Kiev a Tibhirine, da Gerusalemme a Stalingrado, queste quattro mostre compongono un unico, potente affresco. Ci dicono che la speranza non è l’assenza di dolore, ma una presenza che si ostina a fiorire nelle ferite. Una presenza custodita da vite che, scegliendo il bene, diventano luce per tutti noi.

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Quando l’economia nasce dalla fiducia

Scopri

le mostre sul lavoro, a cura della Cdo, e sull’avventura di Amadeo Peter Giannini

Due mostre raccontano come il lavoro e la finanza possono diventare luoghi di costruzione sociale: le sfide del presente e l’esempio rivoluzionario di Giannini.

Lavoro, finanza, economia. Termini che dominano il discorso pubblico e

le nostre vite private, spesso percepiti come meccanismi impersonali, fredde leggi di mercato a cui dobbiamo adattarci. Ma è davvero così? O è possibile immaginare un mondo del lavoro e un sistema economico dove la persona, con la sua dignità, i suoi desideri e la sua creatività, non sia una variabile da ottimizzare, ma il vero centro del sistema?

In un’epoca segnata da profonde trasformazioni, dal fenomeno della great resignation alla rivoluzione dell’intelligenza artificiale, questa domanda è diventata ineludibile.

Due mostre, “Ogni uomo al suo lavoro” e “Non si può morire per un dollaro”, ci offrono una duplice prospettiva per affrontare questo tema cruciale: da un lato, una fotografia lucida delle domande e delle sfide del presente; dall’altro, il racconto di una storia incredibile che dimostra come un’economia fondata sulla fiducia non solo sia possibile, ma anche incredibilmente feconda.

Il primo passo è un’immersione nelle complessità dell’oggi. La mostra “Ogni uomo al suo lavoro”, che prende il titolo da un verso di T.S. Eliot, nasce come sviluppo del “Manifesto del buon lavoro” della Compagnia delle Opere. Non è un convegno per addetti ai lavori, ma un luogo aperto di dialogo, dove le domande che attraversano uffici e fabbriche possono trovare spazio ed essere messe a confronto con esperienze concrete. Il percorso si snoda attraverso tre sezioni tematiche che toccano i nervi scoperti del nostro tempo. La prima, lavorare per cosa e per chi, affronta la questione del purpose, lo scopo. Molte aziende ne fanno un vessillo di marketing, ma spesso resta uno slogan vuoto. Cosa significa davvero lavorare per uno scopo che sentiamo nostro? E come può questo scopo coincidere con quello dell’azienda per cui lavoriamo?

La seconda sezione, lavorare con, esplora la dimensione relazionale del lavoro. In un contesto in cui, secondo dati Censis, quasi la metà dei lavoratori italiani si sente isolata e lo smart working ridefinisce i con-

fini tra vita e ufficio, che valore ha costruire legami profondi con i colleghi? Che senso ha ascoltare e valorizzare la diversità di chi ci sta accanto? La terza sezione, lavorare come, va al cuore della concretezza: la fatica, che porta sempre più persone a dimettersi (un aumento del 57% tra il 2013 e il 2023); la tecnologia e l’IA, che sono opportunità o minaccia; la pressione della performance, che trasforma il giusto desiderio di fare bene nel ricatto della produttività a tutti i costi (il 24% dei lavoratori italiani si sente spesso sotto troppa pressione).

La mostra non offre soluzioni facili, ma, attraverso brevi video-testimonianze di imprenditori, manager e lavoratori di ogni tipo, propone ipotesi nate dalla vita reale, invitando a un giudizio personale e collettivo per rimettere al centro il senso di ciò che facciamo ogni giorno.

Se la prima mostra ci pone le domande, la seconda ci racconta la storia di un uomo che a queste domande ha dato una risposta che ha del rivoluzionario. “Non si può morire per un dollaro” è il racconto della vita straordinaria di Amadeo Peter Giannini (1870-1949), figlio di immigrati italiani che, partito da

Giannini, che aveva messo in salvo l’oro della sua Bank of Italy nascondendolo in un carretto sotto delle verdure, fece qualcosa di inaudito. Allestì un bancone improvvisato su un molo, composto da un’asse appoggiata su due barili, e iniziò a prestare denaro per la ricostruzione. Non chiedeva garanzie patrimoniali, ma guardava

zero, ha creato il più grande istituto bancario del mondo, la Bank of America. Ma la sua non è la solita storia del self-made man. Giannini non fu solo un banchiere, ma un visionario sociale che sovvertì le regole della finanza. Il suo motto, che dà il titolo alla mostra, riassume una filosofia: il denaro è uno strumento, non il fine. Il fine è la realizzazione delle persone. La sua rivoluzione si basava su un elemento che la finanza tradizionale considera con sospetto: la fiducia. In un’epoca in cui le banche servivano solo i ricchi, Giannini aprì le porte ai “piccoli”: immigrati, agricoltori, operai, persone a cui nessuno avrebbe mai concesso un prestito.

L’episodio che meglio incarna la sua visione è il terremoto che distrusse San Francisco nel 1906. Mentre le altre banche erano bloccate, con i loro caveau incandescenti e inaccessibili,

tivi, legando indissolubilmente la sua banca alla comunità.

Negli anni successivi, questa filosofia lo portò a finanziare imprese che altri consideravano folli: il Golden Gate Bridge, quando nessuno voleva investirci un dollaro; i primi film di Walt Disney, come Biancaneve, rifiutato da tutti i produttori; l’industria cinematografica nascente di Hollywood. La mostra, attraverso un percorso biografico ricco di fotografie, documenti e video, ci fa scoprire un uomo per cui l’etica non era un accessorio, ma il motore stesso del business. Un uomo che, diventato ricchissimo, donò gran parte del suo patrimonio e morì in una casa modesta, fedele al suo principio.

le persone negli occhi. La sua garanzia era il carattere, la voglia di fare, la stretta di mano. Scommise sulla gente comune e vinse. Quell’atto di fiducia non solo permise la rinascita di San Francisco, ma creò un’intera generazione di imprenditori e crea-

Messe in dialogo, queste due mostre generano una scintilla. La prima ci mostra l’urgenza e la confusione del presente, la seconda ci illumina con la chiarezza di un esempio storico. Ci dicono che un’altra economia è possibile, un’economia dove il profitto non è il fine ultimo, ma la conseguenza di un lavoro fatto bene, per il bene di tutti. Un’economia che, per essere davvero prospera, deve rimettere la persona al centro.

L’arte di cercare Dio: lo sguardo e la pietra

Fotografie e architetture che svelano il mistero

Attraverso la pietra scolpita e lo scatto in bianco e nero, la ricerca del sacro prende forma. Due percorsi paralleli per scoprire cosa ancora ci parla dell’infinito.

Il sacro è un sussurro, una crepa nel velo del visibile, un’intuizione che sfugge alle definizioni. Come può l’arte, fatta di materia, forma e luce, farsene interprete? Come può un blocco di pietra o un’immagine impressa su carta raccontare l’irraccontabile? Da sempre, l’uomo si cimenta in questa sfida sublime, cercando linguaggi capaci di indicare una Presenza, di costruire un ponte

tra il finito e l’infinito. Due mostre straordinarie, “Pietre viventi – L’Europa romanica si veste di bellezza” e “I sentieri del sacro – Gesti e rituali di fede nella fotografia contemporanea”, ci guidano in questo affascinante viaggio, accostando

due universi espressivi che non potrebbero essere più diversi: da un lato, l’architettura corale, simbolica e potente delle cattedrali medievali; dall’altro, lo sguardo intimo, frammentario e interrogante dei grandi fotografi del nostro tempo. Pietra e luce, certezza e domanda, collettivi-

andando oltre i cliché di uno stile austero e oscuro. Ci svela, al contrario, un mondo vibrante di simboli e colori.

La chiesa romanica non era solo un edificio, ma un microcosmo, un’immagine del mondo redento e della

tà e individuo: due sentieri paralleli che convergono verso la stessa, inesauribile ricerca di un significato che trascenda il quotidiano.

Il primo percorso è un’immersione in un’epoca in cui la fede era l’architrave del mondo. “Pietre viventi” ci trasporta nell’Europa che, a partire dall’anno Mille, vive una straordinaria fioritura spirituale e costruttiva. Come scrisse il monaco Rodolfo il Glabro, il continente “si rivestì di un bianco manto di chiese”. La mostra ci fa riscoprire la passione, la novità e la bellezza dell’arte romanica,

comunità cristiana, edificata con “pietre vive”, le anime dei fedeli. Ogni elemento aveva un significato preciso. La facciata era il volto della Chiesa che si presentava al mondo; il portale, spesso riccamente scolpito con il Giudizio Universale, era la soglia drammatica tra il peccato e la salvezza. L’altare era il cuore pulsante, centro liturgico dove si rinnovava il sacrificio di Cristo. I capitelli istoriati, le pitture murali, i pavimenti a mosaico erano una “Bibbia dei poveri”, un catechismo per immagini comprensibile anche a chi non sapeva leggere.

La mostra sfata un mito visivo consolidato: quello di un romanico grigio. Grazie a proiezioni immersive che ci portano in capolavori come MontSaint Michel, Sainte-Foy de Conques e Sant’Angelo in Formis, riscopriamo che queste chiese splendevano di policromie vivaci, oggi in gran parte cancellate da restauri ottocenteschi che proiettavano sul Medioevo un’idea di purezza formale del tutto anacronistica. La parte finale del percorso, dedicata al chiostro – luogo di meditazione e passaggio – crea un ponte inaspettato con la nostra epoca, mostrando come architetti moderni come Le Corbusier, Mies van der Rohe e Álvaro Siza abbiano attinto al romanico non per copiarne lo stile, ma per riscoprirne i principi concettuali: il rapporto con la luce, la purezza dei volumi, la dimensione comunitaria dello spazio

Dalla fede corale del Medioevo ci spostiamo alla ricerca solitaria e frammentata dell’uomo contemporaneo. La mostra “I sentieri del sacro” esplora come alcuni dei più grandi maestri della fotografia abbiano affrontato la sfida di narrare l’esperienza religiosa nel nostro tempo. Il tema del pellegrinaggio, centrale nel percorso e quanto mai

attuale nell’anno del Giubileo della Speranza 2025, diventa metafora di un cammino esistenziale: lasciare le proprie sicurezze per mettersi in viaggio verso una meta, una conquista, un approdo che è interiore prima che geografico.

I nomi presenti in mostra sono quelli che hanno fatto la storia della fotografia: da Gianni Berengo Gardin a Sebastião Salgado, da Giorgia Fiorio a Mimmo Jodice, da Mario Giacomelli a Ferdinando Scianna, fino a sguardi internazionali come Markéta Luskacˇová e Harun Farocki. Ognuno con il suo linguaggio unico – antropologico, poetico, visionario – ha saputo cogliere gesti, sguardi, riti, danze e processioni che custodiscono il senso della spiritualità. L’immagine fotografica, soprattutto nel potente bianco e nero che domina l’esposizione, si muove su un crinale sottile tra presenza e assenza, tra ciò che è mostrato e ciò che è solo evocato. Lo sguardo dei fotografi indaga il rapporto intimo e quotidiano con il sacro: la fatica dei corpi in cammino, la speranza impressa sui volti, la concretezza di

una fede fatta di oggetti umili e rituali arcaici, il legame profondo con la terra e la memoria.

L’allestimento, con i suoi colori forti che fanno emergere la drammaticità del bianco e nero, crea un’atmosfera immersiva, dove le immagini sono accompagnate da testi biografici e racconti evocativi. Qui non c’è la certezza dogmatica del romanico. Il sacro è spesso una domanda, un’indagine, un mistero colto nell’attimo irripetibile di uno scatto, una traccia di divino nel flusso della vita.

Accostare queste due mostre è un’esperienza illuminante. Da un lato, la pietra scolpita, espressione di una fede collettiva che costruisce cattedrali come teologie visibili, ordinate e universali. Dall’altro, l’obiettivo del fotografo, che cattura frammenti di un sacro diffuso,

personale, a volte persino inconsapevole, nascosto nelle pieghe della realtà. Eppure, al di là delle enormi differenze stilistiche e storiche, entrambe le forme d’arte parlano della stessa, insopprimibile tensione umana: quella verso un Oltre, quella ricerca di un senso ultimo che dia significato al nostro breve passaggio sulla terra. Sia nella maestosa architettura di una cattedrale romanica che nel silenzio di un volto fotografato da Salgado, vibra la stessa, identica domanda sul mistero che ci abita e ci circonda.

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settore in Italia per Ricerca in collaborazione con Università e Centri di Ricerca pubblici

nuovi farmaci autorizzati nel mondo, rispetto a una media annuale di 62 degli ultimi 10 anni

Un giovane santo per l’epoca digitale

La semplicità e la simpatia di Carlo Acutis, un ragazzo che parla al mondo

Carlo Acutis, un quindicenne appassionato di Gesù e del web, continua a sorprendere milioni di giovani. La sua storia diventa una mostra e un punto d’incontro.

In un’epoca che sembra aver relegato la santità a un passato remoto, fatto di statue impolverate e vite lontanissime dalla nostra, la storia di un ragazzo in jeans e scarpe da ginnastica ha scosso le fondamenta di ogni cliché. Si chiama Carlo Acutis, è morto a 15 anni nel 2006, ed è il primo “santo” (per ora Beato, ma la strada è tracciata) ad essere cresciuto nell’era di internet, tra computer, videogiochi e cellulari. Un “nerd” di Dio, un “cyber-apostolo” dell’Eucaristia, un ragazzo del nostro tempo che ha dimostrato come la fede non sia un reperto da museo, ma un’avventura straordinaria da vivere nel cuore della normalità. La mostra “Carlo Acutis – Una semplicità straordinaria” non è una semplice biografia, ma un invito a un incontro personale con questo giovane che, dalla sua “autostrada per il Cielo”, continua a parlare a milioni di persone, soprattutto giovani, in tutto il mondo.

Lo scopo della mostra, curata da chi lo ha amato e conosciuto da vicino come la madre, Antonia Salzano Acutis, e Giovanni Emidio Palaia, è proprio questo: favorire un incontro. Non con un modello irraggiungibile, ma con un amico. Carlo era un ragazzo apparentemente come tanti: vivace, simpatico, pieno di interessi e di amici. Ma dentro que-

sta normalità pulsante, custodiva un segreto, un centro di gravità che ordinava tutta la sua vita: un rapporto personale e quotidiano con Gesù. Il suo programma di vita, semplice e disarmante, era: “essere sempre unito a Gesù”. E il luogo di questa unione era l’Eucaristia, che

e famoso fu la creazione di una mostra (poi diventata un sito web) sui miracoli eucaristici nel mondo. Un lavoro immenso, quasi da ricercatore universitario, che lo impegnò per anni, documentando e catalogando centinaia di eventi. Era il suo modo di essere missionario nell’era digita-

lui definiva, con un’immagine tanto moderna quanto profonda, “la mia autostrada per il Cielo”.

Questa relazione intensa non lo chiudeva in un’intimità sterile, ma lo apriva al mondo con una creatività contagiosa. Appassionato di informatica, molto più dei suoi coetanei, aveva capito prima di molti adulti le enormi potenzialità evangeliche del web. Mentre tanti usavano internet per isolarsi in mondi virtuali, Carlo lo usava per connettere, per condividere la bellezza che aveva scoperto. Il suo progetto più ambizioso

le, usando i suoi talenti per mostrare che Gesù non è un’idea, ma una presenza reale e operante.

Il percorso espositivo mette in luce proprio questa “semplicità straordinaria”. Non ci sono gesti eclatanti nella sua breve vita, non ha compiuto miracoli o fondato ordini religiosi. La sua santità è feriale, fatta di coerenza radicale vissuta nel quotidiano. Andare a Messa ogni giorno non era un dovere, ma un appuntamento irrinunciabile con il suo migliore Amico. L’amore per Gesù si traduceva spontaneamente

nell’amore per i più poveri: con la sua paghetta comprava cibo e sacchi a pelo per i senzatetto della sua zona a Milano, con cui si fermava a parlare, offrendo non solo un aiuto materiale ma la sua amicizia. Era gentile e disponibile con tutti, dai compagni di scuola al personale di servizio. La sua forza era la normalità vissuta in modo non normale, perché costantemente orientata a Dio.

Il fenomeno più incredibile, che la mostra vuole documentare, è ciò che è accaduto dopo la sua morte

per una leucemia fulminante. La sua fama di santità, già viva tra chi lo conosceva, si è diffusa in modo virale, proprio attraverso quel web che lui aveva tanto amato. Dalla sua tomba ad Assisi, dove riposa con indosso i jeans e le sue amate Nike, è partito un pellegrinaggio ininterrotto. Le testimonianze di grazie e conversioni legate alla sua intercessione arrivano da ogni continente. Hanno tutte un tratto comune: chi incontra la storia di Carlo si sente toccato non da un eroe del passato, ma da un compagno di viaggio credibile e vicino, che indica una strada percorribile per la felicità.

La sua beatificazione nell’ottobre 2020 ad Assisi è stata un evento mediatico globale, e la sua figura è diventata un punto di riferimento per la pastorale giovanile in tutto il mondo. La Chiesa, dichiarandolo Beato, ha messo un sigillo su una santità già riconosciuta dal popolo, indicando in lui un modello potente per le nuove generazioni. Carlo Acutis dimostra che si può amare la tecnologia e pregare il Rosario, giocare alla PlayStation e adorare il Santissimo Sacramento, essere immersi nel proprio tempo e avere il cuore proteso verso l’eternità.

La mostra è un’occasione preziosa per conoscere da vicino questa figura luminosa e per lasciarsi interrogare dalla sua domanda più importante: «Tutti nascono come originali, ma molti muoiono come fotocopie. Non permettere che questo accada a te!».

Nuovi materiali tra scienza e natura

“Homo Faber”: non solo una mostra sulla tecnologia, ma una riflessione sull’avventura della conoscenza umana

Una mostra per raccontare l’intelligenza e il lavoro creativo dell’uomo, che scopre e inventa materiali rivoluzionari per costruire un futuro migliore.

La storia umana è una storia di materiali. La nostra capacità di comprendere, trasformare e inventare la materia ha scandito le epoche, definito le civiltà e costantemente ridisegnato i confini del possibile. Dalla pietra scheggiata dei nostri antenati al silicio che alimenta la rivoluzione digitale, ogni nuovo materiale ha aperto mondi inesplorati. Oggi, questa avventura creativa prosegue a un ritmo senza precedenti, portandoci sulla soglia di un futuro che fino a pochi anni fa apparteneva al dominio della fantascienza.

La mostra “Homo Faber – Invenzioni e scoperte di nuovi materiali”, promossa da Associazione Euresis e Camplus, è un affascinante viaggio nel cuore di questa rivoluzione silenziosa, un’esplorazione del genio umano che, dialogando con le leggi della natura, crea materiali con proprietà sorprendenti.

Il titolo stesso, “Homo Faber”, l’uomo artefice, ci introduce al cuore del percorso: la celebrazione dell’intelligenza creativa dell’uomo.

La mostra, però, ci allontana da un’idea di creazione prometeica, di dominio arrogante sulla natura.

Al contrario, ci svela come ogni invenzione sia, in fondo, una sco-

perta. I “nuovi mattoni” che stanno costruendo il nostro futuro non sono creati dal nulla. Sono un geniale e paziente ri-assemblaggio dei “vecchi mattoni” di cui è fatta tutta la realtà: gli atomi. Il lavoro dello scienziato è un dialogo umile e tenace con la natura. Consiste nello

scoprire le leggi fisiche e chimiche che governano il comportamento della materia e, obbedendo a queste regole, “costruire” architetture atomiche e molecolari inedite. È in questo incontro fecondo tra il dato della natura e il lavoro creativo della ragione che nasce la novità.

Il percorso espositivo è strutturato per illustrare questo processo dinamico, mostrando come si possa arrivare a un nuovo materiale seguendo strade diverse. A volte, come nel caso storico dei superconduttori, è una scoperta scientifica pura, quasi accidentale, a suggerire solo in un secondo momento applicazioni che possono cambiare il mondo. Altre volte, il percorso è inverso: è un bisogno concreto, una sfida urgente a guidare la ricerca.

È il caso delle nuove plastiche biodegradabili, nate dalla necessità impellente di affrontare la crisi globale dell’inquinamento, o dei materiali biocompatibili utilizzati in medicina. Protesi d’anca che si integrano con l’osso, stent coronarici che rilasciano farmaci e poi si riassorbono, pelli artificiali per curare le ustioni: sono tutte soluzioni nate da un problema specifico, che hanno spinto gli scienziati a progettare materiali su misura.

L’allestimento della mostra è pensato per essere un’esperienza coinvolgente e non una semplice lezione. Il visitatore è accolto in un’arena centrale, un vero e proprio “speakers’ corner” della scienza, dove a cadenza regolare può incontrare e dialogare con ricercatori ed esperti. Questo rende la scienza viva, accessibile, umana. Da questo cuore pulsante, il percorso si snoda attraverso sei capitoli tematici, un vero e proprio viaggio nella rivoluzione della materia.

Si parte dal mondo che tocchiamo ogni giorno, quello delle plastiche, per scoprire che oltre il problema dell’inquinamento si aprono le frontiere dei biopolimeri e dei materiali riciclabili all’infinito. Poco più in là, si entra nel cuore pulsante della nostra era digitale: i semicondut-

tori, l’anima dei nostri smartphone e dei pannelli solari, con uno sguardo proiettato verso il futuro del grafene. Il viaggio si fa poi quasi fantascientifico nell’area dedicata ai nanomateriali, dove la materia, manipolata a livello atomico, dà vita a tessuti autopulenti e farmaci intelligenti.

La meraviglia continua esplorando le applicazioni per la vita umana, con i materiali per uso medico che promettono di riparare il corpo dall’interno, e con la magia dei materiali a memoria di forma, leghe e polimeri che “ricordano” la loro sagoma originale. Infine, lo sguardo si lancia verso l’orizzonte ultimo della fisica con i superconduttori, la frontiera che promette un mondo senza sprechi di energia.

Attraverso pannelli esplicativi chiari, exhibit interattivi da toccare con mano e prototipi, “Homo Faber” non è solo una mostra sulla tecnologia. È una profonda riflessione sull’avventura della conoscenza umana. Ci mostra un uomo che non si accontenta del mondo così com’è, ma che, spinto da una curiosità inesauribile e dal desiderio di migliorare la vita, si mette in gioco, osserva, sperimenta e crea.

In un’epoca in cui il progresso tecnologico è spesso guardato con paura o sospetto, questa mostra offre uno sguardo diverso: uno sguardo di stupore e di fiducia nella capacità dell’uomo di essere un “buon artefice”, un collaboratore intelligente e responsabile nell’incessante scoperta delle meraviglie nascoste nella realtà.

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Eni: l’energia da fusione tra innovazione e decarbonizzazione

Un ruolo di primo piano per Eni nella corsa verso la fusione magnetica, con l’obiettivo di industrializzare questa tecnologia nel minor tempo possibile

Eni, energy-tech company, fa dell’innovazione tecnologica uno dei pilastri della propria strategia di transizione energetica e, ispirata al principio della neutralità tecnologica, supporta la ricerca nelle tecnologie innovative che possono generare una svolta nel percorso di decarbonizzazione. Per Eni un approccio neutrale e pragmatico è la migliore strategia per delineare un percorso di transizione energetica efficace ed efficiente.

In questo contesto, l’approccio di Eni alla fusione a confinamento magnetico esemplifica l’impegno nello sviluppo di tecnologie che presentano un alto potenziale di trasformare radicalmente il panorama energetico.

La fusione è l’energia che domina il nostro universo, in quanto è il principio fisico che alimenta le stelle, come il Sole. In questo processo, la fusione di due atomi leggeri, come gli isotopi dell’idrogeno (Deuterio e Trizio), crea un elemento (Elio), più leggero della somma dei due atomi iniziali, questa riduzione di massa che si ottiene con la reazione libera un’enorme quantità di energia.

L’energia da fusione rappresenta dunque una fonte di energia estremamente interessante per il sistema energetico, producendo un flusso costante di energia, senza emissioni, sicuro, virtualmente illimitato e facilmente integrabile con le infrastrutture esistenti.

Eni partecipa da protagonista a diversi progetti sulla fusione, insieme a centri nazionali ed internazionali quali l’ENEA, il CNR, e molte università italiane attive in questo campo dando un importante contributo alle innovazioni in questo specifico ambito energetico.

monwealth Fusion Systems (CFS), lo spin-out del MIT, con cui collabora attivamente per accelerare l’industrializzazione della fusione. CFS è attualmente impegnata nella costruzione del primo reattore dimostrativo, chiamato SPARC. L’obiettivo di SPARC è confermare che

Progettato e costruito da Commonwealth Fusion Systems e dal Plasma Science and Fusion Center (PSFC) del MIT, questo magnete superconduttore ad alta temperatura è caratterizzato dall’ampia portata e dal grande diametro e ha dimostrato di poter raggiungere un campo magnetico record pari a 20 tesla. È il magnete per fusione più potente al mondo. Crediti: Gretchen Ertl, CFS/MIT-PSFC, 2021

È stata inoltre di recente avviata una collaborazione tra Eni e l’Autorità per l’energia atomica del Regno Unito, UKAEA, per la realizzazione del più grande ed avanzato impianto mondiale per la gestione del trizio, combustibile chiave nell’ambito della fusione ed è stata tra le prime compagnie energetiche ad investire nello sviluppo della fusione. Dal 2018 è azionista strategico di Com-

il bilancio positivo di energia può essere raggiunto in un impianto a confinamento magnetico.

SPARC farà quindi da banco di prova e i dati e le informazioni che se ne estrarranno saranno importanti per lo sviluppo di ARC: la prima centrale elettrica a fusione su scala industriale in grado di immettere in rete elettricità con un processo a zero

emissioni di CO2 il cui avvio è previsto agli inizi degli anni 30.

A questo proposito è interessante rilevare come Google abbia già firmato un contratto con CFS per assicurarsi la vendita di una buona parte l’energia elettrica che verrà prodotta proprio da ARC.

Un importante alleato e acceleratore per lo sviluppo tecnologico è costituito da HPC6, il supercomputer proprietario di Eni che ad oggi si posiziona come primo al mondo tra i supercomputer ad uso industriale. Questa macchina inoltre è anche una leva, un catalizzatore per sup-

portare e stimolare l’ecosistema della ricerca, sulla fusione e non solo, che coinvolge start-up, centri di ricerca, università; per tale motivo Eni ha lanciato una iniziativa chiamata Call4Innovators che ha proprio lo scopo di mettere a disposizione dei ricercatori la potenza di calcolo di HPC6 per promuovere ed accelerare progetti nell’ambito della transizione energetica.

Se da un lato rimangono importanti sfide tecnologiche per la commercializzazione dell’energia da fusione, è anche vero che negli ultimi anni, ci sono stati importanti progressi tecnologici e scientifici che

hanno accelerato sostanzialmente la possibile commercializzazione.

Appare chiaro come per Eni competenza, infrastrutture, collaborazioni e sinergie sono la chiave nello sviluppo dell’energia da fusione.

Eni infatti ha da sempre svolto un ruolo di primo piano in questo processo, anticipando i tempi e impegnandosi in modo sostanziale in questo percorso, con l’obiettivo di portare ad industrializzare questa tecnologia nel minor tempo possibile.

USA

Tokamak Hall presso CFS (Commonwealth Fusion Systems), Devens

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Più di quanto credi.

PID-NEXT guida le imprese verso il digitale le aziende partner

La rete nazionale che accompagna micro, piccole e medie imprese italiane nella transizione digitale

PID-NEXT: la rete che accompagna le imprese italiane nella transizione digitale

Nell’ambito del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), PIDNEXT è uno dei progetti più significativi in tema di innovazione e trasformazione digitale. Promosso dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy (MIMIT) e Unioncamere, e finanziato con risorse dell’Unione Europea – NextGenerationEU, il progetto rappresenta un pilastro concreto per sostenere la crescita digitale delle micro, piccole e medie imprese italiane (MPMI), incluse le ditte individuali

In un’Italia dove oltre il 90% del tessuto produttivo è composto da realtà di piccole dimensioni, PID-NEXT si propone di essere un acceleratore di sviluppo e competitività, mettendo la tecnologia e le competenze digitali al servizio delle imprese.

Una rete nazionale al servizio dell’impresa

PID-NEXT è il Polo di Innovazione del Sistema Camerale: una rete capillare che coinvolge i PID – Punto Impresa Digitale delle Camere di commercio italiane. Il suo obiettivo è semplice e ambizioso: accompagnare le imprese nella transizione digitale, attraverso un percorso strutturato, personalizzato e concreto. Il progetto si articola in tre fasi fondamentali:

1. Assessment digitale personalizzato un primo incontro con esperti per misurare il livello di maturità digitale dell’impresa, individuare obiettivi strategici e bisogni tecnologici.

2. Orientamento e pianificazione le imprese ricevono un report per-

sonalizzato con consigli operativi, partner tecnologici e possibili linee di finanziamento.

3. Accesso al network grazie alla collaborazione con Università, Centri di ricerca ed altri Enti, PID-NEXT facilita il trasferimento tecnologico e l’incontro con soluzioni già disponibili sul mercato. Tutto questo è reso possibile grazie a risorse pubbliche: l’Avviso pubblico copre il 100% dei costi dei servizi erogati per le micro e piccole imprese, e fino al 90% per le medie imprese.

Numeri in crescita e una nuova proroga

A pochi mesi dal lancio, PID-NEXT

ha già registrato oltre 2.400 domande di adesione. Per venire incontro al grande interesse e permettere a un numero maggiore di imprese di partecipare, la scadenza dell’avviso

pubblico è stata prorogata al 30 settembre 2025, ore 16:00.

La selezione delle imprese avverrà in base all’ordine cronologico di arrivo delle candidature, e fino a esaurimento delle risorse disponibili.

Un’opportunità concreta per crescere

PID-NEXT offre visione e supporto operativo a chi vuole affrontare il cambiamento digitale non come un ostacolo, ma come una leva per costruire il futuro.

Per tutte le imprese che desiderano cogliere questa opportunità, il momento di agire è ora.

Per scoprire di più e scaricare l’avviso pubblico: https://www.unioncamere.gov.it/digitalizzazione-e-impresa-50/pid-next

mette al centro il benessere

Il welfare aziendale come motore di crescita e legami duraturi

In un’epoca di profonde trasformazioni, il mondo del lavoro è chiamato a riscoprire la sua vocazione più autentica: essere un luogo di crescita non solo economica, ma umana. Un’impresa, oggi più che mai, misura il suo valore non solo dai bilanci, ma dalla sua capacità di “prendersi cura” delle persone che ne fanno parte e del contesto in cui opera. Il

sempre più utilizzate dai dipendenti come un vero e proprio supporto al reddito.

«Crediamo che il successo di un’azienda dipenda direttamente dal benessere delle sue persone», afferma Fabrizio Ruggiero, Amministratore Delegato di Edenred Italia. «Questo significa creare un ambiente in cui ogni individuo si senta guardato e valorizzato. Si tratta di costruire un rapporto solido di fiducia reciproca. Un dipendente che si sente sostenuto è più motivato e coinvolto. Il benessere delle persone è il vero motore che guida la produttività e la crescita dell’organizzazione».

Il primo ambito di questa cura è la persona. Riconoscere un lavoratore significa vederlo nella sua interezza, con i suoi bisogni e le sue preoccupazioni. È un cambio di paradigma che sta prendendo piede nel tessuto imprenditoriale italiano, come dimostrano i dati degli studi di settore che vedono crescere costantemente gli investimenti delle aziende in soluzioni di welfare,

Il benessere all’interno delle organizzazioni non è più un’opzione, ma una leva strategica imprescindibile per la competitività, la sostenibilità e il successo delle imprese. Il welfare aziendale, così declinato, diventa uno strumento fondamentale non solo per rispondere alle aspettative diversificate, ma anche per coinvolgere e valorizzare i giovani talenti, in particolare quelli della Generazione Z, sempre più attenti al “perché” dietro il proprio lavoro e all’impatto sociale ed economico che possono avere.

Per le aziende, questa è una sfida e un’opportunità. La GenZ ci costringe a essere più autentici, a rivedere le incoerenze, a costruire una cultura aziendale coerente con i valori dichiarati. Rispondere alle nuove esigenze dei giovani significa riscrivere insieme un nuovo equilibrio: dove “lavorare bene” vuol dire contribuire a un mondo più giusto, e “avere successo” significa creare valore condiviso.

Le imprese che implementano soluzioni di welfare riescono infatti a costruire una cultura aziendale coerente e inclusiva, capace di attrarre, motivare e fidelizzare i migliori talenti, generando valore sostenibile nel tempo per tutta l’organizzazione.

Un simile approccio genera quindi un impatto positivo e misurabile su indicatori chiave come la riduzione del turnover, la crescita della motivazione interna, l’incremento della produttività e lo sviluppo di un rapporto più solido e duraturo tra azienda e dipendente.

FlexPoint: educazione digitale per tutti gli studenti

Intervista a Kevin Locke, Chief Development Officer

FlexPoint è un’organizzazione educativa americana con un orizzonte globale. Potreste dirci brevemente chi siete e cosa sta al cuore del vostro approccio educativo?

FlexPoint è un fornitore leader di soluzioni educative digitali inno-

mento, ma come ponte verso un coinvolgimento più profondo, pari opportunità per tutti e il successo duraturo.

Questa è la vostra prima partecipazione al Meeting di Rimini.

vative, fondato sulla convinzione che l’apprendimento debba essere accessibile, personalizzato e possa valorizzare ogni studente, indipendentemente da dove si trovi nel mondo. Con oltre 20 anni di esperienza nel settore dell’educazione online, offriamo ai nostri partner in tutto il mondo, curricula digitali personalizzabili e una proposta di formazione che si adatta alle diverse esigenze educative. Al centro del nostro approccio c’è l’impegno per un apprendimento centrato sullo studente, dove la tecnologia non è utilizzata solo come stru-

Come è nata questa collaborazione e cosa vi ha attratti verso un evento così unico?

La nostra partecipazione al Meeting di Rimini è emersa da una visione condivisa: la convinzione che l’educazione sia una forza potente per la connessione umana, la trasformazione e la speranza. Siamo stati attratti dalla combinazione unica del Meeting tra dialogo culturale, approfondimento intellettuale e spirito comunitario. Non è solo un congresso: è una celebrazione di idee e valori profondamente corrispondenti alla nostra

missione. Abbiamo visto l’opportunità di contribuire e imparare da un confronto su scala internazionale sul futuro dell’educazione, specialmente in un momento in cui innovazione e connessione umana devono procedere di pari passo.

Uno dei vostri punti di forza è l’uso flessibile della tecnologia per personalizzare i percorsi di apprendimento. In un momento in cui si discute sempre più di educazione e intelligenza artificiale, qual è stata la vostra esperienza in questi ambiti?

FlexPoint ha da tempo abbracciato il potere della tecnologia per adattare le esperienze di apprendimento alle esigenze, agli interessi e agli obiettivi individuali. Con l’avvento dell’intelligenza artificiale, vediamo un potenziale ancora maggiore per migliorare la personalizzazio-

ne attraverso valutazioni adattive, sistemi di tutoraggio intelligente e approfondimenti basati sui dati che supportano sia studenti che educatori. Tuttavia, ci avviciniamo all’IA con un forte quadro etico: la tecnologia deve servire lo sviluppo umano, non sostituirlo. La nostra esperienza dimostra che quando l’IA è integrata con attenzione, può amplificare il ruolo dell’insegnante, favorire un apprendimento più profondo e garantire che nessuno studente venga lasciato indietro.

Il tema del Meeting 2025 è “Nei luoghi deserti costruiremo con mattoni nuovi”. Cosa significa per voi “costruire” oggi nel campo dell’educazione? E quali “mattoni nuovi” portate a Rimini? Per noi, “costruire” nell’educazione significa creare ambienti di apprendimento inclusivi, resilienti e pronti per il futuro, specialmente in luoghi o comunità che sono stati poco coinvolti o trascurati. Si tratta di re-immaginare ciò che è possibile e osare costruire nuovi percorsi dove i sistemi tradizionali potrebbero aver vacillato. I “mattoni nuovi” che portiamo a Rimini includono il nostro curriculum di-

gitale adattabile a livello globale, la nostra competenza nella formazione degli insegnanti per l’apprendimento online e misto, e la nostra ferma fiducia nel potenziale di ogni studente. Siamo qui per condividere, ascoltare e costruire insieme

a coloro che credono che l’educazione possa essere un fondamento per il rinnovamento e la speranza.

Metadonors: tecnologia e cuore nel fundraising

Cirio (CEO): al Meeting per rilanciare relazioni autentiche nel Terzo Settore

Metadonors, societá del gruppo Eudata, lavora a fianco del lavora al fianco di tante realtà del terzo settore per potenziare la raccolta fondi grazie agli strumenti digitali. Qual è oggi, secondo lei, la più grande sfida per chi si occupa di fundraising?

Oggi vediamo una netta distinzio-

ne nel mondo del fundraising. Da un lato ci sono le organizzazioni più strutturate, che hanno investito in persone, strumenti e processi, e che stanno andando verso una maggiore professionalizzazione ed efficienza. Dall’altro lato, troviamo ancora molte realtà – spesso medio-piccole, ma non solo – che non hanno ancora scelto di affrontare seriamente la sfida di strutturarsi. In molti casi manca una vera strategia di raccolta fondi, e questo le espone a fragilità finanziarie.

Le sfide che affrontano questi due gruppi sono molto diverse, sia a livel-

lo operativo che strategico – e anche noi offriamo risposte diverse a seconda delle situazioni.

In questo quadro, complesso, esiste però una sfida che accomuna tutto il terzo settore, indipendentemente dalla dimensioni. Lo chiamiamo “belonging”, o in italiano, senso di appartenenza

Credo sia arrivato il momento di tornare al centro dell’esperienza umana: chiederci davvero cosa spinge le persone ad agire, oltre le tecniche di marketing. Serve riscoprire il valore delle community, online ma soprattutto territoriali, e imparare a trasformare il bisogno di appartenenza in coinvolgimento autentico e mobilitazio-

ne reale. Dobbiamo attraversare le nuove forme di cittadinanza attiva, le tensioni tra libertà individuale e impegno collettivo, e trovare strategie concrete per costruire comunità durature attorno alle cause sociali.

È un tema tanto complesso quanto, secondo me, centrale. Proprio per questo gli abbiamo dedicato l’intero programma di FX26 – Fundraising Experience, tre giorni di alta formazione e confronto che si terranno dal 4 al 6 febbraio 2026 a Bologna.

Nel vostro lavoro unite tecnologia e relazioni umane. In che modo un algoritmo può contribuire a costruire un legame più autentico con i donatori?

Semplicemente, non può. I legami autentici tra persone, seppur mediati da diverse tecnologie che magari aiutano a colmare le distanze, non possono davvero migliorare grazie ad algoritmi, per quanto evoluti e complessi (come quelli dell’AI generativa). Per la nostra esperienza di Metadonors, società che fa parte del gruppo Eudata, specializzato in AI e customer experience, possiamo sfruttare la tecnologia per conoscere meglio noi stessi e il mondo che ci circonda, e sicuramente anche ottimizzare le nostre campagne di marketing ma il rischio di trasformare la raccolta fondi in un esercizio di stile altamente tecnico esiste.

Vedo un pericolo di disumanizzazione, nel lungo periodo, di un approccio eccessivamente tecnologico alla relazione coi donatori. Non é un caso infatti che la nostra attivitá, seppur cresciuta intorno alla tecnologia, sia affiancata sempre da un approccio umano, sia nei rapporti con gli enti che nei rapporti con i donatori con il nostro team di contact cen-

ter che ogni anno conversa, in viva voce e con estremo coinvolgimento emotivo, con centinaia di migliaia di donatori.

Oggi molte organizzazioni non profit si trovano di fronte alla necessità di innovare, ma con risorse limitate. Quali sono i primi passi concreti che consiglia a chi vuole iniziare un percorso di trasformazione digitale?

Per fortuna, esistono molte soluzioni che permettono di avviare la trasformazione digitale a chi ha risorse limitate. Il primo passo che mi sento di suggerire é quello di trovare qualcuno, nella propria rete o attraverso ricerche tra i professionisti che si occupano del terzo settore, che possa fare da guida e che abbia una giusta sensibilità. Noi abbiamo una nostra rete di esperti e partner che chiamiamo “Officine Buone Cause” e anche partner specializzati nell’accompagnamento digitale degli enti religiosi, uno fra tutti che citerei il progetto www.alleluia.it

Voi vi rivolgete soprattutto al Terzo Settore. Avete proposte anche per il mondo delle imprese?

Mi piace molto il termine “imprese”: richiama il concetto rinascimentale elaborato da Paolo Giovio, vescovo e umanista, in cui l’impresa era un simbolo – l’unione di immagine e motto – che rappresentava un ideale. Anche oggi possiamo leggerla così: come un atto libero e responsabile, orientato a uno scopo grande, spesso con fatica e rischio.

Sono convinto che le aziende, o meglio, le Imprese abbiano – e avranno sempre di più – un ruolo chiave nella costruzione di una società che dovrebbe mettere al centro le persone

e le comunità. È il tempo di una nuova alleanza tra imprese e Terzo Settore: un luogo di incontro e scambio, dove si può imparare gli uni dagli altri, con ascolto e rispetto.

Per questo abbiamo sviluppato una linea di servizi e piattaforme pensate proprio per favorire il dialogo tra questi due mondi. Un esempio concreto è ESG-CONNECT, un incontro di scambio e incontro tra tutti coloro che generano imparto (e che avrá la sua prossima data il 5 febbraio 2026, nella splendida cornice del Palazzo di Varignana (Bologna). Tutte le info per partecipare su: https://metadonors. it

Il Meeting di Rimini è da sempre uno spazio di incontro tra mondi diversi: cultura, fede, impresa, educazione. Che cosa può imparare il mondo del fundraising da uno spazio come questo?

Il Meeting di Rimini rappresenta, a mio avviso, l’essenza stessa del fundraising: è fatto di relazioni vive, di incontri tra persone, esperienze, visioni. Il fundraising non è -solo- un insieme di tecniche, ma nasce da una consapevolezza più profonda: è nella relazione con gli altri che l’essere umano si realizza, ed è solo grazie a queste relazioni che può nascere qualcosa di nuovo e condiviso. Uno spazio come il Meeting ci ricorda che ogni vera trasformazione parte dall’incontro. Senza relazione non c’è fiducia, e senza fiducia non esiste dono.

per info: www.metadonors.it https://fundraisingexperience.metadonors.it/

McDonald’s Italia: radici locali e Made in Italy

L’ad Giorgia Favaro racconta il legame con territori, filiere e comunità

Sono passati quasi quarant’anni da quando, nel marzo del 1986, McDonald’s inaugurava a Roma, in Piazza di Spagna, il suo primo ristorante in Italia.

Internet era ancora per pochi, i telefoni cellulari erano grandi come ventiquattrore, non esistevano wifi, social network e per guardare una serie televisiva ci volevano anche mesi.

Da allora molte cose sono cambiate, e quella che era un’icona globale ha messo radici nel nostro Paese e si è innamorata del Made in Italy, fino a diventare un punto di riferimento nel settore della ristorazione veloce e un partner di primo piano del comparto agroalimentare italiano. Come si è evoluto il percorso degli “archi dorati” in Italia da allora? Ne abbiamo parlato con Giorgia Favaro, amministratrice delegata di McDonald’s Italia.

Dott.ssa Favaro, qual è oggi il rapporto di McDonald’s con il nostro Paese?

Un paio di anni fa abbiamo lanciato una campagna chiamata “I’m lovin’it Italy”. Penso che questo titolo sia particolarmente efficace nel rappresentare il senso della nostra presenza in Italia, sia perché racchiude una dichiarazione di amore e di impegno per il Paese, sia perché mette insieme il nostro payoff “I’m lovin’it” – che ci contraddistingue in tutto il mondo - e l’Italia, esattamente come noi coniughiamo la nostra impronta globale e quella locale.

Sono convinta che una delle chiavi del successo di questi anni, costru-

ito mattone dopo mattone insieme ai nostri oltre 160 licenziatari, sia stata proprio la capacità di creare una relazione autentica con il Paese e con i territori.

Lo abbiamo fatto sviluppando una solida rete con le filiere agricole e produttive locali e, allo stesso tempo, rendendo i nostri prodotti più vicini ai gusti e alla tradizione culinaria italiana.

A questo approccio abbiamo affiancato un modello che coniuga accessibilità, gusto e innovazione. L’accessibilità, in primo luogo, è per noi un valore irrinunciabile. Un impegno a garantire ai clienti, in particolare alle famiglie, la possibilità di gustare un pasto piacevole a un prezzo accessibile, in un ambiente accogliente dove trascorrere momenti felici.

Quali sono i numeri di McDonald’s oggi in Italia?

In quasi quarant’anni siamo diventati un attore di riferimento nel settore, con più di 770 ristoranti in tutto il Paese e oltre 400 milioni di euro investiti ogni anno nel comparto agroalimentare nazionale, a cui appartengono la maggior parte dei nostri fornitori.

Aziende che rappresentano al meglio la capacità del settore agroalimentare italiano di assicurare elevati standard di qualità e affidabilità nelle forniture.

Così, ad esempio, il pollo e le uova che utilizziamo provengono da Amadori, la carne bovina è fornita da Inalca e le insalate da Sab e Bonduelle.

A questo si aggiungono le nostre

collaborazioni con i Consorzi di Tutela, che crescono di anno in anno anche grazie al contributo di partner come Origin Italia - organismo di rappresentanza del sistema agroalimentare DOP IGP - e Fondazione Qualivita - nata per valorizzare le eccellenze Made in Italy.

Quanto sono importanti per voi queste partnership?

Dal 2008, con il Parmigiano Reggiano DOP come primo prodotto certificato, abbiamo portato sui vassoi dei nostri oltre 1,2 milioni di clienti giornalieri 24 ingredienti DOP e IGP. Numeri che dimostrano, ancora una volta, il senso del nostro impegno per il Made in Italy e il nostro legame con i sapori e le eccellenze del Paese.

Quello che porta alla nascita di una nuova partnership con un Consorzio è sempre un percorso importan-

te e complesso, che coinvolge molti attori, tra i quali, come detto, i nostri partner di Origin Italia e Fondazione Qualivita.

Valutiamo naturalmente l’evolversi dei gusti degli italiani, le potenzialità di integrazione dell’ingrediente con le nostre ricette, nonché i volumi e la stagionalità. Ma nella scelta influiscono anche considerazioni derivanti dal nostro impegno a sostenere le filiere in difficoltà. Proprio così sono nati accordi come quello con il Consorzio del Pomodoro Pachino IGP, frutto di una collaborazione diretta con il Mipaaf – e quello siglato lo scorso anno con il Consorzio della Pera dell’Emilia-Romagna IGP.

Lavorare con ingredienti legati ai territori, come DOP e IGP, significa anche promuoverli, farli conoscere in tutte le regioni d’Italia, anche a un pubblico giovane, a prezzi ac-

cessibili, così da assicurare un’occasione di scoprirli anche a chi magari diversamente non l’avrebbe avuta.

Quella di McDonalds è una presenza ampiamente diffusa su tutto il territorio nazionale. Qual è

il vostro rapporto con le comunità locali?

Con ristoranti distribuiti da nord a sud, dai grandi centri urbani alle piccole località di provincia, siamo una presenza diffusa e viva all’interno delle tante comunità nelle

quali operiamo. I nostri ristoranti sono profondamente legati alle proprie realtà locali, anche perché i nostri licenziatari sono espressione dello spirito imprenditoriale della propria zona, e ne conoscono profondamente tanto le potenzialità quanto i bisogni e le difficoltà.

La nostra presenza sul territorio, ogni nuova apertura, non porta solo occupazione, ma fa da volano per gli investimenti e lo sviluppo locale, garantendo benefici che vanno ben oltre il settore.

Solo lo scorso anno abbiamo investito 235 milioni di euro per l’apertura dei 51 nuovi ristoranti, che secondo il report recentemente realizzato per noi da Althesys, si stima genereranno entro la fine del 2025 un valore condiviso pari a 164,5 milioni di euro: un risultato equivalente a quasi l’1% della crescita del PIL italiano attesa nell’anno in corso.

Queste aperture hanno contribuito a generare 2.858 occupati, per 48,2 milioni di salari e contributi, corrispondenti al consumo di 800 famiglie.

I nostri ristoranti inoltre sono luoghi di socialità e aggregazione per le comunità locali, e spesso contribuiscono alla riqualificazione urbana, con spazi verdi aperti e aree giochi per bambini.

Sono luoghi dove tutti, famiglie e giovani in primo luogo, possono sentirsi accolti, consumare un pasto di qualità a un prezzo accessibile, e vivere un’esperienza piacevole, di socialità e condivisione.

In quali altri modi lavorate per ascoltare e rispondere ai bisogni del territorio? Come si traduce tutto questo in iniziative concrete?

Il nostro impegno nel restituire valore alle comunità che ci ospitano rimane per noi un principio guida, che dà vita a iniziative diverse. Alcune prendono forma direttamente dall’ascolto di necessità specifiche di un territorio, e sono sviluppati in autonomia dai ristoranti: dai corsi di lingua per bambini alla distribuzione di beni di prima necessità ai più bisognosi, dall’inserimento di persone disabili, alla salvaguardia della fauna marina. Altre, invece, hanno carattere nazionale e vengono condivise a livello locale.

Tra queste ha per noi un valore particolare il progetto “Sempre Aperti a Donare”, nato nella primavera del 2020, in partnership con Fondazione per l’Infanzia Ronald McDonald, e reso possibile dalla collaborazione attiva tra dipendenti, licenziatari e fornitori con Banco Alimentare, Comunità di Sant’Egidio e tante altre organizzazioni locali nel terzo settore

Un successo che si misura in oltre 1 milione di pasti caldi donati in 5

edizioni e il coinvolgimento, solo in nell’ultima, dei team di quasi 350 nostri ristoranti e oltre 330 associazioni locali, che hanno operato in 269 comuni di tutta Italia. Sempre facendo leva sulla nostra presenza diffusa sul territorio, abbiamo lanciato “Non sei sola. Lasciati aiutare”, progetto per dare visibilità al 1522, il numero nazionale gratuito che tutti i giorni, 24 ore su 24, accoglie con operatrici specializzate le richieste di aiuto e sostegno delle vittime di violenza e stalking. L’idea è stata realizzata attraverso l’affissione alle porte dei bagni delle donne dei nostri ristoranti un adesivo con il riferimento del numero. Il progetto, grazie alla collaborazione delle unità locali dell’associazione Differenza Donna, ente gestore del 1522, promosso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per le Pari Opportunità, ha fatto poi da stimolo a tutta una serie di iniziative locali che hanno coinvolto istituzioni del territorio, altre associazioni impegnate a contrasto della violenza di genere, e naturalmente i nostri licenziatari, amplificando ulteriormente l’importante messaggio.

Sempre insieme ai nostri franchisee, per combattere il fenomeno del littering, organizziamo da anni delle giornate dedicate ad attività di raccolta dei rifiuti abbandonati e di riqualifica ambientale. “Le Giornate Insieme a Te per l’Ambiente” vedono il coinvolgimento dei dipendenti, delle loro famiglie, delle Istituzioni locali, che spesso patrocinano le attività, e naturalmente invitiamo le comunità stesse a partecipare. Oltre ad avere un ruolo chiave in iniziative come queste, i nostri ristoranti sono anche il cuore pulsante del sostegno alla Fondazione Ronald McDonald. Contribuiscono attraverso donazioni dirette, eventi

speciali organizzati dai licenziatari, raccolte fondi quotidiane grazie alle cassette presenti in store e il volontariato di tanti dipendenti.

Molti membri dei team McDonald’s scelgono infatti di offrire il proprio

tempo come volontari nelle Case Ronald McDonald e nelle Family Room in tutta Italia.

Ogni ristorante è anche un punto attivo di raccolta fondi, dove i clienti possono contribuire concretamente ai progetti della Fondazione. Per questo, ogni nuova apertura rappresenta un passo in più nel rafforzare questa rete solidale, dando vita a un circolo virtuoso di supporto e vicinanza.

CAN IERE

DAL 22 AL 27 AGOSTO, ALLA FIERA DI RIMINI, VIENI A SCOPRIRE COME STIAMO COSTRUENDO L’ITALIA DI DOMANI

Multiculturalità: valore e futuro per le imprese

Cristiana Scelza (presidente): a Rimini presenteremo la ricerca di Valore D sull’inclusione al lavoro

“Nessun uomo è un’isola” scriveva John Donne.

È un’affermazione semplice e radicale, che oggi suona più urgente che mai. In un tempo attraversato da solitudini crescenti, tensioni globali e crisi che isolano, la sfida più grande non è solo convivere, ma riconoscersi. Il Meeting di Rimini 2025, con il suo

titolo “Nei luoghi deserti costruiremo con mattoni nuovi”, ci invita a guardare proprio lì dove tutto sembra arido: nelle fratture della società, nei silenzi di chi dovrebbe agire, nelle mancanze delle nostre comunità. Costruire significa allora rimettere al centro le persone, accorciare le distanze, ricucire ciò che è stato separato. E in questo processo, le imprese possono – e devono – fare la differenza.

A loro spetta una responsabilità crescente: non solo generare valore economico, ma anche favorire la coesione sociale, costruendo ponti lad-

dove si innalzano muri. Mantenere lo sguardo sulle persone, valorizzare le differenze, promuovere appartenenza e dialogo per rispondere non solo a un dovere etico, ma anche a una necessità strategica.

Nel mondo del lavoro, la multiculturalità è già una realtà. L’intensificarsi dei flussi migratori, dalla mobilità internazionale e dalla presenza sempre più numerosa di seconde e nuove generazioni ci dicono che il cambiamento è già avvenuto. Ma l’Italia affronta una doppia sfida: da un lato, la crisi demografica e l’invecchiamento della popolazione attiva; dall’altro, la mancata valorizzazione delle com-

petenze di chi proviene da contesti etnico-culturali differenti. La vera questione, quindi, non è solo attrarre nuovi talenti, ma riconoscere quelli già presenti, superando pregiudizi, ostacoli simbolici e barriere organizzative

I numeri parlano chiaro: secondo i dati ISTAT, al 1° gennaio 2025 le persone straniere residenti in Italia sono oltre 5,4 milioni, pari al 9,2% della popolazione. Eppure, se il Paese è ormai multiculturale, fatica ancora a diventare interculturale. Manca una piena capacità di trasformare questa pluralità in valore condiviso

Proprio da questo nasce la ricerca di Valore D - la prima associazione di imprese in Italia che promuove l’equilibrio di genere e una cultura inclusiva nelle organizzazioni e nel Paese - “Multiculturalità al lavoro. Storie e dati dal mondo aziendale”, che indaga il rapporto tra diversità etnico-culturale e organizzazioni. Il risultato è un racconto a più voci che restituisce la complessità – e le potenzialità – di una trasformazione in atto. Se da un lato cresce l’interesse per il tema, dall’altro restano evidenti le difficoltà ad integrare la diversità nei modelli organizzativi. Per questo lo studio propone una roadmap in sei ambiti chiave, pensata per accompagnare le realtà che vogliono tradurre l’inclusione da principio astratto a leva concreta di sviluppo. Perché solo ambienti in cui le differenze interagiscono attivamente – e non solo coesistono – possono dirsi davvero interculturali e capaci di affrontare la complessità del presente.

La multiculturalità non è un’idea astratta né un obiettivo a lungo termine: è già qui, nel presente che abitiamo. La differenza la fa il modo in cui decidiamo di riconoscerla, valorizzarla e trasformarla in progetto collettivo. E costruire – proprio come ci invita a fare il Meeting – significa partire da ciò che c’è: dalle storie, dalle competenze, dalle esperienze. Perché ogni persona che trova spazio e dignità nel lavoro contribuisce a una società più giusta. E ogni impresa che sceglie l’inclusione rafforza le fondamenta di un futuro sostenibile. Per tutte le persone.

PERUGINO

Pala dei Cinque Santi

Nel cuore dello spazio istituzionale del Ministero della cultura sarà esposto un capolavoro del Rinascimento italiano:

San Giovanni Battista tra i santi Francesco, Girolamo, Sebastiano e Antonio da Padova Pala dei Cinque Santi di Pietro Vannucci detto il Perugino Olio su tavola

Galleria Nazionale dell’Umbria, Perugia Il dipinto, datato tra il 1510 e il 1512, si colloca nella piena maturità artistica del pittore, quando lo stile muta a favore di una pittura mobile, vibrante e immersa in un’atmosfera rarefatta.

L’opera intreccia il tema del Meeting, evocato dalla presenza di San Giovanni Battista, con l’impegno del MiC negli anniversari francescani, che l’anno prossimo celebrano l’ottavo centenario dalla morte di San Francesco d’Assisi.

cultura.gov.it

alla narrazione concreta

Scopri al Meeting il sostegno economico alla Chiesa cattolica

Uno dei luoghi comuni più diffusi è che la Chiesa cattolica sia ricca.

o ha subito calamità naturali. Servono a salvare vite umane, ridurre

Quante volte lo abbiamo sentito ripetere. In parte, è vero: la Chiesa è “ricca” di storia, di spiritualità, di cattedrali, di capolavori artistici. I suoi beni culturali - edifici, opere d’arte, collezioni librarie, archivi - rappresentano circa l’80% del patrimonio culturale e artistico nazionale. Ma questa ricchezza non si traduce in denaro.

Ammirare gli affreschi di Caravaggio custoditi nelle chiese, ad esempio, non richiede alcun biglietto. Le offerte raccolte non bastano a coprire le spese di manutenzione, restauro e custodia di tali tesori. In realtà, la Chiesa non è affatto “ricca” dal punto di vista economico. Le risorse provenienti da offerte, donazioni e fondi dell’8xmille sono impiegate per contrastare il degrado e l’ingiustizia sociale, sostenendo gli ultimi: chi non ha una casa o un lavoro, chi vive in zone di guerra

dei fondi dell’8xmille è destinata anche alle attività delle diocesi e al sostentamento dei sacerdoti.

l’impatto delle emergenze, costruire strumenti di solidarietà. Nascono così centri di accoglienza per donne e bambini, dormitori, mense, consultori, ambulatori, ostelli, doposcuola, oratori, patronati e centri antiusura. Una parte

Un’altra convinzione diffusa è che i sacerdoti guadagnino molto. Nulla di più lontano dalla realtà. Lo stipendio mensile dei circa 31.000 sacerdoti impegnati in Italia o come fidei donum varia tra i 900 e i 1.500 euro, senza tredicesima né benefit, se non l’affetto e le offerte dei fedeli.

Non è vero neppure che la Chiesa non paghi le tasse. Come tutti, paga le imposte sugli immobili e sulle attività che generano reddito. Non le

paga, invece, sugli edifici utilizzati per finalità sociali - ad esempio mense o centri culturali - ma questo non è un privilegio esclusivo: lo stesso trattamento fiscale agevolato è previsto per centinaia di altri soggetti, dalle società sportive alle

fondazioni bancarie, quando operano nel sociale.

Infine, va sfatata l’idea che con l’8xmille il contribuente paghi una tassa in più. In realtà, indicare la Chiesa cattolica (o un’altra confessione religiosa, o lo Stato) come beneficiaria dell’8xmille significa soltanto destinare a ciò in cui si crede una piccola parte delle imposte che già si versano, senza aggiungere neppure un centesimo a quanto viene trattenuto.

Questi sono solo alcuni dei luoghi comuni più diffusi sul sostegno economico alla Chiesa.

Ma cosa accade davvero quando una persona decide di destinare l’8xmille alla Chiesa cattolica o di fare un’offerta deducibile per sostenere i sacerdoti? Al padiglione A7 della Fiera di Rimini, il Servizio per la promozione del sostegno

alla Chiesa cattolica - CEI propone uno spazio che mette al centro proprio queste domande, con l’obiettivo di superare la confusione informativa e riportare l’attenzione su una realtà concreta, fatta di gesti, numeri e storie.

È un invito a ricredersi, a riscoprire che all’interno della complessa macchina della Chiesa vive una realtà fatta di persone e bisogni reali. Ogni firma, ogni offerta, ogni piccolo gesto lascia un segno tangibile, concreto e condiviso. La Chiesa è un’esperienza che continua grazie alle nostre scelte.

Il grido di Hiroshima, ottant’anni dopo

Al Meeting le voci degli Hibakusha, Nobel per la Pace

Ottant’anni dopo Hiroshima, il dolore non tace. Ma da quella ferita continua a levarsi una voce che chiede pace.

È la voce degli Hibakusha, i sopravvissuti alla bomba atomica, che il 25 agosto saranno al Meeting

cattolica di Nagasaki, distrutta dalla bomba atomica e con la cupola rovesciata)

6 agosto 1945. Alle 8:15 del mattino una luce accecante squarcia il cielo di Hiroshima. Tre giorni dopo, anche Nagasaki viene colpita.

Nel tempo, alcuni di loro hanno scelto di trasformare il ricordo in memoria. Hanno dato vita all’organizzazione Nihon Hidankyo, che da decenni si batte per un mondo libero dalle armi nucleari. Proprio a questa associazione è stato assegnato il Premio Nobel per la Pace

di Rimini per raccontare in prima persona cosa significhi vivere dopo l’apocalisse. Non per fare memoria di un passato tragico, ma per interrogare il nostro presente, come stanno facendo da decenni. (Nella foto: Urakami Tenshudo, cattedrale

È l’inizio dell’era atomica. Chi è sopravvissuto a quelle esplosioni ha visto cambiare per sempre la propria esistenza. In Giappone li chiamano Hibakusha: letteralmente, “persone colpite dall’esplosione”.

2024. Non per un riconoscimento simbolico, ma per la concretezza con cui da 70 anni gli Hibakusha incontrano quotidianamente scuole, istituzioni, governi, con un impegno basato sulla memoria e sulla speranza.

Al Meeting saranno presenti Toshiyuki Mimaki e Masao Tomonaga, due testimoni che non hanno mai smesso di raccontare.

Mimaki, nato a Hiroshima, aveva tre anni quando la bomba colpì la città. Era con la famiglia a Kusatsu, poco più di due chilometri dall’epicentro.

Non ha visto la luce accecante, ma ne ha vissuto tutte le conseguenze: la morte del padre, le ustioni della madre, una lunga scia di dolore che ha segnato la sua infanzia e la vita adulta. Oggi, da vicepresi-

dente di Hidankyo, Mimaki gira il mondo per dire: «Ciò che è successo a me, non deve mai più succedere a nessun altro».

Tomonaga, invece, è nato a Nagasaki nel 1943. Due anni appena, quando la bomba devastò la città. È figlio di Msanobu Tomonaga, medico che ebbe in cura Takashi Paolo Nagai, il medico cristiano di Nagasaki sopravvissuto alla bomba e morto nel 1951 in fama di santità e che gli era vicino al momento della morte.

Quelle immagini, quei racconti, lo segnarono. Ha scelto di diventare medico anche lui, specializzandosi in ematologia. Per decenni ha curato pazienti colpiti da leucemie e altri tumori causati dalle radiazioni. Oggi è professore emerito all’Università di Nagasaki, unendo il rigore dello scienziato alla forza del testimone.

In un’intervista rilasciata a Simone Disegni per Open online, Tomonaga ha detto: «Molti dei miei pazienti erano bambini. Curarli significava non solo salvare una vita, ma mantenere viva la memoria di quello che era successo. Non pos-

siamo permetterci di dimenticare». «L’arma nucleare è ancora viva nel mondo», ha aggiunto, «è una realtà, non una teoria. Per questo dobbiamo continuare a raccontare».

L’appuntamento è per lunedì 25 agosto 2025, alle ore 12:00, presso l’Auditorium isybank D3 alla Fiera di Rimini. A moderare l’incontro sarà Bernhard Scholz, presidente della Fondazione Meeting.

Non sarà una conferenza. Sarà un’occasione di condivisione: di dolore, ma anche di umanità. Per-

ché la pace non è un’utopia, se qualcuno ha il coraggio di viverla e raccontarla, anche dopo aver toccato l’inferno.

Il Servizio Civile Universale protagonista al Meeting partner del

Per sei giorni la Fiera di Rimini si trasforma nel cuore della cittadinanza attiva: in primo piano storie, volti e progetti dei giovani volontari da tutta Italia.

Dal 22 al 27 agosto il Meeting di Rimini ospiterà uno spazio tutto dedicato al Servizio Civile Universale Sarà il Dipartimento per le Politiche giovanili e il Servizio civile universale, all’interno dello stand del Ministro per lo Sport e i Giovani, a raccontare il valore di questa esperienza attraverso la voce diretta di chi la sta vivendo ogni giorno.

Un’occasione concreta per conoscere i progetti attivi, approfondire strumenti come la Carta Giovani Nazionale e – soprattutto – incontrare da vicino i volontari in servizio, che si alterneranno nei turni di presenza allo stand.

In collaborazione con alcuni enti e con il Copresc di Rimini, sono stati invitati ragazzi e ragazze in servizio in Emilia-Romagna a partecipare alle attività dello stand, per testi-

moniare la loro esperienza e dialogare con i visitatori.

I volontari copriranno turni mattutini e pomeridiani, con la possibilità di partecipare anche per più giornate. Le ore svolte saranno regolarmente riconosciute come parte del loro servizio. A ciascuno sarà inoltre consegnato un attestato di partecipazione, a riconoscimento dell’impegno dimostrato.

Ma lo stand non sarà solo un punto informativo: stiamo preparando momenti di racconto e confronto dal vivo, in cui alcuni volontari potranno parlare in pubblico della propria scelta, del cammino intrapreso e dei volti incontrati lungo la strada.

In un luogo come il Meeting, che ogni anno porta a Rimini migliaia

di giovani da tutta Italia, il Servizio Civile Universale trova un terreno ideale per raccontarsi. Lo fa non con slogan, ma attraverso storie vere, vissute, quotidiane.

E chi passerà dallo stand potrà toccare con mano che cosa significa davvero “mettersi al servizio”, fare la propria parte nella società, scoprire che il cambiamento comincia spesso da piccoli gesti, da una scelta personale.

Vuoi scoprire il Servizio Civile da vicino? Ti aspettiamo al Meeting di Rimini, dal 22 al 27 agosto 2025, presso la Fiera di Rimini – Via Emilia 155.

Lo stand sarà attivo tutti i giorni, dalle 11.00 alle 20.00

Poeta della pietra e collaboratore della Creazione

Al Villaggio ragazzi del Meeting un percorso per scoprire il cuore dell’architetto catalano

Chi visita le opere di Antoni Gaudí rimane colpito, prima di tutto, dalla meraviglia. Ma dietro la straordinaria bellezza delle sue architetture c’è molto di più: un uomo dalla profonda vita interiore, un artista che non cercava l’originalità per se stessa, ma voleva rendere visibile la bellezza del Creato e del suo Autore.

rete nel Villaggio Ragazzi). L’obiettivo? Raccontare non solo il genio dell’architetto, ma l’unità profonda tra la sua vita e la sua opera.

Nato il 25 giugno 1852, probabilmente a Reus, in Catalogna, Gaudí riceve il titolo di architetto a soli

natura, i simboli parlano la lingua della fede.

Negli ultimi sedici anni della sua vita si dedica solo a quella chiesa. Sceglie di abitare accanto al cantiere, lavora con ritmi sempre più rigorosi, rinuncia a nuovi incarichi.

La mostra “Antoni Gaudí. Poeta della pietra, collaboratore della Creazione”, curata da Camilla Mastrota e Chiara Graziadei, è uno dei percorsi espositivi più intensi del Meeting di Rimini 2025 (lo trove-

26 anni. Poco dopo, nel 1883, viene chiamato a dirigere i lavori della Sagrada Familia, un incarico che lo segnerà per sempre. Anziché limitarsi a proseguire il progetto neogotico iniziale, Gaudí ripensa tutto da capo: le sue forme si ispirano alla

Vede in quell’opera la sua missione, un compito ricevuto dall’alto. “Collaboratore della Creazione”: così amava definirsi.

La mostra accompagna il visitatore attraverso quattro tappe, corri-

spondenti ad altrettanti momenti della vita di Gaudí. Ogni sala presenta immagini, ricostruzioni, citazioni e contenuti multimediali che aiutano a entrare nel mondo di un uomo che non si è mai considerato padrone del proprio talento, ma servitore di qualcosa di più grande.

Dalla scoperta della natura da bambino fino agli anni di solitudine e ascesi spirituale, ogni tappa mostra come la fede sia stata il filo rosso che ha tenuto insieme scelte personali, ricerca estetica e impegno professionale.

La Chiesa cattolica ha riconosciuto ufficialmente, nel 2024, il valore della testimonianza cristiana di Gaudí, dichiarandolo Venerabile Un passo importante nel cammino verso la canonizzazione. Ma già oggi il suo esempio parla a tutti: in un tempo che spesso separa fede e lavoro, estetica e verità, la sua figura mostra che l’arte può essere un atto di amore verso Dio e verso il prossimo.

Lo aveva intuito Juan Matamala, tra i suoi primi biografi, definendolo un “poeta della pietra”. Non per lo stile, ma per lo sguardo. Non per l’estro, ma per la profondità.

Vieni a conoscere Gaudí al Meeting 2025

La mostra è visitabile per tutta la durata del Meeting (22-27 agosto 2025). Il 25 agosto alle ore 17.00 presso l’Arena C1, si terrà anche l’incontro “Antoni Gaudí. Poeta della pietra, collaboratore della Creazione” con José Manuel Almuzara, architetto e presidente dell’Associazione pro-beatificazione di Gaudí, e Lorenzo Belli, responsabile del progetto educativo La Nave di Telemaco.

L’evento è a ingresso libero e particolarmente consigliato a genitori, insegnanti ed educatori.

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