Non capita sovente veder pubblicata una buona ricerca che scaturisca da una tesi di dottorato, ancor meno che ne valga la pena. Il lavoro di Matteo Pennisi è certamente fra queste. Esso si inserisce appieno nella grande tradizione di studi urbani che ha visto l’Italia essere “scuola del mondo”, ed ha il merito di andare controcorrente – e controtempo – ponendo una questione che sembrerebbe obsoleta – «disegnare piante di città, vecchia norma insuperabile di conoscenza» – in un mondo diffuso e globalizzato, dove il concetto stesso di città sembra svanito, per carattere prima che per misura e forma. Ancor più quando si consideri la questione specifica su cui si concentra: non come la città si espande – con le sue periferie, i suoi atolli industriali, commerciali, le estensioni infrastrutturali, la città “diffusa” appunto –, bensì come cresce su se stessa, come acquista centimetri e spessore nel tempo, come si stratifica (più obsoleto di così …); pretendendo che sia metodo – di studio – e idea – di progetto – per comprendere e modificare la città contemporanea (ancora per “una operante storia urbana”).
È quest’ultimo l’aspetto che più mi colpisce: vedere la città come contemporanea tutta, senza distinzione di tempo e di spazio, l’impossibilità di considerarne, non dico una parte, un frammento separato dal tutto; ogni cosa è “presente”, costituisce un unico corpo, il corpo millenario della città (l’immagine – centratissima – della torta: impossibile addentarla senza assaporarne gli strati e gli ingredienti tutti, che ne fanno il sapore, il carattere diremmo per la città). Matteo Pennisi scava quindi a fondo – è proprio il caso di dirlo; oltre lo stesso costruito –, azzarda ipotesi, forse non sempre sostenute da tutti i necessari elementi che le giustifichino; come farebbe un architetto, come fa il progetto di architettura – scienza “euristica”, delle soluzioni a dati incompleti, come sosteneva il mio maestro Adolfo Natalini – (il progetto “sente” ciò che manca, si radica su quello che può solo intuire facendone materia del progetto stesso, sarà tanto più buono, più efficace, quanto più nel tempo avrà saputo completare quella mancanza ricostruendo una nuova unità). Perché questa è l’angolazione della ricerca, non quella di uno “specialista”, di discipline della storia o del disegno stesso che siano, ma di un architetto che rintraccia nella storia e nel disegno della città gli strumenti e le idee per continuare a “stratificarla”: «L’apprendimento – l’acquisizione della
Più tempi in un solo spazio
Professore ordinario di Composizione
Architettonica e Urbana
Renovatio Forma Vrbis
di Marco Mannino
Il libro di Matteo Pennisi vuole riflettere sulla rappresentazione della città come strumento del progetto; sul rapporto tra città e natura, tra morfologia urbana e identità dei luoghi nella omogenea e allo stesso tempo multiforme realtà italiana. Ogni città è forma che si connota non solo in ragione dei suoi monumenti, ma per essersi costruita in stretta relazione con la forma naturale dei luoghi.
Il paesaggio naturale rappresenta sempre lo scenario necessario e imprescindibile per cogliere le ragioni della sua forma. La singolarità e l’identità dei luoghi si definiscono sempre attraverso una relazione complessa tra le forme fisiche della natura e le forme costruite dell’architettura, tra la conformazione dello spazio naturale e la morfologia delle strutture insediative. Nella reciproca relazione tra questi due “sistemi” risiede la loro bellezza.
Se analizziamo la topografia dei nostri territori, il valore topologico del substrato fisico, e le forme delle strutture insediative, sia delle grandi che delle piccole città, ci accorgiamo del valore fondativo e della complessità di questo rapporto, comprendiamo come la forma e la posizione dei “monumenti” assumano “senso” non solo in relazione alla forma degli spazi urbani ma anche in relazione alla forma del territorio in cui si collocano.
Le città ci rammentano spazi definiti da una forma urbana che si è costruita nel tempo, luoghi la cui bellezza dipende anche dalla stretta relazione con la geografia, con le sue configurazioni ed i suoi elementi, riconosciuti ed assunti per essere interpretati ed esaltati attraverso le forme costruite dell’architettura; ci ricordano condizioni in cui la “forma della terra” si fonde con la città e fa da sfondo ad essa. In tal senso, queste città evocano piuttosto un mondo nel quale ogni cosa rimanda all’insieme e l’insieme si costruisce attraverso tutte le cose.
Vivendo gli spazi di queste città comprendiamo pienamente il paesaggio a cui appartengono, poiché in essi si riverberano i suoi caratteri. Un paesaggio che presuppone la visione di un panorama e, allo stesso tempo, di uno spazio delimitato dallo sguardo dell’uomo, di una parte di territorio sottratta alla totalità della natura: natura e architettura insieme. Credo si possa riconoscere in questo atteggiamento l’appartenenza a una radicata linea di ricerca sulla forma architettonica. A questa linea di ricerca, che ha fortemente caratterizzato la riflessione teorica e progettuale italiana nel corso del Novecento, questo studio vuole riallacciarsi.
Introduzione al disegno della città
L’immagine della città attuale è l’unica che esista realmente, e che può conoscersi in quanto esperienza direttamente vissuta. Certo è che essa rappresenta pur sempre il progetto conclusivo delle operazioni successive delle comunità umane (momenti di progettazione) che elaborando diverse concezioni culturali, economiche e politiche, ne hanno condizionato, volta a volta, il modello di sviluppo fino a quello ultimo, attuale.
Spagnesi, 1982, 145, corsivo mio
1748, Giambattista Nolli, La Nuova Topografia di Roma, Roma, particolare.
Il disegno della città nel tempo
Da sempre l’essere umano ha sentito l’esigenza di rappresentare il mondo che abita e in particolare le città, luoghi per antonomasia della stanzialità. Può sorprendere constatare che i primi disegni urbani consistono in proiezioni orizzontali, “piante” che ancora non scaturiscono dall’applicazione rigorosa di un metodo scientifico ma da una certa capacità di astrazione dei nostri antenati di migliaia di anni fa1. Tuttavia, gli studi inerenti alla rappresentazione della città individuano nelle piccole immagini contenute all’interno delle mirabilia del XII e XIII secolo i primi esempi di disegno urbano modernamente inteso [1]. Le mirabilia sono opere letterarie incentrate su viaggi e destinate ai pellegrini, nelle quali la città non viene rappresentata nelle sue reali dimensioni e proporzioni ma attraverso la selezione dei monumenti in grado di evocarla. Col passare del tempo, l’allentarsi della subordinazione a un itinerario comporta la progressiva indipendenza del disegno dal testo scritto, portando alla nascita delle miniature, piccole rappresentazioni che veicolano da sé l’immagine della città. È rilevante far notare, tanto nelle mirabilia quanto nelle miniature, la compresenza dei monumenti antichi accanto a quelli moderni: già dai primi disegni urbani, quindi, emerge l’idea che antico e nuovo costituiscono un unico tempo composto dalla totalità dei manufatti simultaneamente presenti nello spazio urbano. In alcune miniature compaiono piccole ma decisive “crepe” che minano la solidità dell’apparato simbolico [2-3], segnalando il passaggio verso la veduta, espressione di un nuovo sguardo che non vede la città come un insieme di singoli monumenti ma come una struttura fisica2. La veduta è la forma rappresentativa che domina e definisce per circa tre secoli il “volto” della città nell’immaginario collettivo, fondandosi sulla volontà di rappresentare con quanta più precisione ciò che può cogliersi tramite l’osservazione diretta [4]
1. I primi tentativi dell’uomo di riprodurre in scala il territorio nascono in tempi lontanissimi come dimostrano la cosiddetta mappa di Bedolina in Valcamonica, incisa nell’età del Bronzo, e le cosiddette “mappe a rilievo”, ovvero modelli scultorei che schematizzano il territorio ricorrenti in vari luoghi del mondo anche molto distanti fra loro (in Canada, in Groenlandia e in Marocco). Si rimanda per le “mappe a rilievo” a HARVEY, 1980.
2. Nel disegno di Roma di Fra’ Paolino da Venezia del 1320 appaiono per la prima volta le strade ad “ancorare” i monumenti, tratteggiando una struttura urbana appena abbozzata ma pienamente leggibile; nel disegno di Milano di Ghioldi del 1400 una delle porte urbiche non è rappresentata secondo una ideale simmetria ma nella sua fattuale asimmetria.
1. 1259, Matthew Paris, Iter de Londinio in Terram Sanctam, Roma, particolare.
2. 1320, Fra’ Paolino da Venezia, Compendium Gestarum Rerum, Roma, particolare.
3. 1400, Pietro Ghioldi, Cronaca Estravagante, Milano, particolare.
Catania sotto-sopra
Così un solo sguardo sulla città ci fa vedere ad un tempo la sua bellezza e la sua miseria e presentire la sua storia; poiché questa è un vero e proprio alternarsi di prosperità e sventure che non si riscontra facilmente altrove, prosperità e sventure prodotte non tanto dagli uomini quanto dai benefici continui della natura e dalle brevi ma terribili collere di essa. È quindi impossibile scrivere una parte della storia di Catania […] senza tener conto dell’influenza dell’Etna.
HOLM, LIBERTINI, 2003 [1925], 1
1844-1861, Sartorius di Walterhausen, Carta topografica dell’Etna, particolare.
Solitamente la città si costruisce su se stessa per mano dell’uomo in un contesto naturale certamente mutevole ma che mantiene grossomodo immutate le proprie caratteristiche principali; a Roma, per citare il caso appena trattato, l’assenza di rilevanti catastrofi naturali e la portata delle trasformazioni umane nelle varie epoche hanno prodotto un palinsesto di stratificazioni di grande rilevanza, per ricchezza di testimonianze, ma nel complesso pur sempre coerente con un principio ampiamente noto e condiviso in ambito archeologico per cui il “prima” corrisponde tendenzialmente al “sotto” e il “dopo” al “sopra”. Catania si stratifica su se stessa per mano dell’uomo analogamente alle altre città storiche ma anche grazie a un altro attore ancor più determinante dell’essere umano: l’Etna1. Ciò che altrove si presenta come una “scena fissa” a Catania non solo agisce attivamente ma persino con più rapidità dell’azione antropica. L’Etna è una formazione geologica che, eccezionalmente2, è in grado di mettere in crisi l’ordine di grandezza comunemente valido in questo ambito, trasformandosi attraverso processi estremamente rapidi ed evidenti3. Questa peculiarità ribalta un principio “lineare” ordinariamente diffuso in geologia per cui a una grande quantità di tempo segue una piccola quantità di materia, facendo sì che, invece, in una piccola quantità di tempo si produca una grande quantità di materia. A Catania l’essere umano opera in un contesto capace di distruzioni enormi e rapidissime che sovente si sovrappongono a loro volta sul manufatto, comportando una stratificazione “non-lineare” per cui non è sempre valida la relazione spazio-temporale emblematica a Roma, determinando un
1. Come non a caso rileva uno dei più importanti studiosi che si sono occupati di questa città: «È quindi impossibile scrivere una parte della storia di Catania […] senza tenere conto dell’influenza dell’Etna» (HOLM, LIBERTINI, 2003 [1925], 1).
2. L’Etna si trova all’incontro tra due placche continentali, tra il mondo dolomitico europeo e quello calcareo africano, segnalando un particolarissimo punto di “collisione” del quale ne sarebbe al contempo una diretta conseguenza (l’alimentazione del vulcano è possibile che provenga da una delle fratture provocate dalla collisione tra le due placche; vedi NERI et alii, 2018).
3. È risaputo che l’espressione “tempo geologico” indica comunemente una quantità di tempo considerevole associata a fenomeni estremamente lenti. Nel caso dell’Etna i tempi sono profondamente diversi: «Chi s’avventurava sulla sommità craterica […] restava impressionato dalla mobilità con cui in pochi anni, o talvolta in pochi giorni, mutava il numero, l’altezza e le dimensioni dei crateri o delle bocche eruttive» (BEMBO, 1981, 22). In aggiunta allo stravolgimento temporale va considerato anche quello spaziale per cui una colata “ribalta” la morfologia che ricopre appianando le differenze altimetriche precedenti o persino invertendo la sezione del suolo trasformando un impluvio in crinale.
L’Angelica del 1584
La seconda mappa considerata è la Carta dell’Angelica del 1584 che sorprende per la straordinaria, e per certi versi misteriosissima, qualità grafica e accuratezza nel dettaglio35 [27]. La rappresentazione è inquadrabile all’interno di un tipo di disegno, particolarmente comune a quel tempo, nel quale l’assonometria “convive” con la prospettiva “piegandosi” in prospetto, facendo sì che la veduta complessivamente consista nell’unione di più metodi rappresentativi. Questa “manomissione” è dovuta all’irrinunciabile necessità del disegnatore di voler tenere insieme l’Etna e Catania in un unico foglio, nonostante i trenta chilometri che separano la città dal vulcano, con l’obiettivo di avvicinare Catania alla ragione fondativa della sua esistenza. Seppur questa tecnica, come è evidente, non permette di ricavare alcun dato “oggettivo” dalla città raffigurata, la mappa del 1584 è utilissima per leggere la struttura urbana antecedente alle catastrofi. Nella veduta appare una città con strade curvilinee e densamente costruita, affacciata sul mare e “protetta” dai venti settentrionali dalla presenza del vulcano. Il ridisegno critico di questa mappa, oltre alla difficoltà “formale” di confrontarsi con una veduta e non con una pianta, incontra un ulteriore ostacolo legato al “contenuto”, ovvero alla completezza della città disegnata in contrasto alla frammentarietà con la quale si presenta oggi dopo i cataclismi del 1669 e del 1693. Viene proposta la sovrapposizione tra la trama urbana al tempo della Carta dell’Angelica36 e le piante dei soli edifici attuali che risultano costruiti sul medesimo sedime di quelli distrutti dai cataclismi. Le catastrofi non devono aver cancellato totalmente la città precedente se ad oggi più della metà degli edifici menzionati nella legenda della Carta risultano costruiti nelle immediate vicinanze o esattamente sullo stesso sedime pre-catastrofi37, permanendo sotto una forma e
35. Angelo Rocca è un monaco agostiniano che intende realizzare un enorme atlante con più di 200 città attraverso i materiali grafici raccolti sul territorio da omogeneizzare in vista della pubblicazione. Un numero di città che gli avrebbe permesso di primeggiare sui più noti libri dell’epoca (il Münster nelle edizioni più ricche ne contiene 70, lo Schedel 33 disegni urbani) e confrontarsi col Braun e Hogenberg che in alcune edizioni arriva a 250 immagini di città. Tra i settantacinque disegni della raccolta, quello di Catania è di gran lunga il più accurato. Per approfondimenti si veda DOTTO, 2004.
36. La trama urbana della città antecedente al sisma rappresentata nel ridisegno è tratta dalla planimetria elaborata da Salvatore Calogero e contenuta in CALOGERO, 2020, 38.
37. Su cinquantasette edifici totali, trent’uno risultano riconfermati sullo stesso sedime o nelle immediate prossimità a fronte dei ventisei scomparsi. Tra questi si possono distinguere quelli dedicati allo stesso santo titolare e quelli dedicati a un
27. 1584, Anonimo, Carta dell’Angelica, dimensione: 58 x 42,7 cm.
materia differente; non proprio una banalità per una città sconquassata da due catastrofi di enorme portata. Il ridisegno rinuncia a una superficiale somiglianza col riferimento originario a vantaggio di una lettura più profonda che rivela come un impianto apparentemente cancellato persiste nei pochi segni che le emergenze architettoniche ricalcano: l’antico impianto di Catania è ancora presente nel nuovo [28].
nuovo santo. Tra gli edifici afferenti alla prima vi sono: i monasteri maschili 11. S. Nicola la Rena, 12. S. Domenico, 13. Il Carmino, C. Il collegio dei Padri di Giesù, D. Il collegio dei Padri secolari, 14. S. Francesco, 15. S. Agostino, 16. S. Maria di Giesù, 18. S. Francesco di Paola; i monasteri femminili 19. S. Benedetto, 20. S. Placido, 24. La Trinità, 27. S. Chiara; le chiese A. La maiore chiesa, 38. S. Agata la Vetera, 41. S. Maria della Misericordia, 44. S. Maria d’Itria, 45. La Rotonda, 51. S. Michele, 55. S. Martino, 57. S. Ursula, 63. S. Vito, E. S. Sebastiano. Tra gli edifici afferenti alla seconda vi sono: il monastero maschile 17. Li Cappuccini (oggi chiesa di San Francesco d’Assisi); le chiese 39. S. Maria della consolazione (oggi chiesa dei Santi Cosma e Damiano), 42. S. Pietro e S. Leonardo (oggi chiesa di Santa Maria dell’Aiuto), 46. S. Barbara e S. Cataldo (oggi chiesa dell’Immacolata Concezione della Beata Maria Vergine), 49. S. Hippolito (oggi chiesa di San Camillo), 53. S. Nicolao et Ambrogio (oggi chiesa di San Nicola dei Trixini), 65. S. Antonio (oggi ex chiesa di Sant’Euplio), 70. S. Maria della Grotta (oggi chiesa di San Gaetano).
28. 2025, L’Angelica: l’antico nel nuovo (elaborazione dell’autore).
40 Sebastiano Ittar, Pianta dei crateri, dell’antico e del moderno, scala 1:12000 circa, dimensioni: 27,1 x 32,4 cm (Fondo Ittar n. inv. 13522).
Renovatio Forma Urbis
La città è la sovrapposizione stratificata dei resti di diversi processi di radicamento nello spazio ma è anche la presenza simultanea di temporalità molteplici e diverse.
GEROSA, 1999, 29
1969, The Rolling Stones, Let it bleed, fronte.
Prima del disegno
Idea di città
Come si è potuto apprendere dal ragionamento condotto in merito al disegno urbano nell’introduzione, per disegnare la forma della città è imprescindibile assumere una precisa idea di città da rappresentare. Viene ora esplicitato innanzitutto l’assunto al centro di questa ricerca, con lo scopo di definirne l’oggetto, in altri termini il cosa Si sceglie di ricorrere a una metafora allo scopo di intercettare le questioni fondamentali di questa idea di città: la città è come una torta e, come nelle torte, anche nella città si può parlare di una modalità di “cottura”, di un certo tipo di “ingredienti” e di un determinato “sapore”.
La “cottura”
La “cottura” in una città consiste nel processo di stratificazione. In ogni parte del mondo il suolo cresce in spessore, accumulando una certa altezza in relazione al passare dei millenni: tempo, materia e gravità sono le componenti di questo processo. Nelle città ciò è particolarmente leggibile a causa della ripetuta azione dell’uomo su uno stesso sito per cui il livello di stratificazione è tanto maggiore quanto è stata continua l’attività trasformativa condotta dalla comunità che lo abita: le città costituiscono i “coaguli” della vita umana.
Il movimento con cui si sovrappongono gli strati non è né costante nel tempo, poiché dipende dall’impatto delle trasformazioni nelle varie epoche, né omogeneo nello spazio, poiché l’uso impedisce a un edificio di sprofondare, se utilizzato con continuità, o ne favorisce il sotterramento, in caso di abbandono1.
Ogni strato, pur considerabile come un elemento unitario, è composto da una moltitudine di elementi più piccoli e questo vale non solo in ambito artificiale, come i “monti” prodotti dall’accumularsi di materiali di scarto2 o i “rilievi” costituiti fisicamente dalle livellazioni di
1. Alcuni manufatti sono capaci di “piegare” la stratificazione costringendo le altre zone della città, nel frattempo inspessitesi, a raccordarsi con la quota originaria rimasta immutata: al Pantheon, ad esempio, «come hora si scende al suolo, over pavimento, così anticamente vi si saliva per alquanti gradi» (PALLADIO, 2018 [1570], 73).
2. Come il Monte Testaccio, il cui nome stesso, derivante dal latino “testae”, prodotti di terra cotta, rivela la natura antropica dovuta all’accumulo di materiale.