Giovanni Maria Biddau - PAULO DAVID

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di Antonello Marotta INTRODUZIONE

CAPITOLO 1

DELL’INSTABILE

Fragilità e insediamento

Il sacro e il profano

L’acqua come dispositivo narrativo

La cesura epistemologica

L’ambivalenza moderna di fronte alla vulnerabilità territoriale

La liquidità contemporanea

CAPITOLO 2

DELLA FRAGILITÀ

CAPITOLO 3

CAPITOLO 4

L’ARCHITETTURA COME GEOLOGIA

ARTIFICIALE

Il Padiglione del Vulcanismo e il Giardino Acquatico di São Vicente

Il centro d’arte Casa das Mudas

La Galleria di Protezione di Funchal

CAPITOLO 5

L’ARCHITETTURA ANFIBIA

Piscine, passeggiata, ristorante e giardino das Salinas a Câmara de Lobos

Il Ponte pedonal sulla Ribeira de Santa Luzia

CAPITOLO 6

CAPITOLO 7 ANNESSO. DIALOGO CON PAULO DAVID

PAULO DAVID: LA GEOLOGIA

E LE MATRICI

DEL TERRITORIO

di Antonello Marotta

Rispetto alle teorie degli anni Settanta del Novecento, tese a individuare un rapporto con la città basato su un’idea di contesto, di relazione con le tipologie consolidate e con la storia, nel lavoro di Paulo David ci confrontiamo con una dimensione in cui l’architettura è parte di un processo geologico. Originario dell’arcipelago di Madeira, in Portogallo, David porta con sé un approccio che fa del territorio la matrice delle sue opere.

Nella dialettica tra gli anni Settanta, Ottanta e Novanta, siamo passati da una visione della città che teorizzava la necessità di recuperare i tessuti urbani storici a un approccio che gradualmente spostava la sensibilità del progettista verso i luoghi esterni, periferici, in un progetto di relazioni tra le realtà esistenti e le nuove necessità, legate alle città che trasformavano il proprio organismo. Superata la visione postmoderna, legata a un’iconografia rasserenante quanto drammaticamente finta, la teoria del progetto oggi si è orientata verso un’azione silenziosa, che sostituisce alle parole operazioni di scavo e sottrazione, come nel lavoro di Paulo David.

L’architettura è generata per sottrazione: le masse, nell’incisione della materia, introducono la luce in luoghi rivelati dall’atto dello scavare.

Emilio Tuñón dedica una riflessione al lavoro di David dal titolo Geography as Body and Architecture as Geography. L’inestricabilità tra corpo, architettura e geografia è al centro della sua analisi.

Non è più la dimensione della città a costituire il riferimento progettuale, ma una condizione territoriale, fatta di masse rocciose che determinano un rapporto nuovo tra l’artificio e la natura.

Lavorare entro i limiti – fa notare Tuñón, citando le restrizioni letterarie introdotte dal movimento OuLiPo (Ouvroir de Littérature Potentielle) – rende il lavoro di David un’espressione di resistenza, in cui la dimensione locale e quella internazionale si fondono in una costruzione litica, dove il disegno del territorio, con le curve di livello e le masse materiali, diventa un tutt’uno con l’architettura realizzata (Tuñón 2008).

Nel volume La Disparition (1969), Georges Perec elimina una lettera dell’alfabeto: nel testo originale francese, la e. Si tratta di una procedura che mira a far rinascere la letteratura, interrogandosi sul senso della privazione. Essendo Perec di origini ebraiche, il linguaggio si muove nella complessità di diversi registri e codici. I suoi genitori,

L’ARCHITETTURA

COME ERMENEUTICA

DEL TERRITORIO

L’architettura, nella sua materializzazione fisica, diviene testimonianza di un dialogo incessante tra luogo e progetto, tra sedimentazione geologica e aspirazione costruttiva. In questa tensione dialettica, l’opera di Paulo David emerge come manifestazione di un’appartenenza radicale che trascende le categorizzazioni nazionali per radicarsi nella specificità insulare di Madeira, territorio vulcanico sospeso nell’Atlantico in cui la fragilità del paesaggio detta le condizioni stesse del costruire.

La geografia dell’isola non rappresenta meramente il contesto operativo dell’architetto, ma si configura come matrice generativa di un linguaggio architettonico che trova nella condizione di limite – fisica, materica, culturale – il proprio principio costitutivo. Madeira diviene così laboratorio di una grammatica spaziale nella quale il progetto non si impone al territorio ma emerge da esso.

Come osserva l’architetto Emilio Tuñón (2008), nell’opera di David «la geografia si converte in una specie di recupero topografico» dove il territorio non è sfondo inerte ma corpo vivente con cui l’architettura stabilisce un dialogo incarnato. Tuñón identifica precisamente questa condizione quando scrive: “Un’architettura dove si diluiscono i limiti tra il naturale e l’artificiale, tra la grotta e la capanna, tra la terra e la colonna; un’architettura, infine, dove il tempo, e non lo spazio, stabilisce il modo di percepire le azioni degli uomini e i loro vincoli con la natura”.

L’arcipelago di Madeira, sospeso nell’Atlantico di fronte alle coste africane, occupa una posizione unica: equidistante tra Europa e Africa, non appartiene pienamente né all’una né all’altra.

Questa condizione geografica e culturale sfugge alle categorizzazioni continentali convenzionali. La topografia vulcanica dell’isola presenta rilievi che precipitano vertiginosamente nell’oceano. La vegetazione lussureggiante di derivazione subtropicale colonizza ogni interstizio disponibile. Il clima atlantico alterna violenza tempestosa e dolcezza mediterranea.

In questo contesto estremo, David sviluppa una forma architettonica radicata nel proprio territorio, che la rende più personale e diversa. Non si tratta di regionalismo nostalgico ma di quello che potremmo chiamare, seguendo la filosofa Elizabeth Grosz (2017), “geopower” che non è l’imposizione di forme geometriche astratte sul territorio ma l’emergenza di geometrie dalle forze territoriali stesse. Le Forme

LE GEOLOGIE DELL’INSTABILE

Le radici profonde del rapporto tra architettura e fragilità territoriale attraversano diverse culture che hanno interpretato e negoziato con territori instabili, sviluppando strategie architettoniche che oscillano tra accettazione e negazione, tra adattamento e resistenza. Emerge un filo conduttore: la fragilità non è anomalia da correggere ma condizione costitutiva dell’abitare umano sulla Terra. Paulo David, con la sua architettura, si inserisce in questa tradizione, proponendo però una sintesi originale che supera sia la rassegnazione fatalista sia l’hybris tecnocratica.

Quando Paulo David traccia il profilo di un muro in basalto contro il cielo atlantico di Madeira ripete inconsapevolmente un gesto antico quanto la civiltà stessa: quello di erigere una soglia tra il caos geologico e l’ordine umano. In questo gesto apparentemente semplice si condensano millenni di strategie architettoniche che hanno interpretato la fragilità non come anomalia da correggere ma come condizione costitutiva dell’abitare umano sulla Terra.

Fragilità e insediamento

L’atto fondativo di ogni civiltà è stato, invariabilmente, un patto con la fragilità territoriale. Non è casuale che le prime grandi culture urbane siano sorte in territori intrinsecamente instabili. Civiltà sumera, egizia, harappana e cinese si svilupparono in pianure alluvionali, delta fluviali, oasi nel deserto, valli sismiche. Il sociologo Karl Wittfogel (1963) ha teorizzato come queste “società idrauliche” si strutturassero attorno alla gestione dell’acqua. Ma la relazione va oltre la necessità materiale.

Gli elementi naturali toccano profondamente l’immaginario umano e l’acqua, in particolare, è simultaneamente principio di vita e di morte. Permanenza e trasformazione coesistono nella sua natura fluida. Paulo David nell’intervista effettuata nel suo studio a Funchal (2025) comprende questa ambivalenza quando afferma: «Per noi, che siamo in questa condizione naturale insulare, l’azione di progetto ci pone fin da subito nella condizione di confine tra la terra e l’acqua. Dunque, è l’idea di esistere e vivere su quel margine».

Madeira incarna paradigmaticamente questa marginalità. Isola vulcanica emersa dall’oceano, non è terra ferma nel senso continentale. È terra precaria, conquistata temporaneamente all’oceano e sempre minacciata dal suo ritorno.

IL PADIGLIONE DEL VULCANISMO E IL

GIARDINO ACQUATICO

DI SÃO VICENTE

LO SCAVO COME RIVELAZIONE GEOLOGICA

La condizione tellurica e la morfogenesi dei vuoti lavici

Il Padiglione del Vulcanismo e il Giardino Acquatico di São Vicente (2004), realizzato in collaborazione con il paesaggista João Gomes da Silva, si confronta con uno dei paesaggi più drammaticamente instabili di Madeira, un sistema ipogeo di grotte e tunnel lavici che testimoniano simultaneamente la violenza geologica primordiale che ha generato l’isola e la sua intrinseca vulnerabilità strutturale contemporanea. São Vicente, posizionato sul versante settentrionale dell’isola, articola la sua occupazione antropica lungo un’estesa valle orientata magneticamente verso l’oceano che assume una configurazione territoriale che costituisce un autentico museo naturale vivente delle specificità geologiche e morfologiche più intrinseche dell’arcipelago.

Il progetto si inscrive in un sito caratterizzato da bassa incidenza solare – condizione microclimatica determinata dall’orientamento e dalla morfologia accidentata – riparato sul pendio occidentale della valle, dove una fascia residuale di campi agricoli rivieraschi si confronta dialetticamente con una scarpata accentuata, punteggiata da piccole costruzioni vernacolari e muri di contenimento in basalto che testimoniano secoli di negoziazione tra occupazione umana e instabilità geologica.

In questo contesto, David non sovrappone architettura al territorio fragile attraverso fondazioni convenzionali ma opera dentro la sua stessa materialità geologica, accettando la Terra come co-autore del progetto. La metodologia progettuale di David articola un processo che trascende l’analisi cartografica convenzionale. Come l’architetto precisa: «Utilizziamo, e talvolta abusiamo, dei documenti che oggi consentono di conoscere un sito: ortofoto, mappe, tutto ciò che si riesce a reperire. Questo ci permette di instaurare un rapporto di astrazione che per noi è prezioso» (2025). Tuttavia, questa astrazione preliminare costituisce solo la prima fase di quello che David definisce con precisione

fenomenologica del luogo rende percepibile una situazione geomorfologica unica che altrimenti rimarrebbe invisibile o incomprensibile.

Il progetto assembla con precisione chirurgica le specificità morfologiche, idrologiche e vegetazionali del sito configurando un luogo inclusivo che media tra l’esperienza quotidiana degli abitanti locali e il progetto pedagogico-scientifico offerto dal programma museologico istituzionale. In questo senso, il progetto incarna quello che potremmo definire una “cosmotecnica vulcanica”: non l’imposizione coloniale di una tecnologia universale astratta ma lo sviluppo paziente di relazioni tecniche appropriate al cosmos locale delle grotte vulcaniche. In questo paesaggio fragilità e permanenza, dissoluzione e costruzione, natura e artificio partecipano ad una danza geologica che l’architettura non interrompe ma amplifica e rende intelligibile.

IL CENTRO D’ARTE CASA DAS MUDAS

ARCHITETTURA COME DISPOSITIVO DI RALLENTAMENTO NEL PAESAGGIO

Temporalità stratificate: la dialettica tra velocità infrastrutturale e lentezza contemplativa

Il centro d’arte Casa das Mudas (2004), posizionato sulla scogliera di Calheta a 180 metri sul livello del mare lungo la costa sud-occidentale di Madeira, materializza un’operazione architettonica di particolare complessità teorica e compositiva. L’intervento rappresenta l’inserimento di un’istituzione culturale contemporanea in un territorio che manifesta simultaneamente fragilità geologica estrema e marginalità geografica rispetto ai centri consolidati del potere culturale insulare. Il promontorio basaltico su cui l’edificio si inscrive, soggetto a processi erosivi marini ed eolici che ne ridefiniscono continuamente il profilo morfologico, diventa campo di sperimentazione per quello che Paulo David concepisce come architettura della decelerazione, dispositivo spaziale che oppone resistenza critica all’accelerazione infrastrutturale contemporanea.

L’ambizione politica sottesa al progetto punta alla decentralizzazione culturale attraverso la disseminazione di istituzioni artistiche nel territorio periferico. Questa aspirazione si scontra però con una condizione paradossale: dover creare monumentalità istituzionale in un contesto che richiede simultaneamente discrezione paesaggistica, permanenza strutturale in un sito geologicamente instabile, universalità programmatica in una localizzazione radicalmente specifica.

Questa molteplicità di tensioni non risolte diventa materia generativa del progetto, che David articola attraverso strategie operative che trasformano le contraddizioni in principi compositivi.

All’inizio del XX secolo, questo territorio era caratterizzato da una strada regionale che seguiva con precisione topografica le curve di livello, adattandosi mimeticamente alla morfologia naturale attraverso una temporalità lenta ovvero una modalità di attraversamento del paesaggio che

PAULO DAVID.

LA GALLERIA DI PROTEZIONE DI FUNCHAL

INFRASTRUTTURA COME MEDIAZIONE TRA FRAGILITÀ GEOLOGICA E VELOCITÀ URBANA

L’architettura del differimento temporale

Il progetto della Galleria di Protezione a Funchal (2019) emerge da una condizione di criticità territoriale che Paulo David identifica con precisione programmatica. Vi è la necessità imperativa di proteggere un tunnel stradale, che è anche una delle principali arterie di deflusso dalla città, dalla minaccia costante rappresentata dalla caduta di massi dai costoni rocciosi sovrastanti. «Un tema per il quale gli architetti non sono richiesti: è una struttura infrastrutturale molto grande, e di solito è affidata solo all’ingegneria», osserva David (2021), rivelando come l’intervento rappresenti un’appropriazione disciplinare non convenzionale in cui l’architettura che si inserisce in un dominio tradizionalmente riservato all’ingegneria pura, reclama la possibilità di una mediazione estetica e culturale anche nelle infrastrutture di protezione.

La condizione di instabilità geologica aveva progressivamente compromesso uno dei tracciati storici più antichi dell’isola, rendendo impraticabile una connessione viaria fondamentale, un “drive-in sull’oceano” (2021), che è anche uno dei percorsi panoramici più spettacolari di Madeira, dove la strada diventa dispositivo cinematico di visione del paesaggio atlantico. La scogliera sovrastante, composta da tufi vulcanici e brecce piroclastiche che testimoniano eruzioni esplosive quaternarie, manifesta ora un processo di degradazione continua che l’autore Rob Nixon (2011) teorizza come “violenza lenta”: «una violenza che si verifica gradualmente e fuori dalla vista, una violenza di distruzione ritardata che è dispersa attraverso tempo e spazio». Questa definizione cattura precisamente la natura insidiosa dell’erosione geologica, processo apparentemente invisibile nel quotidiano ma catastrofico nelle sue manifestazioni improvvise.

L’intervento si articola attraverso la creazione di un grande tavolato che potesse ricevere l’impatto delle pietre sul percorso che rivela la concezione dell’infrastruttura non come barriera impermeabile ma come dispositivo di

L’ARCHITETTURA ANFIBIA

PISCINE, PASSEGGIATA, RISTORANTE E

GIARDINO DAS SALINAS

A CÂMARA DE LOBOS IL MURO COME SOGLIA DIALOGANTE

La condizione anfibia e l’assemblaggio più-che-umano

La riorganizzazione dell’area delle ex Saline a Câmara de Lobos (2005) costituisce l’intervento attraverso cui Paulo David affronta con maggiore radicalità la condizione anfibia di Madeira. Le ex saline rappresentano quella zona instabile tra terra e mare dove la fragilità si manifesta come condizione non transitoria ma permanente, strutturale, costitutiva del territorio stesso. Situate a Câmara de Lobos, tradizionale villaggio di pescatori sulla costa occidentale dell’isola, le piscine occupano un sito che sfugge alle categorizzazioni binarie convenzionali: simultaneamente solido e liquido, permanente ed effimero, naturale e artificiale. Questa condizione, che può sembrare banale, è invece teorizzata nella forma di “assemblaggi più-che-umani”, configurazioni dinamiche dove “umani e non-umani sono legati in modi che rendono impossibile dire dove finisce uno e inizia l’altro” (Tsing 2015).

Il sito manifesta una stratificazione complessa di vulnerabilità che operano a scale temporali e spaziali diverse. Le scogliere basaltiche soffrono un’instabilità geologica sotto l’erosione continua. Le dinamiche marine – maree e tempeste atlantiche – ridefiniscono costantemente la linea di costa. L’industria della pesca tradizionale vive un declino economico irreversibile. La comunità costiera subisce una marginalizzazione sociale progressiva. Le Salinas emergono precisamente come assemblaggio di questi elementi eterogenei – roccia vulcanica, alghe marine, cemento armato, corpi umani, cicli di marea, memorie del sale, turisti stagionali – tutti partecipanti di una coreografia complessa che David non pretende di dirigere ma piuttosto di facilitare. L’elemento morfologicamente dominante del sito – quello che David descrive con precisione geologica come “grande lenzuolo basaltico, questo lenzuolo di lava” (2021) – non viene interpretato come ostacolo da rimuovere o sfondo neutro su cui operare, ma come monumento naturale la

tradizionalmente ingegneristica, mentre simultaneamente si rende accessibile un tratto di costa precedentemente impraticabile, stabilendo una connessione pedonale continua tra il villaggio e il porto dei pescatori. Il progetto parte da queste premesse con lo spirito conservativo del profilo roccioso, del piccolo sentiero esistente, rivelando come questo non si imponga sul sito ma emerga dalle sue condizioni preesistenti, operando per intensificazione piuttosto che per sostituzione. La composizione spaziale si sviluppa attraverso una organizzazione del programma funzionale che consente all’architetto di vincere le differenti quote, dalla quota alta alla quota bassa, e crea un percorso nel livello intermedio. Alla quota più alta insiste il sistema di terrazzamenti che non risponde solo a necessità topografiche, ma articola una sequenza percettiva calibrata dove a ogni quota corrisponde una diversa modalità di relazione con l’elemento acquatico: le piscine alla quota inferiore, scavate direttamente nella roccia basaltica; il percorso-muro come elemento di connessione e difesa alla quota intermedia; il ristorante alla quota superiore, concepito come un periscopio per l’orizzonte; i giardini pensili punteggiano il percorso lineare introducendo pause contemplative nella continuità del movimento.

IL PONTE PEDONAL SULLA RIBEIRA DE SANTA LUZIA

La fragilità del torrente e l’architettura della corrispondenza

Il ponte pedonale sulla Ribeira de Santa Luzia (2020) affronta una condizione territoriale di particolare complessità: quella dei canyon urbani scavati dai torrenti stagionali che attraversano Funchal, incisioni profonde nel tessuto della città che manifestano la natura vulcanica e instabile dell’isola. La ribeira, termine portoghese che designa questi corsi d’acqua intermittenti, costituisce il paradigma stesso della fragilità idrologica di Madeira, oscillando tra l’aridità assoluta per la maggior parte dell’anno e la trasformazione repentina in torrente devastante durante le piogge intense. Questa condizione di intermittenza radicale esemplifica il tentativo, destinato all’incompletezza, di computare e controllare processi ambientali che eccedono ogni possibilità di modellizzazione definitiva. I pattern di flusso della ribeira resistono alla programmazione manifestando una natura caotica nel senso matematico del termine, dove perturbazioni minime possono generare conseguenze catastrofiche, sfuggendo a ogni previsione deterministica.

Il progetto rappresenta un’occasione rara nell’ambito dell’architettura contemporanea, l’intervento su un’opera tradizionalmente delegata all’ingegneria pura che Paulo David trasforma in riflessione sulla natura stessa dell’infrastruttura come dispositivo territoriale. Non si tratta semplicemente di un piccolo passaggio sopra un canale d’acqua nel centro urbano, ma di un elemento che ridefinisce la “coreografia del movimento” nel paesaggio come una sequenza di gesti architettonici che, nella loro discontinuità, costruiscono paradossalmente la continuità dell’esperienza territoriale di Madeira.

Come David precisa nell’intervista del 2025, «il ponte rappresenta questa fragilità: è una piuma che riposa su questo gigantismo della geologia e ci serve per attraversare questi solchi del territorio» (2025). La metafora della piuma non indica

ANNESSO DIALOGO CON PAULO DAVID

Funchal, 29 luglio 2025

Per Paulo David progettare con l’acqua significa assumere la fragilità del territorio come matrice del progetto: disegnare il movimento prima dell’oggetto, l’aria prima del muro.

Da qui parte questa conversazione: tra Madeira, Lisbona, Porto e il mondo. Tra geometrie pure e natura ruvida, tra ingegneria e architettura.

GMB Che cosa vuol dire, in termini operativi, “progettare con l’acqua” in un’isola segnata da erosione e accelerazione infrastrutturale?

PD In un certo senso, per noi abitanti di un’isola, l’azione di progetto ci pone fin da subito nella condizione di confine tra la terra e l’acqua. Dunque, è l’idea di esistere e vivere su quel margine. Ed è lì che l’acqua è così determinante in questa dimensione.

Guardiamo sempre all’acqua, perché siamo un’isola e ciò ci porta a dare importanza a questa risorsa e al suo piano, come una piramide che emerge e che ci richiama ogni volta a rivolgere lo sguardo verso di essa. Per noi, l’acqua è il mare. E il mare ha condizioni storiche estremamente interessanti, perché esso ha disegnato, nel tempo, determinate configurazioni architettoniche. Le configurazioni nell’isola e il modo in cui la si occupa rappresenta questa linea, questa frontiera. All’inizio, a causa delle invasioni dovevamo disegnare infrastrutture di difesa perché l’acqua era pericolosa. Superata questa condizione di pericolo abbiamo iniziato a progettare la contemplazione dell’acqua.

Ma questa visione è anche il modo di guardare l’acqua e guardare al mondo perché gli isolani hanno il bisogno di vedere oltre; pertanto l’acqua diventa un dispositivo per guardare lontano. Qui, sul posto, sono comparsi spazi di contemplazione attraverso il porto, attraverso i punti di controllo e di vedetta. Con la costruzione del porto gli stranieri sono arrivati a Madeira e abbiamo anche iniziato a progettare strutture per osservare l’oceano. Ciò è stato un primo modo di progettare con l’acqua e questo è accaduto nelle architetture più ottocentesche. Nelle quintas madeirensi si introduce “l’alpendre”, il portico, molto presente a Madeira per stare all’ombra e osservare l’oceano.

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