

Universosud
Architettura e Pedagogia un immaginario costruito e conteso
Immagini, Figure, Archetipi una traiettoria di progetti universitari in Cile e Argentina
Un laboratorio di idee architettoniche e urbane Ciudad Universitaria de Tucumán
Emilio Duhart e BVCH, tra genio e burocrazia
Al di là del Foro un piano per la Ciudad Universitaria de Concepción
Técnica del Estado
La liberazione del suolo, letterale e fenomenica
Unità e varietà, la proposta di Germán Brandes per il Campus San Joaquín di Santiago
Linee e Forme, ai margini del colloquio megastrutturale
Come riconoscere e interpretare un mat-building
l’incompletezza dell’utopia
Enrico Tedeschi, un italiano sulle Ande
Architetto-Urbanista
uno sguardo multiscalare alla dimensione regionale
L’involucro abitato
la FAUM e le origini del campus urbano di Mendoza
Esporre in città, per un’architettura determinata
Atrio
Il miracolo dell’astrazione
la Ciudad Universitaria de Buenos Aires
Horacio Caminos e Eduardo Catalano, architetti a distanza
Un edificio di cemento
o una semplice scatola per contenere qualsiasi cosa
La città all’interno in difesa del ruolo urbano dell’architettura
Università,
prefazione
Patricio del Real
Harvard University
Cities of Knowledge
When considering the campuses for university cities in Latin America, interest has generally been focused on two signature endeavors: the Universidad Nacional Autónoma de México (UNAM, 1947-56), in Mexico City, and the Universidad Central de Venezuela (UCV, 1944-55), in Caracas. These monumental works celebrate a collective national endeavor. Driven by optimism and faith in architecture’s potential in achieving modernity’s goals, these two projects epitomize the hopes and aspirations of the early days of the second postwar period. Both campuses and their master plans were driven by policies of Desarrollismo or Developmentalism, the state-sponsored project of modernization that combined a theory and politics of economic and social modernization, as a cult to technological progress. Although distinct in many ways, both projects also deployed the structure of teamwork in collaborations between architects, artists, engineers, builders, and government bureaucracies. They both were concerned with a modernist conception of urban public space and circulation, with the separation of the pedestrian and the automobile as promoted by the Congrès Internationaux d’Architecture Moderne (CIAM) and its Athens Charter. In short, these campuses were imagined as self-contained functionalist cities.
At the same time, these campuses responded to the period’s concern with tradition, both as the expression of local roots and as a defense of humanist education against the technocratic reduction of culture. To materialize these ideas and its conception of “Man,” these projects employed what is known as the synthesis of the arts, creating the integration between pictorial and architectural works that remains iconic today. The buildings for UNAM and UCV were more than mere objects of architectural wonder. They were also Art. The campuses implemented the idea of architecture as an aesthetic practice. For architect Carlos Raúl Villanueva, who led the Venezuelan project, the aim was to create a “new architectural-sculptural-pictorial organism.” Integration would enrich architecture with aesthetic values and endow works of art with social responsibility. Mexican architect José Villagrán García, who was part of UNAM’s technical commission and at the
introduzione
Campus, Città e Architettura
L’università è sempre stata un campo di tensioni tra ideali e istituzioni, immaginazione e potere, apertura e controllo. L’interesse primario del presente studio è quello di riconsiderare questo campo di tensioni come un “problema” di architettura, rimettendo al centro la consistenza materiale dei suoi artefatti concepiti in virtù di un chiaro posizionamento culturale espresso tramite il progetto. Più che una semplice declinazione spaziale di requisiti pedagogici – in continua evoluzione – il progetto dell’università scaturisce da un’ambiziosa relazione con le forme dell’architettura che hanno interpretato, nelle diverse epoche, il compito di diffondere la conoscenza come premessa di un progetto di educazione avanzata per lo sviluppo del mondo moderno. Un progetto innestato sulle metafore spaziali che hanno spesso accompagnato la continua rielaborazione del campus come costrutto retorico e modello ideale: dal quad all’academical village, dall’anti-città alle più recenti varianti di univer-city, le metafore che tracciano la genealogia del campus come “ricerca di perfezione” sono ancora oggi richiamate in diversi studi.
Tra i più recenti, lo studio di Reinhold Martin identifica l’università “moderna” come un vero e proprio media complex: che si tratti della circolazione di un testo, della formulazione di un calendario accademico, dell’effetto luminoso o sonoro di un’aula, della disposizione delle sedie attorno a un tavolo seminariale o dei rapporti di prossimità con la città, ciascuno di questi dispositivi materiali garantisce non solo l’assolvimento del compito primario di trasmissione del sapere, ma partecipa al continuo riposizionamento del perimetro istituzionale dell’università rispetto al mondo esterno da cui, di volta in volta, proteggersi, riflettersi o al quale concedersi1 Un compito che ha visto alternarsi scelte ideologiche e strategiche, con la figura ideale del campus costantemente ridefinita in rapporto alle condizioni mutevoli di un sogno “urbano,” e il contributo dell’architettura che merita di essere riconsiderato nella sua complessità.
1. Reinhold Martin, Knowledge Worlds: Media, Materiality, and the Making of the Modern University, Columbia University Press, New York, 2021.

birra cerveza», venne preparato sulla base di fonti secondarie che portarono Hitchcock a confrontarsi con una continente più immaginato che reale3. Da una parte, per mezzo di consultazioni guidate su riviste e pubblicazioni conservate nelle biblioteche delle università che lo invitavano a dare conferenze su altri temi in quello stesso periodo; dall’altra, grazie alle numerose conversazioni e scambi informali con persone che avevano già visitato il continente e avrebbero potuto suggerire qualche contatto locale. L’unico incontro precedente di Hitchcock con l’America del Sud si riferiva alla recensione di un’altra mostra del MoMA, Brazil Builds (1943), nella quale si colgono i primi segnali della sua volontà di attenuare l’entusiasmo diffuso per il «protagonismo brasiliano», orientando il pubblico verso un’idea di progresso più allineata ai canoni del Movimento Moderno4. E pertanto, è nel catalogo curato da Hitchcock, e nel suo cauto equilibrio tra generosità e critica, che possiamo rileggere il sottile tentativo di valorizzare, ma allo stesso tempo attenuare, i tratti distintivi che rendono gli stili regionali così riconoscibili, con l’obiettivo di promuovere una presunta “unità continentale” fondata sulla “sorprendente omogeneità” della produzione architettonica moderna americana,
1.1 Inaugurazione della mostra Latin American Architecture Since 1945, MoMA, New York (23 Nov 1955 - 19 Feb 1956).
ora estesa alla più vasta geografia che nel secondo dopoguerra mirava a ricomprendere l’America Latina5. Un obiettivo che traspare nelle pagine del catalogo compilato da Hitchcock e Draxler: «La comparsa di città in prevalenza moderne ci offre l’opportunità di osservare gli effetti di ciò che noi stessi abbiamo solo anticipato»6. E ancora: «L’architettura latinoamericana, intesa nella sua totalità, avrebbe qualcosa di più da offrire al resto del mondo dei soliti cliché, come brise-soleil, volte a conchiglia e azulejos […] Si può sempre trarre beneficio dallo scambio di idee. Nell’architettura moderna, il Nord America ha dato molto e ha ricevuto molto. Ha già dato molto all’America Latina e senza dubbio darà molto di più. Ma c’è anche molto che possiamo ricevere con profitto […] In architettura, l’America Latina è più che in grado di reggere il confronto con il resto del mondo occidentale»7. In un certo senso, l’effetto di quel bagliore uniforme e diffuso emanato dal controsoffitto traslucido installato al MoMA, si traduce in una narrazione sapientemente costruita dai curatori.
Nel mezzo di questa operazione, emerge una categoria di edifici che incarna l’architettura moderna latinoamericana nella sua espressione più compiuta, in cui si possono riconoscere «gli elevati standard del gusto ufficiale». Si tratta delle Città Universitarie progettate e costruite nelle grandi capitali fin dai primi anni Quaranta, al punto che «l’ambito di applicazione e l’omogeneità di questi progetti sono motivo di imbarazzo per i nordamericani»8. La determinazione nel perseguire «risultati di portata monumentale» è sorprendente, fa notare Hitchcock, sia per i progetti concepiti da singoli individui come era accaduto a Caracas (1944) che per le imponenti imprese collettive come nel progetto della UNAM, Città del Messico (1946). Nel primo caso, l’Universidad Central de Venezuela (UCV) si affidò al “genio” di Carlos Raúl Villanueva, che trasformò un’ex hacienda in una città universitaria organicamente integrata al paesaggio e articolata intorno al disegno di percorsi fluidi modellati sui movimenti degli utenti. Muri traforati, porticati e rampe definivano un ritmo spaziale fatto di circolazione e pausa, incontri fortuiti e spazi raccolti, tradotti in soluzioni espressive come nella Plaza Cubierta e l’iconica Aula Magna arricchita dalle opere sospese di Alexander Calder. In Messico invece, il progetto della Città Universitaria della UNAM (Universidad Nacional Autónoma de México) elaborato da più di settanta architetti, tra cui Juan O’Gorman e Mario Pani, si strutturava intorno al disegno di un asse monumentale che armonizzava scala pedonale e veicolare. L’imponenza degli edifici si stagliava sullo sfondo delle maestose emergenze vulcaniche, e lo spazio fluiva dai vasti spazi aperti ai cortili interni, mentre l’integración plástica del muralismo post-rivoluzionario conferiva al complesso universitario un carattere civico e simbolico – in sintonia con i principi che stavano rianimando il discorso architettonico all’interno dei CIAM postbellici9. Eppure, nonostante il riconoscimento rivolto ai complessi universitari costruiti a sud, in nessuno di questi casi viene mostrato il progetto dell’impianto complessivo.
1.16 Tavola comparativa dei campus selezionati e analizzati da cui emerge il principio insediativo. Disegno dell’autore.
2A Ciudad Universitaria de Concepción
2B Universidad Técnica del Estado Santiago
San Joaquín Santiago
de Mendoza
Universitaria de Buenos Aires



L’immagine tecnologica dell’Universidad Técnica del Estado di Santiago si diffonde grazie alle trasparenze dei volumi lineari sospesi che rafforzano la percezione di un “suolo liberato”

Lo studio BVCH aveva già ricevuto l’incarico per l’Unidad Vecinal Portales (1954-66)
Nel lotto adiacente al futuro campus universitario sorge un quartiere di residenze collettive una serie ripetuta di blocchi lineari interconnessi da strade sospese [ T 2.12 ] FADEU / FBVCH

Casa Central (1959), prototipo del dispositivo lineare generato dall’inspessimento della griglia di percorsi [ T 2.18 ] Disegno dell’autore
Unidad Vecinal Portales (1954-64), sezione d’impianto e prototipo del blocco lineare con strada elevata [ T 2.19 ] Disegno dell’autore
Megastruttura
capitolo 3


La Pontificia Universidad Católica dichiara l’intento di costruire la prima Città Universitaria di Santiago (1963)
Modello e prospetti della proposta vincente [ T 3.1 - T 3.2 ]
“Auca” n. 8, 1967
universitaria», ricorda De Carlo, «alcuni avevano sostenuto che si sarebbe dovuto dar luogo finalmente a un campus. Ma la stessa Commissione dell’Università che stava preparando i programmi aveva smentito affermando che il campus dell’Università di Pavia sarebbe stato l’intera città di Pavia»41.
Nel mezzo tra queste due visioni urbane radicate nel contesto italiano, il progetto proposto per lo University College di Dublino (1963-64) posiziona De Carlo al centro del colloquio internazionale sulle megastrutture, o meglio, sui sistemi estesi e flessibili di organizzazione dello spazio universitario alla grande scala. Alle richieste del concorso di progettazione situato in un’area periferica della città, De Carlo risponde con l’ipotesi di una “struttura universitaria” dotata di una spina centrale che accorpa servizi amministrativi e spazi comuni – anche ad uso pubblico e per il tempo libero – da cui si fluisce liberamente verso le unità specializzate – facoltà e laboratori – disposte in sequenze ortogonali rispetto all’asse centrale. In questo senso, la “struttura” del nuovo

3.11 - 3.12 Proposta di un’infrastruttura territoriale per l’Università di Bocuhm (1962) e modello del mat-building della Free University di Berlino (1963) ad opera di Candilis-Josic-Woods.

campus di Dublino era concepita come una configurazione aperta e flessibile, progettata per future espansioni o riduzioni in base al numero di studenti e ai nuovi modi di produzione e diffusione della ricerca scientifica42. L’aspetto cruciale in questa proposta di De Carlo è la dissoluzione della griglia modulare su cui si basa il disegno dell’intero campus – e delle sue possibili trasformazioni future – in contrapposizione con molti altri progetti di quegli anni. In particolare, il caso della Libera Università di Berlino:
Può un’università diventare un’opportunità di ampia interazione culturale, che implica disordine creativo, se il suo pattern è totalmente e perennemente condizionato dalla camicia di forza di una griglia materializzata? [...] Non dovrebbe una griglia essere solo una disciplina intellettuale che si dissolve e consente una contromossa contraddittoria durante il processo di generazione di spazio e forme? [...] Noi tutti siamo debitori nei confronti di [Shadrach] Woods per la riscoperta della griglia […] Ma non appena questa diventa un sistema chiuso che costringe attività e forme ad aderire alla sua geometria ipersemplificata, il processo di progettazione si blocca e l’autoritarismo si manifesta di nuovo43
Dalle sue osservazioni in loco, inoltre, De Carlo rileva che «l’edificio appare solitario e isolato: un’università-fortezza che ignora il suo contesto […] L’intenzione di evitare qualsiasi tipo di gerarchia porta a una ripetizione monotona che ostacola la leggibilità»44. In buona sostanza, combattuto tra ammirazione e scetticismo come per l’esperimento cileno di auto-confinamento della Ciudad Abierta, De Carlo si interrogava sulla natura del progetto berlinese riconosciuto dai più come esempio di “utopia del presente”. Questo ci riporta all’esperienza del Campus San Joaquín e alla necessità di applicare lo stesso esercizio critico su un progetto rimasto ai margini di una stagione così dirompente. La formalizzazione di nuovi sistemi di ordinamento e il loro rapporto controverso con i metodi compositivi derivati dalla tradizione del Modernismo coincide con il principale oggetto di contesa, anche tra gli stessi protagonisti della nuova generazione che stavano riscoprendo e reinterpretando il potenziale urbano dell’architettura. In questo contesto, San Joaquín rappresenta un esempio emblematico


della conversazione dialettica ancora in corso nel Cono Sud, che prende letteralmente forma nella proposta di Germán Brandes e alla quale partecipavano ancora le visioni dei vecchi maestri: la griglia modulare è presente negli schemi di progetto, e come abbiamo visto, si materializza nella ramificazione di una struttura estesa e sospesa sul terreno; allo stesso tempo, la megastruttura nel suo complesso è una forma “unitaria” derivata da una strategia di composizione di “varie” parti distinte e riconoscibili, e soprattutto, organizzate secondo un preciso ordine gerarchico. In conclusione, il tema della griglia e della sua smaterializzazione si ripropone come spunto per comparare il destino comune dei due progetti elaborati nello stesso anno, Berlino e Santiago (1963). In entrambi i casi, seppur a scale diverse, osserviamo infatti un lungo percorso di ripetuti adattamenti rispetto al progetto originario che hanno comportato una progressiva mitigazione, semplificazione, e infine, neutralizzazione delle posture culturali espresse attraverso l’utilizzo della griglia.
3.13 Assonometria dello schema di circolazione del Collegio Universitario il Colle a Urbino (1960-87) progettato da Giancarlo De Carlo con Francesco Borella, Astolfo Sartori, Lucio Seraghiti e Vittorio Korach. AP IUAV / FGDC.
3.14 University College di Dublino (1963-64), schema insediativo della proposta di Giancarlo De Carlo.
“Architecture d’Ajour d’hui”, n. 137, 1968.
per la nuova Ciudad Universitaria de Buenos Aires. La prima occasione colta da entrambi – mentre il progetto di Tucumán era ancora in corso – è un periodo di insegnamento come visiting professor all’Architectural Association di Londra, con il sostegno finanziario del British Council (1951-52). Un’esperienza breve ma strategica per collocarsi al centro del dibattito pedagogico sull’insegnamento dell’architettura moderna. Tra le altre cose, Ernesto Nathan Rogers, con cui gli architetti argentini avevano condiviso le origini dell’impresa di Tucumán, era già approdato a Bedford Square dove si svolse la prima CIAM Summer School organizzata nel 194920. Al ritorno da Londra, la decisione fu quella di abbandonare definitivamente l’Argentina e trasferirsi negli Stati Uniti, dove Catalano aveva conservato i suoi contatti al tempo degli studi postlaurea presso la University of Pennsylvania (1944) e Harvard University (1945).

5.8 - 5.9 Laboratori di progetto e costruzione tenuti da Horacio Caminos presso la School of Design, North Carolina (1956).
MIT DCA / HCP.

L’occasione di intraprendere la carriera accademica e professionale negli Stati Uniti si concretizzò per entrambi nel contesto “periferico” ma estremamente vivace della School of Design (SoD), North Carolina State University (NCSU), nella cittadina di Raleigh. La School of Design era stata fondata nel 1948 su iniziativa di Henry Kamphoefner, determinato a promuovere un cambiamento nel sistema educativo americano attraverso il contributo di una piccola scuola posizionata “ai margini” del dibattito. Lewis Mumford fu invitato a sviluppare il nuovo curriculum di architettura sulla base di valori umanistici e “regionali” – in opposizione al pensiero dominante che considerava gli edifici come «entità autosufficienti e astrazioni estetiche»21 – mentre Matthew Nowicki assunse il ruolo di direttore del programma di architettura, strutturato in gran parte su cicli di seminari, conferenze e workshop condotti da docenti in visita tra i quali Buckminster Fuller, Pier Luigi Nervi, Eduardo Torroja, Felix Candela. [5.8 - 5.9]
Inoltre, il progetto educativo della School of Design di Raleigh divenne particolarmente noto grazie all’iniziativa editoriale
interna alla scuola, The Student Publications. Avviata nel 1951, dopo la prematura scomparsa di Nowicki22, la pubblicazione si collocava con un certo anticipo rispetto alla tradizione delle riviste universitarie nordamericane curate dagli studenti delle scuole di architettura, direttamente impegnati nel coinvolgimento di voci dissonanti con l’obiettivo di arricchire il dibattito sul discorso moderno nel secondo dopoguerra. Tra i primi volumi pubblicati, viene incluso un contributo di George Matsumoto intitolato “The Flexible Building” che, pur nella sua concisione, riesce a condensare alcune preoccupazioni verso l’inarrestabile pervasività di questo concetto:
Con la flessibilità come slogan, ci siamo messi a progettare i nostri edifici. Prima si getta la platea a livello del suolo; poi si collocano i pilastri in acciaio o in calcestruzzo; infine, la soletta di copertura chiude la struttura. A quel punto, tutto ciò che serve sono pareti continue in vetro e partizioni leggere per racchiudere e suddividere l’edificio. Ma quando questi elementi dell’architettura sono ridotti al minimo, è necessaria una maggiore attenzione, studio e raffinatezza. A meno che non siano trattati con eccezionale chiarezza e sensibilità – come nel Padiglione di Barcellona di Mies Van der Rohe – gli spazi così ottenuti spesso risultano incompleti, freddi e disumani. Occorrono variazioni o cambiamenti di scala e punti d’interesse per evitare che l’edificio presenti una monotonia uniforme. Certo, si può dire molto a favore dello spazio flessibile, ma non si può fare a meno di chiedersi quanto davvero sia flessibile quello spazio23.
L’esposizione di queste argomentazioni evidenzia la possibilità di promuovere un rinnovamento del modernismo architettonico dall’interno delle istituzioni educative, secondo un modello che Horacio Caminos e Eduardo Catalano avevano già sperimentato ai tempi di Tucumán24. In quel contesto, l’istituzione si era distinta per il diretto coinvolgimento di architetti e docenti italiani, dando vita a un laboratorio d’idee sul contenuto e sui metodi d’insegnamento della disciplina. La figura archetipica dell’architetto-educatore delineata in questo studio aveva trovato, in quell’episodio, una concreta corrispondenza nell’Istituto di Architettura e Urbanismo come organo collettivo inserito all’interno dell’apparato burocratico universitario, istituito con lo scopo di cercare un’integrazione con il territorio regionale e rispondere alle sue esigenze reali. Per certi versi, una condizione simile si era riproposta nel caso della School of Design dove Catalano e Caminos assunsero ruoli di primo piano che andavano oltre l’attività didattica e la ricerca: il primo avrebbe ricoperto la carica di direttore del programma di Architettura appartenuta a Nowicki, mentre il secondo avrebbe preso in carico il coordinamento dell’ormai prestigiosa rivista studentesca. [5.10]
Al contempo, entrambi si disimpegnavano nell’attività professionale strettamente connessa al contesto locale che li aveva accolti: da un lato, seppur in maniera più contenuta rispetto al monumentale progetto di Tucumán, facendo convergere le riflessioni disciplinari nella concezione di “spazi moderni” per espandere l’edificio della School of Design25; dall’altro, attraverso
