Nuova Tèchne

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P. Albani Anonimo francese Artemidoro H. de Balzac

BNC di Firenze A. Boffa A.N. Bravi A. Busetto Vicari

N. Calvagna G. Casamichiela G. Cirucci L. Coulliaux A. De Pirro

C. Dossi L. Fois R. Gianinetti P. Grassini H. Hoffmann

A. Lentini L. Malerba G. Mammi A. Manzoni M. Mellara A. Miliani

F. Montecchi J. Narros M. Pelliti P. Pergola S. Poli L. Rafkin

J. Romanini I. Russo M. Santinelli M. Schettino S. Scrima

A. Somenzari J. Talon Sampieri S. Tonietto A. Trasciatti M. Ugaglia

C. Villa P. Vistoli V. Zani G. Zauli G. Vaccarino G. Zaffagnini

Rivista di bizzarrie letterarie e non

Anno XXXVIII, N° 33, 2025

Note azzurre è una collana digitale a cura di Giuseppe Dino Baldi, Elena Frontaloni e Giovanni Maccari

© 2025 Quodlibet srl

Macerata, via Santa Maria della Porta, 43 www.quodlibet.it/

Prima edizione digitale 2025

Ebook ISBN:

Direzione e redazione

Paolo Albani

Jacopo Narros, Stella Poli

Casella postale 313 − 51100 Pistoia centro (Italy)

Tel. e fax + 39 057325927 − cel. 3391011066

E-mail: nuovatechne@gmail.com

Il sito di Nuova Tèchne è: http://www.nuovatechne.it

Progetto grafico di Alessandra Barsi. Impaginazione di Luca Giangrandi.

Copertine di Enrico Anzuini.

Si collabora alla rivista solo per invito. I testi, comunque inviati, non si restituiscono. La redazione della rivista declina ogni responsabilità

Pubblicità inesistente.

Finito di comporre nel mese di luglio 2024.

N° 33, 2025

NUMERO MONOGRAFICO SUL TEMA DELLO: SPORCO

Amarcord

Lo so, lo so, lo so che un uomo, a 50anni, ha sempre le mani pulite e io me le lavo due o tre volte al giorno ma è quando mi vedo le mani sporche che io mi ricordo di quando ero ragazzo

Tonino Guerra

Sommario N° 33 «Nuova Tèchne»

L’editoriale di Nuova Tèchne

PROLOGO

A. Manzoni, La sporcizia nella casa di Don Abbondio e della Perpetua

RITAGLI ANTOLOGICI

Artemidoro, Gli escrementi e il letame

Anonimo francese, Audigier Il cavaliere sul letamaio

C. Dossi, Sudicioni

H. Hoffmann, Pierino Porcospino

H. de Balzac, Della «toilette» in ogni sua parte

G. Vaccarino, Lo sporco

L. Malerba, Aulo Porfirio. L’inventore della polvere

L. Rafkin, Polvere e lussuria. Sporco, o porco?

A. Boffa, Non è tutto oro quel che luccica, Viskovitz

DOCUMENTI

L Coulliaux, Pulizia dei denti

Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Libri alluvionati nel 1966

TESTI VISIVI

N Calvagna, Piccole passioni

L. Fois, I panni stesi si rilavano in famiglia

R Gianinetti, Volto a perdere

G Zaffagnini, I libri e il fango nella Romagna allagata

CONTRIBUTI ORIGINALI

A N. Bravi, Pietro Candia

A. Busetto Vicari, Un amico rupofobo

G. Casamichiela, Casa e basta

G Cirucci, Il comizio

A. De Pirro, Scatolette nello spazio

P Grassini, Sulla pregnanza semantica della parola sporco (per me)

A. Lentini, Micrologie

G. Mammi, Columba livia domestica

M Mellara, L’audizione

A. Miliani, Un pubblico discorso

F. Montecchi, Diego

M. Pelliti, Lo sporco – saluti istituzionali

P. Pergola, Altro che global warming! Ricagamento globale – Cosa c’è di vero?

J. Romanini, Toccare o non toccare?

I. Russo, Fisime

M. Santinelli, L’orco

M. Schettino, John Lennon e le macchie di Rorschach

S. Scrima, Lineamenti di cropologia fantastica

A. Somenzari, Mestieri di merda

J. Talon Sampieri, L’animale uomo

S. Tonietto, Che cosa è sporco?

A Trasciatti, Ne parliamo un’altra volta

M Ugaglia, Sporco brutto e cattivo

C. Villa, Venti, quaranta, sessanta

P Vistoli, Apologia dello sporco

G. Zauli, Quelle sporche domande

LE ALTRE COPERTINE DI QUESTO NUMERO

Art index

Notizie sugli autori di questo numero

L’ e ditoriale di Nuova Tèchne

WC

Lo statista inglese Winston Churcill (1874-1965) soffriva di rupofobia (dal greco ῥύπος, rùpos, «sudiciume») che è la paura dello sporco, per questo passava molte ore della giornata nella vasca da bagno.

Elaborazione grafica Vanni Zani.

La sporcizia nella casa di Don Abbondio e della Perpetua

Dopo un’altra po’ di strada, cominciarono i nostri viaggiatori a veder co’ loro occhi qualche cosa di quello che avevan tanto sentito descrivere: vigne spogliate, non come dalla vendemmia, ma come dalla grandine e dalla bufera che fossero venute in compagnia: tralci a terra, sfrondati e scompigliati; strappati i pali, calpestato il terreno, e sparso di schegge, di foglie, di sterpi; schiantati, scapezzati gli alberi; sforacchiate le siepi; i cancelli portati via. Ne’ paesi poi, usci sfondati, impannate lacere, paglia, cenci, rottami d’ogni sorte, a mucchi o seminati per le strade; un’aria pesante, zaffate di puzzo più forte che uscivan dalle case; la gente, chi a buttar fuori porcherie, chi a raccomodar le imposte alla meglio, chi in crocchio a lamentarsi insieme; e, al passar della carrozza, mani di qua e di là tese agli sportelli, per chieder l’elemosina.

Con queste immagini, ora davanti agli occhi, ora nella mente, e con l’aspettativa di trovare altrettanto a casa loro, ci arrivarono; e trovarono infatti quello che s’aspettavano.

Agnese fece posare i fagotti in un canto del cortiletto, ch’era rimasto il luogo più pulito della casa; si mise poi a spazzarla, a raccogliere e a rigovernare quella poca roba che le avevan lasciata; fece venire un legnaiolo e un fabbro, per riparare i guasti più grossi, e guardando poi, capo per capo, la biancheria regalata, e contando que’ nuovi ruspi, diceva tra sé: «son caduta in piedi; sia ringraziato Iddio e la Madonna e quel buon signore: posso proprio dire d’esser caduta in piedi».

Don Abbondio e Perpetua entrano in casa, senza aiuto di chiavi; ogni passo che fanno nell’andito, senton crescere un tanfo, un veleno, una peste, che li respinge indietro; con la mano al naso, vanno all’uscio di cucina; entrano in punta di piedi, studiando dove metterli, per iscansar più che possono la porcheria che copre il pavimento; e danno un’occhiata in giro. Non c’era nulla d’intero; ma avanzi e frammenti di quel che c’era stato, lì e altrove, se ne vedeva in ogni canto: piume e penne delle galline di Perpetua, pezzi di biancheria, fogli de’ calendari di don Abbondio, cocci di pentole e di piatti; tutto insieme o sparpagliato. Solo nel focolare si potevan vedere i segni d’un vasto saccheggio accozzati insieme, come molte idee sottintese, in un periodo steso da un uomo di garbo. C’era, dico, un rimasuglio di tizzi e tizzoni spenti, i quali mostravano d’esser stati, un bracciolo di seggiola, un piede di tavola, uno sportello d’armadio, una panca di letto, una doga della botticina, dove ci stava il vino che rimetteva lo stomaco a don Abbondio Il resto era cenere e carboni; e con que’ carboni stessi, i guastatori, per ristoro, avevano scarabocchiati i muri di figuracce, ingegnandosi con certe berrettine o con certe cheriche, e con certe larghe facciole, di farne de’ preti, e mettendo studio a farli orribili e ridicoli: intento che, per verità, non poteva andar fallito a tali artisti.

– Ah porci! – esclamò Perpetua. – Ah baroni! – esclamò don Abbondio; e, come scappando, andaron fuori, per un altr’uscio che metteva nell’orto. Respirarono; andaron diviato al fico; ma già prima d’arrivarci, videro la terra smossa, e misero un grido tutt’e due insieme; arrivati, trovarono effettivamente, in vece del morto, la buca aperta. Qui nacquero de’ guai: don Abbondio cominciò a prendersela con Perpetua, che non avesse nascosto bene: pensate se questa rimase zitta: dopo ch’ebbero ben gridato, tutt’e due col braccio teso, e con l’indice appuntato verso la buca, se ne tornarono insieme, brontolando. E fate conto che per tutto trovarono a un di presso la medesima cosa. Penarono non so quanto, a far ripulire e smorbare la casa, tanto più che, in que’ giorni, era difficile trovar aiuto; e non so quanto dovettero stare come accampati, accomodandosi alla meglio, o alla peggio, e rifacendo a poco a poco usci, mobili, utensili, con danari prestati da Agnese.

Nota

Questo brano de I Promessi Sposi (1827) di Alessandro Manzoni è tratto dal capitolo XXX dove si

racconta di Agnese, Don Abbondio e Perpetua che si sono incamminati alla volta del castello dell’Innominato. I tre si uniscono a altri viaggiatori bisognosi di protezione. Giunti nei pressi della destinazione incontrano un posto d’armi sia all’entrata della valle sia all’osteria della Malanotte. Qui l’Innominato, riconosciuto il curato, li accoglie festosamente e chiede loro notizie di Lucia. Nei successivi ventitré o ventiquattro giorni l’uomo provvede, anche personalmente, a difendere la vallata. Nel frattempo, Agnese e Perpetua aiutano nelle faccende. L’unico a rimanere immobile, bloccato dalla paura, è Don Abbondio che non lascia mai il castello. Arriva infine la notizia che i reggimenti si stanno dirigendo verso Mantova. L’ultimo a passare è quello di Galasso. Rassicurate le persone iniziano a tornare verso le proprie abitazioni. Per volere del parroco, ancora terrorizzato, i tre sono gli ultimi a lasciare il castello. L’Innominato cede loro una carrozza e fa trovare a Agnese un corredo di biancheria e qualche scudo. Dopo una tappa dal sarto, il gruppetto giunge a destinazione dove una brutta sorpresa attende Perpetua e Don Abbondio: la casa è stata imbrattata, sporca, e tutti i loro beni sono stati portati via. Persino il gruzzolo nascosto nell’orto non c’è più. Il capitolo si conclude con l’ennesima discussione tra i due. Il titolo è redazionale.

la redazione

R I TAGLI ANTOLOGICI

A r temidoro

Gli escrementi e il letame

Gli escrementi

Lo sterco di bue giova soltanto ai contadini, e lo stesso vale per quello di cavallo e di ogni altro animale, tranne che dell’uomo; agli altri annuncia afflizione e danni, e quando insudicia, pronostica pure una malattia. Solo a chi esercita mestieri sudici è vantaggioso, e si è osservato che riesce di giovamento. Se si sogna sterco umano in grande quantità, ciò annuncia molti mali diversi. Le cose stanno così: se si vede lo sterco in una piazza, in un mercato o in qualsiasi altro luogo pubblico, ciò vieta l’uso di questi luoghi e sovente impedisce anche di uscire di casa, tanto che talvolta chi trascurò quest’avvertimento ha attirato seri guai sul proprio capo.

Può riuscire dannoso anche venire imbrattati di sterco umano, che scorre giù da qualche parte; ma so di uno il quale sognò che un ricco compagno e conoscente, a cui era legato da amicizia, gli evacuasse sulla testa: e ottenne le sostanze dell’amico, diventandone l’erede. Di converso, un altro sognò di venire imbrattato da un suo conoscente povero: egli soffrì gravi danni a opera di costui, e fu trascinato in un grande disonore. Era infatti naturale che il ricco trasmettesse i suoi beni a chi aveva fatto il sogno; e che il povero, il quale non aveva nulla da lasciare, coprisse di disprezzo il sognante e lo trascinasse nella vergogna. Se poi uno sogna di imbrattarsi le gambe, sarà causa a se stesso di grossi guai e inoltre si ammalerà. È cattivo segno anche defecare nel letto: ciò preannuncia una lunga malattia, perché defecano in letto le persone che non possono alzarsi e quelle che sono agli estremi; e spesso questo sogno divide anche dalla moglie e dall’amante, per il fatto che insudicia il letto. Evacuare nella casa dove si vive indica che non si abiterà più quella casa: infatti non si rimane nei luoghi insudiciati. Ma la cosa più pericolosa e temibile di tutte è evacuare nel tempio di un dio oppure in piazza, nel mercato o nel bagno; ciò preannuncia l’ira degli dèi, una grave sconvenienza e una perdita di non poco conto, inoltre scopre le cose nascoste, e spesso anche attira odio su chi ha fatto il sogno.

Evacuare seduto sul cesso oppure su una seggetta ben salda e vuotarsi di molti escrementi è buon segno per tutti: indica che ci si alleggerirà di molti pensieri e di ogni afflizione, poiché il corpo dopo l’evacuazione si sente più leggero. Un tale sogno è anche propizio ai viaggi e al ritorno di chi è in viaggio, a causa del nome: infatti si definisce appunto nello stesso modo. Io ho osservato anche che l’evacuare sulla spiaggia e lungo una strada, nei campi, in un fiume e in uno stagno è vantaggioso e ha il medesimo significato che defecare nel cesso; e questo è un esito naturale e secondo ragione: infatti tali luoghi non subiscono danno da chi vi evacua, e gli offrono la possibilità di liberarsi senza vergogna.

Dopo questa sezione conviene trattare dei fiumi, delle fonti, degli stagni e dei pozzi.

Il letame

Raccogliere letame è buon segno per coloro che traggono sostentamento dalla folla e per chi esercita lavori sudici: infatti il letame è composto di escrementi diversi e viene prodotto da molti. È propizio anche per coloro che sono stipendiati o assoldati dallo stato. Per un povero è buon segno pure dormire sul letame: acquisterà molte ricchezze, e vivrà circondato da esse. A un ricco il sogno procura una carica o un onore pubblici, poiché tutti i cittadini contribuiscono a formare il letame e vi danno il loro apporto, allo stesso modo che offrono contributi e doni a chi occupa una carica Essere cosparsi di sterco da un conoscente non è buon segno, poiché indica inimicizia, dissenso e

un’offesa da parte di questa persona; e gettare a propria volta sterco su un altro preannuncia un grave danno.

Nota

Nessun generale dell’antichità avrebbe osato attaccare battaglia senza prima consultare gli auspici, come pure tutti gli altri membri della società, dal più nobile e potente alla più misera e disperata vecchina ricorrevano alla mantica. La previsione del futuro, nelle sue innumerevoli forme, è un tratto preminente del mondo antico.

Il trattato sull’interpretazione dei sogni di Artemidoro di Daldi, indovino nato a Efeso nel II secolo d.C., è uno dei pochissimi esemplari sopravvissuti dedicato all’interpretazione dei sogni, cui guardò lo stesso Freud

I due brani sono tratti da Artemidoro, Il libro dei sogni, a cura di Dario Del Corno, Adelphi, Milano 1975, pp. 124-125 e p. 197.

Si ringrazia l’editore Adelphi per l’autorizzazione concessa.

la redazione

A n onimo francese

Audigier. Il cavaliere sul letamaio

XI

Quando nacque Audigier furon tutti contenti. La donna ha partorito accanto ad un porcile dove troie e maiali eran giaciuti, per il caldo del fimo che aveva sentito

C’era la sua comare, la sora Culù; tutta l’alta nobiltà c’è venuta, Auberee, Coquelorde ed Ermentrù: vecchi stracci hanno indossato i meglio vestiti. Avevan preso un nibbio col vischio, e di quello la sera furono ben pasciuti. Ebbero assai da bere, perché era piovuto e il rigagnolo scorreva proprio davanti a casa.

XII

Quando nacque Audigier ci fu grande esultanza. Una tal carestia montò per quella landa, che usignolo o altro uccello più non ci cantava: là c’era solo un’asina che ragliava e una vecchia cagna che latrava, mentre una gatta guercia di fame miagolava. Culuzza, Coquelorde ed Ermengot furon le tre madrine: non ce ne fu più. Portarono il bambino a prete Miserando che davanti alla chiesa si spidocchiava e con la mano destra il culo si grattava. Subito balza in piedi non appena li vede.

XIII

Il prete è entrato in chiesa; ha indossato il camice più bello, che assomigliava tanto a una rete da pesca: non c’era rimasto un pezzetto d’intero. Bianco era tornato dal lavandaio come i fruciàndoli d’un fornaio. Le madrine lo videro troppo cincischiare e non gli chiesero di leggere il salterio.

C’era lì un pozzo nero, sotto uno scolo, dove donna Rainberge soleva pisciare: qui per tre volte tuffano il neonato. In una pelle di cane lo mettono a nanna

che poc’anzi suo padre aveva ammazzato perché non riusciva più ad abbaiare. Poi se ne van le madrine senza indugiare.

XIV

Il piccolo Audigier fu ben allevato.

Tre volte al dì gli fanno il bagno in un catino ch’è tutto puzzolente di piscio. Gli preparano un brodetto d’uova covate; dopo gli dettero cipolle marce perché avesse più sano il petto, ma lui non vuol mangiarle se non sono fritte in buona sugna caprina o pecorina. Aveva testa grossa, occhi piccini; non erano più grandi di quelli d’un sorcio «Signori, – dice Rainberge – ecco mio figlio: vincerà certo tante battaglie, perché ha il cuore più grosso d’un topo».

XV

Signori, ora ascoltate da tutte le parti

D’un cavalier dirò ch’ebbe nome Tirart e tanto amò Rainberge (non è un gabbo) che la prese per moglie, non ne dubitate. Due figli n’ebbe la dama, fieri e gagliardi: uno ebbe nome Raier, l’altro Avisart; il terzo era Audigier, il men codardo, ch’era di Turgibus, il buon vassallo.

XVI

Signori, ora ascoltate tutti senza far chiasso. Vi dirò d’Avisart e di Raier che il fratello Audigier fan cavaliere. Condussero il ragazzo sopra un letamaio; gli portano le armi in un paniere. Gli han messo indosso usbergo lustro e leggero: quindici soldi era costato l’altrieri Al capo gli allacciarono un elmo d’acciaio che tre anni era rimasto in pegno per un denaro. A cingergli la spada fu Tirart, che molto l’ebbe caro: valvassor peggio di lui non può desiderare. Gli assesta sul collo la palmata che su un ginocchio lo fa piegare.

Gli recano sul posto il suo buon destriero, quell’Audigon che tanto egli ebbe caro: Audigier lo montò salendo sulla staffa.

Quando Audigier montò, ci fu gran festa. Tre colpi di sprone dà al cavallo; al quarto s’arresta. Aveva il collo gracile, grossa la testa e la groppa più aguzza d’una resta. «Perdio! – disse Audigier – che bella bestia! Non ci monterò mai se non di festa o per salvarmi, in mortal guerra, la testa; ché non si vide mai sì bella bestia».

Sul suo destriero stava Audigier armato. Intorno a lui c’era gente, più d’un migliaio. Cominciano le danze sopra un letamaio. Vi avreste visto tanti barrocciai, parecchie vecchie orrende, tanti carbonai. Ma c’era una vecchia di grande potere (Grinberge de Valgrifier era il suo nome) brutta, vecchia e schifosa più del demonio. Molto la infastidì la gioia del cavaliere, e per svergognarlo e farlo arrabbiare s’alzò la sottana senza esitare: proprio in mezzo alle danze andò a cacare. Audigier se la prese molto a male; giurò a Domineddio, ch’è vero e giusto, che se vivrà fino a poter falciare i prati andrà dalla vecchia a fracassarle l’uscio; e se riuscirà a trovare il gallinaio, con tutte le uova se la filerà.

Certo la vecchia ha agito molto audacemente a cacar fra le danze, sotto gli occhi della gente. Audigier la minaccia, e pure i suoi parenti, e giura a Dio Signore onnipotente che gliela pagherà entro poco tempo Subito domandò chi fosse quella. Un servitore gli disse piano, timorosamente: «Signore, il suo nome è Grinberge, non vi mento; è una vecchia molto malvagia e maldicente. Non la minacciate con troppa insistenza, ché se lei grida aiuto, immantinente ne verran qui, di vecchie, più di cento.

Credo che la più giovane d’anni n’abbia almeno cento, e non c’è una fra loro ch’abbia in bocca un dente.

XVII
XVIII
XIX

Non vi proteggerebbe tutto il vostro armamento». Quando Audigier l’udì, più non attende: se n’è andato di lì rapidamente.

Nota

Audigier è un poema anonimo del XII secolo tramandato da un unico manoscritto del secolo successivo: più precisamente si tratta di una chanson de geste, di un testo che appartiene a quel gruppo di poemi epici medievali scritti in lingua d’oïl che celebrano le avventure di paladini e cavalieri, la loro genealogia, a volte la loro morte, come nella famosa Chanson de Roland (1070). Nel caso di Audigier, però, i clichés della chanson de geste sono ribaltati in chiave parodica e tutto il poema, come scrive Lucia Lazzerini, curatrice del testo critico e traduttrice dell’opera, si presenta come «una gigantesca palude stercoraria» nella quale i simboli e i rituali della chanson de geste tradizionale si sciolgono in situazioni comiche, paradossali e, potremmo aggiungere, poco profumate

La selezione di strofe che pubblichiamo (tratta da Audigier. Il cavaliere sul letamaio, a cura di Lucia Lazzerini, Carocci, Roma 2003, pp. 121-129) racconta nascita, battesimo, infanzia, ordinazione a cavaliere dell’eroe e, in ultimo, l’incontro con la sua nemesi, la vecchia Grinberge; il tutto nel segno della più disgustosa sporcizia.

Si ringrazia l’editore Carocci per l’autorizzazione concessa.

la redazione

Sudicioni

2546 (Car[atteri] R. U.) G. B. Savon – visse sempre facendo lo stoccatore. Per un caffè e latte portava a casa in spalla i mecenati. Una notte ne portò 19. Improvvisava versi a rime obbligate ecc. Quando vedeva qualcuno sp. se giovane sedersi a un tavolino del Martini, gli si sedeva appresso, dicendo «no avreste qualche… cosetta per il vecchio patriota Savon?» – Il suo patriottismo consisteva in ciò, che a Roma, durante l’assedio egli avea, secondo lui, spento la più parte delle bombe francesi, pisciandovi sopra Un dì gli avventori del caffè, fecero una colletta in suo favore e gli comprarono un soprabito de’ più lunghi: ma il dì dopo egli ricomparve col soprabito tagliato. Perché? gli si chiese – Rispose: jeri el s’ha tuto infangà e mi che so un omo pulito gh’ho tagià via lo sporco – Altro scroccone di pranzi era il conte Pompeo Belgiojoso, benché molto ricco – Egli fu amico di Giulay, per amore del cuoco. A Merate, nella sua casa, avea fatto acconciare una sala della Torre a sala da pranzo; e però la torre, siccome non vi si mangiava mai, era chiamata dagli altri scrocconi «la torre del Conte Ugolino». Il Conte Pompeo concedeva peraltro liberalmente la sua casa agli amici e ai parenti che vi volevano fare vacanza, ma non mancava di alloggiarvisi insieme, stoccando loro dei pranzi, tanto, diceva, per tener loro compagnia.

2674. (R. U.) 1° Un sudicione. C. andava a letto con gli stivali. Faceva il suo bisogno nella carta, poi gettava l’odioso pacchetto in un cassetto del canterano Alla sua morte fattogli l’inventario, gli si trovò un solo bottone I suoi abiti stavano riuniti da pezzi di spago – 2° L’inquieto Le sue mani non ponno mai stare ferme. Si siede su’na poltrona: ne strappa la imbottitura. Si avvicina a una tenda, a un cuscino: via i fiocchi. Disfa le corde attorcigliate: stacca i bottoni dagli altri soprabiti, dalle tasche delle carrozze ecc., sciupa le carte, anche di valore; sfila i fazzoletti ecc. ecc. – 3° La compagnia B. il cui unico scopo è il mangiare. Ogni loro spasso va a finire in letame. Cit. il Convito di Platone ecc. Il S r G pare che non abbia preso il disegno se non per mettere tutti, amici e nemici, in caricatura. Ciò esige un fondo di cattiveria –

3631 a). R. U. I sudicioni. Silvia C. teneva i suoi vestiti di velluto in uno stanzone appesi a una corda, tutti infangati, finchè venisse il tempo di metterli in casse e mandarli in campagna dove, una volta all’anno, la fattora si incaricava di pulirli. – Il Sig. C. dormiva con su gli stivali – Due insigni sudicioni furono l’Artom e il Savon – <Era chiamato Savon e non l’adoperava mai.> Gli scienziati in generale lo sono, forse per lo stretto rapporto tra la scienza e il sapere.

3817. Tale, richiesto del pagamento del fitto, rispose picchiando il padrone di casa e insieme dicendo che quello era un acconto. Il padrone lo citò dal pretore. Il percotitore non solo ammise il fatto ma sostenne di avere avuta ragione nel picchiarlo, anzi di aver d[iritt]o a un compenso per la fatica durata «asca el pericol de ciappai su, o de slogam ona man» – Il Marchese del Grillo, celebre porco, noleggiò per qualche giorno il «Mondo Nuovo» che era allora una novità per Milano, e vi fece dentro una colossale cacata, dicendo «l’è tanto temp che la foo in del vecc, che l’era vora de provà a falla in del noeuv». –

4824. Agostino Depretis, più volte ministro, quando si maritò con la vedovella Grassi, erano, per così dire, anni che non si lavava. A forza di tirar tabacco e di non nettarsi mai il naso, si era formato una corteccia sul labbro superiore che pareva un pajo di baffi Prima cura della moglie fu di lavarlo

e pulirlo: la crosta fu raschiata via, ma dall’esservi rimasta sì a lungo lasciò sul labbro un segno incancellabilmente rosso che rende aspetto di una piaga.

Nota

Le Note azzurre, diario contenuto in sedici cartelle azzurro oltremare che Carlo Dossi (1849-1910), esponente di punta dell’avanguardia scapigliata, tenne tra il 1870 circa e il 1907, sono uno zibaldone di osservazioni e commenti di varia natura, in cui si alternano giudizi letterari e politici spregiudicati, spunti di novelle e romanzi mai scritti, aforismi esemplari, sarcasmi violenti e fantasiose ironie.

Dossi compilò un indice analitico degli argomenti trattati nelle Note azzurre, in esso troviamo la voce «sudicioni (V. sporcizia etc.)» che rimanda alle note che qui si pubblicano Alla voce «sporcizia (V. sudicioni)» sono indicate le note 1371 e 3357, non presenti nell’edizione Carlo Dossi, Note azzurre, a cura di Dante Isella, con un saggio di Niccolò Reverdini, Adelphi, Milano 1964, I edizione GLI ADELPHI ottobre 2010.

la redazione

Pierino Porcospino

Oh, che schifo quel bambino!

È Pierino il Porcospino.

Egli ha l’unghie smisurate

Che non furon mai tagliate; I capelli sulla testa

Gli han formata una foresta

Densa, sporca, puzzolente.

Dice a lui tutta la gente:

«Oh, che schifo quel bambino!

È Pierino il Porcospino».

Fonte: Heinrich Hoffmann, Pierino Porcospino, traduzione di Gaetano Negri, Hoepli, Milano 1882.

H n oré de Balzac

Della «toilette» in ogni sua parte

Dobbiamo a un giovane scrittore, (1) il cui spirito filosofico ha dato risvolti gravi alle questioni più frivole della Moda, un pensiero che trasformeremo in assioma: XL

La toilette è espressione della società.

Questa massima riassume ogni nostra dottrina, e la contiene virtualmente; tanto che non può essere detto nulla che non sia uno sviluppo più o meno felice di questo saggio aforisma.

L’erudito o l’uomo elegante che volesse ricostruire, per ogni epoca, l’abbigliamento di un popolo, ne farebbe così la storia più pittoresca e più nazionalmente vera. Spiegare la lunga capigliatura dei Franchi, la tonsura dei monaci, i capelli rasati del servo, le parrucche di Popocambou, (2) la cipria aristocratica e i capelli alla Tito (3) del 1790, non sarebbe come raccontare le principali rivoluzioni del nostro paese? Domandare l’origine delle scarpe alla polacca, delle scarselle, (4) dei bàtali, (5) della coccarda, dei panieri, dei verdugali, (6) dei guanti, delle maschere, dei velluti, è come trascinare un modo-logo nello spaventoso dedalo delle leggi suntuarie, e su tutti i campi di battaglia dove la civiltà ha trionfato sui costumi grossolani importati in Europa dalla barbarie del Medioevo. Se la Chiesa scomunicò prima i preti che misero i calzoni corti e poi quelli che li sostituirono con i pantaloni lunghi; se la parrucca dei canonici di Beauvais occupò in altri tempi il Parlamento di Parigi per un mezzo secolo, (7) è che queste cose, apparentemente futili, rappresentavano idee o interessi. Che si tratti del piede, del busto o del capo, vedrete sempre un progresso sociale, un sistema retrogrado o qualche lotta accanita formularsi con l’aiuto di una parte qualsiasi dell’abbigliamento. Ora è la scarpa che annuncia un privilegio; ora il cappuccio, il berretto o il cappello segnalano una rivoluzione; qui un ricamo o una sciarpa, là dei nastri o qualche ornamento di paglia esprimono un partito; e allora appartenete ai Crociati, ai Protestanti, ai Guisa, alla Lega, al Bearnese (8) o alla Fronda.

Portate un berretto verde?... Siete un uomo senza onore. (9)

Portate una ruota gialla sulla sopravveste, come una decorazione? Andatevene, paria della cristianità!... Ebreo, ritorna nella tua topaia all’ora del coprifuoco, o sarai punito con una multa. Ah, ragazza, porti anelli d’oro, collane meravigliose, e orecchini che brillano come i tuoi occhi di fuoco?... Fa’ attenzione! Se la guardia municipale ti scorge, ti prenderà e sarai messa in prigione (10) per essere scivolata così in giro per la città, correndo, come un’invasata, attraverso le strade dove fai brillare gli occhi dei vecchi e ne svuoti le tasche!

Avete le mani bianche?... Sarete sgozzati al grido di: «Viva Jacques Bonhomme, morte ai signori! » (11)

Portate una croce di Sant’Andrea? .. Entrate tranquillamente a Parigi: vi regna Giovanni senza Paura. (12)

Portate la coccarda tricolore? Fuggite!... Marsiglia vi ucciderebbe; perché gli ultimi cannoni di Waterloo ci hanno sputato morte e vecchi Borboni. (13)

Perché mai la toilette sarebbe dunque sempre il più eloquente degli stili, se non fosse davvero tutto l’uomo, l’uomo con le sue opinioni politiche, l’uomo con il testo della sua esistenza, l’uomo geroglifizzato? E oggi anche la vestignomica è divenuta quasi una branca della disciplina creata da Gall e Lavater. (14) Benché ora siamo più o meno tutti vestiti nello stesso modo, è facile per l’osservatore ritrovare, in una folla, in un’assemblea, a teatro, al passeggio, l’uomo del Marais, del faubourg Saint-Gerrnain, del Quartiere Latino, della Chaussée d’Antin, il proletario e il proprietario,

il consumatore e il produttore, l’avvocato e il militare, l’uomo che parla e l’uomo che agisce. Gli intendenti del nostro esercito non riconoscono le uniformi dei reggimenti con maggior prontezza del fisiologo che distingue le livree imposte all’uomo dal lusso, dal lavoro o dalla miseria.

Prendete un attaccapanni, appendeteci degli abiti!... Bene. Per poco che abbiate passeggiato non proprio come uno sciocco che non sa vedere niente, indovinerete il burocrate da quelle maniche lise, da quella larga riga impressa orizzontalmente alla schiena dalla sedia sulla quale si appoggia così spesso, per fiutare una presa di tabacco o per riposarsi delle fatiche della pigrizia. Riconoscerete l’uomo d’affari per il rigonfiamento della sua tasca da agende; lo sfaccendato per la dislocazione dei taschini dove mette spesso le mani; il negoziante per la straordinaria apertura delle tasche, sempre a bocca aperta, come per lamentarsi di esser private dei loro abituali pacchetti. Insomma, un colletto più o meno pulito, incipriato, impomatato, consunto, asole più o meno fruste, una baschina che pende, la durezza di un bougran nuovo, (15) offrono diagnosi infallibili sulle professioni, i costumi, le abitudini. Ecco l’abito fresco del dandy, il panno di Elbeuf del proprietario, la redingote corta del sensale abusivo, il frac a bottoni d’oro sabbiato di un lionese all’antica o il lurido spencer (16) di un avaro!...

Brummell aveva quindi ragione a fare della toilette il punto culminante della Vita Elegante; perché è la toilette che domina le opinioni, le determina, regna!... È forse una disgrazia, ma così va il mondo. Laddove ci sono molti sciocchi, le sciocchezze si perpetuano; e, certo, si deve riconoscere che il seguente pensiero è un assioma:

XLI

L’incuria nella toilette è un suicidio morale.

Ma se la toilette è l’uomo, a maggior ragione la toilette è la donna. La minima scorrettezza in un vestito può far relegare una duchessa sconosciuta negli ultimi ranghi della società.

Meditando sull’insieme delle gravi questioni che formano la scienza dell’abbigliamento, siamo stati colpiti dal valore generale di certi princìpi che dominano in qualche modo tutti i paesi, e tanto la toilette degli uomini quanto quella delle donne; poi abbiamo pensato che fosse necessario, per fissare le leggi dell’abbigliamento, seguire lo stesso ordine nel quale ci vestiamo; e allora certi fatti vengono a dominare l’insieme; perché, come l’uomo si veste prima di parlare e di agire, così si fa il bagno prima di vestirsi. Le distinzioni all’interno di questo capitolo risultano quindi da osservazioni scrupolose, che hanno così dettato la partizione della materia vestimentaria:

I. Princìpi ecumenici della toilette

2. Della pulizia nei suoi rapporti con la toilette.

3. Della toilette maschile.

4. Della toilette femminile

5. Delle variazioni nell’abbigliamento e riassunto del capitolo.

I. Princìpi ecumenici della toilette

Le persone che si vestono come il manovale, che indossa quotidianamente e con noncuranza lo stesso involucro, sempre lurido e puzzolente, sono numerose quanto quegli ingenui che vanno nel bel mondo e non ci vedono nulla, muoiono senza esser vissuti, senza conoscere né il valore di un piatto né il potere delle donne, e non pronunciano né una buona battuta, né una sciocchezza; ma, mio Dio, perdona loro, perché non sanno quello che fanno

Se si tratta di convertirli all’eleganza, potranno mai capire questi assiomi che stanno a fondamento di ogni nostra conoscenza?

Il bruto si copre, il ricco o lo scemo si addobbano, l’uomo elegante si veste.

XLIII

La toilette è, contemporaneamente, scienza, arte, abitudine, sentimento.

Infatti, qual è la donna di quarant’anni che non riconoscerà una scienza profonda nella toilette? Dovrete ammettere che non potrebbe esserci grazia nel vestito se non foste abituati a portarlo. C’è forse qualcosa di più ridicolo di una sartina in abito da corte? E quanto al senso della toilette!... Quante ne potreste contare, nel mondo intero, di bigotte, di donne e di uomini ai quali sono prodigati l’oro, le stoffe, le sete, le creazioni più mirabili del lusso, e che se ne servono per darsi un’aria da idoli giapponesi! Ne deriva un aforisma egualmente vero, che persino le civette emerite e i professori di seduzione devono sempre meditare:

XLIV

La toilette non consiste tanto nel vestito quanto in una certa maniera di portarlo

Infatti non sono i nostri stracci in sé e per sé, quanto lo spirito dello straccio che bisogna afferrare. Ci sono nelle province sperdute, e persino a Parigi, non poche persone capaci di commettere, in materia di nuove mode, l’errore di quella duchessa spagnola che, ricevendo un prezioso vaso di forma sconosciuta, credette, dopo lunga meditazione, d’intuire che la sua forma lo destinasse a comparire in tavola, e vi offerse agli sguardi dei suoi convitati uno stufato ai tartufi, non associando idee di pulizia alla porcellana dorata di quell’indispensabile oggetto.

Oggi i nostri costumi hanno talmente modificato l’abito che non c’è più abito in senso stretto Tutte le famiglie europee hanno adottato il panno, perché i gran signori come il popolo hanno istintivamente compreso questa grande verità: è molto meglio portare panno fine e possedere cavalli, piuttosto che seminare su un vestito le pietre preziose del Medioevo e della monarchia assoluta. Allora, ridotta alla toilette, l’eleganza viene a consistere in un’estrema ricercatezza nei particolari dell’abbigliamento: non è tanto la semplicità del lusso, quanto il lusso della semplicità. Certo, c’è anche un’altra eleganza... Ma non è nient’altro che una toilette vanitosa. Spinge certe donne a indossare stoffe bizzarre per farsi notare, a usare spille di diamanti per fermare un nodo, a mettere una fibbia brillante nel fiocco di un nastro, proprio come certi martiri della moda, gente da cento luigi di rendita, che abitano in una mansarda e vogliono vestirsi all’ultimo grido, portano gioielli alle camicie la mattina, chiudono i pantaloni con bottoni d’oro, attaccano i loro fastosi monocoli a catene, e vanno a cena da Tabar! .. Quanti di questi Tantali parigini ignorano, volontariamente forse, questo assioma:

La toilette non deve mai essere un lusso.

Molte persone, anche tra quelle cui abbiamo riconosciuto una certa distinzione nelle idee, nonché istruzione e sentimenti superiori, difficilmente sanno vedere il punto d’intersezione che separa la toilette per uscire a piedi da quella per uscire in carrozza!

XLV

Che piacere ineffabile per l’osservatore e per il conoscitore, incontrare nelle vie di Parigi, sui boulevards, quelle donne di genio che, dopo aver impresso nello spirito della loro toilette il proprio nome, rango e fortuna, non paiono nulla a occhi volgari e sono tutte poesia per gli artisti, per gli uomini di mondo occupati a bighellonare. È un accordo perfetto tra il colore del vestito e i disegni, è una finitezza negli ornamenti che rivela la mano industriosa di un’abile cameriera. Queste grandi potenze della femminilità sanno conformarsi meravigliosamente all’umile ruolo del pedone, proprio perché hanno tante volte sperimentato le arditezze autorizzate dalla carrozza; soltanto le persone abituate al lusso della carrozza sanno vestirsi per andare a piedi.

È a una di queste sconvolgenti dee parigine che dobbiamo le due formule seguenti:

XLVI

La carrozza è un passaporto per tutto ciò che una donna vuole osare

XLVII

Il pedone deve sempre lottare contro un pregiudizio.

Ne consegue che il seguente assioma deve, prima di ogni altro, regolare le toilettes dei prosaici pedoni:

XLVIII

Tutto ciò che mira all’effetto è di cattivo gusto, come tutto ciò che è chiassoso.

Brummell ha, d’altronde, lasciato la migliore massima su questa materia, e l’assenso dell’Inghilterra l’ha consacrata:

XLIX

Se il popolo vi guarda con attenzione vuol dire che non siete ben vestito, o che siete troppo ben vestito, troppo inamidato, troppo ricercato.

Secondo questa immortale sentenza, il pedone deve passare inosservato. Il suo trionfo è nell’essere contemporaneamente banale e distinto, riconosciuto dai suoi e irriconoscibile per la folla. Murat si fece soprannominare il Re-Franconi: (17) vedete dunque con quale severità il mondo condanna un vanesio? Lo fa cadere al disotto del ridicolo. La troppa ricercatezza è forse un vizio maggiore della mancanza di cura, e l’assioma seguente farà certo fremere le donne pretenziose:

LSuperare la moda è diventare caricatura.

Ora non ci resta che distruggere il più grave di tutti gli errori che una falsa esperienza accredita presso gli animi poco abituati a riflettere e a osservare; ma noi emetteremo dispoticamente e senza commenti il nostro sommo decreto, lasciando alle donne di buon gusto e ai filosofi da salotto il compito di discuterne.

Il vestito è una patina, mette ogni cosa in rilievo, e la toilette è stata inventata molto più per porre in evidenza i pregi del corpo che per nasconderne le imperfezioni.

Da ciò deriva questo naturale corollario:

LII

Tutto ciò che una toilette cerca di nascondere, dissimulare, sottolineare o ingrandire più di quanto la natura e la moda non lo prevedano o lo esigano, è sempre da ritenersi deprecabile.

Così, ogni moda che ha per fine una menzogna è essenzialmente passeggera e di cattivo gusto.

Sulla base di questi princìpi, derivati da una giurisprudenza esatta, basati sull’osservazione, e dovuti al calcolo più severo dell’amor proprio umano o femminile, è chiaro che una donna mal fatta, curva, gobba o zoppa, deve tentare, per cortesia, di diminuire i difetti del suo corpo; ma sarebbe indegna della femminilità se credesse di produrre la minima illusione. Mademoiselle de Lavallière (18) zoppicava con grazia, e più di una donna gobba sa prendersi una rivincita mediante le attrattive dello spirito, o le stupefacenti ricchezze di un cuore appassionato. Non sappiamo quando le donne comprenderanno che un difetto può favorirle immensamente! L’uomo o la donna perfetti sono delle nullità

Termineremo queste riflessioni preliminari, applicabili ad ogni paese, con un assioma che può fare a meno di commenti:

LIII

Uno strappo è una disgrazia, una macchia è un vizio.

Note di Pierfranco Misenti

(1) Il «giovane scrittore» è Hippolyte Auger, collaboratore de «La Mode».

(2) Popocambou-le-Chevelu è il nome del re di Tombouctou, personaggio del romanzo di Nodier, Histoire du roi de Bohême et de ses sept châteaux (1830).

(3) Taglio di capelli lanciato dall’attore François-Joseph Talma (1763-1826), durante una messa in scena della tragedia Brutus di Voltaire.

(4) Borse che si portavano attaccate alla cintura e che contenevano il denaro per le elemosine.

(5) Cappucci guarniti di ermellino, che scendevano sulle spalle con lunghe falde, portati dai Presidenti e dai Cancellieri del Parlamento durante le cerimonie.

(6) I verdugali (termine di origine spagnola) e i panieri erano armature circolari poste sotto le gonne per tenerle gonfie, usate nei secoli XVII e XVIII.

(7) Nel 1685 il Capitolo della cattedrale (e non il Parlamento) richiamò all’ordine un canonico che voleva dire messa in parrucca.

(8) I Guisa, la Lega e il Bearnese (soprannome di Enrico di Navarra) sono nomi collegati alle guerre di religione che sconvolsero la Francia nel secolo XVI. I Guisa erano una potente famiglia aristocratica filocattolica. La Lega era il nome della compagnia armata che faceva capo al loro

partito nella lotta contro gli Ugonotti.

(9) Secondo la legge romana, il debitore che non aveva interamente pagato i suoi creditori, doveva portare un berretto verde. La medesima pena fu applicata anche in Italia e in Francia nel secolo XVI.

(10) Dal XIII al XVII secolo furono emessi parecchi editti che ponevano dei limiti all’esibizione di gioielli e pietre preziose.

(11) Al tempo delle rivolte contadine nel secolo XIV.

(12) La croce di Sant’Andrea e un cappello verde erano il segno di riconoscimento dei Borgognoni al tempo della lotta contro gli Armagnacchi. Giovanni Senza Paura, duca di Borgogna, si impadronì di Parigi nel 1411.

(13) Nel 1815 a Marsiglia i legittimisti scatenarono un’ondata di persecuzioni.

(14) Johann Kaspar Lavater (1741-1801), teologo, poeta e predicatore svizzero, considerato il fondatore della fisiognomica. La sua opera più celebre è costituita dai Frammenti fisiognomici per l’avviamento alla conoscenza del cuore umano e all’amore per gli uomini (1774-78; trad. it. parziale di Matilde de Pasquale, Theoria, Roma 1989) subito tradotta anche in Francia. Suggestionato dall’idea religiosa e filosofica dell’armonica unità del tutto, riteneva che vi fosse un’unica radice occulta degli aspetti fisici e psichici e che fosse quindi possibile scoprire il carattere in base ai tratti del viso. Franz Joseph Gall (1758-1828), medico tedesco, studioso di anatomia e fisiologia cerebrale, conferì una base sperimentale alla fisiognomica fondando la frenologia, per la quale le funzioni psicologiche sono localizzate nella corteccia cerebrale, determinando la forma della scatola cranica.

(15) Tela spessa e gommata, utilizzata come rinforzo interno, specialmente per i colli degli abiti. (16) Giacca molto corta, tipica della moda Impero.

(17) Antonio Franconi (1738-1836), fondatore del Cirque Olympique e provetto cavallerizzo, ebbe un grande successo sotto l’Impero. A dare quel soprannome a Murat fu lo stesso Napoleone, che voleva così rendere omaggio alla sua abilità nel cavalcare, ma anche deridere la sua passione per i pennacchi e le uniformi sgargianti.

(18) Françoise-Louise de La Baume Le Blanc, duchessa di La Vallière (1644-1710) divenne a sedici anni l’amante di Luigi XIV. Quando questi la lasciò per Madame de Montespan, si ritirò in un convento di carmelitane.

Fonte: Honoré de Balzac, Patologia della vita sociale, introduzione di Mariolina Bongiovanni Bertini, traduzione di Paolo Tortonese e Pierfranco Misenti, le note sono tutte di Pierfranco Misenti, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 49-56.

G i useppe Vaccarino

Lo sporco

Il protagonista de Lo sporco, romanzo del filosofo Giuseppe Vaccarino (1919-2016), uscito nel 1977 presso Marsilio e poi ristampato nel 2010 con il titolo Lo sporco. Il pulito, presso la casa editrice :duepunti di Palermo, è alla ricerca di una dissertazione di un misterioso autore, un certo Archistein, di cui ritrova a Leningrado una pagina manoscritta, sbiadita, che riporta in calce poche righe che avvertono che la dissertazione è stata affidata dall’autore a un ufficiale dell’armata Suvorov nel suo passaggio da Basilea.

Recatosi a Basilea, il protagonista va immediatamente all’Università, la cui biblioteca contiene oltre un milione di volumi, nonché una ricca messe di manoscritti. Successivamente visita l’archivio della polizia dove consulta un incartamento del 1805 che contiene denunce presentate da un Comitato per la difesa della virtù a carico di cittadini sospetti.

Fra queste denunce, c’è l’atto di accusa contro Archistein:

«Il Comitato per la difesa della virtù esterna alla gendarmeria della città l’opinione che il dottor Archistein, filosofo e chirurgo, approfitti della notorietà di cui gode per esporre balzane teorie, contrarie alla nostra confessione. In particolare modo questo comitato si fa portavoce del generale malcontento dei cittadini contro il predetto Archistein per avere costui asserito pubblicamente che nessuno ha mai visto e toccato lo sporco, poiché esso si intende solo con la mente. Tale assurda affermazione suona come grave offesa ai patri costumi e alle civili usanze, essendo lo sporco presente, oltre che sui corpi, anche entro le anime irreligiose. Anzi è da supporre che, appunto, a tale specie faccia riferimento il predetto dottore con blasfemici intendimenti. Si raccomanda perciò a codesta gendarmeria di confiscare e dare alle fiamme gli iscritti dell’Archistein, nonché di colpire la sua indegna persona con il rigore della legge»

Una delle frasi chiave della filosofia di questo misterioso Archistein è: «da una piccola cosa acquisterai cognizione dell’intero mondo!».

Secondo il protagonista del romanzo esiste un’ancestrale parentela del pulito con il bianco e tutti i colori affini, come il giallino, il rosato e l’azzurro Il pulito è legato con quanto visivamente si presenta omogeneo, uniforme, simmetrico, con contorni decisi e fatto a regola d’arte. Lo sporco invece sembra essere imparentato con il nero e con la sua figliolanza, tra cui primogenito è il grigiastro, che è un colore sporco perché risulta dalla mescolanza del nero con il bianco, cioè perché caratterizzato da un’intrinseca eterogeneità. Il nero può fare pensare allo sporco soprattutto perché facilmente si stinge o graffia, lasciando apparire chiazze e screpolature, nelle quali si presenta il biancastro.

La Svizzera è dilaniata dalla lotta di due fazioni, che fondano entrambe il loro credo su concezioni erronee o inadeguate dello sporco.

Da parte sua, il protagonista del romanzo fantastica su un discorso che avrebbe voluto fare in piazza:

«Parlo a voi su questa piazza, annunciandovi la buona novella! Apprendete dalla mia bocca la verità; lo sporco non è visibile, non è tangibile, non è in alcun luogo perché non è una cosa fisica. Pertanto voi, uomini giudiziosi, persone di alto senno, potete liberarvi dal suo spettro semplicemente ignorandolo. Smettete di vederlo nei concimi, nelle polveri, nel fango, negli escrementi, nelle macchie ed esso scomparirà. Il signor Riefert commercia in letame nel centro cittadino. Non sarà certo il suo onesto lavoro a introdurre nel vostro paese lo sporco. Il nostro illustre concittadino, il farmacista, ha dedicato la sua vita a complicate e sottili ricerche. Plaudiamo alla sua opera di

scienziato, ma tuttavia non cadiamo nell’errore di identificare con lo sporco quelle macchie che egli toglie con i suoi ingegnosi procedimenti. L’illustre dottore è il coraggioso alfiere della crociata contro malanni e malattie. Plaudiamo alla sua opera, ma l’incubo dello sporco non turbi le sue notti agitate. Io vi parlo da questo podio per affrancarvi da un’antica superstizione, per insegnarvi a distinguere il fisico dal mentale! In confidenza, a quanti di voi partecipando a un pranzo di gala non è capitato di essere insudiciati da uno spruzzo di sugo? Poco male! Chiunque può restare vittima di tale accidente, nonostante la sagacia, l’industria e gli accorgimenti. Confessate che invece avete sussultato, siete sbiancati in viso, guardando la macchia come un acerrimo nemico, sperando che nessuno se ne accorgesse. Facevate i disinvolti, ma avreste voluto sprofondare mille cubiti sotto terra. Infine prevale la paura che la gente finisca per accorgersene. Sbirciate gli amici seduti vicino, pronti a diffondere maligne dicerie; sorridete con apparente padronanza e con un tono di voce artatamente fermo, che copre invece un profondo dramma interiore, chiamate il cameriere. Il cameriere si china discreto con la sua tipica aria di manutengolo, pronto a tutti i servizi richiesti dal suo servile officio. Gli chiedete allora il borotalco, non a voce troppo bassa, per non dare l’impressione ai commensali guatanti che vogliate nascondere un segreto infame, ma neanche troppo forte, per limitare il più possibile l’uditorio. Orbene, sursum corda. Io annuncio a voi su questa piazza che potete fare a meno di siffatti strattagemmi. Lo sporco non si vede e non si tocca, nulla ha a che fare con un innocuo spruzzo di sugo. Lo ha dimostrato un insigne maestro, vissuto in questi luoghi, la cui memoria si sarebbe persa, se io non avessi salvato i suoi scritti».

Se il pulito ha la natura del continuo e lo sporco del discontinuo, allora, indicando con «S» lo sporco, con «r» un suo elemento qualsiasi e con «p» il pulito, risulta:

e quindi

Sullo sporco, sono da approfondire altri aspetti, ad esempio se c’è un preciso criterio che permetta di distinguere quando si attribuisce alle chiazze colorate la funzione di sporcare e quando invece di decorare. Forse nel primo caso interviene l’accidentalità della loro formazione e nel secondo l’origine voluta. Ma come si metterebbero le cose nel caso in cui si versasse artatamente una bottiglia di vino rosso sulla tovaglia?

L’antico manoscritto di Archistein, vissuto circa centocinquanta anni fa, forse si trova nella casa di un contadino, detto il Gallinaio. Forse questo Gallinaio è un antenato di Archistein, e ciò si deduce anche dal fatto che anche il Gallinaio si chiama Archistein. Il romanzo si chiude con un colpo di scena. Il contadino informa il protagonista che, in casa, esiste una cassapanca piena di cartacce, che la madre adoperava per accendere il fuoco. La moglie

del contadino porta il protagonista in un ripostiglio buio, tenendo in mano una candela. Viene aperta una cassapanca, dentro c’è un foglio, un solo foglio, un vecchio foglio ingiallito.

Il protagonista avvicina la candela al foglio e scopre uno scritto di solo due righe, forse l’ultima pagina del manoscritto, redatto nell’inconfondibile calligrafia di Archistein.

La frase dice:

«Dunque, da una piccola cosa acquisterai cognizione dell’intero mondo» la redazione

L

In un testo frammentario scritto in forma di trattato, un poeta latino di età repubblicana ignorato da tutte le storie letterarie, un certo Aulo Porfirio Credenzio, pretende di essere l’inventore della polvere. La definizione che l’autore ne dà all’inizio del suo trattato è assai prolissa, ma facilmente si può riassumere in poche parole: la polvere è quell’insieme di corpuscoli solidi minutissimi che si sollevano nell’aria e vi restano sospesi anche a lungo pur essendo più pesanti dell’aria.

Probabilmente Aulo Porfirio Credenzio si era vantato pubblicamente della sua invenzione perché, prima di addentrarsi nella suddivisione dei diversi tipi di polvere e nella definizione delle rispettive caratteristiche morfologiche e dinamiche, risponde a coloro che gli avevano evidentemente obiettato che non si trattava di una «invenzione» ma della semplice «scoperta» di qualcosa che già esisteva. L’autore sostiene con una certa acrimonia che una cosa non esiste fino a quando nessuno ne abbia denunciato l’esistenza e definito la composizione e le proprietà. Le stesse leggi fisiche, tenute in bilico tra l’invenzione e la scoperta con il comune consenso, riguardano in realtà fenomeni naturali di cui nessuno conosceva l’esistenza ma che certamente si erano manifestati prima che venissero formulate le leggi che li governano. Di questo passo, sostiene ironicamente Aulo Porfirio Credenzio, tutto già esiste e gli scienziati possono mettersi a dormire. Da quanto si può leggere tra le righe del suo trattato, l’autore sembra avere qualche dubbio sulle proprie qualità di poeta e che voglia raccomandarsi alla memoria dei posteri con questo testo bizzarro al quale tenta di attribuire uno statuto scientifico per la verità assai discutibile.

L’autore passa quindi alla descrizione delle polveri nelle loro diverse composizioni. Un lungo capitolo è dedicato a quella che Aulo Porfirio Credenzio ritiene la polvere primaria, vale a dire quella sospensione di corpuscoli semoventi che si vedono nell’aria quando un raggio di sole attraversa una stanza in penombra. Più che una polvere vera e propria si tratta di un pulviscolo impalpabile composto di tutti gli elementi del cosmo, sostiene l’autore, che arriva sulla terra dagli spazi siderali e che, con il passare di tempi quasi infiniti, ha composto le stelle del cielo e il nostro pianeta aggregandosi spontaneamente. Di questo pulviscolo sono dunque composti anche l’uomo, gli animali e le piante, cioè la vita. Infatti è sempre in movimento come se avesse in sé un principio vitale, «vis vitae» dice l’autore. Da questa polvere primaria derivano tutte le polveri secondarie in quanto prodotte dall’universo, il quale a sua volta è composto da questo pulviscolo cosmico. Fra tutte le polveri terrestri la più comune è quella casalinga. È la polvere che si produce spontaneamente sia nelle case disabitate che in quelle abitate. Ogni movimento delle persone e degli animali grandi e piccoli, ogni soffio d’aria, ogni cambiamento di temperatura, solleva nell’aria corpuscoli di sostanza concreta che volano a lungo fino a quando si depositano lentamente sui pavimenti o sui mobili della casa. È una polvere che produce lavoro e occupazione perché una delle principali mansioni dei servitori che lavorano presso una famiglia è proprio quella di spolverare, cioè di asportare con appositi piumini quel leggero strato di sostanze impalpabili depositate ovunque, che rendono opachi anche i marmi più lucenti e che danno una idea di abbandono e di negligenza.

Altra polvere assai comune è quella delle strade di campagna che, all’epoca di Aulo Porfirio Credenzio, non erano certo asfaltate. È una polvere composta soprattutto di terra ridotta allo stato volatile, e fra tutte è l’argilla quella che produce polvere in maggiore quantità. Tutti avranno visto, dice l’autore con slancio poetico e ironico allo stesso tempo, lungo le strade di campagna battute da carri e carrozze, i cespugli e le siepi che le costeggiano ricoprirsi durante la stagione estiva di un sottile manto biancastro che nasconde il verde delle foglie e che nessun servitore potrebbe spolverare con il piumino di casa.

Aulo Porfirio Credenzio passa poi a descrivere altri tipi di polvere, da quella di farina a quella nera della carbonella, da quella che emana dalla paglia e dal fieno a quella primaverile del polline

dei fiori, da quella di pollaio a quella dei cereali raccolti nel granaio. È da supporre, dall’insieme delle polveri elencate, che Aulo Porfirio Credenzio vivesse in campagna, probabilmente in una famiglia di agricoltori e, da certe note di fastidio, che fosse affetto da asma allergica. Sono questi i minimi indizi biografici che si possono ricavare dalla sua opera.

Dell’ultima parte di questo singolare trattato sono rimasti pochi frammenti nei quali l’autore si domanda se il fumo emesso dal fuoco si possa considerare una polvere e se polvere possa essere considerata la nebbia. Ma qui si interrompe il testo attribuito a questo ignoto poeta di cui non ci è pervenuto nemmeno un verso e che con questo trattato non è riuscito a raccomandare ai posteri la sua memoria.

Fonte: Luigi Malerba, Aulo Porfirio. L’inventore della polvere, in Id., Consigli inutili, Quodlibet Compagnia Extra, Macerata 2014, pp. 123-127.

L o uise Rafkin

Polvere e lussuria. Sporco, o porco?

“Sono poche le donne che riescono a tenere una casa a regola d’arte, e il loro successo viene comprato a caro prezzo.”

RALPH WALDO EMERSON

Una volta ho letto un’inchiesta condotta su scala nazionale dalla quale emergeva che, potendo scegliere, le donne preferivano vedere un uomo lavare i piatti piuttosto che ballare nudo. Non esistono statistiche sulle preferenze maschili. La mia indagine personale nel mondo del sesso e delle pulizie domestiche suggerisce che gli uomini preferiscono donne che ballano nude mentre lavano i piatti.

Non è così strano che il business delle pulizie domestiche “esotiche” vi sia perfettamente ignoto se, per cercare qualcuno che vi faccia le pulizie, passate in rassegna i bigliettini appesi nei negozi di alimentari. Tuttavia, un’occhiata alle ultime pagine dei settimanali alternativi vi toglierà ogni dubbio sull’esistenza di tali raffinati servizi domestici. In questo stesso istante, nelle maggiori città d’America, ci sono donne delle pulizie con indosso solo la biancheria intima cautamente piegate sui bordi di vasche da bagno luride, attente a non smagliarsi le calze di nylon o rovesciarsi qualche prodotto sui tacchi a spillo.

Nel mio personale repertorio di esperienze di donna delle pulizie, c’è ben poco che possa essere definito sexy. Una volta ho fatto sesso nella casa di un cliente, ma non era stato l’appartamento ricoperto di chintz a stimolare il mio desiderio.

Fui sorpresa sul lavoro da un nuovo amante e ci lasciammo prendere la mano in preda alla passione. Vicino al letto c’era una cartolina Hallmark incorniciata, sulla quale si leggeva: “Certe Persone È Una Gioia Conoscerle”. Nella fretta trovai il tempo di girarla contro la parete. Ero preoccupata per la macchia umida a forma di mezzaluna che avevo lasciato sul copriletto di poliestere rosa Prima di andarmene, spruzzai in giro un po’ di lacca, la cosa più vicina a un deodorante per la casa che avevo a portata di mano, e rimisi la cartolina nella posizione originaria.

Perché non avevamo fatto sesso in una di quelle case da un milione di dollari? Perché ci andavamo a mangiare, dopo. Sushi, tramonto e cristalleria Steuben

Così come una cameriera può essere interessata a vedere cosa fa una hostess al club delle Conigliette di Playboy, io mi sono data da fare per indagare quello che speravo fosse l’affascinante mondo delle pulizie domestiche al naturale.

A San Francisco telefonai a un numero riportato sotto “Damigella di Casa”. Chi aveva scritto l’annuncio prometteva che avrebbe “fatto il LAVORO SPORCO, nuda o in lingerie”. Tuttavia, quel numero rimandava a un altro, e finalmente, quando arrivai alla damigella, m’informò che ormai aveva imboccato un altro percorso lavorativo. Non aveva nessuna intenzione di fare due chiacchiere sulla sua vecchia vita, disse in un tono che non lasciava spazio al dubbio. In sottofondo si sentì un bimbo strillare: “Mammaaa!” e la comunicazione cadde, interrotta

Una chiamata a “Si Lustra, Si Sbiotta!” si rivelò più amichevole. In realtà, Trina, che si stava apprestando a rilevare il vecchio business dal suo attuale proprietario, era un po’ troppo disponibile a parlare con me. Ex ballerina in topless, la sua abilità nel tenere a bada gli uomini difficili, clienti e gestori, nei locali di spogliarello, l’aveva portata a lavorare come domestica esotica. Estremamente colta e sicura di sé, Trina aveva cominciato a ballare quando aveva quattordici anni e, mi prese un coccolone, ne aveva solo diciannove. Si descrisse come una ragazza alta e magra con i capelli corti

castani. Confessò: “Ho un fisico atletico e le gambe lunghe, ma un pochino di cellulite. Diciamo un filino”. Che peccato!

“Tra clienti che non rispettano le regole e datori di lavoro disonesti, le donne nell’industria del sesso finiscono per avere un’autostima pari a zero. Dopo aver lavorato nei club, riescono a malapena a prendere un lavoro da Burger King,” mi disse. “Ho smesso di ballare quando il mio capo ha assunto un mucchio di ragazze con l’unico scopo di metterci in competizione tra di noi Adesso voglio stare bene e usare il mio corpo per fare soldi Soldi veri Non voglio arrivare a trentanove anni e dare fondo terrorizzata a tutte le mie mance per farmi la plastica.”

(Trentanove La mia età, non potei fare a meno di rilevare Evidentemente, per Trina, questa è l’età in cui bisogna ricorrere alla chirurgia estetica.)

L’aspirazione di Trina è mettere in piedi un business che permetta di sostenere la sua manodopera sia economicamente che emotivamente Finora è riuscita a trovare lavoro sufficiente per sé e alcune amiche. Ogni lavoratrice è invitata a fissare i propri limiti. Al cliente vengono offerti tre servizi: lingerie (a cinquantacinque dollari l’ora), topless (sessantacinque dollari) e nuda (ottantacinque dollari) Notai la forbice, la differenza tra mutandine e abitino griffato Madre Natura mi fece esitare. Avrei di certo apprezzato la sicurezza di un paio di mutande di pizzo mentre manovravo un poco rassicurante aspirapolvere su una ripida rampa di scale, ma mi chiedevo se una tale comodità valesse davvero venti bigliettoni.

Trina ammise che agli uomini piaceva vederla mentre passava l’aspirapolvere; un altro servizio che andava per la maggiore era quello di spolverare nei punti più alti. Mentre pulisce, i clienti la seguono di stanza in stanza, “a volte chiacchierano, a volte si limitano a guardare”. Tuttavia in genere non ha molto da pulire, e in ogni caso mai per molto tempo.

Le proposte sono un portato inevitabile del lavoro, ma tutto quello che esula dalle pulizie e dalla propria presenza in loco è “extra”. Le sue dipendenti sono incoraggiate a prendere accordi su misura e, oltre alla generosa paga oraria, hanno la possibilità di tenersi per loro le “mance” derivanti dalle attività collaterali.

A volte Trina deve pulire davvero, e così mi rivelò quale considerava la sua maledizione: peli e capelli. “Odio toccare qualunque cosa nella quale ci siano dei capelli o dei peli, ma datemi un paio di guanti di gomma e non mi ferma più nessuno.” Immaginai la libidine di un bel paio di lunghi guanti gialli di gomma indossati con una sottoveste di pizzo nera.

“La cosa peggiore sono i peli pubici,” dissi cercando di trovare un legame nelle nostre vite di donne delle pulizie.

“Sì! E quello che perdono gli uomini calvi,” aggiunse “Di questi ne ho un casino. Di uomini calvi, intendo.”

Mormorai un grugnito di sostegno. “Già ”

Poi Trina mi raccontò di un uomo che a una delle sue dipendenti aveva fatto strofinare lo stesso tavolo della cucina per tutte e due le ore dell’appuntamento.

“Vedi, non è sempre una questione di sesso,” spiegò Trina. “A volte è il desiderio di avere compagnia. Di avere una donna che fa qualcosa per te. Capisci?”

“Perfettamente,” risposi Era triste, ma capivo. Quando pulisco una casa lo faccio così bene che per un po’ potrebbero senz’altro fare a meno di me, eppure i miei servizi continuano a essere richiesti.

Ma le pulizie domestiche esotiche vantano estimatrici anche nell’altra metà del cielo. In città, Juan, che si promuoveva come “Uomo delle Pulizie Bello e Latino”, concordava con Trina su una cosa, e riguardava le virtù della gomma. “Sempre con i guanti!” mi disse quando gli telefonai per chiedergli se davvero puliva senza veli come prometteva nella sua pubblicità. “I prodotti chimici ti rovinano la pelle!”

Juan è uno studente infermiere bisex che rimorchia i suoi clienti sulla stampa omosessuale locale. Si definisce un vero uomo delle pulizie e chiede dieci dollari, dieci, all’ora, e insiste che pulire gli piace sul serio. Ma dopo qualche insistenza, ammise che non era l’idea di fare le pulizie che lo spingeva a lavorare. Più che altro, gli piaceva essere nudo.

“Essere nudo è la sensazione più gradevole del mondo, ” disse con l’entusiasmo di un adolescente. “Non c’è niente di paragonabile.”

In Salvador, nella casa di famiglia, mi garantì, girano tutti nudi. “Sorelle, fratelli, e persino mia madre,” affermò.

“Davvero?” dissi senza essere riuscita a nascondere il mio scetticismo.

“I personaggi della Bibbia sono nudi,” aggiunse, e poi, come se stesse producendo una prova storica, continuò: “In paradiso sono tutti nudi”

Forse, pensai, ma nel mio paradiso vestono tutti Prada o Armani, senza bisogno di pagare.

Come Trina con il suo idealismo economico, anche Juan aveva il suo asso politico da giocare. Sedicente “militante nudista”, in realtà era stato arrestato perché aveva deciso di andarsene in giro come lo aveva fatto mamma.

“Avevo camminato nudo per le strade di Berkeley.”

Come rispondere sensatamente alla sua rivendicazione? “Davvero?” dissi come un’idiota. Purtroppo si sentì autorizzato a continuare.

“Molte persone vogliono vedere il mio pene,” proseguì, e prima che potessi interromperlo, specificò pure, “nero e non tagliato.” Non mi riuscì di commentare alcunché. Juan, serafico, insistette “Un grande pene.”

Dopo una pausa che sembrò non terminare mai e un po’ di fantasiosa ginnastica verbale, riportai la conversazione sui binari giusti. Trovavo difficile credere che potesse vivere a San Francisco con dieci dollari l’ora. Si chiarì così che la sua paga oraria era una frazione infinitesimale del suo vero salario. La maggior parte dei clienti lo pagava duecento dollari per vederlo sfregare e passare l’aspirapolvere, di più per riprenderlo con una videocamera mentre lavorava. E, ovviamente, “aveva una tariffa molto speciale per il sesso”, che, mi garantì, era sempre sicuro e, secondo le sue stesse parole, “pulito”

Eravamo rimasti al telefono per più di un’ora, e Juan si offrì di pulire per me, gratis.

Tanto per cambiare mi trovavo in subaffitto e così passai la proposta alla mia compagna di stanza. Dopotutto, il contratto in mano l’aveva lei “Avremo una casa pulita come si deve,” dissi, allegra.

“Se viene Juan, tu sgommi,” fu la sua risposta.

A New York scoprii diverse società che offrivano pulizie in costume adamitico.

Entrai in un caffè trendy del Lower East Side preparata per il mio appuntamento con due dipendenti dell’Eve’s Clean Club, il servizio di pulizie domestiche déshabillé più importante di Manhattan. La musica hip-hop sparata a volume sostenuto accompagnava il gorgoglio della macchinetta per il cappuccino; due splendide donne sprofondate in uno sgangherato divano verde mi fissavano.

“Siamo qui!” disse una, e l’altra sorrise, con denti bianchi che lampeggiavano tra due labbra carnose color rosso geranio. Entrambe si piegarono in avanti, ridacchiando. “Sì, noi!” Le due Lise: compagne di stanza e amiche, che per arrotondare facevano le pulizie nude.

Non so chi mi aspettavo di trovare, ma non quelle due. Lisa-l aveva i lineamenti delicati, fini, e una cascata di capelli biondi. Anche se gli occhialini da topo di biblioteca accentuavano la sua aria sexy, aveva un che di professorale Rimasi sorpresa quando scoprii che aveva preso una specializzazione post laurea in una prestigiosa università. Adesso aveva uno studio legale e stava pensando a una scuola di giurisprudenza.

Lisa-2 era alta, almeno un metro e ottanta, con riccioli neri tagliati corti e una pelle perfetta. I vestiti attillati rivelavano una figura slanciata ma generosa nelle forme, e quando si alzò per andare al bancone, tutti quelli presenti nel caffè, senza distinzione di sesso, non poterono fare a meno di guardare il suo caratteristico ancheggiare. Aveva un lavoro di relazioni pubbliche ed era chiaramente la Lisa più aggressiva, estremamente loquace e con un lieve, fascinosissimo difetto di pronuncia. Insieme potevano senza dubbio illuminare la fantasia di qualunque uomo. Comunque, quelle ragazze cercarono di dirmi che non facevano altro che pulire.

“Se facessi sesso per lavoro,” disse Lisa-1 con una certa veemenza, “sarei pagata molto di più e

non starei lì a menarmela con le pulizie. Questo è un lavoro duro. Senza contare che tutte le mie calze di nylon hanno dei cerchi sbiaditi all’altezza delle ginocchia.”

(Questa immagine mi fece pensare alla mia tenuta da lavoro: scarpe da tennis alte, magliette sbrindellate e pantaloni sformati con tasche abbastanza robuste da reggere bombolette spray che cancellavano i fianchi. I miei pantaloni, gravati dal peso di quelle bombolette, avevano il cavallo perennemente abbassato e avevano ispirato ad A J. la colorita espressione: scollatura del posteriore.)

La maggioranza degli uomini per cui lavoravano le Lise erano di mezza età, tipi bianchi, timidi, con appartamenti puliti in modo ragionevole. “Solitari,” disse Lisa-2 “Non attraenti, ma nemmeno degli scarafaggi.” Il loro attuale datore di lavoro era un tipo di Brooklyn “abbastanza a posto” che gestiva il business e si scremava sessanta dei centoquaranta dollari che ognuna di loro chiedeva per un turno di due ore. (Le mance erano di loro competenza.) E, anche se si lamentavano, alla fine ammisero che gran parte del loro lavoro consisteva nel gironzolare con i tacchi e le giarrettiere, strofinando e spolverando, intrattenendo una conversazione amichevole, ma non troppo

Parlando divenne chiaro che Lisa-2 di tanto in tanto consentiva ai clienti di prendersi qualche libertà (con se stessi) per le quali altro denaro cambiava di mano (più o meno cinquanta bigliettoni). Lisa-l non permetteva attività di quel genere, o se lo faceva, non era disposta ad ammetterlo. Sembrava più esitante sull’atteggiamento da tenere, più sicura quando seguiva l’esempio della Lisa spavalda. Quando domandai se si erano mai spaventate, magari quando un cliente ci aveva provato sul serio, la Lisa timida rispose, seria e dopo averci pensato un po’ su: “Ansia. Più che paura, tanta ansia,” e poi aveva fissato lo sguardo fuori dalla finestra, sulla strada rumorosa.

Entrambe partecipavano al gioco per le entrate extra che garantiva, ma la cosa interessante era che le attirava anche il potere che dava. Questo lo capivo. Con un pubblico disperato, in cattività, tutto diventa possibile.

“C’è un vecchio detto,” suggerii “Un servo è un padrone travestito.”

“Lo userò,” assentì Lisa-l, rianimatasi d’improvviso. “Non sono una vergine, ma facendo questo lavoro mi trovo molto più a mio agio con il mio corpo. Quando faccio le pulizie, sono davvero sexy e posso dettare le regole. Non sono più imbarazzata. Anche se ho in mano una scatola di detersivo, quei tipi pensano che io sia calda. Proprio io!”

Lisa-l si ritirò poi nella sua aria da topo di biblioteca. “Ma non intendo farlo ancora per molto,” aggiunse, di nuovo controllata. “Presto farò un sacco di soldi e assumerò delle pollastrelle – anzi, dei pollastrelli – per fare pulire la mia casa ”

“Perché non vi buttate insieme su quel business?” le incoraggiai “Scommetto che le donne eterosessuali sarebbero disposte a pagare per farsi pulire la casa da uomini nudi. Dato che sono loro quelle che passano più tempo a pulire, credo sarebbero felici di sbattere via un po’ di soldi per farsi lustrare i pavimenti da un California Dream.” Già mi vedevo la scena: feste per zitelle animate da falangi di giovani armati di aspirapolvere neri e lucidi con la supersuzione e altri accessori da feticisti per la pulizia della casa.

“È un’idea fantastica, ” concordò Lisa, la pierre navigata.

Lasciai definire a loro i dettagli di quella nuova impresa. “Ragazzi in versione naturale con i piumini per la polvere,” disse Lisa-2 mentre porgevo i miei saluti. “Sono certa che può funzionare.”

“Ma li faremmo pulire per davvero,” aggiunse, sincera, Lisa-l, la pudibonda.

Ho incontrato altri che facevano le pulizie convinti di coniugare in quel modo sesso e sport. Chad, un ventenne muscoloso e tatuato, adorava lavorare per donne più vecchie che lo dominavano e lo umiliavano. “Una donna mi diceva che non sapevo fare altro, se non lavare i piatti e strofinare i pavimenti,” spiegò. “Era bellissimo. ”

Avrei mollato quella cliente senza nemmeno darle il tempo di riprendere fiato.

Chad si offrì di pulirmi la casa. Non avrei dovuto pagare nulla; magari, se fossi rimasta soddisfatta del lavoro, avrei potuto sculacciarlo

Sul momento l’idea non mi parve malvagia, ma il legame tra umiliazione e pulizia per me era di quelli pericolosi Inoltre, trovavo orribile essere considerata – secondo la stima di Chad – come una

donna più vecchia. Tuttavia, avevo un’amica, una donna che lavorava nell’industria del sesso, che sarebbe stata troppo felice di avere la casa pulita e che poteva garantire la necessaria supervisione. Passai a Chad il suo numero. In seguito mi giunse all’orecchio che la sua prestazione di pulitore era appena passabile: “Lasciava i capelli nel lavandino del bagno e gliel’ho dovuto fare pulire tre volte di fila”. Mi domandai se il pressapochismo di Chad nel lavoro non fosse intenzionale, alla ricerca com’era di strigliate.

Un Natale, un’amica mi inviò un video intitolato Sexy pulizie. “Ho pensato che magari potrai ricavarne qualche dritta,” aveva scritto, “in entrambe le specialità.” Schizzai fuori dell’ufficio postale sorpresa e carica di attese.

Sexy pulizie era un pomo amatoriale nemmeno troppo hard, una produzione banale che raffigurava tre bellone seminude che pulivano la casa di un tipo smilzo dall’aria idiota. Vestite, si fa per dire, con magliette striminzite, perizomi, e, alla fine, con i seni al vento, spolveravano, sfregavano e asciugavano (in quest’ultimo caso, piuttosto alla lettera, dato che quando le loro magliette inevitabilmente si bagnavano, come da copione, se le sfilavano). Una tremenda musica elettronica accompagnava le azioni a velocità rallentata come il passaggio dell’aspirapolvere e il rifacimento del letto. Il momento clou del video (se mai ce n’era uno) arrivava quando Daisy, finito il difficile lavoro di pulire il bagno, s’infilava sotto la doccia per darsi una rinfrescata. (E, osservai, incasinare di nuovo il bagno.) Diamo a Cesare quel che è di Cesare: le dritte sulle pulizie non mancavano, anche se forse veniva messa troppa enfasi sulle fasi “dall’alto in basso” e “avanti e indietro”.

Telefonai al tizio che aveva realizzato il video. Gliene proposi un altro intitolato Sexy ristrutturazioni con operai edili di bell’aspetto, tassativamente nudi, impegnati soltanto a mettere giù progetti. Quello che va bene per il papero, va bene anche per la papera, gli dissi.

“In tutta onestà,” gli risposi allorché mi chiese che cosa pensassi davvero del suo lavoro, “ci sono rimasta male. Le donne fanno solo finta di pulire.”

“Ma non è un film sulle pulizie della casa,” mi spiegò il regista, un tantino petulante “E nemmeno sul sesso.”

“E di che cosa parla allora?” domandai.

“È solo divertimento!” rispose. “Divertimento!”

Il pensiero di me, moccio in mano, con una succinta sottoveste merlettata da vedova allegra non mi appariva per nulla divertente – in realtà mi dava quasi la nausea Tuttavia, una volta mi capitò di lavorare in topless, anche se mi costò il licenziamento.

Quell’appartamento era tappezzato di foto di uomini nudi. In una si vedeva un pene lungo come il mio braccio. Ci andavo a spolverare ogni settimana. Nella camera da letto c’era una rastrelliera per le fruste, dalle pareti pendevano ferramenta di ogni genere, e dietro la tazza del bagno c’era una pila di copie di “Meatmen” Eppure la casa era incredibilmente ordinata. Questi ragazzi erano ancora in piena fase anale e avevano sistemato tutti i prodotti per il bucato in ordine alfabetico: Ace, Bio Presto, Dash, Fab, Vernel.

Una giornata calda e umida, mi trovavo da sola in questa casa e stavo passando l’aspirapolvere con le cuffiette del mio stereo nelle orecchie. Mi tolsi la camicia. Avevo ancora caldo. Mi tolsi il reggiseno. Ripresi a passare l’aspirapolvere.

La settimana successiva mi venne comunicato che avevo offeso un visitatore di sesso maschile che aveva messo dentro la testa durante la mia effimera prestazione come domestica in topless. Licenziata dalla casa del pene Una conferma diretta che non sempre ti danno ciò per cui hai pagato. A volte ti danno di più.

Fonte: Louise Rafkin, Polvere e lussuria Sporco, o porco?, in Id., Lo sporco degli altri. Avventure di una donna delle pulizie da New York a Kyoto, traduzione di Stefano Viviani, Feltrinelli, Milano 2000, pp. 94-103.

Non è tutto oro quel che luccica, Viskovitz

Appena nato ricevetti subito dei complimenti.

«Com’è bello», gongolò mamma. «È già uno scarafaggio fatto. Ha più colore degli altri, è più attraente!» Era davvero contenta di quello che vedeva. Nuovo fiammante non dovevo essere un brutto spettacolo.

Mi rallegrai di essere venuto al mondo e buttai un’occhiata in giro per sincerarmi che non ci fossero predatori, mi sarebbe seccato che la festa finisse così presto. Attorno a me c’era una quantità di altri mocciosi che avevano appena terminato lo sviluppo larvale, cercavano di sbucar fuori dalle loro «pere» e si sforzavano di deambulare. Mi piaceva l’idea di iniziare la vita con un vantaggio su di loro, sia pure effimero come la bellezza. Ma ci pensò papà a smorzare gli entusiasmi.

«Non dare ascolto a tua madre, Visko. La bellezza non è di alcun vantaggio per quelli come noi.»

«Credi?»

«Ne sono certo, figliolo, e sarà bene che tu sappia subito come stanno le cose. Noi siamo stercorari, ragazzo, e l’unica cosa che conta nella nostra esistenza ... beh, ecco ... è la rnerda.»

Restai impietrito. Lì per lì non potevo capire cosa intendesse, ma il modo in cui lo disse, ingobbendo nel tegumento con un’espressione avvilita, mi mise addosso una certa inquietudine.

«Ora però dobbiamo festeggiare», proseguì. «Questa è una delicatezza, ti piacerà.» Con una certa apprensione mi porse una pallottola scura che teneva tra le appendici. Sospettoso, ne assaggiai solo una linguetta. Faceva proprio schifo. Mio Dio, pensai, davvero la nostra vita gira attorno a questa porcheria?

«Tu sei il nostro primo figlio, Visko, non è stato facile metterti al mondo. Ci vogliono palle di materia di tre centimetri per far crescere le larve, “pere” le chiamiamo noi, non credere che le regalino.»

«C’è molta competizione?»

«L’hai detto, ragazzo. C’è la siccità, non ci sono mandrie, la materia è poca e noi siamo tanti. In un pezzo da un chilo, nel giro di dieci minuti ci ritrovi dentro qualcosa come cinquemila stercorari, tra endocopridi, scavatori e rotolatori »

«Endocopridi?»

«Sì, sono anche loro scarabei, minuscoli bastardi che si infilano tra le palle che stai rotolando e te le divorano dal di dentro. Sono capaci di farti fuori anche la larva, se non stai attento! Poi ci sono gli heliocopris: sono scavatori, dei veri bulldozer, bestiacce che pesano più di venti grammi e se ne incontri uno ti assicuro che ti conviene fare come dice lui, figlio mio.»

«Me ne ricorderò, papà.»

«Ma soprattutto devi guardarti dai tuoi stessi simili. Perché scavare, arrotolare e spingere una pera è un lavoro molto faticoso, ti ci vogliono una trentina di minuti, venti se sei in gamba. Lo sterco non è tutto uguale, devi manipolarlo saggiandone umidità e consistenza, poi devi trovare una protuberanza, arrotondarla, staccarla e farla rotolare, puntellandoti con la testa e spingendo con le posteriori, e nel frattempo, usando le zampe come rastrello, devi spalmarci sopra tutte le feci che trovi. Sono operazioni che costano energia. E l’energia costa merda. Dunque la strategia più vantaggiosa per ottenere una palla è quella di rubarla. Quando sei sfinito e la pera è pronta, devi difenderla come la tua vita o te la portano via a bastonate. Anche i tuoi migliori amici, quelli coi quali sei cresciuto. La materia è più forte di noi, Visko, ci divora l’anima.»

«Papà, a cosa servono queste appendici sotto le elitre?», buttai lì tanto per cambiare discorso.

«Sono ali membranose, ci permettono di volare.»

«Volare! Wow, questa sì che è una notizia!»

«Fa’ attenzione, però: volare richiede un sacco di energie. Prima devi accelerare la velocità del

tuo metabolismo, aumentare la temperatura corporea, e per farlo devi rabbrividire.»

«Rabbrividire?»

«Sì, il brivido ti carica di energie e ti prepara per l’azione. Devi però aver ingerito abbastanza materia da potertelo permettere. Di questi giorni, in genere, l’energia è appena sufficiente a procurarti la materia, e la materia è appena sufficiente a procurarti l’energia. Puoi permetterti di volare solo per arrivare in fretta sul letame. Alla fine si torna sempre lì, Visko.»

«Alla materia.»

«Già, non credere però che la nostra sia un’attività spregevole. Tutt’altro. Noi stercorari siamo fondamentali per l’ecosistema. Non solo rimuoviamo il letame che altrimenti si accumulerebbe sul terreno soffocando le piante, ma rendiamo anche più fertile e aerato il suolo, ritardiamo la proliferazione di parassiti e agenti patogeni e riduciamo il numero delle mosche che proliferano nelle escrezioni», proclamò mio padre con quel tanto di brivido d’orgoglio che il suo metabolismo si poteva concedere.

L’indomani ci mettemmo in volo di buon’ora per recuperare il tempo perduto con la mia nascita, e stavo già cominciando a sentirmi in colpa quando finalmente avvistammo un branco di elefanti che si abbeverava. Papà consigliava per me una specializzazione, e la coprofagia dei prodotti d’elefante sembrava la strada più ricca di promesse. Mi era stato spiegato che raramente quelle bestie calpestano i loro prodotti, ma era davvero difficile pensare che qualcuno potesse avere il coraggio di andare là in mezzo e portar via quella roba. Eppure, appena il primo carico fu sganciato, migliaia di scarafaggi si erano materializzati come per incanto e si erano scagliati sulla sostanza. Mio padre tra i primi. Ero lì per imparare, studiare i suoi movimenti, familiarizzarmi con gli imprevisti, ma ben presto la scena si trasformò in un inferno oscuro di corpi e di merda, una caciara indecifrabile di botte, urla, bestemmie. Me ne stavo lì impietrito, sopraffatto dal puzzo, dai barriti, dal terrore, e pregavo Dio che avesse pietà di noi.

Davvero mi sembrò un miracolo quando vidi sbucare fuori dalla mischia le antenne del mio genitore. Si trascinava avanti a fatica, aggrappato a un bel pezzo di palletta più grosso di lui, non la quantità che gli avrebbe permesso di darmi un fratello, ma abbastanza calorie per tirare avanti fino alla prossima battaglia. Mi fece un cenno con le elitre, era stravolto e ammaccato, ma le sue appendici boccali erano flesse in un ghigno di soddisfatta anticipazione. La sua letizia però durò ben poco perché due tipacci sbucarono fuori da sotto una foglia e cominciarono a pestarlo. Lo ribaltarono e si presero la pera. Mio padre tornò alla carica e quelli ripresero a pestarlo Accorsi in suo aiuto, ma ancora non avevo ben imparato a rabbrividire per accelerare il mio metabolismo e così finii anch’io pancia all’aria e bastonato. Quando ripresi conoscenza vidi che di mio padre non erano rimasti che pochi frammenti sparpagliati. Scorsi in lontananza i suoi aguzzini che si allontanavano col malloppo. Assieme a loro c’era mia madre, che si era affrettata a unirsi al carro dei vincitori.

Da quel giorno in poi rabbrividire non fu più un problema. Ero solo contro tutti. In quel mondo senza Dio un solo valore sopravviveva: la Sostanza. In Lei sola riposi la mia fede. E cominciai a misurare il senso della vita in grammi.

Mi aggregai a una banda di giovinastri che razziava e picchiava i deboli e gli anziani. Partecipai a ogni genere di crimine. E la legge del più forte, mi dicevo, non l’ho inventata io. Ma non erano le due pere rubate a un padre di famiglia che potevano appagare il mio illimitato desiderio di possesso. Decisi dunque di ricercare la ricchezza alla fonte stessa da cui sgorgava e cominciai ad aggrapparmi al pelo degli animali produttori e a farmi trasportare da loro. Risparmiavo così energie e quando essi mollavano un carico ero sempre il primo. Se il vento portava l’odore verso una zona morta, come uno specchio d’acqua, poteva passare anche mezz’ora prima che il posto si affollasse. Era un lavoro durissimo, ma ben ripagato, e ben presto ebbi il capitale sufficiente per mettermi in proprio, assoldare dei dipendenti e circondarmi di una milizia privata. In breve tempo mi ritrovai a capo di un’organizzazione che controllava ettari di savana e aveva l’esclusiva su parecchi branchi, e inoltre controllava la parità di scambio delle valute, il mercato dei titoli e il flusso del risparmio. Nel giro di una stagione avevo ammassato un patrimonio che si calcolava in quintali di sostanza, buona parte

della quale in liquidi.

Divenni l’insetto di successo da ammirare e invidiare, cui tributare il rispetto e l’adulazione riservati soltanto alla Cosa stessa. Pensavo che fosse quella tutta la felicità che uno scarafaggio può provare. Ma dovetti ricredermi.

Fu nella corolla di un’orchidea che la vidi. Il suo dermascheletro era rosso come l’alba, il suo corsaletto un turbinio di riflessi dorati, un piccolo sole intrappolato tra i petali. Che dirvi di lei? La sua bellezza era al tempo stesso adefaga e polifaga. Ogni parte del suo corpo, epimero o episterno, pronoto, mesanoto o metanoto, urite, stigma o scutello, era per i miei ocelli insieme festa e tormento. Era la regina degli scarabeidi e io non potevo più vivere senza di lei. Finalmente l’amore aveva un volto e un nome: Ljuba.

Pensai di farle recapitare un bouquet di valutepregiate, ma subito mi apparve cosa poco indicata. Non era con la ricchezza che volevo far breccia nel suo cuore. Era appena arrivata col monsone e non sapeva nulla di me. Amava parlar di fiori, di alberi, di resine, di frutti, un’inclinazione inconsueta per una scarafaggia. Poteva conversare per ore senza mai nominare la sostanza bruna Ah, com’era rinfrescante la sua compagnia! Era affascinata da tutto ciò che era dolce, profumato, colorato, e questa sua passione era così contagiosa che per la prima volta la vita mi apparve come un’avventura piena di meraviglia e di mistero e il mondo come un luogo perfetto in cui celebrare l’armonia tra gli insetti e il creato.

Le dissi che l’amavo.

«Anche tu mi piaci, Visko. Vorrei essere la tua compagna.»

«Vuoi dire che ti piaccio per come sono, come insetto, e non ti interessa sapere quanto possiedo?»

«Ma certo, che importanza ha?»

Mi sentii sciogliere. Era vero o era un sogno? Anche gli scarafaggi avevano un cuore? Facemmo i preparativi per il volo nuziale e mai – dico mai – mi chiese un regalino o anche semplicemente d’esser nutrita. Finalmente, convinto fino in fondo della sua sincerità, decisi di darle il premio che aveva meritato e la condussi in una delle mie proprietà, un bacino di letame di dieci metri quadri, circondato dalla mia milizia.

«E tutto mio», annunciai. «E questa non è che una parte dei miei possedimenti, un impero che si estende da qui fino al lago Vittoria.»

«Stai scherzando.»

«Nient’affatto, guarda.» Mi tuffai a capofitto nei miei averi. «Vieni, è anche roba tua ora!»

Ljuba non riusciva a credere ai suoi ocelli. «Mi stai chiedendo di entrare... lì dentro?», balbettò. «Certo, capisco il tuo pudore, cara, ma dopotutto siamo stercorari.»

«Se è uno scherzo è proprio di cattivo gusto, Visko. Sono una malolontha, un maggiolino di razza, io! Nessuno mi aveva mai dato della scarafaggia.»

«Maggiolino? Non capisco la differenza.»

«Vedo bene che non la capisci. Gli scarafaggi sono bestiacce dal carapace scuro che mangiano porcherie innominabili. Noi maggiolini, per contro, abbiamo colori sgargianti, ci cibiamo di polline, resine profumate e sostanze zuccherine. Possiamo volare per ore e amiamo la poesia, la danza, le buone compagnie e soprattutto la pulizia, Visko. Ti assicuro che fino a oggi non avevo mai visto un maggiolino grande e grosso come te a bagno nella merda. Ora devo andarmene, questo posto puzza e tu fai schifo.»

Aveva rabbrividito abbastanza da poter sorvolare l’oceano, probabilmente non l’avrei rivista più. Ero rimasto lì, con i palpi spalancati a cercare di capirci qualcosa. Io un maggiolino? E i miei genitori? Sarà stato per quello che mi assomigliavano così poco. Forse avevano scordato dove avevano messo l’uovo. Forse si erano stancati di essere soli. Mio Dio! Possibile che... Ero nella confusione più totale. Chi ero io? Cosa ci facevo a bagno in quella roba? Dovevo tirarmi fuori, rincorrere Ljuba, spiegarle come stavano le cose e costruirmi con lei un’esistenza pulita. Su, Visko, muoviti, mi dissi. Eppure non mi riusciva di rabbrividire, di provare abbastanza ribrezzo da caricare il mio metabolismo e volare. Era troppo il piacere di quel bagno balsamico, la fragranza di quei miasmi, la soddisfazione di vedere la plebaglia, non solo coleotteri ma anche tricotteri, trepsitteri e

afanitteri, accalcarsi attorno ai recinti per guardarmi e sognare. Per un attimo mi parve proprio di scorgere tra loro il tegumento del mio vecchio genitore e di vederlo tremare. Tremava d’orgoglio nel vedere che suo figlio ce l’aveva fatta, che c’era dentro, buon Dio, c’era dentro fino al collo.

Fonte: Alessandro Boffa, Non è tutto oro quel che luccica, Viskovitz, in Id., Sei una bestia, Viskovitz, Compagnia ExtraQuodlibet, Macerata 2021, pp. 51-59.

D O CUMENTI

L u dovico Coulliaux

È cosa troppo nota a tutti che durante la masticazione alcune particelle alimentari vengono risospinte negli interstizi e nelle solcature dentali mentre altre vanno a soffermarsi sul margine delle gengive e nei diversi sfondi della mucosa: d’altra parte sappiamo come trascurandone la rimozione desse subiscono sotto l’azione di molteplici microrganismi una pronta e completa decomposizione che ci è rivelata dall’odore (disgraziato chi deve subirlo!) acido e ripugnante dell’alito.

Subito dopo i detriti alimentari viene quale altro potente fattore delle affezioni buccali quel deposito biancastro, cremoso, a reazione acida che troviamo nelle persone trascurate al colletto dei denti, formato per la massima parte di cellule epiteliali e loro detriti e da muco vischioso cui si aggiungano pure residui alimentari; quest’intonaco rappresenta un mezzo di cultura oltre ogni dire favorevole allo sviluppo dei microbi. Permettendo che si accumuli sol per alcuni giorni si potrà bentosto osservare arrossato o tumefatto il margine libero gengivale che alla fine si infiamma e si stacca dal colletto dentale sul quale lascia scorrere alla benchè minima pressione una gocciolina di pus; abbiamo cioè dichiarazione di gengivite vera cioè di vera infezione locale e per quel che ne sappiamo sebbene d’ordinario poco grave nel principio può col tempo occasionare le più serie alterazioni.

Si raggiunge l’intento di una scrupolosa pulizia della bocca la mercè di uno spazzolino, di stuzzicadenti e fili e d’un dentifricio; e badisi che la sola pulizia della bocca accuratamente praticata con uno spazzolino e con acqua sterilizzati (per l’uso abituale basta la loro bollitura) è già bastevole di per sé come lo provarono alcune esperienze di Montefusco ad assicurare per via meccanica l’allontanamento quasi completo dei microbi esistenti in bocca – disinfezione meccanica. – Acqua ed acqua! come per l’altre parti del corpo bisogna adoperarne molta, moltissima, troppa se vuolsi dire di averne adoperata abbastanza.

Fonte: Ludovico Coulliaux, Pulizia della bocca, in Id., Igiene della bocca e dei denti, Hoepli, Milano 1901, pp. 169-170. Le immagini sono prese da p. 190 (denti storti) e p. 103 (apparecchio).

L’odontoiatra Ludovico Coulliaux (1863-1929), autore di Igiene della bocca dei denti (Hoepli 1901), fonda nel 1912, a Pavia, presso il Policlinico San Matteo, l’Istituto di Odontoiatria dell’Università di Pavia, di cui è direttore fino al 1924

Molti anni dopo l’Unità d’Italia, in seguito a varie pressioni, il ministro pro-tempore della Pubblica Istruzione Paolo Boselli (1838-1932) promulga nel 1890 il decreto che da lui porta il nome, volto a conferire la dignità di scienza medica a una disciplina che era sempre stata quasi totalmente in mano a empirici, praticoni e ciarlatani. Il terzo articolo di tale decreto si propone di creare una didattica odontoiatrica nelle università del Regno.

Questo spiega perché pochi ma lungimiranti uomini perseguono i loro ideali nell’Accademia: è il caso di Carlo Platschick (1853-1912), primo titolare della Cattedra del corso di Clinica Odontoiatrica presso l’Università di Pavia nel 1891, dello stesso Coulliaux, Silvio Palazzi (18591961), Amedeo Perna (1875-1948), che fu anche deputato del Regno d’Italia, Angelo Chiavaro (1870-1944), il primo medico italiano a iscriversi alla scuola dentaria di Filadelfia e a laurearvisi in odontoiatria, ottenendo nel 1899 il diploma di dottore in chirurgia dentaria, e molti altri.

Pur essendo a volte in netto contrasto fra di loro, questi odontoiatri agiscono, anche su strade differenti, per il comune bene dell’Odontoiatria Italiana.

la redazione

B i blioteca Nazionale Centrale di Firenze

Libri alluvionati nel 1966

Settembre 1967: divisione in prima lettera dei giornali alluvionati nel corridoio su via Magliabechi. Da sinistra: Elda Sartini, Paolo Albani, Sergio Marchini

I pacchi di giornali alluvionati impilati nella sala cataloghi
I volumi bagnati impilati nella rotonda della distribuzione

Un libro che evidenzia i problemi dell’essicazione nei forni

Fonte: Silvia Alessandrini, Alberto Martini, Gianna Megli, a cura di, 1861/2011. L’Italia Unita e la Sua Biblioteca, Edizioni Polistampa, Firenze 2011, catalogo della mostra omonima a cura del Personale della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, svoltasi alla BNC di Firenze dal 22 dicembre 2011 al 28 febbraio 2012, le foto con le rispettive didascalie sono riprodotte a p. 126, p. 128, p. 131 e p. 136

T E STI VISIVI

«è sempre l’ora giusta per un buon caffè»

N i coletta Calvagna Piccole passioni
Napoleone:
Battista Sforza: «non appena abbiamo un momento libero...»
Federico da Montefeltro: «prendiamo la nostra trousse e ci sbizzarriamo con i colori»
La Gioconda: «niente è più dissetante di un buon bicchiere di latte freddo certe volte»
Giovane con canestra di frutta: «non resisto alla frutta fresca»
La Venere: «se giocate a pallavolo, contatemi: ci sono sempre»

Gotico americana: «Per me il ragù è al pomodoro»

Gotica americano: «Non sai cosa ti perdi»

Il Manzoni: «per me al sugo, grazie»
Luigi XVI: «Ah... i molluschi!»

L

i no Fois

I panni stesi si rilavano in famiglia (2014)

Volto a perdere: tema e variazioni allo specchio dallo sporco-pulito al pulito-sporco

Due fotografie una dopo l’altra. Sono io!, oggi. Attuale. Nella prima c’è il mio corpo, la mia matrice, il mio volto scavato a tutto spessore e un poco ingiallito dal tempo. Nella seconda, su carta di puro cotone, la mia immagine speculare e fedele, pulita e stampata, definitiva. Potrei dire che si tratta, tecnicamente parlando, del quinto stato, dell’ultimo passaggio in ordine di tempo. Stesso sguardo, lineamenti, profilo. Una ciocca di capelli nasconde l’orecchio destro. Un dettaglio minimo. Sto indossando un maglione a girocollo, ma si riesce ad apprezzarne solo una piccola parte.

Figura 1

L’idea di stampare il mio volto è nata poco dopo aver rinnovato la mia carta d’identità, mentre tornavo a casa con tutti e dieci i polpastrelli sporchi di inchiostro.

«Li appoggi uno alla volta sul tampone poi tocchi la carta e lasci le sue impronte.» si era limitato a dire l’impiegato del Comune.

In meno di un minuto le mie impronte digitali, i miei labirinti epidermici si erano trasferiti nei riquadri del modulo intestato e in meno di un altro minuto camminavo lungo il marciapiede diretto verso casa.

Il tovagliolo di carta che avevo usato negli uffici non aveva pulito granché; l’inchiostro era ancora sulla pelle, untuoso e appiccicoso.

Andai in bagno, per lavarmi.

Allo specchio notai alcune ditate nere lungo una guancia; tra il naso e la bocca erano apparsi dei segni che assomigliavano a baffi.

D’impulso sfregai per pulire, ma l’inchiostro si estese ancora di più in superficie.

L’effetto mi sorprese. Non ero più sporco!, ma tatuato in un villaggio tribale, pronto alla danza, a

Figura 2

un rito e a una battaglia.

La mia mano, mossa da uno stato allucinatorio, prese un raschietto e iniziò a scrostare il nerofumo rappreso sulle pareti del camino. Non era sufficiente. Andai nella legnaia, raccolsi dei ceppi di legno e diedi loro fuoco. Attesi, irrequieto, oltre mezz’ora, prestando attenzione in particolare a spegnere in anticipo i rami più piccoli, per avere della brace nera da polverizzare.

Era stato Cennino Cennini nel suo Trattato sulla pittura a fornire le informazioni precise. Due uova di gallina mi fornirono tuorlo e albume a sufficienza per ottenere la tempera, il legante che avrebbe reso collosa e aderente la polvere di nerofumo. Preparai un tampone di stoffa e lo immersi nell’inchiostro nero iniziando il trucco, soprattutto attorno alla bocca, lungo la fronte, le guance e il collo.

Tranne alcune pieghe cutanee, divenni completamente nero; una maschera. Ne ero impressionato, ma non impaurito.

Figura 3
Figura 4
Figura 5

6

Recuperai un asciugamano con l’intenzione di eliminare tutto quello sporco, che iniziavo a non sopportare oltre. Poi mi venne un’idea o, meglio, un’intuizione. Appoggiai il mio viso su un foglio di carta di puro cotone, così come avevo fatto alcune ore prima, per le impronte digitali. Ruotai il capo, mi schiacciai il più possibile fino a provare un certo dolore. Più di così non si poteva; pertanto sollevai il capo, aprii gli occhi e osservai la mia sindone. Ero perplesso, ma andai avanti nel l’esperimento.

Alcune decine di Cotton fioc e altrettanti dischetti per detergere il viso mi aiutarono a liberarmi dal nerofumo.

Figura
Figura 7
Figura 8

Del latte detergente mi rese grigio e pastoso. La maggior parte delle rughe erano scomparse per lasciare posto a macchie irregolari, astratte, confuse. Sembravo malato, vaioloso Ebbi paura di me stesso, poi provai ribrezzo.

Provai a cancellare con una gomma pane, ma il risultato peggiorò la situazione. Ero ancora più sporco!

Utilizzai della finissima carta abrasiva, la 1000!, concentrandomi su uno zigomo ribelle, che non voleva mondarsi da quei pigmenti impastati ora di peluria. Ebbi un’altra idea.

Aprii il cassetto e presi la polvere per la Maschera Viso Antiage Ristrutturante.

Lavorai a lungo di spatola, applicando strati di colore rossiccio e grumi a tutto spessore. Le istruzioni invitavano ad attendere circa 1 ora, affinché i nutrienti penetrassero fino al connettivo e ai suoi interstizi.

Tra gli effetti indesiderati era segnalata la comparsa di crettature! Che puntualmente si verificarono. Mi velai con una crema biancastra da giorno, spalmai, tocchettai finché non ripresi le fattezze iniziali. Tornai pulito.

Figura 9

La mia origine è prettamente nera, geneticamente parlando; col tempo

mi sono sottoposto a modifiche e scavi chirurgici che mi hanno via via via via via sbiancato in cinque fasi

liberandomi dal surplus epidermico ho apprezzato e prima di uscire di casa allo specchio mi sono abbellito con orecchini e ciondoli colorati

Indagine su una matrice xilografica incisa e stampata a torchio manuale in molteplici e successive fasi “a perdere”. Dopo una prima fase di stampa completamente nera tranne alcuni segni lineari (vedi Figura 3), ho continuato lo scavo asportando e stampando in fasi successive fino ad arrivare ad una fisionomia finale e conclusiva esteticamente e formalmente “pulita”.

G
I libri e il fango nella Romagna allagata

Fonte: Giovanni Zaffagnini, I libri e il fango nella Romagna allagata, Danilo Montanari Editore, Ravenna 2023, pp 8-9, p. 15 e p. 22 (in quest’ultima foto c’è il logo della Casa editrice Quodlibet).

C O NTRIBUTI ORIGINALI

Pietro Candia era stato un uomo abbastanza felice o, quanto meno, aveva raggiunto una tranquillità di spirito, se vogliamo dirla così, ma tutto quell’appagamento era durato fino a quando la moglie gli aveva comunicato che, secondo lei, il loro matrimonio era arrivato a un punto di non ritorno e che non potevano andare più avanti in quel modo; sosteneva che ognuno di loro, per quanto fossero arrivati ai sessanta anni, doveva ricominciare daccapo, perché la vita va ripresa in continuazione, come adesso voleva il loro destino, che era stato lo stesso che li aveva tenuti assieme per una trentina d’anni e ora non più. Abitavano in Ancona, in un grande appartamento su corso Garibaldi, arredato con mobili d’epoca e quadri con paesaggi che lei, Teresa Pappardella, sua moglie, aveva dipinto in un periodo di creatività molto proficuo. La mattina presto a colazione, Pietro Candia prendeva il caffelatte mentre osservava dalla finestra il passaggio dei netturbini su corso Garibaldi e un paio d’ore dopo ritornava per vedere, questa volta, sempre dalla stessa finestra, l’apertura dei negozi che riusciva a scorgere attraverso il vetro.

Anche lui, Pietro Candia, come i commercianti che osservava dal terzo piano di quell’appartamento, aveva avuto un negozio in corso Garibaldi, sempre con le vetrine impeccabili e i manichini alla moda. Un suo amico, quando passava davanti al negozio, soleva fargli sempre la stessa battuta: “Oh, Pietro, tu sì che sei proprio casa e bottega, eh” e lui, Pietro, rispondeva con un sorriso ampio e soddisfatto. Ma dopo dieci anni d’attività era stato costretto a chiudere definitivamente la serranda per via della concorrenza sleale, a detta sua. Poi, aveva trascorso un paio d’anni facendo piccoli lavori sporadici, fino a quando sua moglie gli aveva comunicato la sua decisione. All’inizio Pietro pensava che lei stesse attraversando un momento particolare (non escludeva una crisi di creatività artistica, per usare un termine che lei adoperava spesso) e che nel giro di pochi giorni ci avrebbe ripensato ma, quando aveva capito che era convinta nella sua decisione, quella di porre fine al loro rapporto, a Pietro non era rimasta altra scelta che trovarsi un appartamento in affitto appena fuori dal centro. Era stata una decisione che non aveva mai contemplato, ma l’aveva affrontata con un certo coraggio. Continuava, quando poteva, a svolgere piccole commissioni o incarichi da parte di altri negozianti che lo conoscevano da tempo. Dovunque si presentasse era sempre impeccabile, in giacca e cravatta. Certe volte, però, andava nel retro di un ristorante, bussava a una porta senza farsi vedere dai passanti e il cuoco, che era un suo amico, usciva con una vaschetta di plastica con qualcosa da mangiare. Pietro ringraziava con un inchino, nascondeva di fretta la vaschetta in una borsa e tornava a mangiarsela a casa. Era una persona rispettabile con la quale molti negozianti chiacchieravano di buon grado, anche nell’ultimo periodo della sua vita, ma nessuno poteva credere, neanche Teresa stessa, alla quale continuava a fare visita una o due volte alla settimana, giusto per un saluto quando passava davanti al suo negozio d’intimo, che dopo la separazione Pietro si fosse trasformato in un accumulatore compulsivo. Nemmeno i vicini potevano sospettare che vivesse in quelle condizioni e che l’accumulo di oggetti e sporcizia lo avesse travolto.

Non usciva da diversi giorni, sembra che si fosse tenuto per sé qualche malore che lo attanagliava da tempo, e quando il personale sanitario, chiamato dai vicini che avevano denunciato l’odore proveniente dall’appartamento, era entrato a casa sua, aveva trovato Pietro Candia disteso per terra, circondato da ogni parte da scarti, rifiuti, oggetti e insetti. C’era un odore impossibile. Aveva un piede assalito da migliaia di formiche e gli scarafaggi e le blatte giravano tra gli oggetti ammassati uno sopra l’altro: giocattoli, mozziconi, stracci, bicchieri rotti, ombrelli, pezzi di manichini, scatole con la spazzatura dentro, biciclette rotte, giornali, riviste, libri, piatti di plastica sporchi e Pietro Candia lì, in mezzo a tutta quella sozzura, come un rimasuglio che aspettava di essere portato via. Aveva addosso un completo color borgogna difficile da abbinare, con una cravatta blu scura e, su una mano, una barretta di cioccolato che non aveva finito di mangiare

So, da amici comuni, che Paolo Albani è gravemente rupofobo. Questo è anche il motivo per cui ha deciso di dedicare l’intera rivista al tema dello sporco. Lui, per il fatto che è un perfetto catalogatore, spera così di far lavorare gli altri per fare un censimento – il più possibile esteso – di tutti i tipi di sporco, e così mapparli, per potersene tenere alla larga.

Per chi non conoscesse Paolo Albani, dico che quando l’ho conosciuto – eravamo a un convegno di scrittori potenziali – l’ho trovato simpatico alla prima impressione. Ma appena gli ho dato la mano – e gliel’ho stretta forte com’è mia abitudine – lui, dopo avermi detto che era contentissimo del nostro incontro, è diventato un po’ rosso in volto e subito si è stranamente allontanato senza spiegazioni. È ricomparso dopo cinque minuti, allegro e disteso. Ho capito anni dopo che era subito corso a lavarsi le mani, come se io fossi una campagnola che puzza di cacca di gallina.

Un’altra volta, siamo andati al mare con Albani, sul Tirreno, vicino a Viareggio dove facevamo lunghe passeggiate sulla spiaggia ventosa. Non ha mai voluto venirsi a fare una nuotata con me. Ogni mezz’ora, però, andava a farsi la doccia in fondo allo stabilimento, nonostante non fosse così caldo. Poi siamo andati a prenderci qualcosa al bar. Lì, ho inavvertitamente preso in mano il suo bicchiere con la sprite, che però ho subito riappoggiato, scusandomi. Non l’ha più bevuta, manco ci fosse caduta una mosca dentro. “Paolo, non hai più sete?”, “No, m’è venuta voglia di un’oransoda”, che ha subito ordinato. E così mi ha ingannato, perché io – che ancora lo conoscevo poco – ho pensato che fosse un tipo volubile. E invece no, non lo è per niente. È un grande rupofobo, ma non potevo capirlo.

Quando sono andata a casa sua ho ammirato l’ordine e la pulizia del bell’appartamento. In più, c’era la radio accesa, ma davano una brutta musica e così io mi sono presa la libertà di girare la manopola, in cerca di qualcosa di mio gusto. E lui cos’ha fatto? “Ferma!” mi ha detto, con un tono preoccupato. E mi ha ingannato un’altra volta, perché ho pensato di avergli tolto la sua musica preferita: ricordo che passava una canzone di Biagio Antonacci, che io non ho mai sopportato. “Scusami tanto, Paolo, non credevo che ti piacesse Biagio Antonacci” gli ho detto, mentre lui girava intorno alla radio con uno spruzzino che emanava un fresco profumo di limone. Antonacci non c’entrava niente: già quella volta avrei dovuto capire che Albani è un inguaribile rupofobo.

Però, non l’ho capito nemmeno la volta dopo, quando ci siamo trovati sul traghetto per andare a Capri, a degli incontri che organizzava un nostro amico. Io ero appoggiata al parapetto a godermi la vista e il venticello, e intanto chiacchieravamo. C’era un po’ di mare mosso. Albani stava davanti a me, con le gambe divaricate, mi parlava e mi rispondeva a tono. Muoveva però stranamente le braccia in micromovimenti e anche il bacino, talvolta. L’ha fatto per un’ora. “Vieni qua, Paolo. Appoggiati alla balaustra”. Niente. È rimasto dov’era. E mi ha ingannato. Ancora. Perché io ho anche pensato di essergli diventata un po’ antipatica, per il fatto che non voleva venirmi vicino. Ma come potevo immaginare che lui, mentre parlava con me, oltre allo sforzo di tenersi in equilibrio, contava mentalmente la quantità di germi che passavano dalla balaustra su di me, tutti quelli dei passeggeri che giustamente con le loro mani sudate si erano attaccati al tubolare. Guardatelo, Paolo Albani, mentre sale o scende una scala ripidissima: è capace di farsi trecento scalini senza che abbia un lieve sbandamento, mai che faccia neppure il gesto di cercare l’appoggio del corrimano. Passa ore in palestra, ad allenarsi sulla barra di equilibrio, per ottenere questi risultati.

Non so quando abbia cominciato a svilupparsi in lui la rupofobia, ma pare che si sia slatentizzata coi primi mutamenti ormonali dell’adolescenza. Sugli undici anni, lui che non era mai entrato in chiesa, dovette andare alla cresima di un lontano cugino. Stava tutto composto ad ascoltare quei discorsi mai sentiti prima, quando all’improvviso è crollato a terra svenuto. Qualcuno ha pensato a un segno dal cielo, insinuando che potesse aver visto la Madonna e il parroco voleva farlo primo chierichetto. Ma lui non ne ha voluto sapere e quella è stata la prima e ultima funzione della sua

vita. Decenni dopo, i cuginetti, ormai cresciuti, hanno raccontato che lui avevo perso i sensi al quarto supplizio del “scambiamoci un segno di pace”.

Ora, non so perché io mi sia messa a ricordare tutti questi aneddoti, che testimoniano la rupofobia di Albani. Non me l’ha chiesto certo lui. Siccome gli voglio bene ho evitato di ricorrere a quegli stratagemmi shock che pare facciano guarire all’istante il malato: ad esempio tirargli un secchio di letame addosso, oppure lanciargli – non violentemente – una scarpa vecchia piena zeppa di tracce di polvere, cacche, insetti pestati. A meno che non mi chieda lui di farlo. Perché a me pare che lui in questa sua rupofobia si trovi a suo agio. Gli permette, in fondo, di prendere la giusta distanza dalle cose e dalle persone, così come l’ha presa dalla religione cattolica. Come criticarlo? Lo hanno detto anche gli amici comuni: “Lasciamolo così com’è, Paolo”. Ha trovato il suo equilibrio e poi bisogna dire che lui, al contrario di noi, è anche pulito dentro.

Sono stato l’ultimo della famiglia a vedere mio nonno paterno vivo, in clinica.

Io, mio fratello e mia madre eravamo nella sala d’aspetto quando mio padre è uscito dalla stanza in cui stava il nonno; è venuto verso di me bisbigliando: ha chiesto di te, vai da lui, manca poco.

Sapevo che non era vero. L’infermiera mi aveva riferito che il nonno non riusciva a dire nulla di sensato da un giorno e mezzo, ma non ho ribattuto nulla e sono entrato nella stanza.

Il mio primo pensiero è stato che dentro quella stanza ci fosse puzza di morte. Il secondo è stato che la mia era solo una suggestione banale. Non conoscevo la morte e la sua puzza. A stento conoscevo quella della vita.

Il nonno era nel letto in fondo. Aveva la faccia girata verso la finestra. Quando mi sono avvicinato ho visto che non stava guardando fuori, ma accanto alla finestra. C’era un piccolo insetto sul serramento. Mio nonno lo fissava con aria ostile e biascicava parole incomprensibili. Forse stava dicendo: maledetto, tu sarai ancora vivo domani, io no. O forse nemmeno si era accorto dell’insetto, e senza vedere nulla tranne la sua stessa fine stava dicendo: che schifo, che roba orrenda son diventato, non ero così, tanto vale morire.

Mio nonno prima di entrare in clinica abitava in una casa molto bella e molto grande che tutti in famiglia chiamavamo “la casa museo”. Il nonno, e anche la nonna finché è rimasta in vita, fingevano di offendersi per il soprannome, dicendo che casa loro era una casa normale, come tutte, e che non servivano esagerazioni, ma in realtà erano contenti, se non orgogliosi.

La casa museo era chiamata così anche perché al suo interno vigevano regole che hanno a che vedere più col mondo museale che con quello domestico. Una delle principali, forse la più inderogabile in assoluto, era: non si tocca nulla di quello che si trova nei saloni, ma soprattutto non si toccano i muri. Si potevano toccare i muri della cucina, del lungo corridoio a L, dell’ingresso, dei bagni, delle tre stanze da letto, dei ripostigli, ma era vietato toccare i muri dei saloni, sia di quello grande che di quello grandissimo, perché i nonni avevano orrore delle ditate.

Non mi era chiaro se la specificità di questa regola fosse dovuta al fatto che toccando i muri delle altre stanze non sarebbero rimaste impresse le ditate, oppure al fatto che le ditate in salone erano meno accettabili delle ditate nelle altre stanze. Forse un insieme delle due cose, ma questa è solo un’ipotesi che non ebbi mai il coraggio di verificare, perché sull’argomento i nonni erano restii a dare spiegazioni. Per questo considerai da subito questa regola come una sorta di comandamento a cui obbedire senza discutere.

Solo una volta, quando avevo dieci anni, durante un pranzo segnato da una sciocca rabbia nei confronti di mia nonna che aveva cucinato terribili cavolfiori gratinati invece della solita e squisita carne al burro, ebbi un improvviso moto di ribellione. Mi alzai da tavola brandendo il cucchiaio carico di cavolfiori fumanti e mi avvicinai al muro più vicino della sala grande esclamando: guarda nonno! Guarda cosa faccio!

Mio nonno allora si sporse dalla sedia per vedere meglio, senza dire nulla. Era incuriosito più che preoccupato. Fissava con aria neutra il cucchiaio che era a non più di due centimetri dal muro. Sembrava pensare: non è possibile, questa cosa non può succedere e quindi non succederà.

Ricordo di aver pensato in quel momento che sporcare i muri dei saloni, con le dita o col cucchiaio, non solo era una cosa che non andava fatta, ma era una cosa materialmente impossibile da fare. Come se la casa avesse dei meccanismi automatici di difesa che impedivano che accadesse quello che non doveva accadere.

Tornai a tavola. Mentre terminavo di mangiare i cavolfiori tenevo gli occhi bassi. Non potevo saperlo con certezza, ma mi sembrava che il nonno e la nonna annuissero impercettibilmente all’unisono per il pericolo scampato.

Un’altra delle regole che vigevano nella casa museo era questa: il bagno grandissimo lo usano solo i nonni, tutti gli altri usano il bagno grande. Nemmeno questa regola aveva margini di flessibilità: non li aveva mai avuti, nemmeno quando eravamo piccoli e un po’ di tolleranza in tal senso sarebbe stata molto apprezzata

Una sera, però, quando avevo sedici anni, mi capitò di avere bisogno del bagno mentre anche mio fratello aveva lo stesso bisogno. Anzi, a voler essere pignoli, io avevo avuto il bisogno prima di lui, perché mi ero alzato per primo dal divano della sala grandissima su cui eravamo seduti aspettando la cena stando attenti a non toccare niente e soprattutto non il muro, ma mio fratello aveva fatto uno scatto improvviso, mi aveva tagliato la strada ed era corso nel bagno grande chiudendo a chiave la porta. Ogni tre minuti andavo a bussare dicendogli di sbrigarsi, ma lui tutte le volte rispondeva con voce strozzata di non fargli fretta.

Dopo cinque tentativi, quando ormai era passato un quarto d’ora e l’impellenza era tale da mettere in discussione anche le certezze più incrollabili, percorsi in silenzio il lungo corridoio a L e, dopo essermi guardato attorno con aria losca, entrai per la prima volta della mia vita nel bagno grandissimo. In fin dei conti, mi dicevo per autoassolvermi mentre abbassavo la maniglia scintillante della porta, al Louvre non c’è mica solo un bagno a disposizione dei visitatori.

La prima impressione fu di ordine ancora maggiore rispetto al resto della casa, tanto che in quel momento, seppur piegato dall’urgenza fisiologica, mi trovai a sorridere pensando: ma allora non c’è proprio motivo di tutti questi misteri, quante inutili storie, mi aspettavo chissà che, e invece questo è il degno bagno museo della casa museo. Quando però mi avvicinai alla tazza, mi accorsi che non era proprio così.

Sulla parete interna di quell’altrimenti inappuntabile water erano perfettamente visibili i resti di una precedente evacuazione: a suo modo splendida, appariva una lunga colata marrone, che solo in alcuni punti lasciava spazio al beige della ceramica del water.

Il mio primo pensiero fu: questa cosa non è possibile, un po’ come aveva pensato il nonno quando avevo minacciato di sporcare coi cavolfiori il muro del salone. Ma era un pensiero che si scontrava con la realtà: questa cosa evidentemente era possibile

Il secondo pensiero fu: l’unica spiegazione è che per qualche misterioso motivo qualcuno abbia portato via lo scopino del water. Forse per comprarne uno migliore, più pregiato, magari argentato. Controllai e vidi che invece lo scopino del water c’era.

Seguirono terzi, quarti, quinti, sesti pensieri che riguardavano l’impossibilità di conoscere in profondità i propri familiari, l’incoerenza o addirittura l’ipocrisia nascosta dietro certe regole domestiche, la necessità di mantenere il segreto su quello che avevo appena scoperto, il timore di essere scoperto mentre uscivo dal bagno con una nuova consapevolezza del mondo, o almeno dei miei nonni.

Finii quello che avevo cominciato, tirai l’acqua, mi imposi di non usare lo scopino e tornai nella sala grandissima aspettando la cena senza incrociare lo sguardo con nessuno.

Da quel giorno mi capitò diverse altre volte di fare quel tragitto proibito, sempre con la stessa sensazione mista di incredulità e colpevolezza. Volevo essere sicuro che non fosse un caso quello a cui avevo assistito, o addirittura un sabotaggio. In fin dei conti poteva anche darsi che quel bagno fosse stato usato da qualcun altro, per esempio mio fratello. Non era detto che fossi l’unico ad avere infranto la regola.

Non spessissimo, ma neppure raramente, e il più delle volte quando a casa dei nonni c’ero solo io, oltre a loro; la colata marrone quindi non era un episodio isolato, era opera dei miei nonni, e non potevo non metterla in correlazione col divieto di usare quel bagno. Forse non proprio un’epifania, non esageriamo, ma di sicuro un evento che modificò il mio rapporto con loro, rendendolo ancora meno spontaneo, ancora più ingessato di quanto non fosse.

Ogni tanto, specie quando mi arrabbiavo, di solito per stupidi motivi legati al cibo, avevo la tentazione di dirglielo: rinfacciargli la loro assurdità, il loro doppiopesismo salone-bagno, le loro contraddizioni ditata-colata, ma alla fine mi trattenevo sempre. In quelle occasioni, con l’idealismo fasullo dei diciassette anni, mi limitavo a squadrarli con astio e pensare: conosco il vostro segreto, non siete meglio di me, sono io che sono meglio di voi, io almeno uso lo scopino, venite a casa mia

se non ci credete.

A volte il nonno e la nonna rispondevano alle mie pose con uno sguardo allarmato che mi piaceva credere significasse: oddio, non sarà entrato nel bagno grandissimo? Non avrà scoperto la cosa segreta? Ci toccherà usare lo scopino, sempre che non sia troppo tardi. Infatti capitavano periodi in cui non trovavo tracce nel water. Ma poi, entro qualche mese, i nonni abbassavano la guardia e si tornava alla normalità, se la si può chiamare così.

Non è successo nulla che abbia turbato questa ciclicità fino a quando, qualche tempo fa, la nonna non si è ammalata e poi è morta. A quel punto, soprattutto per via del fatto che il nonno si è ostinato a non chiedere l’aiuto di nessuno, illudendosi di farcela da solo, la casa ha smesso di essere casa museo diventando casa e basta: una casa coi pavimenti opachi, le briciole sul tavolo, gli inutili soprammobili impolverati, i bagni sporchi: entrambi.

Tre settimane fa, mentre camminava faticosamente nella sala grande, il nonno ha avuto un cedimento, si è dovuto appoggiare al muro per non cadere. Io ero lì, dietro di lui, l’ho visto toccare con tutte e cinque le dita della mano sinistra il muro verde smeraldo prima di girarsi e accorgersi che avevo visto tutto. Lui ha sospirato, io ho alzato le spalle come per dire: e vabbè, che sarà mai, è solo un muro.

Mi sono avvicinato al nonno. Quando ero ormai a un passo, ha lasciato perdere l’insetto minuscolo e si è girato verso di me. Continuava a muovere la bocca sussurrando parole che era impossibile capire.

Mi sono vergognato non so bene di cosa. Per sfuggire all’imbarazzo ho detto la prima cosa che mi è venuta in mente, una frase infelice a proposito di casa sua

Mio nonno ha cominciato a ruotare gli occhi come se non capisse cosa stavo dicendo, poi ha ripreso a fissarmi con intensità.

Pensavo che si arrabbiasse, che con quel po’ di voce che gli rimaneva mi sussurrasse: ancora con questa storia della casa museo, smettila, lasciami morire in pace.

Invece ha mosso un angolo della bocca, ha fatto una smorfia che sembrava un sorriso, un rantolo che sembrava una risata. Poi ha cominciato a tossire sempre più forte, finché l’infermiera entrando di corsa non mi ha detto di uscire dalla stanza.

Venghino, sior siori, venghino! Italia Pulita vi dà il benvenuto! Pulizia nazionale un tanto al voto! Venghino! E mi raccomando, il 32 di marzobre apponghino, apponghino la croce! La apponghino sul nostro simbolo, l’aspirapolvere tricolore! Vedete quanto è facile? La grafite scorre sulla carta come seta, et voilà, la croce è fatta! È semplice, non costa fatica e, soprattutto, non costa moneta! È gratis, amici miei! Gratìs, amici partenopei! Aggràtise, amici capitolini! Gratis! I vostri sudati spiccioletti rimarranno al calduccio nelle vostre tasche! Se metterete croci a sufficienza, e se ci accorderete la vostra fiducia per quei quattro, cinque, massimo settant’anni, Italia Pulita renderà l’Italia più pulita! Ci credo, altrimenti non l’avremmo chiamata Italia Pulita, ma, che ne so, Italia Cromata oppure Italia in Fricassea! Italia Pulita, signori! Come, come dice lei, laggiù? Il nostro programma? Come faremo a rendere l’Italia più pulita? Perdincibacco, mi coglie di sorpresa, mi coglie… Nello specifico non c’avevo mai pensato. Ma via, non disperi, nessuno che sia venuto da me con una domanda se n’è mai andato senza una risposta! Allora, come faremo a rendere l’Italia più pulita? Uhm, dunque… Anzitutto, mi pare ovvio, dobbiamo scoprire che cosa la insudicia, così poi possiamo ripulirla! E cosa insudicia l’Italia? Vediamo un po’… Sì, forse… Insomma… Può darsi… Ah, ho trovato! Ho trovato qualcosa da ripulire! La droga! Va bene la droga? La droga! Ripuliremo le strade italiane dalla droga! Voglio dire, a chi non è mai capitato di camminare per strada e dovere scansare siringhe come don Abbondio scansava i sassi? Con Italia Pulita non succederà più! Stanzieremo sessanta, anzi, settanta (crepi l’avarizia) tribolioni di baiocchi! In cosa, chiederete voi, curiosi amici elettori? In appositi cestini in cui gli amici eroinomani potranno comodamente smaltire le proprie siringhe, lasciando i marciapiedi puliti e sgombri per sé e per i concittadini! E uno! Italia Pulita ha ripulito l’Italia dalla droga! Non… Non vi basta? Volete altro da ripulire? Va bene, golosi amici elettori… Vediamo, cosa possiamo ripulire? Ho trovato, eureka, I found, j’ai trouvé! Che testa che mi ritrovo! Italia Pulita ripulirà i nostri amici color cioccolato provenienti da giù! La loro presenza sarà anche gradita, ma che facce scure che si ritrovano, che vestiti laceri e impolverati, che voci cupe, piene di scatti e scatarri come un motore scassato! E che aromi audaci, in cucina e non! Italia Pulita li ripulirà! Ottanta (ma anche novanta, via) fantastiliardi di cucuzze in varechina! E ogni amico pelle d’ebano che entri in Italia, una bella doccia di varechina! Oddio, doccia… Forse la doccia evoca ambigui ricordi di natura kosher, yiddish, talmudica… Vabè, vasca da bagno? Vasca da bagno! E dopo un bel bagno di varechina, ne usciranno belli puliti come noi italiani, bianchi e splendenti, incravattati e ingiaccati, amanti della pizza, del Natale e di reticenti dichiarazioni dei redditi! E due! Italia Pulita ha ripulito i conflitti culturali! Mi pare che basti, no? No? Acciderbolina, amici elettori, siete proprio affamati di pulizia! Ma siete fortunati, siete nel posto giusto per chiedere pulizia! E adesso non devo neanche pensarci a cosa ripulire! Italia Pulita ripulirà loro, i grandi, eterni nemici dell’Italia! Non ci sarebbe neanche bisogno di nominarli, tanto voi avete capito di chi si tratti, e io ho paura di insudiciarmi la lingua, nominandoli! Ma forza e coraggio, conoscere (e nominare) per combattere! Italia Pulita li ripulirà! Loro, i marxostalgicomunistalinistakanostalgicominterneperestrojkamenevanarcotraffighetti! Ripulirà i cortili delle università dai loro oleosi giubbottini verdi con la bandiera tedesca sulla manica! Ripulirà i loro denti macchiati nel migliore dei casi dal tabacco, nel peggiore da immonde erbe di provenienza mediorientale! Ripulirà le loro bocche da quella cadenza finto-romanesca mezza ssrascigada: «Aò, dotto’, che ce mette ‘na firma su ‘a petizzione pe’ liberalizza’ ‘e canne?». Via, via, sciò, sciò, vade retro, raus! Ce la si prende tanto con le camicie! Saranno anche state nere, ma non erano certo nere di sporcizia! Anzi, belle pulite e belle stirate, coi capelli belli impomatati con la riga in mezzo (per chi ce li aveva i capelli)! Ma via, non vedo perché tediarvi ulteriormente! Vedo dei bei sorrisi sui vostri volti convinti! Vedo che siamo tutti sulla stessa, linda lunghezza d’onda! Vedo, sento, gusto, palpo, annuso che il 32 di marzobre sarà una formalità! E voi, là in

fondo? Appena arrivati? No, ma che disturbo! Italia Pulita vi dà il benvenuto! Venghino, sior siori! Pulizia un tanto al voto! Apponghino la croce, apponghino…

Scatolette nello spazio

Non sapevo che la parola Spam derivasse da sp(iced h)am, cioè carne suina speziata che era una marca di carne in scatola di pessima qualità. In verità non mi ero mai molto occupata di capire cosa volesse dire quella parolina innocua che sembrava liquidare velocemente la spazzatura prodotta nel nostro trafficare tra le mail desiderate e le tante indesiderate. Ecco, oggi ho capito che il desiderato e il non desiderato crea quel margine/argine di sporcizia, di cosa da eliminare per avere tutto chiaro e pulito – di desiderato appunto –. È bello sapere di avere un m-argine che ci difende

Chissà se nel 1962 il pittore statunitense Ed Ruscha (1937) sapeva quanto importante sarebbe diventata questa parola quando ha creato Actual Size in cui utilizza la parola SPAM a caratteri cubitali in un’opera (olio su tela) in cui tratta una delle scatolette di pessima carne di maiale come una navicella spaziale lanciata nello spazio. Non credo, ma mi sembra che di profezie in quell’opera ce ne fossero diverse. Visto che anche la sporcizia dei nostri scambi e-mail viaggiano, dopotutto, nello spazio.

ã Ed Ruscha, Actual Size, 1962

ã Ed Ruscha, Actual Size [detail], 1962

Sulla pregnanza semantica della parola sporco (per me)

Pur essendo il contesto culturale della famiglia da cui provengo piuttosto modesto, tutti in casa mia hanno sempre creduto di parlare un italiano corretto, in virtù del fatto che erano toscani e che in Toscana, si sa, si parla “l’italiano vero”, per quanto sia fumoso e poco definibile il concetto di “italiano vero” o “corretto”. Da piccino (no, qui non posso proprio dire “da piccolo”), sentivo dire uscio e raramente porta, al mezzogiorno o alla mezzanotte non seguiva certo l’una, ma il tocco, il rubinetto era la cannella e la scopa era la granata, dire ramazza o dire mento, invece di bazza, ti avrebbe addirittura qualificato come una bestia strana, proveniente da un altro habitat. Ma queste sono cose che in Toscana sanno tutti, indigeni e non, e tirarle fuori come argomento di conversazione a una cena in pizzeria mi stancherebbe come parlare degli stranieri che bevono il cappuccino all’ora sbagliata.

Un sottaciuto orgoglio di purezza linguistica si accompagnava anche a un orgoglio igienico, una specie di primato di limpieza delle cose, anziché di sangue, della persona e degli ambienti e il timore per chi si avventurava fuori dal conosciuto, specialmente al sud, anzi in bass’ItaliaI come diceva allora qualcuno, era spesso quello di incontrare lo sporco in qualche forma. Non me ne giovo, era la frase discriminante e sono contento di non sentirla più dire da anni, perché viviamo in un mondo più pulito o più tollerante, o forse no, è solo la lingua che si è impoverita.

Nei discorsi che sentivo, tenere una casa sporca, per una donna, perché le donne e solo loro sopraintendevano all’igiene, sembrava che fosse più infamante che fare le corna al marito, perché per questo ci potevano essere più giustificazioni (il marito non la considerava, oppure per primo la incornava etc etc.), ma far andare in giro i bambini sporchi o non pulire abbastanza la casa era un’accusa piuttosto grave. La parola “sporco” però mi sembra che si usasse ben poco; nella sua funzione di aggettivo e sostantivo, si diceva sempre sudicio; e quindi… prendi il sacchetto del sudicio e portalo fuori (a dire immondizia, ti avrebbero guardato male secondo me)… hai le mani sudicie e via così. Insomma, era il sudicio che si contrapponeva al pulito. Ma anche la parola sudicio aveva i suoi gradi di intensità, sentirsi dare dello zozzo, parola rivolta ai bambini piuttosto spesso, secondo me era meglio che sentirsi dire lordo, (mi accorgo mentre scrivo che nelle parole sporco, zozzo e lordo, l’unica vocale presente è la o, ma non ne voglio ricavare nessuna considerazione che tiri in ballo significante e significato), lordo era parola di una certa gravità. Lordo per esempio era il ragazzetto che se ne andava in giro con le gorate di roccia o roccino, ovvero quelle incrostazioni di polvere che si formavano, incollandosi al sudore in certe zone del corpo, come sul collo o intorno alle caviglie e che erano prova di una giornata di giochi trascorsa all’aperto o di poca frequentazione con l’acqua e il sapone in generale; zozzo indicava invece uno sporco più consapevole, un’attitudine incorreggibile, poteva essere il pasticciere che non puliva la vetrine delle paste lasciandoci le ditate e permetteva magari alle mosche di volteggiare nervose sopra le briosce e i bignè. Si sentiva dire ogni tanto anche lercio, usato per esempio a riguardo di un bicchiere, la cui trasparenza era appunto viziata da sporco di varia natura, senza contare, come per le altre parole sopracitate, ogni uso del termine in senso morale, perché qui la questione porterebbe a troppe relativizzazioni.

Sporco, come lurido, che sentivo solo nei film (lurida sgualdrina!) mi veniva da associarlo alla tv e alla pubblicità, perché ce n’era una (non ricordo però di quale prodotto) che parlava di sporco ostinato, come una specie di piaga da debellare. Poi negli anni non ci ho fatto più caso alla sottile differenza tra sporco e sudicio, ma ancora oggi una cosa sporca non mi pare così sudicia.

Micrologie

Compiutezza assoluta

I naviganti la individuano senza bisogno di radar o altri marchingegni navali dato che il suo fetore, ben prima del suo tozzo profilo, la rende percettibile già da molto lontano. Dice la leggenda che le origini dell’isola e della sua forma strana vadano cercate in un remoto passato, quando nelle discariche di tutto il pianeta le montagne di sporcizia ancora fumanti venivano compresse da macchinari speciali che le riducevano in cubetti di piccolissime dimensioni. Questi cubetti venivano poi inscatolati a gruppi dentro contenitori anch’essi cubici che a sua volta venivano raggruppati in strutture cubiche sempre più grandi; così le dimensioni crescevano e crescevano, finché, ammassando scatole su scatole, si raggiungeva la dimensione massima: un cubo gigantesco di circa cento chilometri per lato. A quel punto lo si trasportava in mare aperto e lo si abbandonava alla deriva. L’isola, detta appunto Isola Tetragona, non sarebbe altro che uno di questi immensi cubi, col passare dei secoli ricopertosi di vegetazione e altre forme di vita.

Naturalmente si tratta di una leggenda, una diceria originata forse dai sensi di colpa verso l’inquinamento ambientale che l’umanità ha prodotto fin dai tempi più antichi. Se la storia fosse vera, si sarebbero trovate da qualche parte, oltre a questa, altre simili isole cubiche sparse per i mari. Invece, nonostante le numerose ricerche di archeologi e avventurieri vari, i risultati sono stati nulli e la nostra si può considerare la sola e unica isola cubica dell’universo.

Tuttavia la puzza millenaria che perennemente si sprigiona dalla sua superficie, così riassuntiva di tutte le puzze del mondo, è tale che qualche dubbio sul fondamento reale della leggenda non può essere escluso. Del resto il cubo, come figura geometricamente perfetta, contiene in sé l’idea della compiutezza assoluta, della creazione e del suo completamento. Sudiciume incluso, con tutti i suoi acidi miasmi.

La macchina della verità

I suoi pensieri erano così sporchi che non aveva il coraggio di confessarli neppure a se stesso, ma gli altri se ne avvedevano ugualmente dei suoi pensieri sporchi per via del suo viso, un viso così espressivo che non riusciva a nasconderli.

Era come portarsi appresso una macchina della verità fatta di muscoli facciali e occhiate meccanicamente disvelatrici. E per giunta dal suo naso colava liquame, dalla bocca sborravano caccole puzzolenti, dalle orecchie gocciolavano scarafaggi e altri insetti schifosi, vermetti bianchicci fuoriuscivano contorcendosi dagli occhi, i capelli unti di lardo acido e croste di muco. E, come aureola, uno sciame di moscerini ronzante sopra la sua testa. Trasparenza assoluta, insomma. Fuori come dentro.

Ma mostrare a tutti senza alcun filtro i propri disdicevoli pensieri può imbarazzare. Per questo usciva poco e quasi mai si mostrava in pubblico. Un atavico pudore gli proibiva di esporre ai sette venti la sua esecrabile feccia cerebrale.

Di conseguenza era sempre depresso e arrivò persino a pensare di suicidarsi, ma poi si consolò con l’idea che in fondo, più che a se stesso, era sempre meglio pensare di dare la morte ai vicini di casa, quei marocchini di merda, quei froci bastardi.

Una sveltina

La ragazza si stava lavando le mani quando un giovane entrò dalla finestra e le chiese: Cosa stai facendo? Mi sto lavando le mani, rispose con un sorriso la ragazza, continuando a lavarsi le mani.

Osservandola da dietro, china sul lavandino, il giovane notò che la ragazza era proprio una bella ragazza e le disse: Eh, di questi tempi l’igiene delle mani è molto importante. Certo – rispose lei – è molto importante, di questi tempi. E senza smettere di lavarsi, sbirciando attraverso lo specchio, si avvide che il giovane era di suo gran gusto.

Posso offrirti qualcosa?, chiese al giovane tenendo le mani sempre sotto il rubinetto. Grazie, una birra andrebbe benissimo.

Senza smettere di lavarsi, la ragazza andò in cucina e prese dal frigo due birre. Così, mentre lei continuava a lavarsi, si scolarono le birre

Eh, di questi tempi l’igiene delle mani è molto importante, commentò infine il ragazzo. Rimasero in silenzio e dopo un po’ aggiunse: Mi daresti un bacio?

Lei non vedeva l’ora, dato che il giovane era di suo gran gusto, e mentre continuava a lavarsi le mani gli porse le labbra e poi le tette e poi tutto il resto.

Si liberarono dei vestiti e finirono a letto ma, dato che di questi tempi l’igiene è molto importante, la ragazza continuò a lavarsi le mani sino all’esplosione finale dell’orgasmo.

Sotto la doccia

L’acqua mi scorre addosso, sono avvolto di schiuma. Non smetto mai di lavarmi, sfregarmi, desquamarmi, insaponarmi, non riesco a smettere, è più forte di me, ma non va via.

Mi gratto sotto le ascelle, ma non va via; mi sfrego i capelli, il torace, le natiche, ma non va via. Uso scopette di saggina, spugne di lana metallica, striglie acuminate, bruschini di acciaio, mi copro di liscivia estratta dalla cenere, mi spalmo di grasso animale o vegetale, soda caustica, polvere esfoliante, acidi; ma non va via. L’acqua mi scorre addosso, scorre e scorre inutilmente.

Mi si sono formate per tutto il corpo squame dorate che mi rendono simile a una triglia obesa. Continuo a lavarmi, a sfregare, scartavetrare, ma non va via. Il glande resta imbrattato, il torace una pianura di sabbia impastata di alghe, i piedi incrostati.

Io mi lavo, non riesco a smettere. Mi lavo, mi lavo, ma non va via. Neppure con la carta vetrata va via.

È diventata sottocutanea, intracellulare, infrapilifera.

Avrei bisogno di un buon avvocato, chi può consigliarmene uno?

G i anfranco Mammi

Columba livia domestica

Secondo me i piccioni bisogna farli tutti allo spiedo. Vivi. Faccio per dire, perché in realtà sono un animalista convinto, anzi un feroce animalista. Però quanto sporcano i piccioni! Un mio conoscente che preferisce rimanere anonimo li ha definiti i topi di fogna del cielo, i maiali volanti. Che poi i maiali, mica sono sporchi – è l’allevamento tradizionale che li costringe a vivere nei propri escrementi; poveracci, hanno la cute molto delicata, i nostri cari amici suini – devono tenerla costantemente lubrificata, sennò si screpola. Sareste contenti voi, di avere l’epidermide gravemente fessurata? Non credo proprio. Hanno fatto un esperimento, non so dove: date ai maiali una piscina d’acqua pura, e loro saranno sempre pulitissimi e con la pelle da fare invidia a un neonato. Ma adesso sto divagando – dai piccioni ai suini ai neonati, la strada è lunga e accidentata.

Torniamo ai nostri piccioni: chissà che sapore hanno. Io non li ho mai assaggiati perché mi fanno troppo schifo, ma un mio vecchio amico di cui non faccio il nome sostiene che la loro carne dà piuttosto sul dolciastro. Ecco, non sono nemmeno tanto buoni da mangiare, vien da dire. Poi immagino che al mondo ci siano anche gli amanti della carne zuccherosa, ormai non mi stupisco più di niente, ma non devono essere mica tanto numerosi questi pervertiti.

A pensarci bene, i piccioni sporcano anche l’aria, con il loro stupido gorgogliare. Al primissimo sorgere del sole, eccoli che cominciano a zampettare gonfiando il petto e lanciandosi l’un l’altro i versi più idioti e più insensati; cos’hanno da raccontarsi, questi bellimbusti, tutto il giorno? È così movimentata e interessante la vita dei piccioni? Mi sa tanto di no, ma quelli se ne fregano altamente e continuano a tubare dalla mattina alla sera. E se tenti di scacciarli in qualche modo, ti guardano con quei loro mostruosi occhi arancioni come a dire “Embè?” e non se ne vanno.

So di alcuni sindaci della mia città – attualmente purtroppo non più in vita – che hanno addirittura promosso l’importazione di piccioni dal Nordafrica per abbellire l’ambiente urbano. Avevano in mente Piazza San Marco, quei signori. Adesso bisognerebbe chiedergli i danni, ma ormai è troppo tardi: il reato si è estinto con la morte del reo, come prevede l’articolo 150 del Codice Penale.

Un ultimo quesito e poi mi taccio: chi li ha inventati i piccioni? Cosa gli passava per la testa, a questo bell’ingegno? Dev’essere stato lo stesso cervellone che ha concepito le zanzare. Quelle, almeno, non sporcano, se non quando le schiacciamo contro al muro. Rimane una bella macchia di sangue (nostro), ma ne vale sicuramente la pena

L’audizione

In quanto a me stesso non serve dilungarsi troppo.

Sappiamo che sono uno sceneggiatore, che ho trentatré anni, che ho un cognome dal sapore militaresco, Mazza – anche se in realtà sono un pavido e il solo pensiero di essere coinvolto in una scazzottata mi fa rabbrividire di terrore –, che sono emiliano, e che Roma, la città in cui vivo da qualche anno, è per me un alfabeto di una lingua oscura, ostica, la cui comprensione mi genera emicranie tutt’altro che passeggere.

Sono agitato più d’una cernia inseguita da un barracuda.

È giunto il giorno dell’audizione al MIBACT (Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo), l’ente preposto a vagliare i progetti cinematografici e ad erogare i contributi.

Mi sento una spina di pesce in gola.

Arrivo trafelato davanti all’entrata del palazzo, un vecchio edificio storico dall’aspetto cimiteriale. Il produttore lo incontrerò al piano.

Entro dall’imponente portone principale. Mi dirigo con passo svelto all’ascensore. Un cartello recita: «L’ascensore è fuori uso». Di fianco una scritta sul muro pasticciata con un pennarello: «Non ne possiamo più, animali!». Noto poi che ce ne sono altre, alcune parzialmente cancellate dagli anni, tra queste mi colpiscono quelle più strillate: «Siete degli invalidi mentali» e «Vi piscio in testa».

– Sporcano tutto il muro – mi dice un usciere alla guardiola. Probabilmente ha notato che sono stato attratto dalle tracce sulle pareti di colori e fatture diverse – una è perfino scritta col rossetto – e poi prosegue flemmatico:

– Bisognerebbe pulire, ma chi lo fa?

Mi anticipa in quella che mi è sorta come una domanda spontanea che mai vedrà la luce.

– Io no, non ci penso neppure. Non rientra nel mio mansionario. – E così dicendo s’accovaccia in un ghigno ristoratore.

Quello sporco, almeno a detta dell’usciere, da voce a chi voce non ce l’ha, mi solletica la voglia di cimentarmi anch’io in un commento lapidario che imbratti quelle pareti ammuffite e cadenti, e qualora, penso, per un qualche miracolo questo luogo dovesse perdurare negli anni, forse secoli, chissà? nel lontanissimo futuro riesco a immaginarli i turisti in visita, con il naso all’insù, a rimirare i segni dei loro antenati, i turisti in rispettosa contemplazione verso i vecchi homo sapiens – i segni del passato, soprattutto se hanno a che fare con la scrittura muovono gli umani, se non sempre quasi, verso a una forma di reverenza –, i turisti che si dicono guarda un po’, com’erano acuti e creativi i nostri antenati, non come ora che siamo tutti seri e noiosi, con i labiali compressi in forme di verbigerazione pre-determinate da ASIMOVIS, e che pratiche strambe avevano quando si dovevano recare nel tempio della cultura capitolina; “Vi piscio in testa”: il rispetto, addirittura! direbbero i nostri posteri, si mostrava con i gerarchi della cultura – sommi saggi venerati da tutta la popolazione (così si leggerebbe nella guida digitale) – in una forma di ribaltamento di ruolo: l’eletto reclinava il capo verso il sottoposto accogliendo del di lui prodotto finale dell’escrezione renale espulso attraverso l’apparato urinario, un tempo antico noto col sostantivo di pipì.

Non posso però perdermi in elucubrazioni sul futuro dei miei pro pro nipoti. Mi do una mossa. Raggiungo il largo scalone monumentale e lo percorro a balzi, manco fossi una rana con dei petardi nelle chiappe.

Arrivo al piano dedicato alle audizioni in evidente affanno. Non bado al gruppetto di persone che sosta nel vano, bensì cerco con lo sguardo di cogliere quanto prima l’ubicazione della bacheca con l’ordine delle audizioni. Una voce, alle mie spalle, mi coglie di sorpresa.

– Ciaooo – mi dice una donna che evidentemente mi conosce, e ne dà prova dilatando a dismisura la o ad emblema del suo slancio amicale; io, invece, non ho ricordo di lei ed è come se la

vedessi per la prima volta. Ha occhi grandi e direi un pizzico troppo distanziati, come se il bisogno continuo di guardare sia davanti sia di fianco li avesse spinti a migrare ai bordi del viso.

– Ciao, come va? Anche tu sei qui per l’audizione? – replico mezzo intontito.

– Sì, sono il numero trenta, dovrei entrare adesso, e tu?

Non so ancora... – riesco a mettere all’amo un ricordo che pesco fortuitamente dalla memoria: l’ho conosciuta mesi addietro ad una festicciola di cinematografari, e ho visto anche un film da lei diretto che, in sala, mi aveva fatto sprofondare in uno stato d’abbandono narcolettico.

– Sono appena arrivato, aspetto il produttore... In realtà io non sarei dovuto essere qui ma la regista si è ammalata, allora...

M’interrompe prima che riesca a finire la frase.

– Scusami, scusami ma adesso devo entrare, sta a me, ciao e in bocca al lupo!

– Crepi. – Lo dico più a lei che come segno di buon auspicio.

Raggiungo finalmente il tabellone che è stato, con la consueta perfidia ministeriale, nascosto dietro un attaccapanni rigonfio di giacche.

Il nostro film è il numero sessantasette.

Mi siedo rassegnato e aspetto.

Dai racconti del produttore ho appreso che al Ministero non si sa mai come va, i numeri dovrebbero garantire un certo ordine e un conseguente tempo d’attesa ma, in un batter d’occhio, tutto può cambiare. Ci sono persone che non si presentano, altre alle quali, per vari motivi, è data la precedenza; mi ha detto il produttore – sempre lui – di situazioni, negli anni, in cui dal numero trenta si è passati al cinquanta nel giro di venti minuti e altre in cui, per spostarsi di un numero, è trascorsa più di un’ora: pausa pranzo, pausa caffè, pausa bagno, pausa sigaretta, pausa chiacchiera, pausa e basta. La commissione ha diritto alle sue pause e nessuno obietta in merito.

Aspetto così a lungo che la tensione ha tutto il tempo di sciogliersi in una pozzanghera di tedio. L’ansia è lentamente evaporata sopraffatta dalla noia.

Cinque ore dopo, compare il produttore, irraggiungibile fino a quel momento al telefono cellulare.

Mi si para di fronte, magrolino, con una giacchetta stropicciata e una cravatta impiegatizia – è una persona che ha sempre mostrato un certo garbo nei miei confronti e verso la quale non riesco ad attestare alcun tipo di recriminazione –, ha un volto talmente triste e rassegnato che non ho la forza di lamentarmi del suo ritardo.

– Scusami, – mi dice a mezza voce, – ma mi sono completamente dimenticato di comunicarti il nuovo orario dell’audizione... Guarda, ho avuto mille cose da fare... – E poi si blocca, di colpo, quasi gli si fossero gelate in gola le parole che stava per dire.

– Certo, immagino. – Gli dico, pensando perché mai i romani credano che solo loro abbiano mille cose da fare.

– A che numero siamo? – mi chiede.

– Al numero sessantuno. Tra poco, se non fanno una pausa, dovrebbe toccare a noi.

– Bene, sono così stanco di aspettare.

Di aspettare, penso, ma se sei appena arrivato. Lo guardo di sottecchi, espiro sbuffando, e mi soffio il naso.

Sospettoso si guarda intorno, poi nervosetto, sottovoce, mi chiede.

– Sei preparato sulla sceneggiatura, vero?

– L’ho scritta insieme alla regista, credo proprio di sì – replico atteggiando una sicurezza insolita per il mio carattere.

– E sulla regia?

– So quello che mi ha detto la regista, che è quello che sai anche tu. Ci atteniamo a quello, giusto? O hai altri elementi d’aggiungere?

– No, no, diciamo pure quello che ci ha detto lei. Ma mi raccomando non parlare del dialetto.

– Come faccio scusa? – dico con stupore, ben conscio del fatto che il film è scritto quasi

interamente in dialetto siciliano. – Se l’hanno letta, sapranno che è scritta in buona parte in dialetto. Più di metà... – Sì, ma vedrai che non se ne sono accorti – dice, interrompendomi. – Loro non leggono nulla. Leggono il titolo, le prime pagine, se va bene, e poi decidono in altro modo. Hanno i loro criteri. Mentre penso ai loro criteri una voce giunge stracca dal fondo del corridoio: – Sessantasette.

Ci alziamo e ci dirigiamo nell’aula dell’audizione. Entriamo. È un’ampia stanza con un lungo tavolo al centro. Da un lato siedono i membri della commissione mentre, dall’altro, stazionano due sedie pronte ad accoglierci. Salutiamo e ci accomodiamo e, come di rado mi accade, il mondo trascolora in un altro. La tensione prodotta dalla situazione mi fa calare all’interno di una delle mie visioni narrative, la psichiatria le appella come falsificazioni percettive, ma stavolta non svengo, né collasso, né la pressione mi si alza a livelli preoccupanti. Tutto mi appare diverso dalla realtà, ma con quel tutto riesco comunque a interagire, a relazionarmi, a rispondere a segno.

Il presidente della commissione è per me ora una balena con gli occhiali spessi, ha la fronte imperlata di sudore ed emana, anche se è tardo pomeriggio, un forte odore di acqua di colonia al mentolo. Alla sua destra si trova una donna che ha tutto l’aspetto di una foca in grigio, sui cinquanta, le labbra fatte di due cuori congiunti smaltate in un rosso lampone dei più procaci, le conferiscono l’aspetto e il prestigio formale momentaneo d’una tenutaria di una qualche casa di appuntamenti un po’ scaduta di rango; di fianco a lei un omino che m’appare come un pinguino annoiato intento a bisbigliare al cellulare mentre si nasconde il becco con l’ala, è un uomo talmente freddo che mi sembra esistere soltanto di profilo, come su una moneta. Alla sinistra del presidente della commissione nonché balena, un uomo pallido pallido, per me già merluzzo, civetta con una donnetta dall’aspetto di triglia, con un paio di orecchini che scintillano più del lampadario di cristallo che potrebbe penzolare in un teatro comunale di una grande città.

Le labbra foniche del presidente della commissione emettono un suono cupo.

– Vedo che non avete ancora chiuso il budget.

Il produttore, risponde, saldo.

– No, infatti, è per questo motivo che abbiamo fatto richiesta per un contributo ministeriale. Il presidente-balena non gradisce la risposta decisa del produttore e la sua replica lo dimostra: sbatte prepotentemente la coda a pelo d’acqua alzando un’onda di spruzzi che c’infracida tutti.

– So bene il motivo per cui siete qui, ma nel vostro piano finanziario non vedo un pre-acquisto da parte di RAI cinema.

– Siamo in trattativa – dice, sulla difensiva, il produttore.

– Non vedo neppure un pre-acquisto da parte di un distributore.

– Il distributore sta aspettando di capire se otteniamo il contributo ministeriale per completare il film e solo dopo potrebbe impegnarsi in un contratto di distribuzione.

– Non siamo un ente caritatevole – ci ammonisce la balena con tono baritonale.

– Certo, però è impossibile avere un impegno di Rai Cinema e di un distributore per un’opera seconda senza avere la garanzia del contributo ministeriale. Entrambi i soggetti sono alla finestra e attendono di capire se il Ministero finanzierà il film, cosa che, visto il valore della regista e della sceneggiatura, sarebbe altamente auspicabile.

Si intromette la donna-foca – moglie di un noto politico del nostro sovrano Parlamento – sulle cui competenze cinematografiche nutro qualche dubbio:

– Lei però non cerchi di influenzare il nostro giudizio. Sta a noi determinare il valore artistico dell’opera.

La donnetta-triglia, avendo sentito una voce femminile, non volendo perdere il primato d’autorità femminile, s’infervora abbandonando momentaneamente il pallido uomo-merluzzo al suo destino:

– Infatti. E lei, – e così dicendo nuota fino a giungere davanti al mio naso, – lei che cosa ci dice della sceneggiatura?

Con il fazzoletto di carta usato in precedenza mi asciugo il volto che avverto bagnato e come impiastricciato di sale marino.

Comincio a parlare ma, dalle mie labbra, invece che parole escono bolle d’aria, minuti palloncini d’ossigeno che si rincorrono tra loro scherzando e trastullandosi in vortici armoniosi; dal basso si dirigono in un moto ascensionale verso l’alto, dove la luce, di taglio, conferisce loro volumi multiformi; e più parlo e maggiori di numero sono le bolle che ballonzolavano – come solo loro sanno fare – dalle mie labbra, fluide, su su fino a dove finisce il mare. Io riprendo fiato e proseguo a raccontare la storia del film e le vicende dei protagonisti, l’uso del dialetto e l’impianto narrativo. Altre bolle, questa volta più grandi per dimensioni e numero, dalle mie labbra escono in volo e filano, come le loro precedenti consorelle, verso l’alto e verso il sole, interrotte nel loro fluttuare marino, dal fugace quanto repentino passaggio di un branco di pesciolini dispettosi.

Quando siamo fuori dall’audizione il produttore mi si accosta.

– Hai parlato bene. Sei stato capace di difendere la sceneggiatura con competenza e partecipazione.

– Grazie – gli dico, mentre mi asciugo il volto imperlato di sudore. Il produttore apre il pacchetto di sigarette, me ne offre una che accetto volentieri, e poi se ne estrae una per sé; se l’accende: dà un lungo tiro, dopodiché, esala il fumo nel cortile d’entrata del grande palazzone ministeriale. Mi sembra che ci provi gusto ad osservare il fumo mentre a refoli lascia le sue labbra e si sparge nell’aria; e poi, d’improvviso, si scuote, quasi qualcuno l’avesse tirato per la giacca.

– Ora devo andare Mazza, sono già in ritardo. Ci si sente.

E così mi volta le spalle, s’incammina, e a me pare un cavalluccio marino che saltella nell’acqua sbatacchiato a destra e a manca dalle onde, ma dopo un paio di passi si blocca, indugia per un attimo, si rigira e mi dice.

– Non credo ci daranno mai il contributo.

Mi prende una voglia irrefrenabile di scrivere anch’io qualcosa sul muro, qualcosa di sporco, d’osceno, qualcosa che rimarrà a futura memoria, e mi sa proprio che questa voglia di libertà l’asseconderò.

Un pubblico discorso

Non mi ero trasformato in un grosso insetto né mi era scomparso il naso, eppure quella mattina, quando mi svegliai, sapevo di essere diverso: per la prima volta nella mia vita ero un uomo pubblico

Ho sempre cercato di starmene, in generale e nei limiti del possibile, alla larga da tutto. Conducevo quella che a buon diritto si può chiamare una vita tranquilla. Anche nei rapporti personali avevo messo a punto una specie di neutra cordialità che mi permetteva di tenere le distanze, senza rischiare di perdere del tutto il contatto con gli altri. Pensavo infatti che potesse essere solo nocivo considerare inesistente il mondo esterno e più saggio mantenere nei suoi confronti un utilitaristico stato di attenta difesa.

In più sono quello che si dice un tipo mite, e considero questa mia caratteristica la principale responsabile del distacco da un mondo che di mite ha ben poco. Soffro di una timida mitezza condita da sensi di colpa vari, in poche parole mi riesce sempre difficile dire di no.

La metamorfosi cui sopra accennavo ebbe inizio una sera che poteva sembrare del tutto somigliante a tante altre. Mi trovavo pacificamente sprofondato in poltrona a seguire il filo dei miei pensieri, quando esso venne inopinatamente spezzato dal suono del campanello.

Pure se a volte sono apportatori di buone notizie, non riesco tuttavia a non sentire un’impulsiva avversione nei confronti del campanello e del telefono. La prima immagine che il loro squillo mi richiama alla mente è quello di una tromba che dà il segnale d’attacco. Come sempre e in più data l’ora tarda, anche quella volta la mia prima reazione fu un allarmato trasalimento, da cui mi ripresi per andare cautamente a vedere chi potesse mai essere. Giunto così alla porta, la aprii e mi trovai di fronte Vittorio.

Anche se avessi potuto affermare con sicurezza di avere degli amici, Vittorio non avrebbe fatto parte di questi. Era un conoscente, una persona con cui mi era accaduto sovente di scambiare quattro chiacchiere, niente di più. Di lui sapevo solo che era un buon avvocato e che si occupava di politica per lo stesso partito che io votavo. Era anche una di quelle persone che sembrano in ogni circostanza del tutto a loro agio. Nonostante fossimo quasi coetanei, ovvero entrambi di mezza età, i suoi capelli, a differenza dei miei, erano ancora folti, scuri e formavano una serie di perfette, quanto inamovibili, ondulazioni e, da una tuta a un abito elegante, qualsiasi cosa indossasse gli cadeva perfettamente a pennello.

– Ciao, come va? – mi disse stringendomi la mano e accomodandosi in casa mia senza tante cerimonie.

– Bene, cosa posso fare per te? – pur temendo la risposta, non so perché mi è sempre piaciuta questa frase.

– Ascolta, – disse Vittorio sedendosi, – vengo subito al punto. Sai che tra poco ci saranno le elezioni comunali e il nostro partito mi ha chiesto di cercare qualche nuovo candidato. Questo per comunicare agli elettori la nostra reale volontà di rinnovamento e tu sai quanto ce n’è bisogno in questo momento. Così ho pensato a persone politicamente vicine a noi e tuttavia nuove per la politica, con una reputazione di intelligenza, serietà e onestà, non troppo vecchie né troppo giovani, insomma persone dotate dei requisiti di cui abbiamo bisogno; così tra gli altri mi sei venuto in mente tu. Che ne pensi?

Già alle prime parole di Vittorio, un brivido mi aveva traversato il corpo, lasciando sulla sua scia un formicolio che celermente aveva coperto lo spazio che divide la testa dai piedi. Cercai allora di riprendere un po’ il controllo della situazione rimettendo in funzione il mio cervello appannato: – Ma io di politica non capisco veramente nulla!

Vittorio sorrise: – Non è importante. So che tu sei una persona intelligente e la politica, come tutti i mestieri, la si può tranquillamente imparare facendola. Del resto potrai sempre contare sui colleghi più anziani, e spero d’esserci anch’io, per avere qualsiasi tipo di sostegno e consiglio. Di questo, insomma, non mi preoccuperei affatto.

Avrei potuto dire subito di no, ma ormai l’attimo me l’ero giocato, anzi mi ero infilato nel tunnel delle timide obiezioni che Vittorio, da buon avvocato, avrebbe brillantemente smontato. Ero con le spalle al muro. In più a ogni mia obiezione corrispondeva una sua replica sempre introdotta da un elogio delle mie qualità e, come tutti, anch’io sono sensibile ai complimenti e timoroso di contraddirli. Quella però che mi mise definitivamente alle corde fu la conclusione di Vittorio che affabilmente minaccioso disse: «E poi in questi tempi di grande rinnovamento, ogni persona capace dovrebbe dare il suo contributo».

Ora ero proprio KO. La mia già scarsa propensione a dire di no, era del tutto vinta. Giocai, nell’ormai disperato tentativo di prendere tempo, l’ultima carta possibile e sforzandomi di apparire sereno, chiesi: «Vorrei pensarci su».

Apprezzo la tua serietà, – ribatté, – ma purtroppo, come sai, siamo già sotto elezioni e bisogna decidere subito. E rimase in fiduciosa attesa.

Era finita. Non mi rimase che dire quasi sottovoce: – Bé…, allora proviamo.

Vittorio si fermò ancora un po’ e mi costò molta fatica chiacchierare con lui del più e del meno. Poi, già sulla porta, come se gli venisse in mente in quel momento, si accomiatò così: – Per domani sera è organizzata una cena informale per presentare i candidati, mi raccomando. – Mi diede il nome del ristorante e finalmente uscì.

Qualunque cosa stessi facendo, il giorno seguente fu in gran parte dedicato a escogitare una via di fuga dalla situazione in cui mi ero cacciato. Pensai, tra l’altro, di darmi malato, ma questa scusa avrebbe solo ritardato la cosa. Arrivai anche a concepire una vera e propria fuga temporanea dalla mia città o a immaginare semplicemente la possibilità di esprimere in modo diretto un garbato rifiuto. In questi casi, tuttavia, avrei dovuto rassegnarmi a una macchia su una reputazione a quanto pareva immacolata e a cui tenevo.

Constatata l’impossibilità di trovare scampo, cercai alla fine di adattarmi nel migliore dei modi all’inevitabile, aggrappandomi alle rassicuranti, oltre che lusinghiere parole di Vittorio. Il risultato di tutto questo rimuginare fu che, quella sera, giunsi all’appuntamento in uno stato di totale confusione.

Con mio sollievo, la sala del ristorante non era affollata. La cena era riservata solo ai candidati e ai più autorevoli sostenitori. L’accoglienza che ricevetti fu molto calorosa, con grandi strette di mano e amichevoli pacche sulle spalle da parte di persone che a malapena conoscevo di vista. Cercai con gli occhi Vittorio che si trovava però nella mia stessa condizione e capii così che avrei dovuto provare a cavarmela da solo. Per alleggerire il nuovo carico di tensione e tentare di mantenere un tono brioso nella conversazione, cominciai a bere tutto ciò che mi veniva prodigalmente offerto.

Abitualmente io non bevo alcolici, anche se in particolari circostanze non rinuncio al piacere del vino. La mia soglia di ebbrezza è quindi alquanto bassa e dopo un paio di bicchieri sento già sciogliersi la lingua. Fortunatamente non soffro di ubriachezza molesta. Passo infatti da uno stato di ubriachezza modesta e spiritosa direttamente al malessere fisico, e conoscendomi, cerco sempre di fermarmi un passo prima della soglia del malessere.

Anche quella sera bevvi molto, ma non troppo. A tavola dissi un sacco di sciocchezze che il giorno dopo avrei solo vagamente ricordato, ma dalle risa, alcune fino alle lacrime, dei miei vicini devo desumere che riuscii a essere particolarmente brillante. Osservavo gli altri candidati che sembravano tutti a loro agio. Per mia fortuna la serata era solo conviviale e non vi si discusse della campagna elettorale, così riuscii senza particolari problemi a tenermi in sintonia con l’aspetto disinvolto dei miei colleghi. Ricordando lo stato d’animo con cui vi ero giunto, dovetti riconoscere che per me quella cena fu un vero successo.

Poiché si era fatto tardi e io ero venuto a piedi, vedendomi provato dalle abbondanti bevute Vittorio si offerse premurosamente di riaccompagnarmi a casa in macchina. Durante il tragitto continuai a snocciolare battute per il suo divertimento, ma giunti sotto casa mia le ultime parole di Vittorio mi scossero per un attimo dal mio ebbro torpore. Salutandomi, infatti disse: – Domani sera ci troviamo tutti alle nove al cinema comunale per la presentazione ufficiale della lista. Dovremo fare un breve discorso, ma non preoccuparti. Domani pomeriggio quando uscirai dal lavoro, passo da te per darti una mano. Nel frattempo, visto che conosci bene questa città, butta giù qualche idea, tanto per avere una traccia, poi insieme la sistemiamo. Ciao, a domani.

Nonostante l’artificiosa allegria alcolica entrai in casa sentendomi un po’ suonato. Mentre mi spogliavo per andare a dormire, iniziai confusamente a pensare che, dato il poco tempo, sarebbe stato un peccato non cominciare subito a mettere sulla carta qualche idea, sfruttando ciò che restava dello slancio preso nella serata. Mi sedetti così allo scrittoio, presi della carta, una penna e provai a concentrarmi. Dopo una breve attesa alcune idee si mossero nella mia mente e ben presto la mano iniziò a correre sul foglio.

La mattina seguente mi svegliai di buon’ora e causa i postumi della bevuta, feci dapprima un po’ fatica a ricostruire la scena. Preso atto della mia metamorfosi, mi ricordai alla fine d’essermi svegliato presto per poter dare, già prima d’andare al lavoro, una veloce occhiata agli appunti scritti quella notte. Ancora in pigiama mi sedetti quindi allo scrittoio e presi in mano speranzoso i fogli che vi si trovavano. Cominciai a leggere.

DISCORSO ALL’UMANITÀ

Cari amici, in questi tempi di grande rinnovamento, ognuno dovrebbe dare il proprio contributo, e anch’io, nel mio piccolo, posso con orgoglio affermare che da sempre ho atteso con solerzia e perseveranza a un unico obiettivo: la pulizia del naso.

L’usanza di bollare questa attività con aggettivi che vanno da maleducata a ripugnante, ha fatto sì che, essendo universalmente praticata a vari livelli e con soddisfazione, sia divenuta a causa dell’ignominia che la circonda quanto di più intimo possa vantare il genere umano. A un amico possiamo confidare d’aver rubato o fatto del male a una persona, possiamo raccontare nei dettagli un rapporto sessuale o qualsiasi nostra fantasia sull’argomento, parlare, dando prova di estrema confidenza, di cose di cui a torto o a ragione il mondo ci impone di vergognarci, ma della pulizia del nostro naso, no.

È curioso come due parole così positive, per non dire addirittura nobili, se riunite da una piccola preposizione articolata, esplodano come una bomba. Il naso è certo un nobile organo, importante sia per la respirazione, fonte primaria di vita, sia perché sede dell’olfatto, organo di senso che, decaduto come utilità nell’uomo rispetto ad altri animali, ha per noi acquistato una forte componente estetica. Il significato di pulizia è a sua volta assai esteso e procede dall’igiene quotidiana fino all’anima. Bene, provate a unire in pubblico questi due evocativi termini con un piccolo del e diverrete all’istante il centro di un cerchio i cui raggi saranno costituiti da un’unanimità di sguardi carichi di disgusto.

Essendo un grosso produttore di muco, il mio naso non mi ha mai deluso. L’osservazione dei reperti dopo ogni spedizione speleologica ha dato strabilianti risultati. Potrei ammirare le forme di quelle che vengono volgarmente dette caccole con lo stesso spirito estatico con cui si cerca di dare una forma riconoscibile alle nuvole primaverili. «Guarda una nave!», «No, è una donna sdraiata!», e così via.

Come tutti gli esseri umani anch’io amo sperimentare, in conseguenza di ciò quell’attività primaria ha generato una serie di azioni collaterali come, ad esempio, la pulizia delle orecchie col dito mignolo, degli occhi col dito medio, delle unghie coi denti e dei denti con le unghie. Ritengo che la cosa più importante che ho appreso negli ultimi anni, sia stata la pratica di schiacciarmi la morbida parte laterale del naso. Veder uscire quei filettini di grasso simili a tanti piccoli spauriti

vermicelli è stata una scoperta tanto straordinaria da provocare in me il rammarico degli anni perduti nell’ignoranza.

La pulizia interna del naso resta tuttavia ineguagliabile e, come dicevo, è stata da me praticata con tale dedizione da poter affermare che conosco il mio naso come le mie tasche, anzi meglio, che conosco le mie tasche come il mio naso. Ma ora, attenzione! Se quello che ho detto finora rappresenta agli occhi dei più un argomento scandaloso, quello che dirò ora può addirittura essere equiparato al parlare di incesto in famiglia. Sto parlando di quelle volte in cui il dito carico di reperti non li appallottola delicatamente per attenuarne la vischiosità e poterli così depositare o in un posacenere o per terra o, come si faceva da ragazzini, sotto un tavolo. Sto parlando di quelle volte in cui il dito sceglie il tragitto più breve scendendo dal naso solo fino all’apertura del piano inferiore. Qui giunto vi si infila e deposita il suo prezioso carico, a volte liquido e delicatamente salato, a volte solido, ma gommoso. Altro che nettare! Altro che ambrosia! E poi questo meraviglioso senso di ciclo vitale che si chiude: il corpo dà, il corpo riceve; e se vogliamo richiamarci a un soggetto d’attualità, questo senso di primario quanto utile risparmio energetico.

Cari amici, ho finito e a coronamento di questo mio breve, sentito discorso, rivolgo a voi un caldo invito: inneggiate con me a quella affascinante, sorprendente, meravigliosa macchina che chiamiamo: corpo umano!

Tutti in piedi! In alto i nasi!

Diego

C’era qualcosa di lui che mi appassionava e non facevo nulla per nasconderlo. Era quel periodo della vita in cui vivi di vampate e credi che il cuore possa esplodere. Quello delle farfalle nello stomaco e degli occhi che si gonfiano di lacrime senza essere visti, eppure rimani in vita anche se ti sembra impossibile.

L’adolescenza è sottovalutata in età adulta e sopravvalutata in età adolescenziale, un vero incubo cercare di gestirla, sia se sei un genitore, sia se sei l’adolescente.

Mia madre non l’aveva mai vissuta davvero e non la capiva, mio padre cercava invece di essere comprensivo; io ero antipatica con entrambi. E appassionata.

Una mattina alla fermata dell’autobus avevo notato un ragazzo silenzioso e incazzato. Era comparso a caso, in autunno inoltrato, quando non si aspetta nulla di nuovo e ormai in classe vige l’orario definitivo. Aveva un giacchetto blu, troppo leggero per quella manciata di gradi a novembre, come pure il paio di scarpe che non gli ho mai più visto cambiare: di tela, con la stellina. Jeans strappati e scoloriti, zaino Invicta viola. Lentiggini grandi, capelli rossi; naso largo e occhi scuri, profondi.

Teneva la testa china e il cappuccio della felpa tirato su. Felpa che avrei rivisto spesso e in moltissime occasioni.

Diego camminava avanti e indietro lungo il marciapiede, senza mai alzare la testa. Fumava in modo nervoso con rapide boccate, fino a quando non compariva l’autobus. Lanciava il mozzicone a terra mentre il freno strideva e saliva di scatto per prendere gli ultimi posti; si muoveva in modo arrogante, senza togliersi mai il cappuccio.

Quella mattina l’ho seguito, infilandomi su un sedile davanti al suo in penultima fila, poi spudorata: mi chiamo Cecilia. Con lo sguardo basso mi ha congedata velocemente: lo so. Inutile dirvi che sono andata fuori di testa subito. C’era qualcosa di losco che mi affascinava, qualcosa di misterioso nel modo in cui si muoveva. E un odore fortissimo, che in qualche modo mi richiamava.

Io e Diego diventammo amici stretti molto velocemente. Amici inseparabili. Si era trasferito da poco nel mio quartiere, i genitori lo avevano iscritto al liceo linguistico perché era l’unico che aveva qualche ora di musica: suonava il pianoforte. Studiare però non gli interessava e spesso ci incontravamo in bagno, lui fumava e io lo guardavo. Avevamo una grande passione per le parole, lui mi raccontava degli incubi che faceva di notte, di come non si sentisse amato dalla famiglia e di un viaggio molto lungo che progettava da anni; io ascoltavo rapita. Durante i suoi racconti il tono di voce era sempre molto basso, lo sguardo scuro penetrava il mio, il suo alito caldo e fitto mi entrava nelle narici e scendeva in gola, fino quasi a bruciarmi. Mi terrorizzava e io amavo sentirmi spaventata: credevo a ogni singola parola.

Abitavamo vicini e dopo la scuola, dopo l’autobus, lo accompagnavo a casa. Ogni tanto mi chiedeva di entrare con lui, restavo alle sue spalle in salone, dove suonava melodie cupe mai ascoltate. Le finestre erano chiuse e l’odore stantio di quello spazio mi penetrava, proprio come le sue note. Suonava con una tale concentrazione che se fossi scomparsa non se ne sarebbe mai accorto.

Uno di quei pomeriggi si fermò di colpo in mezzo alla strada, poco prima di raggiungere il cancello di casa. Mi disse avvicinando le sue labbra alle mie: shhhh! Lo senti? Il suo alito mi stordì e mi convinse che un carillon stesse suonando di continuo, in modo straziante, da qualche parte vicino a

noi. Con la testa si muoveva, tendendo il collo da un lato, poi dall’altro in ascolto e a occhi chiusi annuiva come a tenere il ritmo di una musica immaginaria. I carillon fanno paura, c’è sempre qualcosa di sinistro che li riguarda e se Diego ne aveva sentito uno suonare, finivo per ascoltarlo anche io.

Più descriveva quel lamento, più il mio cuore batteva impazzito. Ogni altro rumore invece era segno evidente di spiriti maligni che non vedevano l’ora di impossessarsi dei nostri corpi, dopo averci assordati.

Restammo fermi in mezzo alla strada per un’ora, pietrificati da un suono che ci avrebbe lasciati senza carne, confinando l’anima chissà dove. Diego poi mi aveva afferrato il braccio, stringendomi fortissimo e in modo improvviso: vieni, dobbiamo scappare, corri! Ci siamo nascosti nel suo giardino, come se si potesse davvero scomparire all’aria aperta, sperando di non sentire più niente. Lui strizzava gli occhi e mi teneva stretta, io sentivo il grasso della sua pelle mentre lo imitavo in quello sforzo accecante. Poi decise che il carillon aveva smesso di suonare, che eravamo salvi, ma non del tutto fuori pericolo e chiamò suo padre perché mi portasse in auto a casa. Aveva sudato e i suoi capelli erano umidi e unti.

Ai miei genitori non piaceva affatto questa frequentazione, non capivano cosa ci trovassi in lui. Non sapevano nulla di come passavamo i pomeriggi: dei suoi racconti, di quanto il terrore dei suoi occhi e il fetore delle sue parole mi eccitasse. Gli bastava annusarmi alla sera, a tavola durante la cena, per giudicare insensati i nostri pomeriggi: puzzavo come non mi fossi lavata mai.

Diego non si cambiava abiti. Durante la nostra frequentazione, durata circa un anno, aveva sempre indossato la felpa rossa con il cappuccio e alternato due paia di magliette: una bianca e una nera. Entrambi aderenti, sembrava non lavarle mai neppure quando indossava una piuttosto che l’altra: grandi aloni giallastri circondavano le cuciture sotto le ascelle, che nella stagione più calda si inumidivano fino a bagnarsi.

Puzzava il suo zaino Invicta, puzzavano i suoi jeans. Puzzavano le sue mani, le sue braccia lentigginose come lo era il volto. Aveva l’alito di un corpo putrido, i denti gialli e il tartaro visibile, incastonato negli spazi che nessun apparecchio aveva mai richiuso. I posti che lasciava liberi, quello in auto o i sedili del pullman, emanavano il suo odore, ne erano pregni.

Come loro, anche io.

Lo sporco – saluti istituzionali

Per prima cosa vorrei ringraziarvi per il gentile invito a intervenire a questa assemblea della Vostra associazione. In un primo momento avevo inteso che l’invito mi fosse stato rivolto dall’ANID (Associazione Nazionale Igienisti Dentali) così, essendo io poco pratico della materia, avevo chiesto alla mia segreteria di prepararmi un discorso di saluto per scrivere il quale, quasi sicuramente, i miei collaboratori hanno utilizzato, per pigrizia, questa nuova diavoleria dell’intelligenza artificiale; così, per onestà vi leggo quello che mi era stato preparato da leggervi:

1

Onorevoli colleghi igienisti dentali,

È con grande piacere che mi rivolgo a voi oggi per discutere di un tema fondamentale per la nostra professione: “Lo sporco”. Come guardiani della salute orale, siamo chiamati non solo a preservare la bellezza dei sorrisi dei nostri pazienti, ma anche a difendere la loro salute da un nemico silenzioso e pervasivo – lo sporco.

Nel nostro lavoro quotidiano, siamo costantemente esposti a varie forme di sporco: dalla placca batterica al tartaro, dalle infezioni microbiche alle lesioni del cavo orale. È imperativo comprendere appieno l’impatto che lo sporco può avere sulla salute dei nostri pazienti e agire con determinazione per contrastarlo.

Lo sporco non è solo un problema estetico; è anche una minaccia per la salute generale. La placca batterica, se trascurata, può causare una serie di problemi, tra cui carie, gengivite e persino malattie cardiache. Inoltre, la presenza di batteri nocivi nel cavo orale può diffondersi in altre parti del corpo, causando complicazioni ancora più gravi.

Come igienisti dentali, abbiamo il dovere di educare i nostri pazienti sull’importanza di una corretta igiene orale e sulle conseguenze dello sporco trascurato. Dobbiamo incoraggiarli a seguire una rigorosa routine di pulizia dentale, compresi il lavaggio dei denti, l’uso del filo interdentale e l’igiene della lingua. Solo attraverso la prevenzione attiva possiamo combattere efficacemente lo sporco e proteggere la salute dei nostri pazienti.

Tuttavia, la nostra responsabilità non si ferma qui. Come professionisti della salute, dobbiamo anche impegnarci a mantenere standard elevati di igiene nei nostri ambienti di lavoro. Dobbiamo adottare protocolli rigorosi di sterilizzazione e disinfezione per prevenire la diffusione di infezioni e garantire un ambiente sicuro per i nostri pazienti e per noi stessi.

Inoltre, dobbiamo essere sempre vigili nell’identificare e affrontare le fonti di sporco potenziale nei nostri studi dentali. Dalle attrezzature mediche ai materiali di consumo, dobbiamo assicurarci che tutto sia mantenuto impeccabile per garantire la sicurezza e il benessere dei nostri pazienti.

In conclusione, lo sporco è una sfida che non possiamo ignorare. Come igienisti dentali, siamo chiamati a essere i difensori della salute orale e generale dei nostri pazienti. Con impegno, dedizione e una rigorosa attenzione all’igiene, possiamo sconfiggere lo sporco e promuovere sorrisi sani e felici per tutti.

Grazie per l’attenzione.

Chiarito questo primo equivoco, ricontrollando meglio le pec arrivate in segreteria, qualcuno mi ha suggerito che l’invito provenisse in realtà dal CNCD (Coordinamento Nazionale Collaboratrici

Domestiche), e così il mio staff ha provveduto a inoltrarmi un nuovo discorso di saluto che, per onestà, qui vi riporto: 2

Onorevoli collaboratrici domestiche,

Siamo qui riuniti oggi per discutere di un tema che permea le nostre vite quotidiane in maniera tangibile e spesso trascurata: lo sporco. In un mondo che sembra sempre più concentrato sulla perfezione e sull’apparenza, è fondamentale riconoscere il valore e l’importanza del lavoro che svolgete nel gestire il disordine e mantenere la pulizia nei nostri spazi domestici.

Lo sporco non è semplicemente una questione di polvere o macchie su un pavimento. È un riflesso della vita stessa: delle attività quotidiane, delle interazioni umane e delle esperienze che rendono la nostra esistenza significativa. È un segno tangibile del vivere e del respirare, della crescita e della trasformazione.

Il vostro ruolo come collaboratrici domestiche è cruciale per garantire che i nostri ambienti vitali siano salubri, sicuri e accoglienti. Spesso il vostro lavoro non viene riconosciuto adeguatamente, ma oggi vogliamo rendervi omaggio per l’impegno e la dedizione che mettete nel gestire lo sporco e nel creare spazi che riflettano la bellezza e l’ordine.

Tuttavia, mentre celebriamo il vostro contributo, non possiamo ignorare le sfide e le ingiustizie che spesso affrontate. Troppo spesso il lavoro domestico è sottovalutato e sottopagato, nonostante sia fondamentale per il funzionamento delle nostre società. È imperativo che ci impegniamo a riconoscere il vostro valore e a garantire condizioni di lavoro dignitose e rispettose dei vostri diritti.

Inoltre, dobbiamo anche riflettere sulle implicazioni più ampie dello sporco. Oltre al suo impatto sulle nostre case, lo sporco può essere un simbolo delle disuguaglianze sociali ed economiche che persistono nel nostro mondo. Troppo spesso sono le persone marginalizzate e svantaggiate a essere costrette a lavorare in condizioni precarie nel settore del lavoro domestico.

Per affrontare questa ingiustizia, dobbiamo lottare per politiche e normative che proteggano i diritti delle collaboratrici domestiche e garantiscano condizioni di lavoro equitativo e dignitoso per tutti. Dobbiamo anche promuovere una cultura che riconosca e rispetti il valore del lavoro domestico, abbattendo gli stereotipi di genere che lo associano erroneamente esclusivamente alle donne.

In conclusione, lo sporco può essere visto non solo come una questione di pulizia fisica, ma anche come un’opportunità per riflettere sulle nostre priorità, valori e responsabilità verso coloro che lavorano silenziosamente dietro le quinte per mantenere il nostro mondo in ordine. Siate orgogliose del vostro lavoro e continuate a lottare per la dignità e il rispetto che meritano. Grazie.

Fortunatamente, un successivo controllo della posta in arrivo ha chiarito il vero mittente del vostro graditissimo invito, da voi amici e amiche dell’ANPS (Associazione Nazionale Porno Star) organizzazione benemerita alla quale tutta la nostra comunità guarda con rispetto e ammirazione. Ed ecco, finalmente, il mio messaggio di saluto istituzionale:

3

Onorevoli partecipanti dell’Assemblea Nazionale Pornostar, È con grande piacere che mi rivolgo a voi oggi su un tema che tocca direttamente il cuore della vostra industria e della vostra comunità: “Lo sporco”

Nel vostro lavoro, ci troviamo costantemente a confrontarci con idee preconcette e stereotipi legati al concetto di “sporco”. Ma è arrivato il momento di ribaltare questa narrazione e abbracciare una prospettiva più illuminata.

Innanzitutto, dobbiamo riconoscere che la sessualità umana è una parte naturale della nostra esistenza. Non c’è nulla di sporco o vergognoso nel desiderio e nell’esplorazione del piacere. Dobbiamo combattere l’idea che il sesso sia intrinsecamente associato allo sporco e al peccato. In secondo luogo, dobbiamo affrontare la questione dello stigma sociale nei confronti dei lavoratori e delle lavoratrici del settore. Troppo spesso siamo oggetto di giudizi moralisti e discriminazioni basate sulla nostra professione. Ma voi siete professionisti del piacere, che offrite servizi di intrattenimento adulto consensuali e legali. È tempo che la società riconosca e rispetti la vostra dignità e la vostra libertà di scelta.

Inoltre, è essenziale affrontare la questione dello stigma legato alla sicurezza e alla salute. Dobbiamo promuovere pratiche sicure e consensuali all’interno della vostra industria, garantendo la salute e il benessere di tutti i partecipanti. Ciò significa adottare protocolli rigorosi per la prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili e per la tutela della salute mentale dei vostri colleghi e delle vostre colleghe.

Infine, dobbiamo impegnarci a promuovere una cultura di rispetto e consenso in tutte le sfere della vostra vita professionale e personale. Il consenso è fondamentale in ogni interazione sessuale e dobbiamo fare tutto il possibile per educare e sensibilizzare sul suo significato e sulla sua importanza.

In conclusione, cari colleghi e colleghe, è tempo di rifiutare l’idea del sesso come qualcosa di sporco o vergognoso. Dobbiamo difendere con orgoglio il vostro lavoro e lavorare insieme per creare un ambiente sicuro, rispettoso e consensuale per tutti coloro che operano nel settore dell’intrattenimento per adulti. Solo così potremo davvero liberarci dallo sporco e abbracciare una visione più aperta e inclusiva della sessualità umana.

Grazie

S.E. Monsignor Anacleto Bendazzi

Nota dell’autore

I tre saluti istituzionali sono stati scritti tramite HYPERLINK https://chat.openai.com/ richiedendo la stesura di un discorso di saluto alle assemblee delle rispettive associazioni di categoria immaginarie e collegate al concetto di “sporco”.

P a olo Pergola

Altro che global warming! Ricagamento globale – Cosa c’è di vero?

L’umanità intera, occupata com’è a leggere e visionare elucubrazioni scientifiche sul problema del riscaldamento globale, ha spesso trascurato quella che potrebbe essere un’incombente catastrofe mondiale: il ricagamento globale. Eppure, già nel 1961 un microbiologo americano, Benjamin W. Shittaker, PhD, sviluppò un modello ecotossicologico tridimensionale che dimostrava l’esistenza di un limite alla capacità di assorbimento degli escrementi da parte del terreno (Shittaker, 1961) Benjamin W. Shittaker, PhD, fece defecare i suoi studenti per un mese sullo stesso campo e ricavò dati illuminanti che dimostravano l’esistenza di una soglia del potere di assorbimento, superata la quale gli escrementi iniziavano a accumularsi. Questa soglia (in inglese: “BASTA - Best Assessment of Shit Threshold Algorithm”) può essere calcolata in funzione della merda depositata nell’unità di tempo su un’area unitaria, nonché del tipo di terreno e, in misura non trascurabile, della quantità e qualità della merda stessa.

Nel 1988, uno dei collaboratori di Shittaker, John K. E. Belin, fece dei passi avanti in quella che era ormai diventata una disciplina a sé stante, la cacologia applicata. Egli affrontò la questione utilizzando un approccio ecologico (Belin, 1988). Belin si chiese se, utilizzando la soglia di Shittaker, si potessero fare previsioni sul futuro della merda sulla terra. Utilizzando analisi statistiche multivariate e path analysis, Belin arrivò alla conclusione che la soglia di Shittaker necessitava di alcune modifiche per l’applicazione generalizzata su tutta la terra. La soglia BASTA risultò essere funzione di molteplici variabili sedimentologiche e escatologiche, come previsto da Shittaker. Belin ottenne un imponente finanziamento per studi approfonditi in diversi siti geografici e raccolse una quantità rilevante di dati in tre anni di ricerche assidue (Belin, 1991). Alla conclusione di questo triennio Bellin produsse una tabella (qui riportata) in cui l’indice SIfà (Shit Impact Fàctor) viene rapportato a diverse zone geografiche.

Tabella 1: Il fattore SIfà è standardizzato a un valore di 100 che corrisponde all’assorbimento medio degli escrementi, stabilito nelle campagne circostanti Greenwich.

Come previsto in un precedente modello tridimensionale (Belin & Shittaker, 1985), l’indice SIFà è maggiore nei paesi sviluppati che in quelli del terzo mondo. Questo perché l’impatto della merda è proporzionale al contenuto proteico che a sua volta è proporzionale al PIL di ogni paese. All’Intenational Scatological Conference svoltasi in Tasmania nel 1993, Belin presentò le sue sconvolgenti conclusioni (Belin, 1993).

Belin mostrò la seguente relazione tra Dshit (densità di merda) e la densità di popolazione:

popolazione (abitanti / Km2)

Sulla base dei modelli di aumento di popolazione, Belin derivò la seguente allarmante relazione:

di cagata (grammi /m 2

In cui la densità di cagata (misura equivalente alla densità di merda) è calcolata come:

Dshit = ds/dt (derivata di cagata rispetto al tempo) x area unitaria

Dove ds/dt corrisponde alla derivata della cagata rispetto al tempo. Sostituendo tutti i valori ricavati dall’equazione originale di Shittaker, la soglia BASTA si può calcolare secondo la seguente equazione:

BASTA = Dshit / (Qualità x Quantità x SIFà)

I calcoli mostrarono che, per tutta la terra, il BASTA critico 1,8 (Belin, 1993) non era ancora stato raggiunto. Ma Belin non trovò questo risultato affatto confortante. Secondo le sue previsioni, che a tutt’oggi sono confermate dai dati della FAO (Faecal Anonymous Organization), nel 2015 il BASTA sarebbe arrivato a 1,4. Si prevede che il valore soglia di BASTA sarà raggiunto intorno al 2035, ovvero in quell’anno la merda non potra più essere assorbita dal terreno e inizierà a aumentare di livello.

Inoltre, sempre secondo il Belin, il problema è ben più grave di quanto si possa dedurre da questi dati generali Se è vero che la terra non ha ancora raggiunto il fatidico valore BASTA = 1,8, questo è vero soltanto per la media terrestre e non per i singoli paesi. Infatti, continua Belin nella sua review scritta in quegli anni (Belin, 1994), la merda non ha il potere distributivo di un fluido come l’acqua, ma, data l’alta densità, rimane approssimativamente là dove è stata cagata. Già al tempo del Belin, nel 1994, esistevano paesi che avevano superato la soglia relativa di BASTA, ovvero rapportata ai diversi indici SIFà raggiunti da ogni paese. Belin (1994) pubblicò una tabella esemplificativa che però considerava ancora troppo ottimistica per le ragioni che vedremo:

Olanda 2,3

Belgio 2,2

Giappone 2,2

Italia 1,8

USA 1,4

Australia 1,2

Sudan 0,7

Questi valori sono solo indicativi, suggerì Belin, sottolineando il fatto che essi dipendono principalmente dalla densità di popolazione. La situazione è in realtà molto più grave se andiamo a considerare specifiche aree metropolitane, per esempio New York 3,4, Londra 2,9, Città del Messico 3,7. Questo significa che nella maggior parte delle grandi aree metropolitane, il valore di soglia BASTA era stato superato già nel 1994, e la merda aveva iniziato a accumularsi effettivamente a partire dagli anni ’30

Il problema è vivo, concluse Belin (1994). In certe aree il livello della merda aumenta di vari centimetri all’anno. L’unico aspetto che ci conforta è proprio il fatto che il livello medio di BASTA raggiunto dalla terra è ancora lontano dal valore soglia di 1,8. Ma dobbiamo saper sfruttare questo vantaggio da soli, data la limitata capacità distributiva della merda.

Alcune iniziative in questa direzione sono già in atto nel Benelux, dove la situazione generale è preoccupante. Oltre a una maggiore distribuzione delle aree di raccoglimento della merda, è importante l’educazione dei cittadini che dovrebbero iniziare a seguire determinati principi ecologici. Elenchiamo qui di seguito le direttive emanate dal comitato Comportamenti Alternativi Contro Catastrofi Ambientali, riunitosi a Bruxelles nell’aprile del 2008.

A) È consigliabile cagare sempre in posti diversi in sessioni successive, allo scopo di generare una distribuzione omogenea dei prodotti.

B) Se possibile, cagare in paesi dove la soglia BASTA è ancora al di sotto del valore critico di 1,8. Un elenco di questi luoghi è disponibile sul sito www.cacameno.eu

C) Se non si ha la possibilità di cagare all’estero in paesi con basso indice SIFà, è auspicabile andare a cacare almeno 2 volte alla settimana a più di 50 miglia dai grandi centri di raccoglimento metropolitano.

Riguardo al punto B), l’Unione Europea finanzia voli charter e altre agevolazioni, con il benestare di paesi a basso indice SIFà. In particolare, voli verso grandi deserti africani sono mirati a coprirlo di cacca in maniera da renderli fertili in tempi brevi.

Concludendo, non possiamo mancare di darvi una notizia recentissima, secondo cui il Ministero dell’Ambiente Scatologico avrebbe stazionato ulteriori fondi per la ricerca sullo sfruttamento

energetico delle biomasse di origine cacatoria. Lo scopo è di far sorgere centri di produzione energetica dalla merda, dove ogni cittadino può andare a cagare con la soddisfazione di dare un contributo alla produzione dell’energia del suo paese. Questi centri potrebbero anche contribuire alla lotta contro la disoccupazione. Cagaroli di vari livelli sarebbero assunti a spese dello stato, per cagare in appositi centri raccolta. È stato calcolato che un cagarolo di alto livello, con il giusto metabolismo e catabolismo, può produrre, con una cagata di 2 dm3 (un escremento di 30 cm di lunghezza), ben 10 Kw/ora, ovvero abbastanza merda per tenere accesa una televisione per tutta la durata di Porta a Porta.

Ancora una volta, saprà la scienza trovare i rimedi per prevenire questa catastrofe ecologica? Molti scienziati sono ottimisti, anche se non negano che senza drastici interventi, ci ritroveremo presto colla merda fino al collo.

Per saperne di più

Shittaker, B.W. (1961) Are we all full of it? A three-dimenstional model, «Journal of experimental turdology», 33: 1-111.

Belin, J.K.E (1989). An ecological approach to applied defecation, «Journal of applied stuff and shit», 33: 1-111.

Belin, J.K.E (1991). Three years of stinky data collection, «Journal of stinky research», 33: 1-111.

Belin J K E & Shittaker B W (1965) Does it matter where you do your number 2? A 3-D model, «Journal of speculative scatology», 43: 1-2.

Belin J. K. E. (1993). A demographic study of bowel motion, «Proceedings of the XX International Scatological Conference», 23; 1-14.

Belin, J. K. E. (1994). Biomechanics of shit deposition in different nations, «A review. Biophysical stinkiness», 3: 23-34.

Toccare o non toccare?

Gran parte del mio lavoro riguarda il settore delle pulizie. Conosco tutti i macchinari, le attrezzature, le tecniche, le innovazioni, le metodologie di controllo, le tipologie di contratti degli operatori, le modalità di sfruttamento, i costi, i costi reali, i DPI, i rischi chimici, fisici, biologici e ciò che non si fa per evitarli. Ne so abbastanza per sapere che combattiamo quotidianamente contro un nemico invisibile e invincibile. Lo chiamiamo polvere ma la verità è che si tratta di qualcosa che riguarda più l’animo umano.

C’è da dire che fin quando non passi il dito non puoi sapere se c’è della polvere. Protrai immaginarlo, sospettarlo, percepirlo, forse anche vederlo ma bisogna sfoderare un polpastrello, (1) trascinarlo per almeno una decina di centimetri e formulare una critica ragionevole sulla qualità igienica della superficie in oggetto. Critica che spesso diventa metro di (pre)giudizio per tutta quella stanza, appartamento, hotel, ospedale, Paese. Il primo e principale senso da collegare alla polvere è quindi il tatto. Toccare per vedere, toccare per annusare, toccare per entrare in contatto con la morte. La polvere, d’altra parte, è fatta di cose morte. Della morte sappiamo poco ma possiamo ben dire che è la fine del corpo, quindi la fine dei sensi, quindi la fine del tatto. (2) Toccare l’impalpabile, toccare per non toccare. Ma toccare. Come voler provare a saperne di più. Della morte, intendo. Saperne di più significa consapevolezza e la consapevolezza è il primo passo per far pace col mondo. Si muore? E va beh, vivo di conseguenza. Mia moglie mi tradisce? E va beh, ho alcune decisioni da prendere. Il Parma non può vincere lo scudetto? E va beh, le partite le guardo lo stesso. La consapevolezza può cambiare le cose, farle accettare, farle capire, o farci decidere, consapevolmente, di fottercene. Possiamo crederci lo stesso. Di vincere lo scudetto, di avere una famiglia felice, di vivere per sempre. Ma intanto sai la verità.

Ci sono persone o categorie di persone che sono come polvere. Intere nazioni sono percepite come polvere. Senza sapere la verità. (3) Basterebbe un dito per saperne di più, per vedere cosa c’è sotto o cosa c’è davvero. Spesso la polvere ci fa comodo se non è la nostra o finché non siamo noi a impolverarci. Come se la polvere degli altri coprisse i nostri difetti. La loro polvere ci protegge, in un certo senso. Saperli polvere ci tranquillizza. Toccare, rendersi conto che quella non è polvere o che quella polvere non è una cosa morta ma è una cosa viva, viva in un modo nuovo, diverso, migliore, incomprensibile, invece, ci spaventa.

Non spaventiamoci, mi viene da dire. Camminiamo verso la polvere, nella polvere, con la polvere. Più che altro accettiamolo, perché è già così e sempre lo sarà. La polvere siamo noi, sono i nostri parenti, i nostri amici, i dinosauri, i ceppi bruciati dai Neanderthal, le foglie secche, le parole di libri mai pubblicati, sono le cose che amiamo, che odiamo, quelle di cui ce ne freghiamo e quelle di cui non sappiamo niente. Tutte insieme. Indistinguibili.

E se non ci credete, basta toccare.

Note dell’autore

1) Io consiglio sempre un medio a unghia corta, più capaci e più igienici oltre che semplici da utilizzare rispetto a un indice, per dire, magari ad unghia adunca cromata più adatto a residui incrostati sulle stoviglie. Per un resoconto dettagliato delle tipologie di polpastrelli si rimanda a Lo Zen e l’arte dello sditazzare, Rudolf Fingerly, 2005, Edizioni False.

2) Ma non la fine di tutto. Intanto la polvere resta, per dire.

3) Ho un amico che a proposito mi parlava dei filippini. Lui diceva che le Filippine dovevano essere un paese senza polvere. Cioè, se questi girano il mondo pulendo le case della gente – così ha detto

lui – chissà che pulizia, che splendore che dev’esserci a casa loro. Questi qua – lui li chiamava “questi qua” – devono avere tanto in odio la sporcizia da desiderare che tutto il mondo sia lindo e profumato come casa loro. Deve aver colto il dubbio dalla mia espressione perché a un certo punto, per dimostrarmi di aver ragione, ha preteso di portarmi nelle Filippine per mostrarmelo di persona. Io, per carità, adoro viaggiare e siccome si era offerto di pagare tutto lui ho accettato volentieri. Delle Filippine sapevo che c’è il mare e tanto mi bastava. Per rispetto al mio amico non mi soffermerò sui dettagli della sua delusione (e della mia, non essendo stati neanche un giorno al mare a causa delle pessime condizioni meteorologiche di quel periodo), limitandomi ai fatti posso dire che non trovammo un luogo particolarmente pulito ma neanche così sporco da immaginare che preferiscono pulire casa nostra che casa loro. Ecco, questa storia era per dimostrare il valore della verità.

Nota redazionale

Nel suo libro La forma della farfalla (LiberAria Editrice, Bari 2022), Jury Romanini ha dedicato un capitolo al tema della polvere:

La polvere può essere ovunque, sembra invisibile. L’addetto alle pulizie, quando la vede, la raccoglie e, con discrezione, la porta fuori. La direzione del centro commerciale pretende decoro e pulizia. La polvere va tolta appena si deposita. I clienti, che non la vedono ma sanno che c’è, non approvano la sua presenza, così è costretta a infilarsi negli angoli più nascosti, dove s’adagia e resiste fino a che l’addetto non la trova. Allora l’addetto si avvicina coi suoi guanti neri, come nera è la sua divisa.

La polvere, che riposa tra stracci e cartoni in una rientranza del muro, vicino ai bagni, si sveglia all’improvviso, strattonata da mani ormai familiari. Ha meno di sessant’anni, la polvere, ma ne dimostra molti di più. Due braccia le si infilano sotto le ascelle e la sollevano. Investito dall’odore soffocante del sudore stantio, l’addetto alla rimozione della polvere ha un cedimento, e la lascia cadere. Lei non dice niente, si rialza da sola e raccoglie le poche cose che ha con sé. È abituata. Da sotto la veste lacera spuntano due grosse caviglie chiuse in quattro paia di calze di lana. I piedi, altrettanto gonfi, si infilano in due ciabatte di plastica sformate e sporche. Piano piano, si avvia zoppicando verso l’uscita. La guardia accenna un gesto di accompagnamento, poi rinuncia.

la redazione

Al mattino, ancora in pigiama, si consiglia di adagiarsi sulla sedia riservata alla colazione. In bagno, preferire il lato interno della carta igienica, meno esposto alla polvere. Abbassare il coperchio della tazza al termine dell’uso per evitare la dispersione di germi fecali. Nel maneggiare il coperchio, si suggerisce di utilizzare un foglio di carta igienica da gettare velocemente nella tazza prima che questa sia chiusa.

Il mattino è il momento ideale per dedicarsi alla pulizia dell’abitazione. Non si consideri pulita una stanza dove non si è rimossa ogni ragnatela. Cucinando il pranzo, si indossi il pigiama solo se sporco. Pulire i singoli pezzi di frutta prima di consumarli, anche se precedentemente lavati. Qualora durante il giorno ci si accomodi sul letto, sedersi sulla coperta e avvolgersi nella sola parte esterna. In questo caso, il posto accanto potrà essere occupato da una persona in pigiama dotata di coperta propria o indifferente al freddo.

Soggiornare in casa per lunghi periodi di tempo è il miglior modo per evitare le infezioni. In caso di uscita, astenersi dal toccare i corrimani delle scale, soprattutto in salita: è più probabile contaminare la casa con i batteri del mondo esterno, piuttosto che contaminare il mondo esterno con i batteri di casa.

All’occorrenza è possibile concedersi una passeggiata rigenerante. Se si ha sete, poggiare il tappo delle bottiglie sempre al contrario. Lavare gli abiti nuovi prima di indossarli, anche se appena acquistati.

Al rientro da un’attività sportiva, evitare di accomodarsi sul divano se ancora sudati. Non allontanarsi dall’alloggio in ciabatte nemmeno per riattaccare la luce e trovare altre scarpe. Mai poggiare sul tavolo le borse, i cappelli o i sacchetti della spesa, né soprabiti, giacche o impermeabili direttamente sul letto. Tornati da un viaggio, disinfettare il trolley.

Alla sera, si può invitare qualche amico con cui condividere lo spazio domestico. Se i cuscini del divano vengono poggiati a terra, non si ammetterà di riportarli sul divano. Congedati gli amici, rimettersi a letto esclusivamente in pigiama. Pulire e disinfettare il telecomando del televisore prima e dopo ogni utilizzo. Affezionarsi a un canale senza mai cambiarlo è il miglior modo per limitare le infezioni.

Tuttavia, nel caso in cui le precauzioni precedenti non abbiano sortito l’effetto sperato, si raccomanda di disinfettare con alcol il termometro dopo l’utilizzo. I farmaci vanno assunti o somministrati tramite un bicchiere pulito. Alla firma di un testamento in articulo mortis, chiedere di usare guanti monouso per limitare il contatto diretto col documento. Indossare abiti specifici per visitare il cimitero e cambiarli immediatamente se è possibile il ritorno a casa.

L’orco

Io sono l’orco e non faccio niente di male, non sopporto lo sporco ma non rinuncio a mangiare il maiale.

Quando esco mi sento un sorco e tosto come un mulo eppur odiando lo sporco mi mangio l’uovo che la gallina fa dal culo.

Oh, quanti siamo al mondo, milioni di milioni

c’è quello che in un secondo apre la patta e si gratta i coglioni,

ma non è abbastanza perché il suddetto umano ti fa un sorriso di circostanza poi ti stringe la mano;

e non finisce qui all’improvviso una scorreggia sgancia e grattandosi ancora un po’ lì sorride e ti dà un pizzicotto nella guancia.

Ma… lo sporco è dappertutto figuriamoci in miniera, dove tra uno sputo e un rutto non sai mai se è giorno notte o sera. C’è sporco anche in quei bei palazzi dove intrallazzano i professoroni che si sentono sti cazzi perché imboscano i milioni;

questo sporco non conosce lamenti, e dura da un tempo infinito è capace di rovinare le menti senza alzare neanche un dito!

Ma io sono l’orco e mi posso anche incazzare, perché non sopporto questo sporco che continua a serpeggiare,

ma… ah ah ah… tutti voi avete lo sporco ed io vi voglio divorare

perché io sono l’orco… sappiatevi salvare!

John Lennon e le macchie di Rorschach

Io ho già veduto ne’ nuvoli e muri macchie che m’hanno desto a belle invenzioni di varie cose, le quali macchie, ancorachè integralmente fossero in sé private di perfezione di qualunque membro, non mancavano di perfezione ne’ loro movimenti o altre azioni.

Passava i pomeriggi a tracciare righe nere su un foglio bianco tenendo la matita al contrario e costringendo la mina senza punta a scarabocchiare linee, curve e segmenti. Era anche un modo per non ascoltare, per riflettere senza disturbare, ma soprattutto per produrre quella polverina nera e sottile che spalmata con i polpastrelli sporchi crea dei disegni un po’ naïf, simili alle macchie di Rorschach che gli psicologi usano per comprendere il carattere dei loro pazienti.

Le avevano usate anche con lui: due ali di farfalla incolore, un enorme dinosauro, due nani che ballano, un uomo in bicicletta, un insetto con le antenne, le ossa colorate di un bacino, il volto di John Lennon negli anni ’70. Dopo settimane di sedute, sdraiate, storie dette e raccontate, analisi dell’infanzia, della pubertà e dell’adolescenza, il paziente scoraggiato dall’evidente inutilità di quegli incontri aveva abbandonato al suo destino il povero terapeuta e le sue macchie, avendo oramai capito che il verdetto finale lo sapeva già: alienazione, desiderio inspiegabile di rifugiarsi in un mondo che non esiste, mente confusa e idealizzante, bisogno indescrivibile di amore.

Certo, il test della lettura delle macchie aveva avuto un esito ‘nella norma’, ma secondo il parere del medico alcuni aspetti avrebbero avuto bisogno di un approfondimento. Soprattutto rispetto a due risposte: «un enorme dinosauro» e «il volto di John Lennon negli anni ’70» Secondo il terapeuta la prima risposta indicava una personalità molto egocentrica, spesso intenta a ritenere che gli altri, in sua assenza, siano impegnati a parlare, commentare, fare ipotesi su di lui per poi indovinare che ciò è molto più spesso falso che vero. L’interpretazione si collegava inoltre a un episodio che il paziente aveva riferito a proposito della sua infanzia: da piccolo aveva sempre desiderato possedere un giocattolo a forma di dinosauro, in particolare avrebbe voluto un modellino di tirannosaurus rex, di quel materiale di plastica morbida che ti permette di farlo muovere, correre, catturare prede, divorare altri modellini di animali ma anche di procacciarsi vittime in formato umano. Alla fine il giocattolo-dinosauro era arrivato, a Natale, ma era rotto e la delusione fu tale che, a dire dello psicologo, la mente dell’infante aveva subito un trauma talmente profondo da comprometterne per sempre il suo contatto con la realtà.

Altro discorso per il John Lennon colorato, nulla a che fare con l’egocentrismo e l’infanzia. Qui si trattava di una fuga a gambe levate dal mondo reale che perdurava ancora oggi, in età adulta, e provocava il bisogno di rifugiarsi in un’epoca favolosa e lontana, quegli anni ’70 liberi e colorati in cui la musica del celebre cantante inglese era stata un simbolo, icona di pace, di libertà sessuale, di amore incondizionato; cose che poi nella realtà non esistono, pensava il mesto terapeuta, e di questo il paziente non voleva proprio darsi ragione tanto da essere oramai diventato, e questo era il vero busillo, un problema per sé e per gli altri, con il rischio di provocarsi una fine impietosa almeno come quella di John Lennon ucciso da Mark David Chapman con quattro proiettili l’8 dicembre del 1980. Tutto questo il solerte terapeuta avrebbe dovuto, anche eticamente e professionalmente, evitarlo riportando a un piano di realtà il suo paziente alienato.

Lui lo sapeva, glielo avevano detto, ridetto, suggerito e spiegato ma tracciando quelle nuvolette nere di ardesia polverizzata sul quaderno intonso, ripeteva a se stesso che qualcosa non tornava né nel discorso del terapeuta né in quelle macchie scure inventate dal medico svizzero.

Intanto la lezione di finlandese alla quale si era iscritto procedeva con l’analisi delle vocali lunghe e brevi; la voce del professore si agitava fuori campo e il suono di quelle sillabe agglutinate non assumeva più alcun significato se non renne, Babbo Natale e il suo regalo rotto di alcuni decenni fa.

Tutto era cominciato qualche mese prima e non era passato poi molto tempo da quella mattina in cui aveva iniziato a riflettere su quale posizione fosse meglio assumere durante il viaggio in treno che, da pendolare, doveva affrontare ogni giorno per andare al lavoro. Quaranta minuti all’andata e, se andava bene, quaranta minuti al ritorno. Il riflesso del suo volto sul vetro del finestrino copriva a malapena l’indicazione “uscita di emergenza” posta dalla Rete ferroviaria regionale in ogni vagone. A spiegare meglio il concetto c’era anche un omino stilizzato che, scavalcando un finestrino che immagineremo rotto, saltava giù dal treno mettendosi in salvo in chissà quale mondo simile a lui. Ciò che era veramente strano era la direzione data all’omino: all’andata il treno procedeva verso destra e l’omino fuggiva a sinistra; al ritorno il treno procedeva verso sinistra mentre l’omino si salvava andando a destra. Certo ciò sarebbe stato vero solo in caso di pericolo e non in una qualsiasi, calma e piatta giornata di primavera come quella in cui era impegnato a vivere in quell’istante. Ma se davvero si fosse trovato coinvolto in un disastro ferroviario, uno di quelli in cui i vagoni saltano in aria, deragliano e non è possibile tirare il freno d’emergenza? Se fosse scoppiato un incendio e il sistema di allarme fosse andato in tilt, una volta rotto il finestrino, quale direzione avrebbe dovuto prendere? Destra o sinistra? Come capire da quale parte si trova il pericolo quando sei costretto all’interno di una scatola di ferro a cui viene dato il nome di vagone? Quale omino indicherebbe la giusta corsa verso la salvezza o, almeno, verso il male minore?

Iniziò stranamente a considerare la direzione, o meglio la piega, assunta dalla sua vita, a volte volontariamente a volte trascinato dagli eventi, a volte assolutamente inconsapevole del verso e dell’orizzonte.

Aveva iniziato allora a scegliere un posto a sedere che andasse sempre nella direzione contraria rispetto a quella del treno, a osservare ciò che si lasciava alle spalle, non solo ciò che sarebbe venuto. A guardare con languida malinconia le centinaia di chilometri percorsi, di strada ferrata superata, lasciata indietro ogni volta, senza nemmeno poterla toccare con i piedi. Cominciò a considerare la sua vita con volto incerto. Ripensava e ripeteva se stesso sotto altra luce.

E fu la luce a guidarlo, grazie al movimento ondulatorio dei suoi fasci luminosi: la legge della rifrazione lo aiutava a guardare, sempre più a fondo, nella sua immagine riflessa. Si fermava davanti alle vetrine, osservava il finestrino pendolare del treno, si guardava negli occhiali del vicino, negli specchi dei bagni pubblici, negli orologi che incontrava la sera, prima di rientrare a casa; gli ricordavano lo scandire del tempo, impietoso e coerente, fedele solo alle ombre maculate della sua esistenza.

Tentò per qualche tempo di evitarne i riflessi, di sfuggire al pulviscolo luminoso che si muoveva inquieto a ogni tramonto, nelle strisce di luce che incontravano il suo campo visivo. Poi smise di evitarsi. Restò per molto tempo seduto su una panchina dei giardinetti pubblici, ogni sera le ore trascorrevano nello specchio di una vetrina di cui era l’unico osservatore, sbiadito, nei dintorni del condominio in cui abitava.

Preoccupati per lui, amici, parenti, genitori e colleghi di lavoro interpretarono quel silenzio e quel desiderio di solitudine come un’emergenza sociale: solo chi ha un problema – dicevano – può trascorrere le serate (e a volte le giornate) in questo modo. È molto strano in questo periodo –aggiungevano – è bizzarro, nevrotico, asociale, chiuso, inaffidabile e inafferrabile. Si crede forse superiore? Cosa avrà mai da pensare, cosa in più rispetto a noi? E poi indossa sempre gli stessi abiti – sogghignavano – sporchi, macchiati, trasandati, al limite della decenza.

Lo convinsero a rivolgersi a uno psicologo, a dedicarsi a qualcosa di nuovo, a potenziare le sue abilità. Chi meglio di un terapeuta? Di quelli che vanno di moda oggi perché non sono proprio medici con il camice (del resto i medici fanno sempre un po’ paura) ma ti ascoltano, individuano relazioni, ti danno corda e poi giudizio, ti scoprono il passato. Eppure nulla di tutto ciò lo interessava veramente, a parte quella macchia in cui riconobbe il volto colorato di John Lennon: fu la conferma di quanto il suo passato gli piacesse molto più del presente e come quel riflettersi nelle cose gli servisse solamente per ricomporre, comprendere, ricollocare un incontro, cercare un punto di vista diverso, osservare quel labirinto di destini in cui era stato sbalzato e di cui ora era solo un osservatore più partecipe e consapevole.

La fisica quantistica sostiene che esiste un’enorme differenza tra il comportamento dei corpi e quello delle molecole infinitamente piccole di cui sono composti. Mentre i corpi seguono le leggi della fisica classica, le molecole (che gli esperti chiamano quanti) possono avere comportamenti eccentrici, muoversi in maniera imprevedibile, mettersi in relazione a distanze per noi inimmaginabili, teletrasportarsi da un punto all’altro come desidererebbe fare qualunque essere umano, almeno da quando esiste il cinematografo. E poi la fisica quantistica racconta l’impossibilità per l’uomo di osservare un fenomeno senza modificarlo e, viceversa, che le cose accadono solo se c’è qualcuno che le osserva. Conferma che l’indeterminato è uno stato di natura e può essere ridotto in formule solo attraverso il calcolo delle probabilità e che comunque, alla fine, non esiste un’unica risposta.

Onde, ombre e fasci di luce. Particelle microscopiche, pulviscoli, polveri. Molecole, anzi quanti, di cui siamo composti noi e ciò che ci circonda e che nei loro movimenti non seguono alcuna logica né previsione possibile. Ci sono solo un certo numero di probabilità che questi corpuscoli si trovino in un luogo piuttosto che in un altro, che interagiscano oppure no, che due di loro entrino in relazione l’uno con l’altro, assecondando leggi in parte ancora del tutto ignote. Ciò che conta, ha spiegato Grete Hermann (filosofa e scienziata tedesca), è che un fenomeno può essere considerato solo se messo in relazione con gli altri fenomeni: un corso d’acqua, un albero, una panchina non esistono a sé stanti, ma solo perché sono in relazione con quello che li circonda e anche grazie a noi che li osserviamo. Ed è così che la verità non è più assoluta ma si scinde a seconda delle interazioni fra gli eventi.

Ora, cosa ha a che fare tutto ciò con l’uomo della panchina?

Galileo, grande osservatore di macchie, e ancora prima Leonardo, estimatore di affascinanti imperfezioni, sapevano benissimo che una scoperta scientifica non sempre deriva da un infinito numero di calcoli, da anni di studio, e non per forza deve sfociare in un premio Nobel o destare generale approvazione. Anzi, è più spesso il contrario. Né stiamo ora avallando le soluzioni facili, a buon mercato, né vogliamo promuovere l’esistenza del genio senza studio o delle scoperte senza preparazione.

Può però accadere che un’intuizione indistinta, un errore di calcolo, una casualità remota ecceda il possibile e sfondi il confine del probabile; può essere che si realizzi quello 0,00146 per cento di probabilità che le previsioni danno come impossibile e che proprio quella, fra tutte le possibilità, sia l’unica strada percorribile, l’unica scelta irrazionale e giustificabile per un uomo, che stia o no seduto per ore su una panchina Quante volte ciò sia accaduto, e ancora accadrà, nella storia dell’uomo non sappiamo contarlo né prevederlo ma è sicuramente così che è nata l’agricoltura nel Neolitico, così furono scoperti i raggi X. Poi, va a finire che proprio quell’improbabile intuizione ti salvi la vita, o perlomeno, la psiche.

Così un bel giorno, osservando il muro che circondava parte dei suoi giardini pubblici preferiti, il nostro uomo della panchina considerò quel confine fisico che lo separava e lo teneva lontano da altre fette di mondo, e lo fece da un punto di vista diverso e più interessante rispetto al già visto, a ciò che in quei mesi aveva meticolosamente sezionato e anche tenuto alla larga. Scovò tra i suoi ricordi un altro muro, un altro pezzo di storia ancorato a un’epoca oramai del tutto lontana.

Era a Praga, alla fine degli anni ’90, durante uno di quei viaggi organizzati in cui le guide si attrezzano affinché nulla sia lasciato al caso e tutto torni all’interno di una semplice logica affaristico-consumista. Accompagnarono anche lui di fronte al muro sul quale alcuni giovani avevano disegnato il ritratto di John Lennon il giorno in cui era morto, poi le cifre di quel disegno erano cresciute, il pubblico di quella sorta di altare profano per il comunismo era diventato luogo di pellegrinaggio, simbolo di ribellione. Il disegno si componeva di migliaia di altri microscopici disegni, date, nomi, incisioni, parole in centinaia di lingue diverse si erano sovrapposte fino a formare un enorme mosaico colorato sul quale del volto di John Lennon non era rimasta che una lieve sembianza, un’enorme macchia colorata fatta di altri colori, di altre storie, di una miriade di altri brandelli di muro.

Si risvegliò da quel ricordo e sentì una profonda tristezza per l’inutile e piatto grigiore del muro che lo circondava, in quel momento, in quel parco. Gli risuonavano nella mente le parole di una canzone dei Beatles che aveva ascoltato migliaia di volte in quegli stessi anni ’90. Da quel lontano pomeriggio praghese la sua vita era profondamente cambiata: aveva scelto nuovi amici, nuovi amori, nuovi territori, un luogo straniero in cui vivere e sentì il richiamo del passato dal quale proveniva: «There are places I’ll remember all my life, / though some have changed. / Some forever not for better / some have gone and some remain. / All these places have their moments / with lovers and friends I still can recall».

Ripassò mentalmente i modi in cui aveva instaurato le sue relazioni, come le sue molecole erano entrate in relazione con altri corpi, e si sentì definitivamente uno straniero. Tutto era diventato prevedibile e perfetto, anche la sua apparente, attuale, stranezza. Non c’erano più macchie, ombre, passaggi, grani, acciaccature che non fossero interpretati come colpe, insufficienze, incomprensioni, silenzi, vuoti di senso. Non erano necessari altri calcoli né forse le complicazioni della fisica quantistica per capirlo. Lui lo comprese in quell’istante e decise di tornare a sporcarsi, riprendere il flusso della vita da cui si era allontanato, tornare alle origini, all’epoca del muro colorato. L’infinita quantità di microscopiche molecole di cui era composto il corpo del nostro uomo della panchina si mossero all’unisono e andarono a tempo con quella musica che ancora si agitava nella sua memoria. «Though I know I’ll never lose affection / for people and things that went before. / I know I'll often stop and think about them / in my life I love you more».

Si alzò e andò verso la scuola in cui, alle cinque, sarebbe cominciata la lezione di Finlandese per dire che quella sarebbe stata la sua ultima volta; poi abbandonò anche l’idea del progettato viaggio in Lapponia.

Si guardò intorno come non faceva da molto tempo e si accorse che una ragazza in rosso lo stavo guardando. Le rivolse la parola di scatto mentre era lì, ciondolante in piedi, a fianco a lei e le chiese all’improvviso:

– Ma tu pensi?

– Si –, rispose.

– Io ho smesso, – disse.

Nota dell’autrice

Per la stesura di questo racconto nessun principio della fisica quantistica è stato maltrattato e per le imperfezioni si chiede letterariamente scusa.

Lineamenti di coprologia fantastica

I primi a stufarsi di sentirsi dare degli zozzoni furono gli Egizi, i quali si inventarono una specie di sapone ante litteram fatto di argilla e cenere che a contatto con l’acqua diventava schiumoso. Se fa la schiuma, dicevano, perlomeno è divertente e la si può soffiare addosso al partner durante i giochi erotici. In realtà, l’idea di lavarsi venne loro osservando i gatti, animali sacri, che passavano due terzi della loro vita a leccarsi: se lo fanno loro che sono mezzi dèi, perché non dovremmo seguire l’esempio? pensavano. Certo, leccarci, a meno che non lo si faccia vicendevolmente sempre nell’ambito di qualche gioco erotico, fa un po’ schifo, e allora meglio usare l’acqua. E poi, naturalmente, i gatti sono soliti sotterrare i loro escrementi, spesso fuggendo via vergognandosi come ladri.

Questa idea di allontanare il più possibile lo sporco diventò vero e proprio culto in Grecia, terra dei primi filosofi, nonostante il commediografo Aristofane considerasse loro come persone che «per risparmiare non si sono mai tagliate i capelli, messe creme, fatte un bagno» (Le nuvole). Ma non è una tesi che regge, perché, a parte i sofisti, i filosofi non si facevano pagare per insegnare essendo in media benestanti – altrimenti non avrebbero potuto perdere tempo, come racconta ancora Aristofane, a disquisire «se le zanzare cantano con la bocca o con il deretano». Più facile imputare la loro scarsa igiene, di cui peraltro non abbiamo prove, al primato dello spirito sul corpo, dell’attività teoretica su quella pratica, che andavano diffondendo attraverso i loro insegnamenti.

E tuttavia è grazie a un filosofo, Aristotele (La costituzione degli Ateniesi), che evidentemente non aveva nient’altro di meglio da fare, se sappiamo che ad Atene esistevano lavoratori specializzati detti coprologi. Questi ‘esperti di feci’, quasi sicuramente schiavi che non avevano potuto scegliere in quale settore eccellere, avevano il compito di raccogliere i rifiuti (principalmente fisiologici, come fa pensare il nome, e anche considerato che non era ancora stata inventata la plastica per imbustare le merendine) degli abitanti della polis e portarli ad almeno due chilometri dalle sue mura. A vigilare sul loro lavoro erano invece dieci funzionari incaricati muniti di frustino – di qui l’idea di giochi erotici innovativi.

Ma non tutte le feci venivano fatte sparire, poiché i grandi medici del tempo, come Ippocrate, le usavano per curare un sacco di malattie, per esempio i calcoli renali. Ma ancor meglio di quelle umane erano quelle animali, tipo sterco di vacca per procurare il ciclo mestruale o escrementi di piccione per la calvizie – ecco perché farsi battezzare da un piccione dicono porti fortuna. Le deiezioni più prodigiose erano però quelle di coccodrillo: in pratica il medico prescriveva al malato questa sostanza miracolosa costringendolo ad andarsela a cercare da solo, il più delle volte finendo fra le fauci di qualche coccodrillo in attesa del pranzo. Ecco che così qualsiasi malattia spariva per sempre e tutto si risolveva nel migliore dei modi.

Non possiamo non chiudere questa lezione con i Romani che amavano defecare nelle latrine pubbliche uno accanto all’altro, raccontandosi barzellette sconce, pulendosi poi con delle spugne imbevute d’aceto. Per di più, nonostante avessero inventato il più efficiente sistema fognario allora conosciuto, conservavano parte degli escrementi (pipì e pupù, si diceva già all’epoca) per i più svariati scopi: concime, conciatura delle pelli, pulizia, e anche loro per curare malattie. È noto che quel vecchio lupo di mare dell’imperatore Vespasiano, approfittando della passione dei Romani per l’urina (Catullo addirittura ci si sbiancava i denti), mise una tassa su di essa, diventando miliardario

è infatti qui che nacque l’espressione ‘essere schifosamente ricchi’.

Il lavoro dello scrittore è un ottimo impiego perché non si devono rispettare orari e la fatica fisica è fuori discussione. Se un giorno gli prende il pirlo di andare a Langhirano a comprare un mezzo prosciutto o a Sirmione per farsi fare un abito su misura può farlo senza avvisare nessuno. Gianni Mescoli è uno di questi scrittori, se ha voglia si mette a scrivere e se no, può decidere tra una passeggiata per le vie del centro o prendere l’auto e andare a trovare Valeria, la sua fidanzata.

Ma Gianni Mescoli non è soddisfatto, è convinto che fare lo scrittore di professione sia un lavoro sporco, lercio, di merda. Eh, sì! non è vero, dice lui, che può fare tutto ciò che vuole e comincia ad elencare i disagi, le rotture, le tensioni, gli incidenti, le pressioni, le ansie, gli impegni, senza contare il velo di polvere che regna su ogni cosa, sacchi di immondizia qua e là, scarafaggi, le lenzuola del letto a sindone, umide e tracciate di sudore e, già al mattino presto deve portare il cane nel giardino pubblico per i bisogni che raccoglie in sacchetti di plastica e porta a casa, aumentando oltremodo, la puzza.

Al ritorno finalmente si può mettere a scrivere ma c’è sempre qualcuno che telefona e disturba non poco. Poi guarda la posta elettronica e, in alcuni casi, risponde anche. Gianni Mescoli dopo pranzo è sempre avvolto da una leggera sonnolenza. Si mette sul divano per una breve interruzione che, non si sa mai, potrebbe portare buoni argomenti.

Il pomeriggio è lungo e lui avanza ipotesi sul suo romanzo che non è neanche iniziato. Pensa ai premi ai quali potrebbe partecipare, a qualche selezionata apparizione in televisione, cosa ne ricaverà dalle vendite, a quante presentazioni dovrà intervenire. In bagno ci sta un po’ perché il momento è importante. Porta con sé l’inserto settimanale di cultura, sezione libri. In questa sezione ci sono i suoi colleghi che hanno pubblicato e vinto premi. A Gianni Mescoli viene la malinconia e un po’ d’invidia anche perché, tutti gli scrittori soffrono non poco per il successo dei colleghi.

Perché lui e non io? che cazzo avrà scritto di così importante quello lì per essere primo in classifica dei libri più venduti? pensando a tutto questo mondo, l’evacuazione di merda viene così spontanea che egli stesso si meraviglia. Nonostante la soddisfazione corporale lo prende la smania e telefona all’editore il quale, dopo un breve colloquio, lo saluta perché ha da fare.

Gianni Mescoli piomba in una solitudine senza scampo e invece di andare dalla Valeria o di mettersi a scrivere per esprimere tutta la sua angoscia, la sua accidia, la sua invidia, che magari ne verrebbe fuori uno spunto per il nuovo romanzo, macché, si infila il pigiama e va a letto con la speranza che durante la notte qualche sogno porti nuove idee. Ma il sonno non viene, troppi pensieri, forse è il brasato che gli è rimasto sullo stomaco. Si rigira nel letto ma niente da fare, si alza il mattino più stanco che mai.

Gianni Mescoli ha un fratello Giuseppe, che vive in campagna e di mestiere fa il contadino. Si vedono di rado, per le feste di Natale o per Santa Caterina, però si sentono spesso al telefono. Giuseppe Mescoli possiede anche una stalla. Alle quattro del mattino si alza per mungere le vacche, alle sette le cooperative vengono a ritirare il latte e qualche forma di pecorino. Non fa neanche colazione, beve solo una tazza di caffè solubile e via.

Nonostante le difficoltà egli affronta la giornata con entusiasmo, fischietta e canta ad alta voce, anche. E trascorre così il tempo in mezzo alla natura, la fresca aria dei campi, come se l’arcadia l’avesse inventata lui tra puzza mortifera di liquami, mungiture e rifornimenti alimentari alle bestie. A mezzogiorno finalmente può esercitare il suo diritto al pranzo.

Ha la fortuna di non dover percorrere strade su strade perché la sua casa è attigua alla stalla e la moglie gli prepara sempre una pasta scotta e un pezzo di formaggio. Lui se lo chiede perché il formaggio, che ce l’ha davanti giorno e notte e che, se potesse, lo cancellerebbe dalla faccia della terra. Ma Giuseppe Mescoli è un uomo docile e gentile e la sua indole è quella della sopportazione,

però è contento, la sua vita è spalmata di merda. La pausa pranzo, che potrebbe durare anche mezz’ora, se la dimentica perché subito lo aspetta un camion che deve caricare due vacche per il macello. Poi deve andare a pulire la stalla. La sera, dopo una giornata votata al massacro, non ha appetito e va a letto senza cena, e non ha neanche la forza di sognare.

La settimana scorsa i fratelli al telefono avevano parlato del rispettivo lavoro, mentre lo scrittore si lamentava e diceva: “Che fortuna hai tu a fare il tuo lavoro così nobile, guarda me che non riesco nemmeno a dormire” L’altro rispondeva: “Sì, sì che bello il mio lavoro, però la prossima volta faccio lo scrittore anch’io”.

J e an Talon Sampieri

L’animale uomo

È nota la definizione aristotelica dell’uomo come “animale razionale” Tutti sappiamo però quanto questa definizione strida con la realtà in certe circostanze. Come per esempio quando l’animale uomo è alla guida di un automobile: c’è gente che rischia la propria e l’altrui vita per guadagnare dieci secondi in un tragitto di cinque ore (esistono autorevoli studi di università americane al riguardo).

Oppure quando l’animale uomo si cimenta in una competizione sportiva amatoriale. Qui l’irrazionalità, in ragione di uno scarso apporto di ossigeno al cervello dovuto allo sforzo fisico, si coniuga ad un assoluto sprezzo per principi e valori cui uomini tutti di un pezzo credevano di aderire. Avendo praticato nella vita vari sport, mi è capitato di vedere magistrati rubare, bigotti bestemmiare, psichiatri delirare, pacifisti rissare, ragionieri sragionare, igienisti scaracchiare, eccetera.

E voglio qui raccontare un caso di irrazionalità cui mi è capitato di assistere molti anni fa, in Africa, in un villaggio Dogon dell’alto Mali. In quel villaggio ai margini della falesia, già allora frequentata da molti turisti, esisteva un gabinetto pubblico all’entrata del villaggio, appunto per i turisti, fatto costruire dal neonato ministero del turismo; dato che gli abitanti del luogo andavano a fare i propri bisogni nell’immensa, aperta e bellissima campagna che circondava il villaggio. La questione è che quel casotto adibito a gabinetto pubblico, al cui interno c’era un vaso alla turca privo di fogna, emanava un fetore insopportabile, che si poteva sentire anche a molti metri di distanza E dentro era davvero il luogo più sporco che ho visto in vita mia. Non intendo soffermarmi su dettagli schifosi circa la sua sporcizia, basti dire che il rapporto normalmente esistente tra il gabinetto come vano, e il vaso o wc che dir si voglia, lì non era quello abituale, era anzi quasi invertito.

E tuttavia, nei giorni in cui ho soggiornato in quel villaggio, ogni giorno, a certe ore del mattino, c’era la fila per andare a fare i propri bisogni in quella lurida latrina. Quando nella campagna circostante, punteggiata da alberi e cespugli, potevi fare i propri bisogni in assoluta libertà, al fresco dell’ombra, e ristorato dalla leggera brezza che, soprattutto al mattino, soffiava sulla falesia

Si potrebbe dire che facendo così i turisti, magari inconsciamente, volessero affermare la loro appartenenza ad una civiltà superiore; e questo a costo di compiere un atto masochistico. Può darsi, ma io vedo invece in quella situazione l’emblema della principale tra le irragionevolezze umane, quella che spinge talvolta l’animale uomo verso il proprio male, in spregio della libertà. Perché va detto che non c’era nessun obbligo ad andare in quel gabinetto, nessuno che ti faceva la multa se non ci andavi, o se facevi i tuoi bisogni nella aperta e vasta campagna circostante, così vasta e punteggiata da ripari naturali, da garantire la più assoluta privacy ad ogni ora del giorno. C’erano dei pericoli nell’aperta campagna? Che so, serpenti o animali feroci? Qualche serpente velenoso nella zona ho saputo esserci; ma nei secoli, mi hanno assicurato, nessun Dogon è rimasto ucciso mentre faceva i propri bisogni all’aperto E allora, cosa spingeva quei turisti a mettersi in fila sotto il sole? se non quella stessa cosa che circa diecimila anni ci fa ha fatto rinunciare alla felice condizione di cacciatori raccoglitori – che prevedeva soltanto qualche ora di lavoro al giorno, e il resto del tempo a disposizione per gli svaghi, le feste e gli amoreggiamenti – per scegliere il duro lavoro agricolo e la stanzialità, da cui la formazione degli stati, la proprietà privata delle terre e delle donne, la schiavitù; interi popoli che rinunciano all’indipendenza e scelgono il giogo di un tiranno, la perdita della libertà in nome di non si sa cosa. Oppure, venendo all’oggi, che spinge milioni di persone ogni anno all’esodo estivo in massa per andare ad abbrustolirsi in spiagge affollate, invece di rimanere nella tranquillità della propria città svuotata; o miliardi di persone a schedarsi volontariamente consegnandosi al

controllo sociale, nell’attuale mondo digitale dei social. E si potrebbero fare altri innumerevoli esempi.

Ma la cosa che più mi fa impressione, ancora oggi, a distanza di tanti anni, è che in quel lurido gabinetto, a fare i propri bisogni, ci andavo anch’io.

S t efano Tonietto

Che cosa è sporco?

Ricordo un racconto di fantascienza, di cui non mi ricordo (nel senso che ne ho dimenticato il titolo, il nome dell’autore, i vari dati di pubblicazione, e anche la trama) in cui due astronauti, giunti su un pianeta abitabile, ma completamente privo di vita, si spogliano delle tute e si concedono, nudi, un bagno di fango in una pozza termale. Non temono alcun danno: la totale assenza di microorganismi impedisce che quel fango grigio sia dannoso per i loro corpi.

Questo mi ha fatto e mi fa riflettere: e mi sento, dopo anni di riflessione in proposito, di enunciare un principio generalissimo:

solo ciò che è biologico è sporco e sporca, cui segue un corollario:

ciò che è puramente minerale non è sporco e non sporca.

Proviamo a rifletterci. Tutto ciò che macchia, deturpa e imbruttisce la superficie di un qualcosa e lo rende inusabile, impresentabile (o, in una parola, lo sporca) è di origine biologica. Le macchie di cibo, di sugo, di grasso, di unto, di succo rendono ripugnante una tovaglia, una camicia, un piatto, una forchetta. Il corpo umano stesso sporca e si sporca delle proprie emissioni: sputi, salivazioni, secrezioni, escrezioni, essudazioni, deiezioni, traspirazioni, eiaculazioni, dismenorree, gonorree, emorree, eruzioni di pus, desquamazioni cutanee e via discorrendo. È l’alitosi che ci rende fastidiosa o impossibile la vicinanza di un’altra persona o di un animale. Ci sembra di contaminarci se mangiamo con le posate di qualcun altro, se ci laviamo nella sua acqua da bagno, se dormiamo nel suo letto, persino se ci sediamo sul suo sedile ancora tiepido.

I peggiori odori sono di origine biologica: gli escrementi, il marciume, l’alterazione da batteri. Mi si opporrà che il petrolio sporca grandissimamente, ma appunto il petrolio è di origine biologica. Il fango sporca? Come diceva lo scrittore di fantascienza non citato all’inizio, no: un fango privo di batteri o di apporti animali vegetali è pulitissimo, solo minerali disciolti in acqua. Ci si sporca di terra, ma l’humus che ci sporca è frutto di sedimentazione vegetale/animale.

La polvere minerale, ad esempio quella del gesso, può bensì ricoprire cose, animali o persone, ma non trasmette malattie: è pulita. Il carbone sporca? Ma appunto il carbone, come il petrolio, è fossile, deriva da piante antichissime.

Se poi come sporco intendiamo “un luogo o ambiente, che è ricoperto o disseminato di rifiuti, immondizie, oggetti o materiali che imbrattano” (secondo il vocabolario Treccani), ebbene, solo l’attività biologica, e al limite quella umana, che anche quando è industriale è sempre in ultima analisi di origine biologica, imbratta: altrimenti dovremmo dire che una spiaggia ricoperta di sabbia, sassi, conchiglie, resti di animali marini, pezzi di legno è sporca: non è sporca, è nella sua natura di spiaggia.

Non parliamo poi delle accezioni metaforiche di sporco: se il termine vale “già stato usato”, in assenza di forme di vita nessuno e niente può aver usato alcunché; se significa “connotato da scarsa pulizia personale”, questo può valere solo per persone o animali.

Un lavoro sporco non può certamente eseguirlo un vulcano, che si limita a far fuoriuscire il suo onesto magma, cioè rocce fuse. Il denaro sporco, “proveniente da furti, riscatti di persone sequestrate, dal traffico di droga e da altre attività delittuose”, ha origine certamente biologica, anzi umana. Un’azione o una faccenda sporca, cioè “caratterizzata da mancanza di scrupoli, da comportamenti contrarî all’onestà, alla morale e sim.”, non è nemmeno concepibile nel mondo minerale Non esistendo, in un pianeta privo di vita, lo sport, non esisterà nemmeno il gioco sporco,

“scorretto, falloso, irregolare”. Nessuno tenterà di farla sporca. E mancando una qualsiasi forma di attività sessuale, non ci imbatteremo naturalmente in parole o comportamenti “sconci, osceni, indecenti”, quindi sporchi.

Possiamo esserne sicuri: lo sporco è frutto unicamente del funzionamento di un corpo vivente, della sua attività biologica, della nutrizione e digestione, della respirazione, della malattia, degenerazione, morte e putrefazione di un organismo. Quello che impropriamente chiamiamo sporco, ma è non-biologico, non degenera, non va in putrefazione; resta lì.

La Luna e Marte sono pulitissimi.

La Terra lo era, quando era solo terra.

Facciamocene una ragione (1).

(1) Non menzioneremo l’ingegnosa trovata degli anagrammisti, i quali sostengono che dire corpo e dire porco è la medesima cosa, come dire sporco è la stessa cosa che porcos Tutto ciò funziona solo in italiano, naturalmente (N.d.A.).

Ne parliamo un’altra volta

Se qualcuno, per esempio il direttore di una rivista, mi chiedesse di scrivere qualcosa attinente allo sporco, mi troverei senz’altro in imbarazzo, prima di tutto perché sono una persona pulita, e in secondo luogo perché non mi piacciono le polemiche e questo tema dello sporco invece è molto divisivo. Ecco. Che bisogno aveva questo direttore di suscitare ulteriori divisioni in questo mondo che è già tutto spezzettato, frantumato, polverizzato in una miriade di fazioni l’una contro l’altra armata, micidialmente inviperite al punto da volersi annientare a vicenda? Santamadonna, direttore, scelga un altro tema, non lo sporco. Perché poi se si comincia a dire sporco qui e sporco là non si sa mica dove si va a finire. Lei, direttore, è chiaramente un mestatore, uno che gli piace pescare nel torbido. Quando ci siamo conosciuti non era così, era una brava persona, abbastanza educata, vestiva quasi con gusto, ostentava un po’ di erudizione. Andavamo spesso a mangiare il pesce nei ristoranti sul mare. Abbiamo esplorato tutta la costa toscana, da Orbetello a Marina di Carrara. Negli ultimi tempi sosteneva di essere vegano ma continuava a mangiare ogni tipo di pesce, soprattutto astici e aragoste che, si sa, vengono purtroppo cucinate vive. Ma lei era sempre molto evasivo sulla questione. Non voglio parlare troppo male di lei, direttore, però il fatto che i pesci e anche i crostacei non dicano sostanzialmente nulla in tutta la loro vita, non mi sembra un buon argomento per sterminarli, tanto chi tace acconsente, come sostiene lei. Allora che vogliamo fare? Sterminare anche i muti e i sordomuti? Credo che lei non abbia mai udito la voce dei pesci per un suo limite personale, una incapacità di mettersi in ascolto dell’Altro. Saranno cent’anni che si filosofeggia sull’Altro e lei sta ancora lì, come un barbagianni sulla spiaggia che fa finta di non sentire niente, mentre invece il mare è tutto un vociare, un subbuglio di parole che fanno le bolle e agitano la superficie. Ma cosa crede? Che le onde le mandino i mostri marini o che le faccia il vento? Sono i pesci che si dimenano nel loro apparente mutismo a provocare le onde, tutto un andirivieni di bolle piene di parole, dal fondo sabbioso fino su alla superficie, ma lei non sente niente, santamadonna, come mi fa incazzare.

Comunque, tornando allo sporco, non è un tema che mi piace, come ho già detto sono una persona pulita. Pensi che da bambino costringevo la mia mamma a lavarmi di continuo i pantaloni corti perché appena ci vedevo una macchiolina mi facevano schifo. Di solito i ragazzetti si rotolano nella melma, gli puzzano i piedi, hanno i capelli tutti unti e io invece che facevo? Mi guardavo i pantaloncini bianchi e se vedevo una macchiolina, via nel bidone dei panni sporchi. Lei si rende conto di che bimbetto nevrotico e insopportabile dovevo essere? Però non era colpa mia. Il fatto è che la maestra, con quelle sue lezioni di biologia infantile, mi aveva instillato il terrore dei microbi. Mi lavavo le mani settecento volte al giorno e uscivo dal bagno solo quando ero sicuro al trecento per cento che il rubinetto non gocciolasse. Perché la maestra ci aveva anche detto di non sprecare. Ma che gliene fregava a lei? Io mica andavo a far gocciolare i rubinetti di casa sua. Certe invadenze delle agenzie formative, come si dice oggi, non si spiegano proprio. E quindi sono cresciuto con questa paura dei microbi sui pantaloni e questa smania dei rubinetti da chiudere. Ma che gliele racconto a fare queste cose? Posso forse sperare che capisca le mie ossessioni infantili? Io da bimbetto mi sono divertito pochissimo per via di questi problemi. Poi uno cresce, non è che sta tutta la vita a pensare ai microbi e ai rubinetti. Uno va alle scuole medie, poi alle superiori, poi all’università, poi magari trova un lavoro. Oppure non lo trova. Ma sarebbe un discorso lungo, direttore, ne parliamo un’altra volta.

M o nica Ugaglia

Sporco brutto e cattivo

– Rammenta altri episodi significativi? Episodi, intendo, che alla luce di quanto emerso sinora lei rubricherebbe come significativi?

– Beh, laddentro accadeva sempre qualcosa, come ormai può forse immaginare anche lei.

– Con laddentro intende dentro casa dell’Eschinardi?

– Intendo dentro casa dell’Eschinardi, sì, anche se come le dissi loro preferivano chiamarlo Manzo, per via di quella faccenda di Paolo Uccello, il pittore buon compositore… (1)

– Se non le dispiace lascerei perdere quella faccenda di Paolo Uccello, che non mi pare ci abbia portati molto lontano, e le chiederei gentilmente di concentrarci su qualcosa di più utile. Rammenta altri episodi significativi?

– Altri episodi, sì, ne rammento, anche se non so quanto significativi e nemmeno quanto episodici: più che episodi, se lei me lo consente preferirei chiamarli periodi, o percorsi. Percorsi verso il disastro. Il Manzo preparava disastri.

– Immagino intenda l’Eschinardi, e noto che ne parla al passato.

– Non credo che ora sia più nella condizione di far danno, anche un fuoriclasse come il Manzo.

– Mi scusi la ho interrotta.

– No, stavo pensando. Ci fu in effetti un periodo alquanto agitato, più agitato che d’abitudine, insomma, una volta che l’Eschinardi si fissò con l’idea dello sporco.

– Lo sporco?

– No, non lo sporco, l’Idea dello sporco. Non lo sporco tipo questo sporco qui, no no, proprio lo Sporco in sé, l’Idea, la Forma, l’Archetipo dello sporco. Quella che sta nella lista del demiurgo, o nella mente del dio.

– Nella mente del dio ci sta l’idea dello sporco?

– Ecco, appunto, la questione era proprio questa. Per quanto il Manzo fosse, e mi auguro ancora sia essenzialmente aristotelico, forse talvolta un po’ s’infervora per qualche stoico, ma con parsimonia, quando uno fonda un’accademia come la sua, specie di questi tempi di miseria culturale, un po’ di neoplatonismo lo deve mettere in conto. Si deve rassegnare. Non mi dica che non è pieno anche qui da lei?

– Beh, qualcuno lo abbiamo. Ma sa, finché il disturbo non si manifesta in forma patologica, non posso far nulla. In compenso però ho uno che dice di essere Scoto Eriugena.

Deve essere un classico. Anche il Manzo una volta si convinse di essere l’Eriugena: andò avanti qualche mese, non pochi anzi, e va detto che alla fine soprattutto risultava piuttosto convincente. Io stesso facevo fatica a distinguerlo dall’originale, e se non fosse stato per quella faccenda della cura per l’insonnia, le ho mai raccontato?

– Se non le dispiace lascerei perdere anche questa faccenda della cura, che così a naso non mi pare ci porterebbe molto lontano. Possiamo rientrare in argomento?

– Sì, certo, come le stavo dicendo il problema erano i neoplatonici. Come al solito, direbbe il Manzo (il Manzo non ama i neoplatonici), e in questo caso dobbiamo ammettere che ha ragione.

– Cosa c’entrano i neoplatonici con lo sporco?

– Con lo sporco direttamente, poco o nulla; c’entrano con l’idea dello sporco, che non sanno gestire. Non è colpa loro, ovviamente: se andiamo a vedere – se risaliamo la catena delle cause, come direbbe quell’altro – arriviamo a Platone. Come al solito, direbbe il Manzo, che non ama nemmeno Platone. Però in un modo diverso da come non ama i neoplatonici; più che non amarlo, non riesce a prenderlo sul serio. Come pensatore, intendo. Come scrittore lo ritiene un grandissimo: ha una sua teoria, sulle dimensioni della grandezza di Platone, e anzi credo ne abbia anche scritto qualcosa, ma mai ci fece leggere alcunché. Quel burlone, lo chiama. O quel buontempone.

Insomma, ad un certo punto quel buontempone di Platone si domanda se esista l’idea del capello (θρίξ), del fango (πηλός), o dello sporco (ῥύπος). Parmenide 130 c-d, tre righe, pochi orpelli, niente discorsi a viaggi d’acqua: fa la domanda ma non dà una risposta. (2) E nemmeno poi torna sulla questione: basta, finisce tutto lì. Per questo forse è uno dei passi preferiti dal Manzo. Ma quelli no.

– Quelli sono i neoplatonici?

– Sì, sempre loro. Loro no, loro non sono contenti, ci si fissano: sa quelli che mancano totalmente di senso dell’umorismo e pigliano tutto sul serio? Ecco, così. Sempre così fanno. Il capello era un capello o un pelo? (3) E il fango? non sarà mica che dice fango ma intende argilla? E lo sporco, che tipo di sporco era? Il Manzo dice che è cerume delle orecchie, ma in ogni caso non cambia molto: puoi far diventare il pelo capello e il fango argilla – dice il Manzo – che sono cose anche belle, sotto certi rispetti, ma il cerume sempre brutto resta, e ridicolo, anche se lo chiami solo sporco. E siccome il neoplatonico non può sopportare l’idea del brutto, dacché l’idea è roba divina, allora risponde di no: quand’anche ci fosse l’idea del pelo capello, o del fango argilla, che non ci sono, dice il neoplatonico, ma facciamo finta che ci siano, non però ci sarebbe quella dello sporco. Così il neoplatonico, e infondo fin qui non ci sarebbe niente di male, se non fosse che dice che anche Platone risponde di no, e qui c’è male, perché Platone non risponde di no. Non risponde, che è diverso. Ma il neoplatonico dice che non risponde di no perché è ovvio che è no. E però a questo punto deve dimostrare che è ovvio, che è no, anche se ovviamente non è ovvio, manco per nulla.

Non è ovvio che non ci sia l’idea dello sporco, insomma. –

Non è ovvio no! A meno che uno non manometta i testi. E qui viene il bello, perché quelli non si fanno scrupoli a manometterli.

Quelli sono sempre i neoplatonici?

– Sempre loro, sì, nella persona di Proclo. È tutta colpa di Proclo, ci disse quel giorno il Manzo, come al solito (il Manzo non ama Proclo). Come potete immaginare, diceva l’Eschinardi, Proclo non ha dubbi in merito alla non esistenza dell’idea dello sporco, come di ogni altra roba brutta, e/o malvagia, e/o ridicola. Però come potete immaginare questo non basta: deve dimostrare che anche Platone non aveva dubbi, perché sennò non vale. E siccome però Platone non dice mai di non aver dubbi, bisogna che glielo facciamo dire noi.

– Noi, intende noi neoplatonici.

– Sì, noi loro.

– E come facciamo?

Facciamo che troviamo in Platone una definizione di idea molto platonica e molto incompatibile con l’idea dello sporco.

– E la troviamo?

– Ovviamente sì, visto che ce la mettiamo noi.

– Aspetti, non la seguo.

– Facciamo che ci inventiamo una definizione di idea molto platonica e molto incompatibile con l’idea dello sporco, e la attribuiamo a Platone. Ovviamente abbiamo bisogno di testimoni attendibili, ma quelli si trovano facile. Per esempio Senocrate, dice il Manzo, ma sta parlando per Proclo. Forse non le ho detto, ma quando il Manzo si concentra su un argomento, diventa quell’argomento. Non so come spiegarlo. Studia Proclo, mattamente e disperatamente dacché è questa l’unica forma di studio ch’egli concepisce, e nemmeno possiamo dire che diventi Proclo, che alla fine sono buoni più o meno tutti; no, lui diventa il pensiero di Proclo. Pratica l’immedesimazione, ma nella sua forma più estrema. In questo modo, stando a cosa ci dice, e solo in questo modo, riesce a domare i testi, e qui sto impiegando un suo termine, anche se è un termine che non gli piace. In particolare, è così che scioglie tutti i dubbi interpretativi, emenda, congettura, e financo inventa, ma inventa l’originale, meglio di Menard, che tra parentesi ha frequentato l’accademia per qualche tempo, ma non lo vedo da un pezzo. La volta meglio però fu quando si convinse di essere l’Eriugena, e produsse un testo nuovo, una roba di medicina alternativa, lui e il suo amico Pastapane, Tommaso, un medico che anche lui frequentava l’accademia, e ora che mi ci fa pensare, anche lui non lo vedo da un pezzo.

– Se non le dispiace lascerei perdere la faccenda dell’Eriugena, anche se a questo punto mi pare ovvio che meriti un approfondimento, ma non ora. Ora le chiederei gentilmente se possiamo rientrare in argomento.

– Sì, certo, come le stavo dicendo basta prendere una definizione di Idea sufficientemente platonica e sufficientemente incompatibile con l’idea di sporco. Di platoniche, eventualmente anche molto platoniche, ne abbiamo varie. Il problema è l’incompatibilità, che non sempre è così ovvia. Consideri per esempio l’idea come modello eterno delle cose che esistono secondo natura di Senocrate: (4) col platonismo ci siamo, coll’incompatibilità un po’ meno… sarà anche brutto, e potenzialmente cattivo, ma non possiamo dire che lo sporco esista contro natura; tantomeno il cerume delle orecchie, che naturalissimamente vien prodotto dalle naturalissime orecchie dell’uomo, e/o delle bestiuole. Ora però immagini di riferire l’eternità alla cosa, invece che al modello: non il modello eterno delle cose che esistono secondo natura, ma il modello (che va da sé è eterno) delle cose che eternamente esistono secondo natura. Basta far diventare grande la o piccola, (5) ci fece notare il Manzo, per togliere di mezzo lo sporco, per sempre: sarà infatti anche naturale, il cerume, ma di certo non è eterno.

Così il Manzo, che però in quel momento stava essendo Proclo, e in quanto tale non ebbe problemi a mostrarci il passo (siamo nel quarto libro del commento al Parmenide) dove egli, egli Proclo, fa il trucco della o grande. (6) L’ostinazione testuale del Manzo è proverbiale, così come le modalità in cui si esplica, e quella volta non fece eccezione. Come sempre, rimesso in logica che ebbe il passo cattivo, e anche qui sto usando le sue parole, fu colto dall’urgenza di bonificare tutto il testo, e poi tutti i testi di Proclo, e intendo tutti i testi in cui Proclo si sia pronunciato in materia di idee, e poi tutti i testi di tutti gli autori, tutti quelli che si siano pronunciati in materia di idee, insomma. Prima di cedere all’evidenza che di impresa impossibile si tratta, il Manzo si ostina e persevera, e si ostina, e persevera nell’ostinazione per un tempo che può variare da qualche settimana a qualche anno, a seconda della vastità del tema. Durante quel tempo costringe i suoi soci ad interminabili sedute di erragione ermeneutica, come lui ama chiamarle. E così fece anche quella volta.

Consistono, queste sedute, nel Manzo che cammina chilometri di pavimento in modalità Browniana, come sa quei cosi per pulire che vanno da soli? e che riescono a coprire tutta la superficie proprio perché vanno random? Ecco, così, contestualmente riempiendo altrettanti chilometri, quadrati però, e ragionati, di lavagna. Questo fino a quando qualcuno, o qualcosa, non lo convinca che è tempo di cambiare argomento. Il qualcuno può anche essere il Manzo medesimo, il qualcosa può essere banalmente lo strato di polvere di gesso che ha ricoperto tutto, e tutti, come in una specie di eterno solaio.

Questo perché il Manzo non ama le lavagne bianche, quelle che vanno scritte coi pennarelli puzzolenti, o peggio ancora gli schermi interattivi, da scriversi con la penna magica: possiede una distesa, sterminata e bellissima, di dodici lavagne di ardesia incorniciate di legno, pesanti come ippopotami, scure, lisce, ruvide e preziose, ch’egli ha liberato, con l’ausilio di due bidelli sensibili, dal seminterrato di un ex seminario, ora istituto d’istruzione superiore, dove i pedagoghi cattivi le avevano rinchiuse e impacchettate per far posto appunto agli schermi magici. Ma se il Manzo non scrive col gesso, non gli vengono le idee. Così almeno dice lui.

– E Proclo?

– Proclo, certo. Una volta che ha astutamente confuso le idee, facendo diventare il modello eterno delle cose secondo natura (παράδειγμα

un modello delle cose eterne secondo natura (παράδειγμα

e nessuno ha detto nulla, anzi, tutti a citarlo convinti di star citando Senocrate, e dunque Platone, beh, a quel punto ha vinto lui. (7) In quanto, dice Proclo, l’idea è modello delle cose che esistono secondo natura, non ci sarà l’idea delle cose contro natura, né di quelle prodotte dall’arte. In quanto però è modello delle cose che esistono sempre, non ci sarà nemmeno l’idea dei particolari, che non sono sempre, perché soggetti a generazione e corruzione. (8) Ora, nessuno può negare che il cerume, e con esso ogni guisa di sporco, sia soggetto a generazione e corruzione, e che quindi non sia eterno, e che quindi non vi sia di esso idea alcuna. Così come pure del pelo, del capello, del fango e dell’argilla.

– Mi scusi se la interrompo, ma questo non banalizza eccessivamente la questione? È vero che così escludiamo l’idea del cerume, del pelo e del fango, ma eliminiamo anche quella dell’orecchio, del piede, del sapone, di Proclo medesimo…

– E qui ha colto il punto. E infatti erano in molti a non trovarsi d’accordo, molti amici di Proclo e anche molti amici del Manzo, quelli che come lei non accettavano l’idea di gettare il bambino con l’acqua sporca. L’idea del cerume, dicevano, non può non esistere nello stesso modo in cui non esiste quella del sapone, o del bambino: deve non esistere per via di un’impossibilità più impossibile. Possibilmente, un’impossibilità riconducibile al fatto che il cerume è cattivo: brutto, e cattivo, mentre il sapone è buono: buono, e bello.

Per questo alcuni si concentrarono sulla connessione tra sporco e male: non solo il cerume non è necessario, e perciò non è eterno, ma non è neppure buono. È anzi a tutti gli effetti cattivo, o almeno così cercavano di dimostrare, e siccome nella mente del dio non c’è spazio per il male, non c’è spazio nemmeno per il cerume, sia pur esso soltanto un’idea. Accade, il cerume, ma solo come accadono le cose cattive: senza scopo e per errore.

Questi alcuni, che erano e sono anzi i molti, furono i moltissimi nel medioevo, (9) e per questo ebbero la meglio sui pochi che, seguendo Proclo, negavano tanto lo sporco quanto il pulito (non come mali però, nessuno dei due, bensì come oggetti peribili) e sui pochissimi che non negavano né l’uno né l’altro, come il vituperatissimo Amelio. (10) Va infatti detto che la rivalità tra i negatori dello sporco e del pulito e i negatori del solo sporco non fu mai feroce: spesso essi si trovarono anzi a combattere fianco a fianco contro il nemico vero, e comune, nella persona degli Ameliani apologisti dello sporco. Il cerume è male, sostenevano costoro, ma di esso male, come di ogni male, sussiste l’idea. (11) Ciò significa che non accade per errore, ma ne è causa il dio creatore, chiunque esso sia. Perciò, perché viene dalla mente del dio, il cerume va difeso.

Come nelle migliori guerre, le posizioni andarono polarizzandosi, fino a che ci si trovò ad avere da un lato gli estremisti della nettezza, che in nome del pulito ideale combattevano ogni genere di sporco: sporco grasso, sporco bruciato, sporco ostinato… Dall’altro i fanatici del sudicio, che esaltavano lo sporco ideale e ne coltivavano ogni manifestazione. I negatori dello sporco trovarono il loro vate in un tale magistro di Lindo, di cui poco si sa a parte il nome, su cui gli storici son concordi, e la proverbiale forza, anche’essa magnificata dalla quasi totalità delle fonti.

– Ma è proprio così necessaria?

– La forza? Certamente, mica si vincono certe battaglie solo con le buone intenzioni. – No, questa ennesima digressione: davvero ritiene sia necessaria? Vede, io cerco di seguirla: la seguo per gentilezza, e anche perché spero ancora, non mi chieda per quale misterioso motivo, che ad un certo punto arriveremo ad una qualche conclusione. E la seguo per necessità, perché lei è l’unica persona che può aiutarmi e per tramite mio aiutare il suo amico. Forse non le è chiaro, ma l’Eschinardi non sta bene. Non è chiaro a lei, non è chiaro a lui, e non è chiaro a nessuno di quei vostri compari, che peraltro non potrei ascoltare. Non c’è una lista, non c’è un’agenda, lei è l’unico di cui il Manzo mi abbia fatto il nome per esteso: per questo, solo per questo ho convocato lei, signor Manetti, perché come avrei potuto rintracciare il Mazurca? il Brugola, il signor Pofi, Aurelio, Pedro…

– Pedro era il suo amico immaginario, non esiste.

– Non esiste? E a me non importa, lo capisce? A me importerebbe di curare l’Eschinardi, o almeno di provarci, se qualcuno solo mi desse una mano.

– Io le sto dando una mano.

– Lei mi sta facendo perdere tempo, Manetti. Lei, Pofi, Pedro, il Manzo… – Il Manzo, appunto. Ci stavo arrivando, perché fu proprio qui che se ne uscì con una delle sue migliori interpretazioni di tutti i tempi. Come le stavo dicendo, poco si sa, o nulla, del magistro di Lindo e, come spesso accade in casi come questo, la quasi totale assenza di riferimenti attendibili ha scatenato le congetture più fantasiose sulla sua presunta identità. Per lungo tempo si è dato credito al Tricomi, che nella sua peraltro ottima edizione dei frammenti di Timachidas (12) argomentò in favore dell’identificazione del nostro con uno dei mastroi citati nella Cronaca di Lindo. (13)

Anche dopo che la tesi del Tricomi si è mostrata per quel che era, e cioè un’ipotesi del tutto infondata, nessuno ha pensato di metterne in dubbio la provenienza, e intendo la provenienza del magistro. Ed è appunto qui che interviene il Manzo, con un’idea tanto ovvia quanto geniale: perché fissarsi con Lindo rodio? Tutti sempre da Rodi devono venire? E in pochi mesi chiude la questione, dimostrando infine, con mirabili argomenti, che non di Lindo (Λίνδος) rodio si tratta, con la o piccola, ma di Lindö suionio, con la o metafonica, in Svezia.

– Quindi alla fine l’Eschinardi stava coi Lindiani?

– No, stava con quegli altri, come peraltro quasi tutti all’accademia. Le dissi che i Lindiani erano la maggioranza, ma questo in generale, nel mondo. In seno all’accademia, in quel consesso particolare, le proporzioni si invertivano. A parte il dottor Pofi, quasi tutti gli altri, senza dubbio condizionati dal Manzo, si schierarono all’estremo opposto, con gli apologeti dello sporco.

Ciò avvenne, e intendo l’inversione della statistica, per due motivi: da un lato senza dubbio la maggiore affinità dell’argomento, gli accademici essendo tutti alquanto sensibili al sudiciume. Dall’altro però mi sento di affermare che anche la questione personale ebbe il suo peso. Erano infatti capitanati, i cantori dello sporco, dal ben più noto Stephanus Belisarius: (14) più noto in universale del magistro di Lindö e alquanto più caro, in particolare, al Manzo. Autore tra l’altro del De vita fabulosa Johannis Ilicis, opera di impressionante dimensione artistica, così il Manzo, da essa si era convinto, sempre il Manzo, che il Leopardi avesse preso l’idea per l’Elogio degli uccelli, quello con il filosofo solitario Amelio, che non per nulla si chiama Amelio, ma questa è un’altra storia.

Per restare al sudicio, fu sotto lo pseudonimo di Elio – aferesi di Amelio – che il Belisarius pubblicò la sua ode allo sporco: una sorta di radicalizzazione estrema delle tesi del maestro, che in breve divenne il manifesto della fazione lercia, nonché del Manzo e dei suoi.

Come Amelio, anche Elio dimostra l’esistenza dell’idea della sporcizia, ma mentre il maestro la subordina all’esistenza dell’idea contraria, affermando che se c’è idea della purificazione ci deve essere anche l’idea della sporcizia, perché purificazione è levare qualche sporcizia, l’allievo la ritiene necessaria a prescindere: la nobiltà e la bellezza dello sporco non derivano solo dalla sua utilità, come vorrebbero persino i commenti alle Sentenze di Lombardo, laddove dimostrano che anche il male può essere funzionale al bene, ma risiedono nella sua stessa essenza di sporco.

La sporcizia non esiste solo in funzione della pulizia: essa esiste in virtù del suo essere buona, e bella. Il problema non è il cerume, il problema non sono i capperi, e qui il Belisario stila una lunga lista, ed esaustiva (i capperi, il muco, lo sporco in mezzo alle dita dei piedi, la pipì, la pupù…). Il problema non è il cerume, e qui il giudizio del Belisario è netto, ma la scarsa nozione che l’uomo ha di esso, conseguenza della scarsa nozione che ha del corpo, e del cosmo. Ma… – Ma?

Ma che mi venga un colpo se quello non è il vecchio Tom.

Note dell’autrice

(1) Paolo di Dono. Pittore buon compositore, e gran maestro d’animali e di paesi, secondo il Landino, poi ripreso dall’anonimo di Billi, fu cognominato Uccelli, o anche al singolare Uccello, poiché si dilettò più degli uccelli che d’altro. Tuttavia, come fu giustamente osservato dall’Eschinardi (Eschinardi Ernesto, Elogio dell’Uccelli): «dove stiano questi uccelli così meravigliosamente dipinti nessuno lo sa, e possiamo anzi affermare che il di Dono non dipinse uccelli, praticamente mai. Cani levrieri, lepri, volpi, cavalli sì, aveva dipinto cavalli bianchi, cavalli blu, e cavalli arancioni, e terga di cavalli, zampe di cavalli, orecchie di cavalli, froge di cavalli, andamenti di cavalli opinabili, con entrambi gli zoccoli sinistri a terra, draghi alati, ma niente uccelli. A meno che non vogliamo contare quelli che aspettano di entrare nell’arca, che sono decorativi, e in molti sensi necessari, ma non meravigliosi». Poiché anch’egli, l’Eschinardi, si

vantava di aver scritto praticamente di ogni cosa, mai dei manzi però, se non per isbaglio, amava farsi chiamare Manzo per questo.

(2) ‹«E anche a proposito di queste qui, Socrate, che possono sembrare ridicole, come un capello, fango o sporcizia o un qualche cos’altro senza alcun valore e importanza, ti sei mai posto in dubbio se occorresse o meno affermare che anche di queste ci sia una forma separata, che sia altro dalle cose che noi afferriamo con mano?» (ἦ

Parm. 130 c-d).

(3) La questione è ripresa e declinata in una prospettiva di genere in R. Benigni, Cioni Mario di Gaspare fu Giulia. (4) ὁρίζονται

(Alcinoo, Didaskalikon IX 163.2324; cfr. Seneca Epist. 68, 19). L’espressione τὰ κατὰ φὐσιν συνεστῶτα compare anche nel De Ideis di Aristotele, secondo che dice Alessandro (In Met 86.19).

(5) Nella definizione senocratea riportata alla nota precedente si legga αἰωνίων, genitivo plurale, da accordarsi con τῶν κατὰ φύσιν, in luogo di αἰώνιον, nominativo singolare, attributo di παράδειγμα. (6) La possibile confusione viene segnalata, ma attribuita ad involontaria svista dell’autore, nell’edizione Chaignet (1900-1903). Viene invece passata sotto silenzio nella più recente edizione Luna-Segonds (2007-2021). Sull’intenzionalità dell’operazione procliana e sulle effettive modalità dello slittamento, si veda la nostra nota 6.

(7) Lo slittamento è realizzato in due passaggi: dapprima Proclo fa riferimento ad una definizione generica, genericamente attribuita ai platonici, che non menziona l’eternità: «diciamo che le idee sono la causa, demiurgica e intellettiva, di tutte le cose prodotte secondo natura» (φῶμεν

(In Parm II 732.2-4). Quindi la richiama, sempre senza riferimenti specifici ad alcun autore, facendo però comparire l’eternità delle cose: «Le idee sono cause delle cose eterne» (ἀϊδἰων

Ibid III 814.1-7). Infine, la ripropone e la analizza, in una versione però più precisa, e più precisamente riferita a Senocrate, in cui il riferimento all’eternità delle cose diviene cruciale: «secondo quanto dice Senocrate, l’idea è causa paradigmatica delle cose che sussistono sempre secondo natura» (καθά

(

IV 888.17-19).

(In Parm. IV 888.31-35).

(9) Ci permettiamo qui di segnalare la posizione di Marsilio Ficino, che rileggendo la definizione Senocratea nella versione errata di Proclo e alla luce di Plotino (Enneade V lib. 9) afferma che non ci possono essere idee delle cose vili, dannose e cattive: nella mente del dio creatore, infatti, sussistono solo le idee delle cose che egli stesso produce e porta a perfezione (Marsili Ficini Commentarium in Parmenidem Platonis, cap. XIV: Sordium non sunt ideae).

(10) Amelio Gentiliano fu uno dei primi allievi di Plotino, del quale Plotino pubblicò le lezioni in cento libri. Di questa e delle altre molte opere che pubblicò in vita non restano che pochi frammenti, e alcune testimonianze (si veda per esempio A.N. Zoumpos, Amelii Neoplatonici Fragmenta, Athenis 1956). Pur senza mai nominarlo, è probabile che a lui alluda Proclo quando critica la posizione di «certi Platonici che hanno ammesso le idee dei mali» (In Parm. IV 833.13-14: cfr. V 985.40-986.7), come anche “dei particolari e delle cose contro natura” (Theol. Plat I 21 98.16-20). Cfr. nota 11.

(11) Secondo la testimonianza di Asclepio di Tralle, Amelio riteneva di poter collocare nel demiurgo anche le idee, e dunque le cause, dei mali (Ἀμέλιος

Commentaria in Nicomachi Geraseni Pythagorei introductionem arithmeticam I.44.1).

(12) Panezio Tricomi, Il banchetto del pompilo, pp. 177-9. Sul pompilo, o pesce pilota, cfr. D’Arcy W. Thompson, A Glossary of Greek Fishes, pp. 208-9.

(13) Blinkenberg, C.S. Lindos: Fouilles et Recherches II (1941). Cfr. Il testo della Cronaca di Lindo, in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, Classe di Lettere e Filosofia, 5 2014 (pp. 5-29). Sui mastroi si vedano in particolare le linee 1, 5, 8. (14) Anche noto come Megaphrynos, l’assenza di ritratti autorizzati del Belisarius non consente di stabilire se tale insolito soprannome sia da ricondurre al carattere altezzoso del soggetto o alla dimensione delle sue sopracciglia.

C a terina Villa Venti, quaranta, sessanta

Arriva per prima. La porta in fondo è aperta, si intravede l’acqua; è di un azzurro brillante, un inganno perfetto. Si spoglia velocemente, ha già indosso il costume; lascia i vestiti nell’armadietto ma prende lo zaino con dentro la borraccia, le palette, le pinne Così le hanno insegnato fin dai primi allenamenti. Un uomo nuota nella corsia quattro, il bagnino è seduto su una panchina, guarda il cellulare. Lei si aggiusta la cuffia, inspira l’odore di cloro e di anfratti umidi. Inspira ancora, più forte, le sembra di cogliere anche il sentore dolciastro del suo sangue. Si guarda intorno, il bagnino continua a fissare lo schermo, l’uomo a nuotare, eccolo che fa una capriola sgraziata e riparte a stile libero. Stringe le gambe, si sente piena in modo insopportabile. Abbassa gli occhialini, si tuffa. «Non pensare al freddo, parti subito». Così diceva suo padre e così lei ha sempre fatto, i piedi che spingono contro le mattonelle, l’acqua che si schiude. Da dentro non è più azzurra; è grigia, densa e come vischiosa a contatto con il suo corpo Tiene lo sguardo basso. Le gambe e le braccia, vinta la resistenza iniziale, scivolano in un ritmo che le ammorbidisce i pensieri. A metà vasca nota della sporcizia sul fondo, piccoli grovigli di alghe verdi che ondeggiano piano. Non dovrebbero essere lì. Nelle piscine in cui la faceva nuotare suo padre non c’erano mai, l’equilibrio dei disinfettanti impeccabile, aggressivo al punto giusto. Pensa alle spore che le alghe spargono nell’acqua, le avverte che entrano dentro di lei. Ne immagina una che le cresce nel ventre, la vede che tremola nel buio. Suo padre le diceva sempre di non ingoiare i semi della frutta, altrimenti le sarebbero germogliati nella pancia. Le diceva anche di non sedersi a terra, di non mordersi le unghie, di non toccare nulla negli spogliatoi, di lavarsi le mani appena rientrata a casa Ma non era mai sufficiente; c’era sempre ancora un millimetro di pelle da igienizzare, un altro pensiero impuro da cauterizzare Chiude forte gli occhi, accelera, le gambe che scalciano veloci, pochi istanti per respirare prima di rimettere la testa sotto, il cuore che si dilata e subito si restringe. Non ne aveva mai messo uno prima. La regola era che non poteva nuotare nei giorni in cui aveva il ciclo; la piscina era uno spazio sacro che non andava contaminato con le sue impurità E le regole non si discutevano, anche se avrebbe dato tutto pur di entrare in acqua e dissolversi nel ritmo ineluttabile delle vasche. Venti, quaranta, sessanta. È l’acqua che l’ha protetta e maledetta, che ha plasmato il suo corpo in un processo di sottrazione progressiva di grasso, di curve, di errori. Adesso il regno di suo padre è finito, le sue leggi dovrebbero essere cartastraccia; eppure senza di loro lei fatica a decifrare il mondo. È nuovo e luminoso, come se fosse appena nato, ma la fa anche sentire una lumaca, morbida, umida, in pericolo.

Ieri sera ha fatto delle prove a casa, nuda, in piedi sul tappetino del bagno. Non ci è riuscita subito, le è sembrato che le pareti della vagina facessero resistenza, ogni volta che ritirava le dita le lavava con acqua calda e sapone finché non le bruciavano i polpastrelli. Finché la dolcezza chimica del detergente non inghiottiva l’odore di decomposizione Quando finalmente ci è riuscita, si è guardata allo specchio, le spalle larghe, il seno piatto sui pettorali, tutto come al solito, eppure sentire il filo bianco che le sfiorava l’interno della coscia l’aveva lasciata smarrita. Aveva pensato a una vecchia bambola, di quelle che se tiri la cordicella parlano «Mamma», diceva, fino a che la corda non si era spezzata e non aveva parlato più.

Si ferma per infilare le palette, nella corsia alla sua destra una signora si cala lentamente in acqua, aggrappata alla scaletta, poi agita una mano in segno di saluto. A galleggiare così avverte una tensione tra le gambe come se qualcosa si fosse impiantato e stesse crescendo. È il cotone che si imbeve d’acqua e di sangue, ma anche altro. Un grumo sudicio che lei continua ad alimentare. Con le palette va ancora più veloce, si accorge che alla fine della corsia, appena sotto il trampolino, c’è un tappo per il naso adagiato sul fondo. Un lampo di dolore le fa perdere il ritmo. Il ciclo le era arrivato tardi rispetto alle sue coetanee; un pomeriggio era andata in bagno e l’aveva trovata lì, una macchia marroncina sugli slip. «Non lo dire a papà», aveva chiesto a sua madre appena rientrata dal

lavoro, ma lui chissà come se n’era accorto. Le aveva negato di allenarsi finché non fosse finito. Lei si annusava le braccia, le mani. Non le piaceva quell’odore quasi sconosciuto, un odore di sudore, di unto. L’odore della sua pelle. La smarriva non sentire il cloro. Il cloro che la uniformava, che la sigillava in un guscio. Suo padre la evitava e senza il peso del suo sguardo si sentiva sbagliata, come se il suo corpo stesse marcendo da dentro.

Arriva al limite dell’orario del nuoto libero e aspetta di essere l’ultima in vasca. Esce a piccoli passi; non si fida della gravità del mondo esterno, della capacità che ha di spingere fuori ciò che è meglio tenere nascosto. In acqua conosce i confini e il peso, ma fuori è diverso. Nello spogliatoio una ragazza si sta asciugando i capelli, una signora si spalma la crema sulle cosce in movimenti lenti, circolari. Due donne anziane chiacchierano di conoscenze in comune mentre si pettinano i capelli cortissimi, gli accappatoi slacciati fanno intravedere pance e ombelichi. La loro carne, i loro seni, le unghie dei loro piedi comprimono lo spazio e lei si stringe nell’asciugamano Si sfila il costume solo quando è al riparo nel cubicolo della doccia. Ecco il filo, incollato all’interno della coscia destra. Prima o poi dovrà togliere l’assorbente e gettarlo nel secchio dello spogliatoio. Il vapore le ingorga i polmoni, si piega un poco in avanti, l’acqua saponata si accumula sotto le ciabatte, scola oltre la griglia. Cerca di non far caso alle sfumature verdi sulla plastica, ai capelli incollati alle mattonelle «Non andare mai scalza, i pavimenti sono sempre sudici, ti prenderai i funghi». La voce di suo padre striscia fuori dallo scarico, le si avvinghia alle caviglie. Stringe, stringe sempre.

È stato un attimo. Prima era ancora lui, il suo guardiano e il suo carnefice, l’uomo che le aveva detto che il suo corpo era un tempio; l’uomo che non le aveva rivolto la parola per settimane quando aveva scoperto che era andata a letto con un ragazzo per la prima volta. Poi non c’era stato più. Avevano detto che la parola era la più difficile da recuperare. I primi giorni poteva ancora sentirlo urlare il suo nome, ma a mano a mano la sua rabbia, quel motore che ruggendogli dentro aveva spinto in avanti le vite di entrambi, si era spenta e il ricordo della sua voce si era inabissato dentro di lei, come un pesce che avesse scelto di vivere nell’abisso.

«Ma sì ti dico, è morto il giorno di Natale». «Non ci credo». «Ma invece Angela l’avete vista?». Tiene la testa bassa, in una mano stringe il costume bagnato, con l’altra blocca l’asciugamano. È un gioco di destrezza aprire l’armadietto e pescare le mutande senza spogliarsi. La ragazza che prima si asciugava i capelli augura a tutti una buona giornata, poi esce dallo spogliatoio La signora della crema si sta rivestendo, tira su col naso, un suono umido. C’è odore di scarpe e di calze. Lei nasconde gli slip nel pugno chiuso, torna nel locale delle docce, entra in uno dei bagni. Non c’è la carta igienica, qualcuna ha lasciato gocce di pipì sulla tavoletta. Chiude gli occhi e allunga una mano, le dita sfiorano il filo. Fuori una porta sbatte, una risata. Lei pensa a suo padre seduto in poltrona, lo sguardo smarrito. Non vuole ricordarlo così, vuole rivederlo dritto in piedi di fianco alla piscina, la tuta rossa e bianca, il fischietto che brilla. Tira forte. Il vuoto arriva come un insulto sibilato all’orecchio perché nessun altro senta. Si infila le mutande con una mano sola, cerca di incollare le ali dell’assorbente. Avvolge l’altro nella plastica, a stringerlo in mano irradia un debole calore, da animale morente.

Nello spogliatoio è rimasta la signora che l’ha salutata prima in vasca, sta riponendo l’accappatoio e il costume bagnato in un trolley. Lei si avvicina al secchio, attenta a non far rumore lascia che il fagotto tiepido le scivoli via dalle dita. La signora nemmeno si gira. Lei si veste e con ogni indumento i suoi confini si fanno un poco più definiti. L’orologio appeso sopra gli specchi dice che sono le otto e venti. Per anni a quest’ora esatta è stata in macchina con suo padre, nel tragitto dalla piscina a scuola, ad ascoltarlo elencare i suoi errori, i tempi da migliorare. Teneva sempre lo sguardo sulla strada e una mano sul cambio. Quanto avrebbe voluto toccarla. Non l’ha mai fatto.

– Arrivederci, – dice la signora e lei rimane sola. Intorno ci sono i fantasmi di quelle donne, le tracce dei loro profumi, della terra appiccicata alle suole delle loro scarpe, dei loro fiati impastati di sonno. Dovrebbe farle orrore, ma pensa al sangue che adesso ha ripreso a scorrere, al tempio sfasciato che il suo corpo è diventato, e si sente confortata dai loro resti, come dal ritmo incessante delle vasche che le è filtrato fino al centro delle ossa. Venti, quaranta, sessanta. Lo sguardo e la voce di suo padre. Un nocciolo di sporco che non potrà mai lavare via.

Apologia dello sporco

(due capitoli tratti da un romanzo inedito dell’alienista Paolo Vistoli)

Capitolo I

L’assistente di laboratorio di un ospedale, che biancovestita, mescola in un candido piattello di porcellana l’escremento di un paziente con acidi adatti fino ad ottenere una sostanza purpurea il cui giusto colore ricompensa il suo zelo, si trova già adesso, pur senza saperlo, in un mondo più mutabile che non la giovane signora rabbrividente per la strada davanti al medesimo oggetto.

Robert Musil, L’uomo senza qualità, volume primo, traduzione di Anita Rho, Einaudi, Torino 1957, p. 242.

Quando lavoro ci penso sempre! Quando vado a casa di certe persone, quando vado in giro in bicicletta per i parchi, quando butto giù una scodella di minestrone riscaldato alle 3 del pomeriggio. Penso allo sporco vero, concreto, quello che si vede, che si sente, che va buttato via, che va spolverato, che puzza, che qualcuno ha pensato di portarlo in qualche galassia desolata per toglierselo di mezzo. Mi riferisco allo sporco di origine animale e vegetale o che proviene da qualcuno che è stato vivo: le feci, lo sputo, il vomito, i peli, i topi morti, le cimici, i cibi andati a male, l’aglio cotto troppo, la cipolla bruciata, l’unto, il sangue, la forfora, le budella, le alghe morte, i granchi morti, i legni fradici, le feci del cane, del gatto, del cavallo, della mucca, del cammello, e di ogni animale cagante, compreso il grillo, le croste delle ferite, il pus, le scaglie della psoriasi, i formaggi avariati, il grasso rancido del prosciutto, l’urina del gatto, le carte sporche lasciate in giro, le potature fermentate, l’olio di frittura. Io di questo sporco animale, vegetale, vitale vorrei essere il difensore, vorrei redimerlo, vorrei che finalmente ci si rendesse conto di quanto male abbiamo fatto allo sporco, senza che se lo meritasse.

Lo sporco è la nostra scia, è una nostra emanazione. È parte di noi. Quando uno fa il sangue occulto nelle feci, chiede ad un laboratorio specializzato se c’è del sangue nelle sue feci, insisto nelle sue feci. Ovvero dei tecnici di laboratorio stanno cercando nello sporco delle sue feci una cosa importante per la sua salute. Se ci fosse un tipo, totalmente pulito e igienista, che facesse sparire le sue feci ogni volta che le fa, non si potrebbe andare a cercare del sangue nelle feci. Le feci vanno conservate, vanno tenute in considerazione, non vanno buttate via.

In questo scritto voglio dimostrare che non c’è niente nello sporco animale e vegetale che va eliminato, sotterrato. Deve stare con noi in maniera familiare, domestica, oserei dire, in maniera intima. Lo sporco ci è indispensabile, abbiamo tanto spazio per conservarlo o per lasciarlo lì dove si trova. Semmai siamo noi uomini che dovremmo disperderci un po’ di più in paesini diroccati, in pianure disabitate, in catene montuose svuotate, in coste sbattute dal vento, inospitali. In questo modo occuperemmo meglio il Mondo di cui disponiamo. Qualcuno di noi si è preso la briga di popolare le aree disabitate, ma sono ancora pochi. In questo modo, abitanti e sporco entrerebbero in equilibrio perfetto ed armonico. (1) Io credo che lo sporco di origine animale e vegetale rappresenti la nostra memoria più del Colosseo o dell’Arena di Verona. Lo sporco è una memoria collettiva,

priva di eccellenze, ognuno ha la sua parte nella formazione dello sporco. Nello sporco non ci sono grandi produttori. Non c’è un signore che produce una quantità di forfora che può danneggiare la città di Vignola. Invece a Vignola c’è una distilleria che si chiama Amarena Super che riempie di acido nitrico fumante il Panaro.

Lo sporco è il diario della nostra giornata, è ciò che tiene allenato i nostri sensi. Senza lo sporco, e c’è qualche utopista criminale che sta tentando di costruire aree senza lo sporco, non saremmo quello che siamo, diventeremmo un grande Museo sotto una campana di vetro. Oppure una specie di navicella spaziale in cui chi ci sta non è mai sporco, non va mai di corpo, si mangiano solo pillole lucide, la forfora non c’è, il sangue è frenato dalla gravità, gli odori spariscono nel vuoto e nel pulviscolo spaziale. Ecco è il vuoto l’opposto dello sporco. Alcuni utopisti criminali sognano il vuoto, sognano di far diventare vuote le interiora e in questo modo riuscire a conservare gli organi vuoti e puliti. Il vuoto è un buco ripulito da tutto, quello che c’è prima: odori, feci, secreti, forfora, peli, insetti morti, sangue, flatulenze, ecc. Questo buco non ricorda nulla. Andando in giro per i nostri posti ogni tanto si vede qualcuno che prova a costruire un siffatto buco-museo, privo di sporco. Lui stesso, il progettatore del buco, appena lo ha costruito si farà cremare da vivo per non danneggiare la perfezione del buco. Infatti il costruttore che ha ripulito il buco è esso stesso sporco e quindi, per coerenza, merita di sparire. Tutta quella pelle, tutti i peli, i capelli unti, i secreti sudici debbono sparire subito! La dissipazione dello sporco è un progetto criminale, prossimo all’eugenetica, perseguito da secoli, che per fortuna sembra non dare frutti completi. C’è però il pericolo che in alcune piccole zone, qualcuno riesca a eliminare lo sporco e a prevenirne la ricrescita. Bisogna muoversi prima che sia troppo tardi!

Capitolo II

Le ragioni del perché i matti preferiscono avere una patina di sporco, di cricca sul corpo. Il caso del principe russo.

Con la pulizia non resusciti e con la sporcizia non crepi.

Fëdor Michajlovič Dostoevskij, Il villaggio di Stepànčikovo e i suoi abitanti, Castelvecchi, Roma 2021, p. 59.

È risaputo che i matti sono sporchi e puzzano. Si lavano di rado e anche quando vengono ricoverati in ospedali puliti sono recalcitranti al lavarsi. Poche monografie scientifiche vengono scritte sull’argomento. I testi diagnostici, i famigerati volumi della serie DSM, (2) parlano di allucinazioni uditive, di sentimento di vuoto, di umore depresso, di promiscuità, eccetera, cose che ovviamente nessun individuo in salute può osservare con certezza, mentre nessun manuale parla, forse per pudore, della normale cotenna di cricca che ricopre la pelle dello psicotico grave. Io non posso sottrarmi dallo scrivere delle osservazioni approfondite e prive di falso pudore sulla cricca (3) dei matti. Nel mio lavoro di alienista mi son capitati tanti casi: dal signore ritirato che ha le unghie dei piedi lunghe e attorcigliate come rami di un alberello, alla coppia madre e figlio che dorme in un divano sfondato, circondata da pareti formate da casse di verdura avariata, mucchi di Gazzette dello Sport impilate in altezza e blocchi di marmo, lasciati dal marito, prima di finire in pensionato. Conosco i passaggi da trincea, formate da cataste di giornali, borse di plastica, santini, dépliant pubblicitari, cornetti di pane, scatole di medicinali, presine, ciabatte e altro materiale che si può

trovare in una casa. Agli angoli di questo scavo da trincea, le due sorelle Olimpia e Germana pongono su un piattino da caffè, una candela accesa giorno e notte davanti ad un’immagine della madonna. Entrambe sono zitelle e molto pie. Sulla cricca dei corpi, sull’unto dei capelli, sulla fantasia incolta delle barbe c’è poco da aggiungere. La pelle rimane un po’ abbronzata, anche fuori stagione; i risvolti delle maglie, delle canottiere, delle camicie hanno la sottolineatura di un pennarello nero, la patta dei pantaloni tradisce il su e giù del pisciare e soprattutto lì, che è il punto di atterraggio preferito di marmellata, caffè, vino, brodo, cenere di sigaretta, è tutta una chiazza di vari colori. Le unghie delle mani e dei piedi hanno il lutto. Tra le dita dei piedi si deposita un impasto salato e sebaceo. Spesso queste persone calzano scarpe con la suola di gomma, che amplifica, come in una serra per verdure, il calore anaerobio, con emissione di effluvi e produzione di impasto sebaceo. In bocca rimane poco. Qualche spuntone di dente. Il fumo sterminato di sigarette ingiallisce i polpastrelli. L’ombelico si riempie, a stampo, di un ripieno da tortellini, secreto lì intorno. Delle orecchie si sa poco, spesso sono pelose. Le mutande passano di rado nell’ottovolante della lavatrice. Le giacche, come quelle che porta Robert Walser, sono infeltrite dall’uso, si caricano di aromi di sudori, di panchine. Sono giacche smaltate. I matti non si lavano, non si cambiano d’abito per indolenza o per poca voglia di lavorare e sono insensibili alle gioie del pulito. Altri sostengono che i matti non si lavano perché temono di essere, nella nudità, scrutati e spiati da gente invidiosa e cattiva. Tra i più sofistici, ci sono quelli che dicono che la cotenna dello sporco li protegge dagli altri. Ovvero fanno di tutto per diventare orripilanti alle persone perbene per non venire scomodati da questi. Secondo la mia ipotesi, i matti, semplicemente, sono naturalmente insensibili allo sporco. Sono sorpresi quando noi diamo di matto avvertendo i loro odori. Appartengono ad una genia che si conserva indenne dall’ossessione dilagante per la ricerca spasmodica del pulito. Se hanno poche relazioni con gli altri, non è per una loro inadeguatezza al rapporto umano. Spesso siamo noi che li evitiamo, li esiliamo in enclavi di malnetti, o li presentiamo in società solo dopo che sono stati sforbiti da autolavaggi pubblici

La loro selvatichezza è una loro qualità culturale, che va corretta nei suoi effetti più disturbanti come il delirio di persecuzione, come la depressione melanconica o gli eccessi maniacali, ma si deve lasciare al suo stato naturale per quanto riguarda l’igiene del corpo e degli ambienti in cui scelgono di vivere, o sono costretti a vivere, per indigenza.

Eugène Minkowski (1885-1972), psichiatra russo, esule in Francia dagli anni prerivoluzionari fino alla morte, nei primi tempi in cui arriva a Parigi, dopo aver avuto come maestri Kraepelin e Bleuler, per guadagnarsi da vivere deve abitare presso i propri pazienti, un po’ come fanno le badanti ai giorni nostri. In uno di questi casi, riportato nel volume Il tempo vissuto (1933), descrive le vicissitudini di un principe russo, anch’egli esule, che si sente costretto a ingoiare tutti «i resti» che si formano al mondo.

È la politica dei resti, come egli dice, politica che è stata istituita espressamente per lui. Tutti i resti, tutti i rifiuti vengono messi da parte per essergli poi introdotti nel ventre e questo nell’universo intero. Tutti, senza eccezione: quando si fuma restano la cenere, il fiammifero usato e il mozzicone della sigaretta; a tavola lo preoccupano le briciole, i noccioli della frutta, le ossa del pollo, il vino o l’acqua che restano sul fondo dei bicchieri; l’uovo è il peggior nemico, egli dice, a causa del guscio. Quando si cuce, ci sono i pezzi di filo e gli aghi. Tutti i fiammiferi, gli spaghi, i pezzi di carta, i pezzi di vetro che vede passeggiando per la strada, sono destinati a lui. Poi vengono le unghie e i capelli tagliati, le bottiglie vuote, le lettere e le buste, i biglietti del metrò, le fascette dei giornali, la polvere delle scarpe quando si rientra a casa, l’acqua dei bagni, i rifiuti della cucina, i rifiuti di tutti i restaurant di Francia. Poi ci sono le verdure e la frutta marce; i cadaveri degli animali e degli uomini, lo sterco dei cavalli, l’urina, le feci. Chi dice pendolo, afferma, lancette, ingranaggi, molle, involucro, pesi, chiave, ecc., ed egli dovrà inghiottire tutto questo.

Minkowski, da bravo psichiatra fenomenologo, espone magistralmente le manifestazioni giornaliere di questo delirio, senza intervenire più di tanto e, soprattutto, non cerca di modificare le abitudini domestiche del suo signore e paziente. Minkowski, direte voi sapientoni, non può prendere iniziative in casa d’altri, ma io penso che Eugène Minkowski agisce semplicemente da bravo e onesto psichiatra quale era, e anche noi, che ci vantiamo di lavorare sul territorio, ovvero di curare

il sofferente andando a trovarlo nella sua realtà di tutti i giorni, dobbiamo muoverci nel lozzo (4) dei nostri pazienti e sulla falsariga delle loro fobie, con la grazia che ha Eugène Minkowski quando vive in casa di quel principe russo, melanconico, negli anni ’20.

Note

(1) Ho trovato pochi antecedenti letterari sul tema. Christian Enzensberger (1931-2009) pubblica nel 1968 un saggio sulla sporcizia: Groberer Versuch uber den Schmutz (1968) (Smut: An Anatomy of Dirt, 1972, tradotto da Sandra Morris) pubblicato negli Stati Uniti da Continuum Books nel 1974. Col titolo Sullo sporco è stato edito da Feltrinelli nel 1983. Smut è un’opera sperimentale in cui la sporcizia è descritta scientificamente, personalmente e perversamente da una panoplia di voci narrative, tra cui frammenti dell’antropologa Mary Douglas insieme agli scrittori Samuel Beckett, William S. Burroughs e Jean Genet. Da allora è caduto nell’abbandono e rimane fuori stampa sia in inglese che in tedesco.

(2) Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali. Redatto dall’Associazione Psichiatrica Americana. Prima edizione 1952 e ultima, DSM 5-TR, del 2022.

(3) Nel bolognese, la parola cricca significa combriccola poco onesta e sporcizia

(4) Nel dialetto dell’alta Toscana, lozzo vuol dire sporco, sudicio e anche immondizia.

G i anni Zauli

Quelle sporche domande

Pulizia alpina

Per pulire i pavimenti nelle baite alpine si usa il camocio?

Punteggiatura

A chiusura di una frase con la quale ci si interroga sul fatto se l’olio sporca, va messo l’unto di domanda?

Uscita scivolosa

Si può uscire senza scivolare da un labirunto?

Tiro con l’arco

Con l’arco sporco si scaglia la feccia?

Rettile maleodorante

L’iguano puzza?

Scandire il tempo

L’orologio del fetente segna le fetOre?

Ballando sotto la pioggia

Nelle paludi si può ballare il fango argentino?

Desideri inopportuni

Il puzzo dei desideri può avverare il desiderio di ricevere un deodorante per il compleanno?

Ungulato macchiato

Il rinocerUnto presenta macchie d’olio sul manto?

Circoncisione

È per non emanare odori sgradevoli che viene rimosso il prepuzzo?

Felini inglesi

Lo sporCat si è macchiato?

Grasse parole con desinenza oleosa

Appunto, giustappunto – proprio, precisamente sporco di grasso.

Compunto – compreso del rimorso o del grave imbarazzo per aver rovesciato l’olio.

Disappunto – irritazione per improvvisa contrarietà al condire troppo l’insalata.

Espunto – di espungere, togliere la parola ‘olio’ da un testo.

Marcapunto – arnese da calzolaio, costituito da una rotella metallica dentata montata su una bottiglietta; serve per lasciare una fila di gocce d’olio sul margine della suola.

Spunto – elemento, motivo che fornisce l’occasione per condire un’insalata.

Trapunta – grossa coperta da lavare.

Congiunto – viscido parente o familiare.

Coprigiunto – pezzo lubrificato che ricopre altri due.

Disgiunto – staccato, separato, diviso da materia grassa.

Punto – segno grafico consistente in una macchiolina d’olio.

Giunto – arrivato. Imbrattato d’olio, ma arrivato!

Sopraggiunto – macchiatosi improvvisamente.

Assunto – accolto alle dipendenze in un frantoio.

Presunto – ritenuto scivoloso per congettura.

Riassunto – scritto che riassume, che espone brevemente un testo che tratta di olii e grassi.

Munta – dicesi di mucca da olio sottoposta a mungitura.

Defunto – salma imbrattata con unguenti profumati.

L E ALTRE COPERTINE DI QUESTO NUMERO

Testo da ripulire
la redazione

N O TIZIE SUGLI AUTORI DI QUESTO NUMERO

Anonimo francese Autore di Audigier. Il cavaliere sul letamaio del XII secolo tramandato da un unico manoscritto del secolo successivo, una chanson de geste che appartiene a quel gruppo di poemi epici medievali scritti in lingua d’oïl che celebrano le avventure di paladini e cavalieri, la loro genealogia, a volte la loro morte, come nella famosa Chanson de Roland (1070).

Artemidoro [Secolo II d.C.] Scrittore e filosofo greco antico, fu interprete di sogni e visioni con scopi scientifici e didattici.

Honoré de Balzac [1799-1850] Scrittore, drammaturgo, critico letterario, saggista, giornalista, stampatore francese fra i maggiori della sua epoca, principale maestro del romanzo realista del XIX secolo. Autore di un’opera monumentale, La Commedia umana, ciclo di numerosi romanzi e racconti in cui descrive la società francese a lui contemporanea

Alessandro Boffa [1955] Nato a Mosca, ha fatto il biologo, ha vissuto a lungo in Estremo Oriente e in California, ora abita a Roma. Il suo primo libro, Sei una bestia, Viskovitz (Quodlibet Compagnia Extra1998), tradotto in oltre venti lingue, è stato un grande successo in Italia e all’estero.

Adrián N. Bravi [1963] È nato a Buenos Aires, vive nelle Marche e fa il bibliotecario. Nel 1999 ha pubblicato il suo primo romanzo in lingua spagnola, dopo alcuni anni ha iniziato a scrivere in italiano. Tra i suoi ultimi libri si ricordano: L’albero e la vacca (Feltrinelli 2013), L’inondazione (Nottetempo 2015), La gelosia delle lingue (Eum 2017); L’idioma di Casilda Moreira (Exòrma 2019); Il levitatore (Quodlibet Compagnia Extra 2020) Per Nutrimenti ha pubblicato Verde Eldorado (2022) e Adelaida (2024), quest’ultimo finalista al Premio Strega.

Anna Busetto Vicari [1962] Ha fondato l’«Archivio e Centro Studi il Caffè» con l’intento di raccogliere tutti i documenti legati all’attività letteraria di Giambattista Vicari. L’Archivio dispone della catalogazione informatica di tutte le annate della rivista «il Caffè», organizza mostre e pubblicazioni del materiale in archivio e promuove gli studi critici, inoltre sta progettando la costituzione di una Biblioteca dell’Irrisione (il sito dell’Archivio è: www.ilcaffeletterario.it). Recentemente ha curato il carteggio fra Giambattista Vicari e Ezra Pound: Il fare aperto. Lettere 1939-1971 (Archinto 2000), il libro di racconti Solo di rose (Raffaelli Editore 2003), Il contropremio (Raffaelli Editore 2009) e un bellissimo libro-oggetto, un leporello che si apre a fisarmonica, Miei cari filologici (Il Casino del sole 2020).

Nicoletta Calvagna [1977] Siciliana, insegna in una scuola dell’Emilia-Romagna. Collabora a varie riviste, illustra libri di letteratura e narrativa per alcune case editrici. All’interno dell’associazione modenese «Teranga. Persona viandante migrante» (http://www.assteranga.it), di cui è vicepresidente, ha ideato e sperimentato nel giugno del 2009 un laboratorio di disegnoscrittura-presenza.

Guido Casamichiela [1974] Vive e lavora a Bologna. Scrive non tanto per necessità, quanto per necessità di illudersi che sia una necessità.

Giuliano Cirucci [2001] Nato e cresciuto a Campobasso, si laurea nel 2023 in lettere classiche presso l’Università degli Studi “G. D’Annunzio”. Nel 2017 ho vinto il premio letterario “F. De André”. I suoi principali interessi sono la letteratura (comica, fantastica e noir), il cinema (la Nuova Hollywood) e la musica (rock, rock & roll e blues).

Ludovico Coulliaux [1863-1929] Odontoiatra italiano, autore di Igiene della bocca dei denti (Hoepli 1901), fonda nel 1912, a Pavia, presso il Policlinico San Matteo, l’Istituto di Odontoiatria dell’Università di Pavia, di cui è direttore fino al 1924 Molti anni dopo l’Unità d’Italia, in seguito a varie pressioni, il ministro pro-tempore della Pubblica Istruzione Paolo Boselli (1838-1932) promulga nel 1890 il decreto che da lui porta il nome, volto a conferire la dignità di scienza medica a una disciplina che era sempre stata quasi totalmente in mano a empirici, praticoni e ciarlatani Il terzo articolo di tale decreto si propone di creare una didattica odontoiatrica nelle università del Regno.

Ada De Pirro [1960] Diplomata in pittura all’Accademia di BBAA di Roma, laureata in Storia dell’Arte Contemporanea alla Sapienza Università di Roma. PhD nella stessa università con una tesi sui giochi linguistici nelle opere su carta di Gastone Novelli. Studia soprattutto l’ambito verbovisivo, spesso coniugato al femminile e le intersezioni tra le scritture di ricerca e l’arte. Le piace curiosare, scrivere, immaginare mostre. Insegna in un liceo romano.

Carlo Dossi [1849-1910] Alberto Carlo Felice Pisani Dossi, in arte Carlo Dossi, è stato scrittore, diplomatico e archeologo. Esponente di punta dell’avanguardia scapigliata, raro esemplare di aristocratico dandysmo, raffinato pasticheur dalla verve inesausta – erede della grande tradizione portiana e nel contempo aperto alla cultura europea –, Dossi, come si legge in una nota dei suoi libri Adelphi, è stato uno scrittore irrimediabilmente troppo avanti rispetto al gusto letterario della società in cui gli toccò di vivere. Fra le sue opere: L’altrieri. Nero su bianco (1868); Vita di Alberto Pisani (1870); La colonia felice (1874); La desinenza in A (1878); Gocce d’inchiostro (1880); I mattoidi al primo concorso pel monumento in Roma a Vittorio Emanuele II (1884); Amori (1887); Note azzurre (uscito postumo parzialmente nel 1912 e in versione integrale nel 1964)

Lino Fois [1959] Laureato al DAMS di Bologna con una tesi in Estetica su Teorie e poetiche dell’off camera fotografico, ha prodotto dagli anni Ottanta una serie di lavori che avrebbero potuto essere esposti in relative mostre, ma che invece, lui dice per incuria e sbadataggine, non sono mai usciti dai cassetti del suo studio. Dal 2004 ha reso pubblico il suo lavoro esponendo regolarmente in mostre personali e collettive ospitate in gallerie pubbliche e private.

Renato Gianinetti [1957] Nato a Vercelli, laureato in Medicina Veterinaria, diplomato all’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano con tesi in tecniche incisorie (xilografia e rilievografia), tutor, assistente e docente nel campo dell’incisione. Mostre personali, residenze in Italia e all’estero; 1° premio alla “II Kazan International Printmaking Biennale”, State Museum of Fine Arts, Kazan, Republic of Tatarstan (Russia), 2013; finalista nel 2016 al MACBA-Barcelona Universitat, I Concurs International de libre d’artista en homenatge a Joan Brossa; 1° Premio e medaglia di bronzo “III International Printmaking Biennale”, State Museum of Fine Arts, Kazan (Russia, 2017). Lavori presenti in numerose collezioni pubbliche. Si occupa quasi esclusivamente di ricerca nel campo della rilievografia; i lavori sono presentati in folio, sotto forma di libri d’artista, stampe d’arte su tessuti e abiti, come installazioni teatrali e musicali

Paolo Grassini [1970] Vive a Firenze dove insegna materie legate alla comunicazione visiva a studenti di college americani. Si occupa di cinema e ha finito un dottorato di ricerca in questa materia all’Università di Firenze. È autore di Fellini 8 ½. La genesi del film (Edizioni Ets 2015).

Heinrich Hoffmann [1809-1894] Psichiatra e scrittore tedesco. Studia medicina a Heidelberg e dal 1851 è direttore dell’ospedale psichiatrico di Francoforte. Oltre alle sue pubblicazioni professionali, Hoffmann scrive brevi racconti per bambini. Il suo libro più famoso è Pierino Porcospino (Der Struwwelpeter), una raccolta di filastrocche illustrate dove si narra la sorte di bambini maleducati o

Alfonso Lentini [1951] Laureato in filosofia, si è formato nel clima delle neoavanguardie del secondo Novecento frequentando, giovanissimo, l’area di autori che a Palermo facevano capo alle riviste «Fasis» e «Per approssimazione». Dalla fine degli anni Settanta vive a Belluno. La sua attività spazia dalla scrittura alle arti visive. Fra i suoi libri recenti: Tre lune in attesa (Formebrevi 2018), Le professoresse meccaniche (Graphofeel 2019), Noi siamo i lupopesci (pièdimosca 2023). Ha pubblicato anche con esoeditori come Pulcinoelefante, Fuocofuochino, Babbomorto, Lettere S.Com.Poste, Minima.poesia. Presente nelle antologie multiperso (pièdimosca 2022) e l’ordine sostituito (dèclic 2024). Collabora con riviste cartacee e online fra cui «Il Cucchiaio nell’Orecchio» e «multiperso» La sua prima personale risale al 1976. Nelle sue numerose mostre e installazioni propone “poesie oggettuali”, scritture verbo-visive e asemiche, libri oggetto, libri d’artista e in generale opere basate sulla rappresentazione della parola nella sua dimensione materiale e gestuale. Luigi Malerba [1927-2008] Scrittore e sceneggiatore, ha fatto parte del Gruppo 63 sperimentando in romanzi e prose le sue invenzioni satirico-grottesche. Tra i suoi libri più noti: La scoperta dell’alfabeto (1963), Il serpente (1966), Salto mortale (1968), Dopo il pescecane (1979), Testa d’argento (1988), Il fuoco greco (1990), Le pietre volanti (1992, premio Viareggio), Itaca per sempre (1997). Ha inoltre scritto volumi di filastrocche e favole per bambini: Le galline pensierose (1980) e Storiette tascabili (1984). Nel 2016 esce un Meridiano Mondadori dedicato a Romanzi e racconti di Luigi Malerba, a cura di Giovanni Ronchini con un saggio introduttivo di Walter Pedulà. Recentemente Gino Ruozzi ha curato il libro Luigi Malerba, Tutti i racconti (Mondadori 2020). Ha collaborato a «Tèchne» con un suo «profilo» (Questo non è l’o di Giotto ma lo zero di Malerba) ripubblicato poi in Luigi Malerba, Profili (Archinto 2012).

Gianfranco Mammi [1957] Nato in Venezuela, ha quasi sempre vissuto a Modena. Ha pubblicato vari libri, tra cui Uomini senza Mercedes, Vita di “Ridolini”, Ugo il Duro, vincitore del Premio Luigi Malerba 2019, e con Nutrimenti Nostra Signora dei Sullivan (2021) e Pluriball (2023), e Voci dal piano di sotto (Quodlibet Compagnia Extra 2024) Suoi racconti sono apparsi su diverse riviste, tra cui «Linus», «Nuova Tèchne», «Panta», «L’accalappiacani», «Griselda» e «Almanacco Quodlibet»

Alessandro Manzoni [1785-1873] Scrittore, poeta e drammaturgo. Considerato uno dei maggiori romanzieri italiani di tutti i tempi per il suo celebre romanzo I promessi sposi

Michele Mellara [1967] Regista e scrittore Laureato al DAMS di Bologna, è diplomato alla London Film School. Ha condotto trasmissioni radiofoniche, gestito spazi e laboratori teatrali. Ha co-fondato e co-diretto «il teatro della polvere» con cui ha realizzato, firmando la regia, MoscaPetuski 125 km, tratto dal testo di Venedikt Vasil’evič Erofeev adattato da Ermanno Cavazzoni Collabora da circa 20 anni con Alessandro Rossi con il quale scrive e dirige sia per il teatro che per il cinema. Fortezza Bastiani, premio Solinas come migliore sceneggiatura, è il suo film d’esordio con il quale ottiene la nomination al David di Donatello come miglior regista esordiente. Dall’incontro con Paolo Fresu nasce il progetto Paolo Fresu - Musica da lettura che debutta su YouTube, Rai5 e RaiPlay nel 2021. Nel 2024 esce in sala, distribuito dalla Cineteca di Bologna, Berchidda Live - un viaggio nell’archivio Time in Jazz, presentato l’anno prima in anteprima al Torino Film Festival. Nello stesso anno esce su Amazon Prime la serie comico umoristica Universitas Tenebrarum. Nel 2024 esce il documentario Arrivederci Berlinguer!, girato insieme a Alessandro Rossi. Scrive racconti pubblicati su varie riviste e antologie. Sociopatici in cerca d’affetto (Bollati Boringhieri 2023) è la sua opera di narrativa d’esordio. Insegna all’Università di Bologna come professore a contratto; tiene inoltre corsi e laboratori di cinema documentario.

149 imprudenti, con un notevole umorismo nero, regalo fatto dallo psichiatra al figlio Carl per il Natale del 1844.

Alberto Miliani [1950] È nato a Ferrara nel 1950, il 7 novembre (come Albert Camus e Gigi Riva). Dal 1991 vive a Reggio Emilia. Interrotti gli studi di medicina, ha lavorato come libraio e grafico. Da diversi anni si dedica a un progetto autobiografico che combina varie tecniche artistiche. Per FUOCOfuochino, la casa editrice più povera del mondo, ha pubblicato Siam pieni di tangenziali (2018), Finché morte non mi separi (2019), Siamo in uno (2020), Per via (2020) e M. Edmond (2021). Il resto del suo lavoro è inedito, non esiste una bibliografia ufficiale; tuttavia, ne esiste una fantomatica che fa capo alla casa editrice Doggy Bag da lui inventata.

Flavia Montecchi [1985] Romana, dopo 27 anni tra provincia e centro città si stabilisce a Bologna dove scrive, canta, lavora nel mondo della comunicazione e con la voce, fa la mamma. Ama il tempo per sé e le persone intelligenti; il vino buono, i giardini, la musica e i podcast.

Matteo Pelliti [1972] Nato a Sarzana, vive a Pisa, dove si è laureato in Filosofia. Ha pubblicato le raccolte di poesie Versi ciclabili (Orientexpress 2007) e Boicottando mongolfiere e ghigliottine (Tapirulan 2013) e i racconti Giocattoli (Felici Editore 2010). Del 2015 le poesie Dal corpo abitato (Luca Sossella Editore) con le illustrazioni di Guido Scarabottolo e un cd audio con la voce di Simone Cristicchi, cantautore col quale collabora stabilmente. Per “Montalcino FermentiInscena”, ha scritto con Manfredi Rutelli lo spettacolo teatrale Tacabanda, racconto musicale per voce recitante e ottoni di paese. È membro dell’Oplepo (Opificio di Letteratura Potenziale). È presente nell’antologia di poesia giocosa Biancaneve e i settenari, a cura di Stefano Bartezzaghi (Bompiani 2022). Il suo diario pubblico è www.coltisbagli.it.

Paolo Pergola [1964] Biologo di professione, ma con un altro nome. Nato a Torino, vi ha vissuto tre giorni. Ha poi vissuto in altri luoghi. A Torino c’è tornato nel 1999 per richiedere un certificato di nascita. A parte tutti questi viaggi, gli càpita di scrivere e fotografare, soprattutto in condizioni di staticità relativa. È membro dell’Oplepo (Opificio di Letteratura Potenziale). Nel 2013 è uscito il suo primo romanzo Passaggi. Avventure di un autostoppista (Edizioni ἐxòrma), nel 2019 con Attraverso la finestra di Snell. Storie di animali e degli umani che li osservano (Edizioni Italo Svevo) vince il Premio Leonilde e Arnaldo Settembrini 2020. Suoi racconti sono usciti sull’«Almanacco Quodlibet» 2017, 2018 e 2019, tutti a cura di Ermanno Cavazzoni (Quodlibet Compagnia Extra). Con le edizioni Metilene pubblica Sognando i cervi di Durango (2024).

Louise Rafkin [1958] Scrittrice per bambini e giornalista, collabora con diversi periodici, come «The New York Times», «Cosmopolitan», «Ladies Home Journal», «Working Women», «Los Angeles Times» e «The Boston Phoenix», e ha fatto la commentatrice radiofonica

Juri Romanini [1980] I primi esperimenti letterari li ha fatti con Paolo Albani ai tempi dell’Università del Progetto. Poi ci sono stati un blog di racconti ironici e fuorilegge e la partecipazione in alcune pubblicazioni: Il giardino dei Lorchitruci (Scuola Holden 2008), TINA. Storie della Grande Estinzione (Aguaplano 2020), AA Arcipelago Altitudini (Mulatero Editore 2020). Nel 2018 ha frequentato la Bottega di narrazione di Giulio Mozzi dalla quale è uscito il suo primo libro La forma della farfalla (Liberaria 2022). Del 2023 è Otto anni (Exòrma).

Irene Russo [1978] Scrive storie che diventano racconti brevi, albi illustrati o interattivi, progetti di film e serie tv. Laureata in lettere antiche, da quando ha scoperto il futuro non ha più smesso.

Marino Santinelli [1961] Vivente, nato a Montalto di Castro (VT) nel bel mezzo della Maremma tosco-laziale. Tra i suoi libri la raccolta di racconti Cani Randagi (L’autore Libri Firenze 1995), di poesie La parte chiara dell’ombra (ExCogita editore 2003), La ribellione dell’hashtag (Babbomorto editore 2019) e Fantasmi (FUOCOfuochino editore 2021). Suoi racconti sono usciti sull’«Almanacco Quodlibet» 2017, 2018 e 2019», tutti a cura di Ermanno Cavazzoni (Quodlibet Compagnia Extra). Un suo testo si trova nell’Almanacco Tutti Dentro (Bertoni Editore 2020).

Conserva: aforismi in tutte le salse, poesie di rabbia, romanzi brevi, testi di canzoni, di teatro e altro. Appassionato di libri e letteratura è ideatore e curatore della rassegna letteraria “CULTURALMENTE incontri tra le righe”, rassegna organizzata per il Comune di Montalto di Castro che ha visto sin dal 2012 la partecipazione di grandi autori, fra cui Nada, Lidia Ravera, Pierluigi Battista, Enzo Tortora. Nella notte tra il 9 e il 10 maggio 2004, alle ore 3,37, nell’agenda verde ha scritto il suo motto: «La perfezione è un difetto!».

Monica Schettino [1976] Laureata in Lettere moderne a Torino nel 2002 con una tesi in Letteratura greca, nel 2006 ha ottenuto il titolo di dottore di ricerca in Italianistica all’Università di Urbino “Carlo Bo” con una ricerca sulla Scapigliatura piemontese, in seguito pubblicata nel volume Achille Giovanni Cagna-Giovanni Faldella. Un incontro scapigliato: carteggio 1876-1927 (2008). Ha collaborato come docente a contratto con l’Università del Piemonte orientale e poi con l’Università di Torino. Attualmente collabora con l’Istituto storico per la Resistenza e la società contemporanea nel Biellese, Vercellese e in Valsesia per il quale ha curato l’edizione dell’autobiografia di Anna Marengo, Una storia non ancora finita (2014). Dal 2021 è docente di materie letterarie al liceo “Parentucelli” di Sarzana, collabora con la casa editrice Loescher di Torino e con la «Gazzetta di Parma». Per l’editore Metilene ha cura il libro di Gino Patroni, Ed è subito pera e altri epigrammi (2024).

Stefano Scrima [1987] Scrittore e divulgatore filosofico, ha studiato e vissuto tra Bologna, Barcellona e Madrid. Oggi vive e lavora a Roma. Fra i suoi libri: Digito dunque siamo. Piccolo manuale filosofico per difendersi dalle illusioni digitali (Castelvecchi 2019), Filosofi all’Inferno. Il lato oscuro della saggezza (Il Melangolo 2019), L’arte di soffrire. La vita malinconica (Stampa Alternativa 2018), Socrate su Facebook. Istruzioni filosofiche per non rimanere intrappolati nella rete (Castelvecchi 2018), Santiago e nuvole. Le fantasticherie di un pellegrino solitario (Ediciclo 2018), Il filosofo pigro. Imparare la filosofia senza fatica (Il Melangolo 2017); Filosofia da divano (Il Nuovo Melangolo 2023) È redattore della rivista filosofica «Diogene Magazine» e direttore della collana «I Quaderni di Diogene» per le Edizioni del Giardino dei Pensieri. Il suo sito è www.stefanoscrima.com.

Afro Somenzari [1955] Dal 1973, data della prima mostra, ha tenuto personali in Italia e all’estero. Dal 1988 al 1995 dirige la Galleria Civica d’Arte Bedoli di Viadana e in quegli anni comincia a collaborare con alcune riviste e quotidiani. Nel 1994 fonda, con Enrico Baj e Ugo Nespolo, l’Istituto Patafisico Vitellianense, curando varie edizioni di festival. Dal 1998 per la casa editrice Pulcinoelefante pubblica oltre sessanta edizioni. Dal 2001 al 2012 è direttore per le attività culturali del MuVi (Musei Viadana). Nel 2009 fonda FUOCOfuochino, la più povera casa editrice del mondo.

Jean Talon Sampieri [1964] Vive a Bologna. È stato redattore della rivista «Il semplice». Ha tradotto opere di Henri Michaux e Georges Perec. Ha scritto Incontri coi selvaggi (Quodlibet Compsagnia Extra 2016). È autore (con Ermanno Cavazzoni) di Vite grame dei pittori del Po (Radio 3); è membro dell’OpLePo (Opificio di Letteratura Potenziale).

Stefano Tonietto [1960] Nato e vivente a Padova, ha pubblicato, a sua grande gloria, uno straordinario libro anacronistico, il poema comico-cavalleresco Olimpio da Vetrego (Inchiostro 2010) in endecasillabi rimati, per un totale di 4.633 ottave. Con Quodlibet Compagnia Extra ha pubblicato Letteratura latina inesistente Un’altra letteratura latina che non avete studiato a scuola (2017). È autore di Il Divino Intreccio La lettera caduta (Oplepo 2021), riscrittura lipogrammata in “a” dell’Inferno dantesco (4720 versi, più il commento, scritti senza mai usare la lettera “a”). Per Exòrma ha pubblicato Altri dodici Cesari (2022).

Alessandro Trasciatti [1965] Ha fatto l’archivista, il postino, il piccolo editore. Ha collaborato a riviste di letteratura (tra cui «Nuova Prosa» e «Paragone») e di viaggi («Gente Viaggi»). Laureato in letteratura francese ha tradotto novelle di Jacques Cazotte e Xavier Forneret. Tra le sue pubblicazioni: Prose brevi per viaggiatori pendolari (Mobydick 2002); Avevo costruito un sogno. Storie e fatiche di un postino artista, prefazione di Massimo Raffaelli e con un omaggio di Luigi Serafini (Ediesse 2014), primo volume in italiano dedicato a Facteur Cheval; Acrobazie. Storie brevi e brevissime (Il ramo e la foglia edizioni 2021), Biografia di un biografo. Poesie 1990-2000 (peQuod 2021). Ha curato per Note Azzurre-Quodlibet Tre storie notturne di Xavier Forneret (2024).

Monica Ugaglia [1970] Ex fisico matematico, ex storico della scienza, ex molte altre cose che suonavano bene, col tempo e con una certa arte è riuscita a disattendere le aspettative di tutti, soprattutto della sua mamma. Palesemente inadatta al mondo, ha posto in atto molteplici acrobatici tentativi di fuga: ha infine smesso di fare l’eroe, rassegnandosi alla necessità di uno stipendio a fine mese. In cambio è intesa persuadere un numero ics di adolescenti recalcitranti della bellezza dei problemi sulle palle, le pulegge, gli ascensori, le molle negli ascensori… Scrive per dimenticare: Incroci Obbligati (Castelvecchi 2016).

Giuseppe Vaccarino [1919-2016] Filosofo. Accetta e condivide il concetto che bisogna occuparsi del modo come operiamo a livello mentale per descrivere i significati. A partire dal 1960 Vaccarino perviene all’elaborazione di un metodo generale di analisi dei significati. Le sue ricerche conducono, tra l’altro, all’introduzione di una formulistica idonea alla definizione delle operazioni mentali, prospettando una sorta di «Chimica della Mente». Nel 1977 pubblica La chimica della mente (Carbone editore), in cui espone i principali risultati a cui è pervenuto. Nello stesso anno vince il premio «L’Inedito» con il racconto Lo sporco, pubblicato da Marsilio. Nel 1989 pubblica presso la CULP di Milano Scienza e Semantica Costruttivista, dedicato a una critica di correnti vedute professate da filosofi della scienza.

Caterina Villa [1988] Nata a Asti, è cresciuta a Perugia e, dopo un periodo a Londra, adesso vive a Roma, dove lavora come giornalista televisiva. Ha pubblicato racconti in alcune antologie e in varie riviste cartacee e online. Ha un romanzo nel cassetto.

Paolo Vistoli [1958] Dal 1989 lavora come psichiatra nei Servizi pubblici di Salute Mentale. Avrebbe voluto saper scrivere molte storie che ha ascoltato e molte letture che ha fatto. Ha pubblicato sulla rivista «Tratti» (2011) l’articolo Il lavoro dell’inventario tra letteratura e psicopatologia. Uno spettro di declinazioni. Suoi testi sono usciti sull’«Almanacco 2016. Esplorazioni sulla via Emilia» e «Almanacco 2017. Mappe del tempo. Memoria, archivi e futuro», curati da Ermanno Cavazzoni per Quodlibet Compagnia Extra.

Giovanni Zaffagnini [1945] Vive e lavora a Fusignano (Ravenna). Dalle ricerche etnografiche degli anni Settanta è passato successivamente alla fotografia di paesaggio, con particolare attenzione agli spazi urbani, all’ambiente e ai vari aspetti della quotidianità, mettendo spesso in relazione la sua opera con altre forme di espressione. Nel 1986, su progetto di Gianni Celati, è stato fra i curatori della mostra itinerante e del volume Traversate del deserto (Essegi Editore). Compare in Luogo e identità nella fotografia italiana contemporanea, a cura di Roberta Valtorta, (Einaudi 2013). È autore di numerose monografie, visitabili sul suo sito: http://www.giovannizaffagnini.it.

Vanni Zani [1954] Bergamasco, vive a Firenze dove coltiva i suoi interessi: la musica e l’informatica. È un divanista convinto. Per «Tèchne» ha scritto Parole SCATenate (5, 1995, pp. 5561)

Gianni Zauli [1969] Si occupa di cinema d’animazione, ludolinguistica e organizza e cura mostre e eventi culturali. Ha realizzato animazioni pubblicitarie e diversi cortometraggi ricevendo premi e menzioni e svolge regolarmente laboratori di animazione stop motion e ludolinguistica per enti pubblici, privati e nelle scuole di ogni ordine e grado. È tornato a vivere a Russi (RA) dove ha curato le 20 edizioni della mostra concorso «Libri mai mai visti».

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