Islande. Quasi tutte.

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narrativa

2022 © BLONK EDITORE

progetto grafico

Claudio Beretta

Roberta Cesani

impaginazione

Angela Gorla

ISBN: 978-88-97604-93-8 www.blonk.it

ISLANDE

Quasi tutte

La lingua islandese

In Islanda tutti gli islandesi parlano islandese, il che non sarebbe neanche un male se si capissero almeno tra di loro, cosa che non capita sempre, essendoci vaste aree oscure nella lingua islandese che sono ignote anche ai parlanti nativi. Pare accertato che il termine squalo possa essere usato in 12 modi diversi, pur non essendoci squali in tutta Islanda. Evidentemente li importano, e questa importazione risuona forte accompagnata da un vivace fragore semantico impedendo una definizione unica del pesce cartilagineo superiore detto, appunto, squalo.

Per l’islandese lo squalo marcio mirabilmente putrefatto è un rito di passaggio che segna l’ingresso contemporaneo nell’ età adulta e nella stipsi intestinale. Molti islandesi soffrono di stipsi intestinale perché fingono, fin dalla più giovane età, di apprezzare i dadini di pesce marcio che sanno, precipuamente, di dadini di pesce marcio. Nessun gatto islandese sano di mente si avvicinerebbe mai a un dadino di pesce

marcio, mentre gli islandesi lo fanno, presumibilmente ancora sani di mente, il che ci fa pensare che in Islanda i gatti siano più intelligenti degli uomini, pur avendo la coda che a volte può essere di impaccio. L’Islanda è una terra ricca di folklore e di pesce marcio, che fa parte del folklore, ne è un elemento fondante. IL kæstur hákarl o squalo fermentato, non bisogna dire putrefatto o l’islandese medio si indigna, e un islandese indignato è una cosa che nessuno di noi vorrebbe mai vedere, è una delle architravi gustative del paese. I timori che tutto il resto possa anche essere peggio si fanno più evidenti. Per ora il resto lo tralasciamo. L’Islanda è un paese che conta circa 360.000 abitanti (circa perché molti islandesi si fanno contare almeno tre volte perché sono troppo pochi), quindi si tratta di un paese piccolo, geograficamente timido, pieno di caprette recalcitranti, ma estremamente interessante. Soprattutto per i non islandesi. In Islanda, questa è una cosa assai curiosa, non si accende mai la luce, perché gli islandesi preferiscono vivere in una specie di continua penombra, e non accendono quasi mai le luci delle case, che rimangono avvolte in una nebbia misteriosa e sognante. Stanno al buio. Questa loro preferenza

per il buio ha fatto crescere negli anni una necessità, quella di dotare tutte le abitazioni di comodini stondati, privi di spigoli vivi, essendo il numero di rotule rotte di islandesi cinquantenni che si svegliano di notte per pisciare in continuo, costante e incontenibile aumento. Dai primi comodini imbottiti esternamente con imballaggi di cartone si è passati alla creazione del comodino Sklum in massello di mango sbiancato, legno poroso e morbido, atto ad assorbire gli urti notturni dei poveretti dotati di prostata iperattiva che vagano per le loro case immerse nel buio primigenio della notte artica pregando di non sfracellarsi sul mobilio di casa.

La prostata iperattiva islandese ha caratteristiche anatomiche molto precise, con i lembi esterni dell’organo che ricorda un lichene spiaggiato e la funzionalità che cambia in relazione diretta al numero di birre ingerite dal suo possessore, una preziosa stocastica del luppolo, come titolava un editoriale del Morgunbladid, il Giornale del mattino, uno dei principali quotidiani islandesi. La famosa razionalità islandese nasce da questo, non da una attenta selezione dei mobili da inserire nell’arredo delle abitazioni ma dalla necessità di limitare il numero

di fratture scomposte della popolazione maschile. Le donne, anche in Islanda, sono naturalmente più furbe, vanno in bagno solo alle prime luci dell’alba, e hanno sempre con sé una piccola pila da borsetta a forma di lichene, dotata di un fascio di luce potente e direzionabile. Gli uomini, no. In passato era stata messa in commercio una specie di trabeazione in stoffa con architrave, fregio e cornice da fare indossare al maschio di mezza età islandese per permettergli minzioni notturne più agevoli, in ragione di una torcia dalla potenza di 1000 lumen inserita nel fregio, ma gli islandesi la usavano solo per cercare più agevolmente i luoghi di ritrovo delle prostitute per strada, che sono poi 7 in tutta Islanda, tra di loro cugine. Il progetto venne quindi abbandonato e gli islandesi maschi di più di 50 anni continuarono a rompersi le falangi distali dei mignoli, urlando nella notte tutto il loro dolore.

Gli islandesi e il cibo

In Islanda il cibo ha sempre un sapore strano, le papille gustative degli islandesi identificano in ritardo quello che viene messo in bocca, e tale ritardo genera un cortocircuito neuronale che, ingannando le sinapsi, fa avvertire all’islandese un forte retrogusto di pizza nello squalo marcio che sta mangiando. Pizza all’ananas, molto spesso. Tale retroversione gustativa può causare anche il fenomeno contrario, ossia quello che fa avvertire un forte retrogusto di squalo nella pizza che si sta mangiando, Un filosofo francese, tale Bergson, aveva teorizzato questo inganno dei sensi quando aveva scritto la sua opera principale sull’origine del comico, essendo comico il fatto che uno mangia dello squalo marcio e lo scambia per pizza, anche se appare certo che Bergson non sia mai stato in Islanda perché passava troppo tempo al tavolino a scrivere cose in francese. Scambiare uno squalo marcio per una pizza non è una cosa così straordinaria perché in Islanda la pizza sa di squalo marcio e lo squalo marcio sa di pizza, rendendo di fatto impossibile, oltre

che inutile, risalire a quale dei due raffinati piatti abbia forgiato gustativamente l’altro, sono aspetti che dobbiamo tralasciare perché ci porterebbero molto lontano, e in Islanda si rischierebbe di cadere in un ghiacciaio. Helgi Pjeturss è stato uno dei più grandi filosofi islandesi, forse il solo se si eccettua il cugino Petrus Pjeturss che per distinguersi dal più famoso Helgi si era tolto una s dal cognome facendosi chiamare Pjeturs, ma all’anagrafe si era verificato un certo tumulto quando l’impiegato aveva fatto notare a Petrus che le due s stavano meglio di una sola: depresso e avvilito da questa risposta Petrus si era ritirato a vita privata in un convento poi diventato locale per scambisti e poi pizzeria. Di lui si sospetta che sia stato scambiato con una vacca frisona di nome Eufemia. Il già citato Helgi era diventato famoso per avere scritto una storia del lichene islandese ma essendo dotato di una acuità visiva periclitante al posto di islandese aveva scritto sempre svedese e il libro era uscito col il titolo Saga sænsku fléttunnar quando invece il titolo giusto sarebbe stato Saga íslensku fléttunnar. Dopo essersene accorto, si era gettato in un geyser ma era stato salvato contro la sua stessa volontà da un turista giapponese che stava cercando un negozio di rullini per la

sua reflex. Esiste un fattore competitivo che va tutto a vantaggio degli islandesi, in questo caso: la pizza ha un costo, sembra un piatto povero ma come tutti i piatti poveri è più difficile da realizzare di quelli ricchi, comporta disciplina, abnegazione, minima deviazione dalla norma, assenza di biases esecutivi, mentre lo squalo marcio non comporta assolutamente nulla, basta lasciarlo lì e aspettare che raggiunga il suo massimo livello di marcilenza. Lo scambio olfattivo-gustativo islandese è quindi alla base del forte sviluppo della economia locale, che fornisce pesce marcio a una popolazione che pensa di mangiare pizza: ci sono, è vero, piccole sacche di resistenza, un movimento noto come catarismo della lasagna, che nello squalo marcio non ravvisa sapore di pizza ma di lasagna, ma si tratta di una corrente minoritaria, fortemente osteggiata, che sta scomparendo, portando con sé il mistero del lasagnismo sinaptico.

Gli islandesi e la natura

Tutti sanno che gli islandesi amano la natura, a parte gli islandesi, che la odiano. Gli islandesi hanno fame di cemento. Vogliono grattacieli. Strade asfaltate a 5 corsie. Anche a 6 ma si accontentano di 5 perché sono persone ragionevoli e sanno che se non ci sono strade a 6 corsie 5 possono anche andare bene. Smog. Rumore. Invece, per loro sfortuna, non hanno niente di tutto questo. Abitano un territorio vergine, una mappa geologica dalla orografia irridente per gli esseri umani, una lunga teoria di crateri in mezzo ai quali scorrono mulattiere da percorrere a piedi o in bicicletta, o su una Saab azzurra del 1963. La Saab azzurra non è stata indicata a caso ma è una delle poche macchine che possono resistere allo sbuffo improvviso di un geyser. Altre vetture, anche più moderne, possono implodere in pochi minuti. I geyser sono una delle cose che fanno arrivare i turisti in Islanda, e molta gente, quasi tutti direi, è convinta che siano presenti solo in Islanda. Una opinione preziosa per l’Ufficio del Turismo

Islandese, che non avrebbe molto altro da offrire, ma falsa; spiace dirlo ma in tutto il mondo i geysers meno interessanti sono proprio quelli islandesi, più piccoli dei loro omologhi americani del parco di Yellowstone in Wyoming o dei loro cugini boliviani delle lagune del Potosì o di quelli neozelandesi della zona di Taupo. Il nome, però, è islandese, e in ossequio a questa primogenitura linguistica è venuto tutto il resto. Il turista ha, nei confronti di questi imprevedibili colonne di vapore che escono dalla terra, lo stesso approccio che ha un cuoco romagnolo nei confronti dei passatelli; stima, ma non ricambiata. La vita di ogni islandese è costellata di colonne di vapore bollente che lo avvolgono mentre si ferma a fare pipì in quella che sembrava una zona tranquilla, di momenti di intimità con la propria compagna interrotti dalla eruttazione di un geyser annidato nelle profondità della terra. In Islanda il borborigmo del suolo si impone in tutta la sua possanza. Cammini, vivi e muori su un terreno che quando vuole, spesso senza avvisarti, ti rutta in faccia. Sono cose che solo un islandese può capire. Gli islandesi sanno cosa fare in queste occasioni, ossia darsi alla fuga, ma i turisti no; per questo motivo la efficiente, tayloristica società

islandese per la gestione e valorizzazione dei geyser ha stilato una serie di regole di comportamento, consegnate a tutti i turisti non appena mettono piede sul suolo islandese. Unitamente a tali regole di comportamento, stampate su una delicata carta azzurrina, vengono consegnati anche tre cubetti di squalo marcio, da consumarsi durante la lettura: questo per impedire al lettore di arrivare alla fine. Regole di comportamento da adottare in prossimità di un geyser (in italiano perché, tanto, l’islandese non lo sapete).

1. Se siete in prossimità di un geyser, peggio per voi.

2. Se siete in compagnia di un familiare che non sopportate e volete liberarvene, sappiate che la colonna di acqua calda e vapore va verso l’alto e dura pochi secondi; vi ritrovereste col corpo di vostra suocera viva, calda e bagnata. Se volete una suocera calda e bagnata, sono fatti vostri: vi preghiamo di non coinvolgere il governo islandese.

3. Non è permesso gettare nel cratere pietre, accendini, sigarette, sigari, copie intonse di un libro a scelta di Paulo Coelho, massime di Osho, copie del Levitico

tradotte da Erri de Luca, mutande usate, calzini, statuine a forma di mucca ricevute in dono da un cugino di terzo grado che non sapeva come liberarsene. Per il resto, regolatevi voi.

4. In prossimità di un geyser non sarebbe opportuno accoppiarsi ma se proprio non ce la fate, mettete almeno una coperta per terra.

5. È gradita una offerta in denaro per la visita, non si accettano cicche, bancomat scaduti, occhiali da sole rotti, preservativi bucati, biglietti usati del teatro, tessere del PD.

6. Ci sarebbero altri 4 punti, ma tanto non avete letto neanche questi.

In Islanda, essendo la natura così imponente, molte persone vengono a toccare la terra, in una sorta di abbraccio primordiale; si sdraiano per terra alla ricerca del soffio primario dell’universo. A tale ricerca del soffio primario dell’universo si affianca la intensa bestemmia primaria dell’islandese, che quando vede questi personaggi con giacche vento col cappuccio giallo limone sdraiate

per terra, sente l’impulso irrefrenabile di investirli, trattenuto solo dal fatto che la Saab azzurrina del 1963 che sta conducendo potrebbe ritrarre danni sia estetici che funzionali dall’urto. Quindi scarta all’ultimo istante, bestemmiando.

Reykjavik, o della impossibilità di pronunciarne il nome in modo corretto

Uno dei problemi dell’islandese medio è quello di pronunciare correttamente il nome della sua capitale, Reykjavik. Molti non ci riescono, alcuni desistono, altri espatriano. Vienna è una delle scelte più gettonate. La pulizia, la precisione, la calligrafica eleganza di Vienna scalda il cuore di molti islandesi, che avvertono sulla loro pelle il rumore dello scontro sintattico tra l’inferno consonantico di Reykjavik e il dolce, mellifluo suono di Vienna. Vienna sta a Reykjavik come il golf sta al bowling; in questo caso i birilli sono le lettere. Anche molti abitanti di Reykjavik non sanno pronunciare Reykjavik, e quando gli viene chiesto l’indirizzo rispondono, evasivamente, in città. Il che non è del tutto inutile, essendo Reykjavik l’unica città islandese, il resto sono agglomerati di casette dai colori squillanti con le porte che non si aprono, ma fa sempre sorgere delicati problemi burocratici perché ci sarebbero anche altre

città, in Islanda, e rispondere solo “in città” crea alcuni problemi difficilmente risolvibili. Ci sono altre città, questo è innegabile, ma si chiamano Akureyiri, Selfoss, Borgarnes, questi non sono nomi, sono stati d’animo, ed essendo gli islandesi timidi non amano lasciar trapelare quello che pensano. Oltre a questa nobile ritrosia comportamentale esiste anche un pudore demografico, che ci fa sentire gli islandesi molto vicini a noi: Borgarnes, ad esempio, supera di poco i 3000 abitanti, un paesino, anche se esiste una università semi privata con ca. 700 iscritti, con addirittura UN caffè UNA sauna UN piccolo supermercato a disposizione degli studenti e UN albergo. La presenza dell’albergo appare inspiegabile, ma esiste. Non sappiamo di quante camere disponga né se sia previsto un servizio in camera ma siamo certi della sua esistenza. Sono queste dimensioni che tendono gli islandesi a considerarsi figli del regno di Lilliput, e che rende del tutto naturale riferirsi a Reykjavik come all’unica città del loro paese, essendoci, a Reykjavik, più di tre bar e numerose saune. Spesso sono occupate ma resistono stoicamente. Arrivati a Reykjavik si ha la netta sensazione che tutti gli abitanti si sentano in colpa di vivere in quella che,

sotto molti punti di vista, è una città, non un villaggio o un insieme casuale di abitazioni. Tutti camminano veloci, non fanno alcun rumore, sembra che indossino delle pantofole anche se sono scarpe, in certi casi stivaletti, ma per evitare di essere scoperti, camminano in assoluto silenzio. Scoperti da chi? direte voi: da una delle mille divinità pagane che popolano l’ Islanda, che è piccola ma piena di elfi, streghe, maghe e maghi, piccoli folletti dei boschi variamente dispettosi, ninfe che decidono di apparire quando lo vogliono loro, tutte creature che hanno un rapporto problematico con l’inurbamento e con la presenza di più di 6 case in muratura. Di tutto questo i reykjavikesi sono consci, e per non contrariarli camminano strisciando i piedi, facendo bene attenzione a non calpestare folletti o elfi.

Come tagliare a pezzi uno squalo prima di mangiarlo

Per essere tagliato a pezzi agevolmente uno squalo deve essere morto. In commercio si trovano squali morti già opportunamente tagliati ma, poiché gli islandesi sono un popolo di persone ingegnose e mai capaci di stare ferme, di questi squali già tagliati venduti in comode buste di plastica trasparente vengono fatti dei piccoli, ineguali cubetti di carne, che vengono disposti, spesso a forma di stella, nel tipico piatto islandese. Questo piatto dispone, ai lati, di alcune concavità espressamente previste per collocarvi i cubetti di squalo, affogato in salse di origine incerta e di commestibilità dubbia. In Islanda molti cibi sono di commestibilità dubbia, vengono assemblati in modo casuale, sembrano spesso cassetti realizzati da un falegname impazzito. Dei cassetti hanno spesso anche il sapore e una certa consistenza. Per il taglio dello squalo occorre sangue freddo e un preciso moto dell’animo che ti permetta di non pensare che quello che stai facendo è inutile, perché nessuno

mangerà mai quell’ammasso di carne di pesce in stato di avanzata putrefazione, a meno che non sia un turista, categoria che in Islanda abbonda, soprattutto nei mesi estivi, pensando erroneamente che faccia fresco, commettendo così uno degli errori peggiori che possa commettere un essere umano. In Islanda in estate si raggiungono temperature che, unite a un tasso di umidità zairese, fanno pensare a molti abitanti di chiudersi in un angolo del loro salotto adibito preventivamente a ghiacciaia, dormendo tutta la notte abbracciati a un cubo di ghiaccio di 5 metri per 3, per esssere sicuri che si sciolga lentamente.

A Reykjavik esiste un locale, famoso in tutta l’Islanda, nel quale si mangiano, a detta degli islandesi, degli hamburger che poco o nulla hanno da invidiare a quelli che potete trovare negli Stati Uniti, o in Cornovaglia, o in Scozia. L’hamburger islandese è stinto, sembra che sia stato lavato con qualche sostanza schiarente: il pane è leggermente spugnoso ma accettabilmente soffice, pur tendendo a uno strano colore ocra, e conserva alcune piccole aree non cotte, dalle quali spuntano dei piccoli funghetti, simili a dei licheni o a dei rampicanti lacustri. All’interno trovano posto alcune fette di carne, una cotta una stracotta e una cruda, forse per ingannare meglio il gusto di chi sta per addentarle, un numero imprecisato di cipolle, alcuni sottaceti, alcune piccole rondelle verdastre che potrebbero essere peperoni (sempre che in Islanda ci siano i peperoni; questo aspetto dovrà essere approfondito in altra, adeguata sede) e alcune decine di patatine fritte, messe a fare volume, presumibilmente pensate per

coprire l’intercapedine che viene a crearsi tra il soffice, spugnoso pane color ocra e le prime lingue di carne, che guardano il commensale con una smorfia quasi oscena, a voler essere poetici. Ma noi non lo siamo. Chiuso, l’hamburger islandese è grosso, spesso, e se ci si mette un indice al centro e lo si spinge a fondo, dopo averlo rilasciato il pane va su e giù, con un ritmo costante, per qualche minuto, come se ci fosse nascosto dentro qualcuno che sta respirando. Visto che in Islanda ci sono folletti ovunque, potrebbe anche essere il folletto dell’hamburger, il che rende un po’ complesso il primo tentativo di approccio con la sostanza. Dopo aver superato questo complesso, si può approcciare l’oggetto; alla consistenza spugnosa corrisponde un sapore che inizialmente stupisce, perché, in effetti, sa anche di carne. Anche. Perché subito il sapore primario si rifrange in mille, impercettibili saporini accessori, secondari, e cominciano ad affiorare note di mirto, di ammoniaca, di merluzzo e un insopprimibile retrogusto di kiwi. Escludendo una dominazione sarda dell’Islanda, possiamo attribuire il mirto a un disallineamento delle nostre papille gustative, ma il retrogusto di kiwi permane forte, non accenna a scemare.

Questa ordalia di sapori prende forma sotto una statua in plastica di 6 metri per 2 di un capo indiano, statue di cui è riccamente disseminato il locale. Siamo generosi, attribuiamo il gusto di merluzzo a qualcosa che abbiamo mangiato in albergo, al collutorio che abbiamo comprato al duty free shop, ma il gusto di kiwi resiste. Negli hamburger islandesi, evidentemente, mettono delle fette di kiwi che poi tolgono, perché non ne resta traccia.

Tè in Islanda

Provate a bere un tè in Islanda. Impossibile. Il liquido è ustionante. Non si dà tè, in Islanda, senza ustione papillare di quarto grado. Ogni sostanza calda che deve essere ingerita non deve essere solo calda, ma bollente. Fumigante.

Si preferisce inserire la bevanda in enormi tini in legno e, dopo averla fatta defluire, si procede immediatamente ad accendere un rogo sotto il mastello ligneo, per prevenire ogni possibile fuga, anche minima, di calore. Se in Islanda doveste chiedere un tè in un luogo pubblico non dovete sorprendervi se poco dopo aver emesso una consonante occlusiva alveolare sorda, la T appunto, apparirà in sala un addetto alla teazione, con un elegante divisa verde. Questi vi chiederà di attendere, vi porterà alcune rivista di pesca scritte in islandese che voi fingerete di apprezzare, e vi porterà in una radura attigua al locale. Ogni locale islandese ha una radura. Attigua. Lì giunto l’incaricato solleverà un telo, sotto il quale è nascosto un enorme paiolo di 6 metri di diametro.

Vi getterà acqua, delle zollette di limone essiccato, erbe, alcuni zoccoli di capra e del tè nero indiano. Dopo aver collocato il paiolo sopra un braciere incandescente, mescolerà a lungo la sostanza fino a farle assumere un caratteristico colore verde marcio. Giunta ad ebollizione, la verserà in una tazza in zinco recante sul manico alcuni versi del più importante poeta islandese, Snorri Sturluson, e ve la metterà sul tavolo. I versi del poeta raccontano di piccoli germogli di ribes che si insinuano tra la selvaggia natura del territorio per poi pentirsi di averlo fatto e decidere di suicidarsi, una delle sue liriche più famose si intitola, infatti, Il ribes si è suicidato per diventare altro da sé. A quel punto avrete due possibilità: o simulare una condizione di morte apparente o morire, non in modo apparente, poco dopo averla bevuta. Come consiglio generale si preferisce la morte apparente, ma in Islanda viene lasciata libertà di tè.

Il frigorifero in Islanda

In Islanda il frigorifero non esiste. Alcuni esemplari possono essere rinvenuti, con la cautela del caso, nelle grandi città, ma se considerate il fatto inoppugnabile che in Islanda non ci sono grandi città, appare molto evidente come sia difficile trovare dei frigoriferi. I pochi, rari esemplari del formidabile elettrodomestico, oggetto alieno alla scabra cultura culinaria islandese, sono di colore azzurro tenue con una grossa scritta illuminata FRIGORIFERO sulla porta dello stesso. La porta, spesso, è in legno. Il frigorifero è del tutto estraneo alla cultura islandese perché essendo un ardito manufatto dell’essere umano pensato per la conservazione del cibo, esso ha una utilità del tutto irrilevante nella terra dei geysers perché in Islanda il cibo non viene mai conservato ma lasciato felicemente e gioiosamente deperire. Il sapore di marcio è il retrogusto principale della cucina islandese, non solo nel caso del pescecane putrescente servito in vezzosi dadini ai turisti, ma come benchmark operativo che investe tutta la produzione

culinaria islandese, che affronteremo più avanti. Vi si avvisa da adesso che sarà un capitoletto scarno e inessenziale, come la cucina di cui si andrà a parlare. Dicevamo il tenue colore azzurro, la porta in legno, la scritta identificativa, ma tutto questo non basta a renderlo un oggetto amichevole. In islandese amichevole si dice vinsamlegur, è del tutto evidente che sia una parola che usano poco, e quindi usano poco anche il frigorifero. Una volta giunto a casa, viene messo in una stanza buia, spesso nel seminterrato, parzialmente nascosto da una foca in gesso. C’è circospezione e senso di inadeguatezza nell’islandese che si avvicina a un frigorifero, sembra una foca monaca che smetta improvvisamente di trascinarsi sul pack artico: è goffo (l’islandese, non la foca monaca), si sente percorso dal soffio dell’errore, a volte indossa un paio di occhiali scuri o un lungo impermeabile verde, si avvicina al frigorifero a piccoli scatti delle gambe, prima un passino poi un passetto poi si ferma, quindi ricomincia: si appoggia a un vecchio divano che era stato messo strategicamente davanti alla foca in gesso, si guarda intorno, si toglie e si rimette gli occhiali, improvvisamente estrae un vecchio cappello da pescatore dalla tasca

destra dell’impermeabile, se lo calca in testa, si toglie gli occhiali da sole. È ormai solo, davanti al frigorifero. Non ha più movimenti fittizi a disposizione, deve aprirlo. La mano conserva un lieve tremore ma riesce ad afferrare la maniglia, la tocca, la porta del frigorifero si apre e dentro, esattamente al centro, campeggia un enorme e ipertrofico sedano. Perché, questo è il fatto principale, i pochi islandesi che possiedono un frigorifero non sanno cosa farsene, e ci mettono dentro i sedani. Non che ci sia qualcosa di male nel sedano, men che meno in quello islandese, ma usare un elettrodomestico spesso bombato solo per metterci dentro del sedano è un comportamento vissuto con un certo senso di colpa da quasi tutti gli islandesi, che hanno anche idee molto particolari sul libero arbitrio e sulla moquette, presente solo in alcuni uffici postali e nelle banche principali del paese, che sono tre ma che appartengono tutte alla stessa persona. La moquette è vista con sospetto in tutto il paese perché impedirebbe agli elfi di muoversi per casa con la necessaria autonomia, qualcuno potrebbe rimanerci incastrato e, in casi eccezionali, addirittura calpestato dall’ignaro abitante. Per questo motivo si è cercato di limitare la presenza

di questo pericoloso rivestimento solo ai luoghi pubblici, sconsigliandone fortemente l’uso nelle abitazioni civili.

Le porte islandesi

In Islanda ci sono molte porte, ci sono più porte che case. Nel paese esiste una corrente di pensiero che sostiene che le porte sono più importanti delle case che le ospitano. La porta islandese può esistere senza casa intorno, l’ideale islandese è quello di avere un numero infinito di porte infilate nel terreno, come dei pali, senza la scomodità di avere una casa intorno. Essendo le case islandesi, molto spesso, dei triangoli isosceli venuti male, questa idea non appare del tutto sbagliata. Ci sono molte altre cose che gli islandesi amerebbero avere e che al momento non hanno, ed essendo un popolo rigoroso ed ordinato tende a scrivere delle lunghe liste di cose che vorrebbero avere e che non hanno, almeno mentre stanno scrivendo la lista. La lunghezza di queste liste è un prodotto diretto della intensità dei desideri espressi, e più lunghe sono le liste più aumenta la speranza che ciò che vi viene scritto dentro possa, un giorno, realizzarsi. Porte ovunque. Gli islandesi vorrebbero porte ovunque. Le più richieste, quelle

che danno sul nulla. Dai a un islandese

una porta che si apre sul nulla e vedrai un islandese felice. N.B. Un islandese

felice non è molto diverso da un islandese infelice, solo lo dà molto meno a vedere.

I tranci di salmone (cotti)

Nel senso non da cuocere, già cotti quando vengono pescati. Maglioni a girocollo di un colore diverso dal bianco sporco. Non è ocra, è bianco sporco. Il colore ocra non esiste, soprattutto in Islanda. Scarpe che si allacciano da sole. L’islandese non ama chinarsi perché una antica saga islandese, che nessuno ha letto come succede a tutte le antiche saghe, racconta che all’uomo piegato viene portata via l’anima. Da ciò discende l’altrimenti inspiegabile successo commerciale dei mocassini e la presenza di un numero rilevante di islandesi che vanno in giro con le scarpe slacciate. Alcuni inciampano e cadono in buche scavate dalla municipalità per accogliere quelli che vanno in giro con le scarpe slacciate. La sera, dopo le 21, un agente in bicicletta passa, aggancia quelli che sono caduti nella buca a un apposito gancio ricavato nella parte posteriore del sellino, un gancio di materiale plastico termoisolante, e li riporta a casa. Qualora i malcapitati non si ricordino dove abitano, vengono lasciati nella buca per evitare

viabilistica stradale. In Islanda il numero della via precede sempre il nome della via stessa, e in alcuni casi basta il numero per orientarsi nelle poche città islandesi; sui ghiacciai si va a tentativi. In islandese uno si dice Einn, una cosa piuttosto normale, mentre sei, ad esempio, è Sex: ora, già essere costretti a dire sedici diventa complesso, perché Sextàn non sembra un numero ma una crema lubrificante, non per biciclette. Una cartina geografica che contenga tutti i vulcani islandesi, così li possono evitare tutti. Non è stata ancora fatta, ma confidiamo tutti che la cosa avvenga presto: a un censimento necessariamente superficiale e incompleto i vulcani islandesi arrivano al numero di 677098, ma è possibile che ci sia un 8 o un 9 o uno 0 di troppo, sono tanti, comunque. Molti sono in attività, alcuni no, una piccola quantità è in semi attività, quella particolare attitudine dei vulcani islandesi che si invera nella loro ripresa subitanea al passaggio di un turista francese, che di solito dice PARBLEU!, scatta una foto e viene sommerso dai lapilli. In presenza di un turista tedesco o, meglio ancora, ungherese, il vulcano rimane perfettamente inerte, di una inerzia totale e onnipossente. Un hamburger che non assembramenti meno che doviziosi nelle vie delle città. Il concetto islandese di assembramento è più di due persone nello stesso posto con maglioni di colore diverso: se il colore è uguale non si dà, in alcun caso, assembramento. Guanti di muffola con le dita. Quasi tutti i guanti prodotti in Islanda sono senza dita. Gli islandesi afferrano spesso le cose con la bocca, aprendola anche a dismisura. Non è quindi necessario produrre dei guanti dotati di dita, non sapendo poi come spiegare agli islandesi come usarli. L’islandese accetta con pazienza le spiegazioni ma tende e dimenticarsene poco dopo, considerandole del tutto inutili. Pizza che non sappia di gomma. Gomma che non sappia di pizza.

Banane non verdi. In Islanda tutte le banane sono verdi. Una serie di istruzioni scritte in islandese moderno su come si mangia il kiwi. Un dizionario con meno di 67.000 pagine, la quantità minima necessaria a raccogliere tutte le consonanti della loro lingua. Le consonanti islandesi hanno la caratteristica di essere poco consonanti, e la supremazia della vocale nella glottodidattica locale è schiacciante: pur tuttavia un uso moderato, quasi timido, della deriva consonantica è attestato, quasi esclusivamente, però, nella

secerna licheni. Delle tovaglie in materiale sintetico non lavabile, in quelle di lana si annidano residui di cene del devoniano.

La televisione islandese

La televisione islandese è una cosa che, così fatta, può esistere solo in Islanda, e non solo perché parlano per tutto il tempo in islandese ma anche perché di solito nessuno riesce mai a sintonizzarsi, e si ritrova a vedere uno schermo grigiastro per un numero di ore, variabili, dalle 2 alle 270. Allo scoccare della duecentossettantesima ora lo schermo diventa giallognolo, poi fucsia, poi torna ad essere giallognolo con una screziatura diversa, poi vira verso il marrone chiaro e, se il televisore non esplode, appare la sigla del primo canale islandese, con una guida turistica che si butta urlando nel cono tiepido di un geyser momentaneamente ineruttante. Poco dopo lo schermo torna ad essere monocromatico, con improvvise screziature giallo paglierino, e da quel momento si profila la ricca offerta televisiva dei tre canali nazionali islandesi, chiamati con arguzia nordica il primo, il secondo e il terzo. L’offerta del primo canale è sagacemente divisa in due macrosettori di interesse, la politica locale e la pesca a

strascico, con appuntamenti serali di approfondimento e uno show del venerdì sera che riscuote da decenni un successo senza precedenti, anche se tutte le volte che va in onda il presentatore si infila un amo da tonno nel seno paranasale sinistro, la trasmissione si interrompe e viene mandato in onda uno speciale sulla danza di accoppiamento delle balene. Dopo circa 450 puntate, mai andate in onda, e 450 presentatori con 450 ami da tonno in 450 seni paranasali, con uno share che ha sfiorato il 67%, la puntata dello show PESCA

IL LUCCIO ANCHE SE

È DI PLASTICA è finalmente andata in onda, il presentatore, Oresundsson Gustafssonn non si è infilato nessun amo da nessuna parte ma un luccio, ospite della trasmissione, è svenuto in diretta e la trasmissione è stata interrotta. Lo svenimento del luccio ha fatto però scattare lo share al 78%. La trasmissione più seguita della prima fascia è Tala vi_ Olafu (Parla con Olafur), un rapporto diretto col signor Olafur, che rappresenta idealmente il politico locale islandese. La trasmissione ha molto successo perché il signor Olafur è rappresentato da un manichino vestito di scuro guidato in modo grossolano da alcuni cavi ricavati da vecchie reti da pesca danesi, e risponde a

tutte le domande poste dal pubblico in studio dicendo _a_ er satt (è vero) con parole registrate su una cassetta che viene mandata in onda dalla regia. I divani verdi, le pareti in finto legno di betulla e un mazzo di papaveri islandesi di plastica rendono lo studio il salotto che ogni islandese vorrebbe avere, a parte, forse, i papaveri che sono di plastica per resistere sotto le luci dello studio. Un secondo appuntamento fisso per ogni islandese è quello delle previsioni del tempo, che sono completamente inutili perché nessuno in Islanda sa prevedere niente e, nel caso rarissimo in cui tali previsioni corrispondessero a quello che veramente avverrà, ogni islandese che si rispetti dopo averle ascoltate farà esattamente il contrario, uscendo in giacca a vento in una giornata di sole o in pantaloncini corti, gialli, se in Islanda vedete pantaloncini corti saranno sempre indefettibilmente gialli, in una giornata di pioggia e vento di burrasca. Burrasca in islandese si dice stormur, quindi se esci in pantaloncini corti te la sei proprio andata a cercare. Il secondo canale della televisione islandese si chiama secondo canale ed è interamente dedicato allo sport. Lo sport è una attività unificante per tutta la popolazione

islandese, ma non si tratta di sport che si trovano anche in altre parti del mondo, ad eccezione del calcio che ha nella Úrvalsdeild la massima divisione del campionato ed è sponsorizzata dalla Pepsi; tutti i giocatori devono bere solo Pepsi in pubblico e ruttare di conseguenza. I veri sport islandesi, quelli che creano l’ethos della nazione, sono altri, e in particolare abbiamo: la caccia al lichene, la corsa delle pentole rotte, il sollevamento di macchine che non partono più e che in mezzo alla strada danno oggettivamente fastidio e il lancio della capretta. La caccia al lichene è una delle attività sportive che vedono compiersi la profezia del libro di Orsennonsennen, ossia quella dell’eterno ritorno di non si sa che cosa e mentre si aspetta ci si guarda intorno e si cercano i licheni. Questa attività sportiva ha una sua declinazione soggettiva, eminentemente solipsistica, col giocatore che vaga sulla superficie dei ghiacciai a cercare licheni che non trova, e una di gruppo, con squadre contrapposte di 56-70 persone che si gettano come un solo corpo su un lichene che affiora da una forra del devoniano con un grande clangore di crani fracassati e urla vichinghe: giova ricordare che nessun islandese sa cosa sia una forra, e la scambia per una semplice

buca. La corsa delle pentole rotte è una specialità atletica tipica dell’interno dell’Islanda, e si basa principalmente sul riuscire a cucinare una frittata di uova di quaglia prima che la pentola si rompa, avendo ogni concorrente a disposizione dall’inizio una pentola con una piccola crepa al centro: sta quindi alla abilità del singolo partecipante fare in modo che questa crepa non si allarghi, gestendo in modo saggio e avveduto la cottura dell’uovo prima del ragnarok finale: il ragnarok altro non è che l’armageddon nordico, in questo caso l’attimo in cui l’uovo di quaglia cade a terra sfracellandosi su una roccia lavica. Non si danno rocce, in Islanda, che non siano laviche. Il sollevamento di macchine che non partono più è il classico caso di una disciplina sportiva nata dalla cogente necessità di liberare le poche strade islandesi da un numero crescente di mezzi inadatti alla marcia: vecchie Saab verdognole, mezzi militari con scritte incomprensibili sulle portiere, autoarticolati DAF degli anni ‘60 riconvertiti in furgoni per la consegna del latte, tutto quell’ammasso di lamiera e sedili in finta pelle che rappresenta lo zeitgeist automobilistico islandese; non è quindi inusuale vedere uomini e donne

islandesi scendere dalle loro vetture, per lo più a gas, avvicinarsi a questi altri oggetti inanimati e dopo aver emesso un urlo di auto incitamento iniziare una raffinata manovra di gestione e collocazione corriva dei loro arti nello spazio, fino ad arrivare a vedere portiere lanciate in aria, mezzi spinti sul ciglio della strada a forza di braccia, gomme usate come filo interdentale da gentili signorine che dedicano ogni momento libero al sollevamento pesi. Veniamo, per ultimo, al lancio della capretta: preliminarmente giova ricordare che nessuna delle numerose caprette presenti sul territorio islandese nutre una particolare passione per questa attività che, dal punto di vista della capretta, assume le caratteristiche di una immane cazzata ma l’islandese, pure democratico fino al midollo e rispettoso dei pesci rossi che tanto stanno in un acquario con le caprette ha un irrisolto rapporto fatto di continue sfide e mutuo disprezzo, e ogni tanto ne afferra una per le zampe posteriori e la lancia per aria, scommettendo con il suo vicino di casa dove e come cadrà l’ovino incolpevole, che solitamente tenta di sottrarsi alla pugna cercando di colpire l’islandese nel suo apparato riproduttivo, generalmente protetto da una guaina di

pelle di pescecane sintetica acquistata su Amazon.jp, perché in Giappone la pelle di pescecane la trovi dappertutto, meno che sui pescecani. Il terzo canale si occupa di cultura, infatti non è mai stato attivato. Ogni tanto un tenue, ingiustificato lucore anima lo schermo ma non si tratta di una trasmissione, ma della pubblicità di una libreria volante, che gira per tutta l’Islanda su una mongolfiera, dalla quale vengono lanciati libri a intervalli regolari. Gli islandesi sono un popolo di accaniti lettori, che tuttavia tendono a concentrare le loro letture nei due mesi che precedono il Natale e nel mese successivo, Gennaio, periodo durante il quale anche i licheni hanno ideazioni suicidarie. La pianificazione del suicidio in Islanda viene combattuta con la panificazione, essendo la frittata di patate e cavolo nero una alternativa assolutamente peggiore a ogni forma di interruzione volontaria anticipata del proprio percorso terreno. Nel periodo di parossismo, di acme librario, un islandese tipo può arrivare a leggere fino a un massimo di 12 libri contemporaneamente, inziandoli tutti dalla fine e saltando le pagine pari, perché nella Saga di Olafùr è scritto che le pagine dispari sono le migliori, anche se non si sa perché. Molto venduti e apprezzati dal

pubblico islandese i gialli nordici, nei quali un commissario di polizia alcolizzato con una gamba artificiale capisce dopo aver guardato il fondo di una tazzina di caffè d’orzo chi è il colpevole, anche se è quasi sempre quello sbagliato: l’introduzione di un elemento di pura casualità, di errore marginale, contribuisce ad aumentare il pathos della storia, anche se essendo un giallo nordico solitamente il libro supera le 1290 pagine scritte piccole, e alla 45esima molti lettori tentano di ingoiarne alcune, dopo averle insaporite con dei panetti di burro al tiglio, per rendere meno onerosa e soprattutto più veloce la lettura. Non riuscendoci quasi mai, simulano un attacco vagale e si gettano a terra urlando.

Le strade islandesi

In teoria le strade in Islanda non servirebbero, nessuno va mai da nessuna parte e anche se gli pungesse vaghezza di farlo arriverebbe ovunque entro 10, massimo 15 minuti (la lingua islandese non contempla l’espressione “pungesse vaghezza”, e forse neanche quella italiana, ma sembrava che ci stesse bene e l’abbiamo usata, noi gli scriventi, io e il coniglio bianco che mi detta quello che devo scrivere) ma per una questione che fa riferimento al fatto che tutti i Paesi del mondo hanno delle strade, anche l’Islanda si è data una rete stradale. Essa si ramifica in una lunga, dritta, a volte sconnessa retta che passa lungo tutta la principale catena montuosa del paese, e finisce più o meno accanto a un vulcano inattivo da qualche milione di anni. Gli ingegneri hanno pensato che sarebbe stato bello far terminare una strada a scorrimento medio-veloce proprio accanto a un vulcano, sarebbe stata una cosa molto islandese, considerando anche che si trattava di vulcano inattivo. È vero

che esiste sempre la possibilità che un vulcano inattivo decida di riattivarsi, ma si tratta di un evento remoto, e l’ingegnere islandese tipo non viene a patti con un futuro remoto ma gestisce il presente, di solito male. Questa lunga linea retta, che ogni tanto si incurva con evidente fastidio quando bisogna farlo, porta sulla sua schiena un numero imprecisato di veicoli a motore, fuoristrada dai colori sgargianti per essere più facilmente riconoscibili nel suggestivo buio islandese, vetture svedesi lucide come una argenteria di famiglia appena lucidata, alcune biciclette condotte da turisti che indossano caschetti incongrui con la scritta incongrua I Love Iceland e un triciclo, immancabile, solitamente guidato da un turista tedesco, ex commercialista, che voleva andare a Capri ma ha sbagliato strada. L’islandese alla guida accusa forti momenti di noia, paralizzante, e cerca di fare passare il tempo impegnandosi in alcuni giochi di logica matematica che ha imparato fin dai tempi delle elementari, il più divertente, e impegnativo, dei quali è quello della pecora nel geyser, ossia calcolare mentalmente quante pecore vive possono essere gettate in un gesyer prima che siano morte. Molte pecore non condividono questo giochino

ma essendo pecore hanno poche possibilità di fare valere il loro punto di vista, il che non è giusto ma è molto islandese. Una volta arrivato a destinazione, un luogo qualsiasi che non aveva alcun bisogno di raggiungere, l’islandese scende con grande circospezione dalla macchina, si guarda intorno, finge un superficiale interesse per cose che ha già visto 78 volte, dilata i seni paranasali per inspirare più aria possibile, e risale sulla macchina per fare ritorno a casa, da dove non avrebbe mai voluto allontanarsi.

Il nulla e il vuoto

In Islanda il nulla è ovunque, e ogni islandese deve imparare a conviverci fin da piccolo, perché da grande ormai è troppo tardi: il nulla islandese è come il baseball per gli americani, o impari a conoscerlo da piccolo o da grande ogni tentativo di farlo sarà alonato di frustrazione e rancore verso sé stessi. Due islandesi rancorosi sono tremendi, tre vanno al bar, quattro fondano un partito politico, cinque una rock band cristiana millenarista; per questo, è altamente indicato prendere coscienza di questo nulla fino dai 3, 4 anni di età. Il nulla circonda il bambino islandese quando la madre entra in un negozio di tessuti e lo assicura, con un paio di sartie da veliero riciclate, all’esterno del negozio: il bambino o la bambina, così imbragato, si guarda intorno e vede due licheni, una buca, una bottiglia di birra vuota, ancora un lichene e una seconda buca, e comincia a pensare: “ma in quale cazzo di posto sono capitato?” (un chiarimento necessario: anche se le madri lo ignorano i bambini islandesi, dopo

aver visto dove sono capitati, dicono cazzo con convinzione ed energia). Crescendo, questo senso di nulla circostante lo permea in ogni piccolo o grande momento della sua esistenza, dal primo appuntamento con Siganna, molto carina e molto bionda, che abita però dalla parte opposta del ghiacciaio e quindi è forse meglio scriversi, pedalare sul ghiacciaio non è pratica esaltante, e dopo 7 anni di lettere scopri che Siganna è diventata lesbica e convive con una portalettere che guida una jeep rossa targata ICE QUEEN; oppure quando vai per la prima volta in banca e scopri che le uniche due scrivanie sono vuote perché entrambi gli impiegati sono in pausa tisana; oppure ancora quando cercando un ottico vai a sbattere contro l’insegna di una pizzeria vegana, cosa che non sarebbe successa se avessi trovato prima l’ottico. È il nulla, il vuoto, il bianco che circonda la vita di ogni islandese che detto, anzi scritto così, sembra una cosa brutta ma a ben vedere non lo è, perché se il bianco è il colore del vuoto e del nulla è un colore che può essere cambiato, ci si può scrivere sopra, e se ti capita davanti ci puoi scrivere sopra pezzi della tua vita con quello che preferisci, matita, pennarello o addirittura penna stilografica, e questo non è mica

un male, islandesi o meno. Tipo, sul nero mica ci si può scrivere, ad esempio, e se uno ci prova poi alla fine non si legge niente, sul bianco si scrive bene e soprattutto si legge tutto con estrema chiarezza e nitore, e la chiarezza nella vita è importante, sul nitore si può trattare. In Islanda c’è molto bianco e tanta chiarezza, ricordiamocelo.

Ghiacciai e caprette

In Islanda ci sono molti ghiacciai, e alcune caprette. Quale cosa migliore da fare che portare le caprette a fare un giro sui ghiacciai, senza chiedere alle stesse se la cosa le diverta, perché la risposta sarebbe un secco No. La capretta ha una naturale tendenza per il centro abitato, la nuda superficie di una calotta di ghiaccio non la soddisfa in alcun modo, ma è una tipica usanza islandese quella di portare due o tre caprette a pascolare sul ghiaccio: si noti come il governo, sempre previdente, abbia costruito nel Langiokull, uno dei ghiacciai più grandi, una apposita area di sgambamento caprette, che non hanno però quasi mai voglia di sgambare e fissano il cancello che delimiterebbe l’area di loro competenza con uno sguardo altero e di disprezzo profondo, come solo certe caprette, per di più islandesi, sanno fare. La capretta islandese ha una grande considerazione di sé, è conscia del suo preminente ruolo sociale, favorito anche dalla relativa mancanza di competitori naturali. Su una popolazione di 331.000

esseri umani, distribuiti in modo incongruo tra ghiacciai, prati bruciati dal poco sole che buca la spessa coltre di nuvole (in Islanda il sole è raro, molto raro, e come tutte le cose rare quando si appalesa tende ad esagerare) e alcuni licheni, la capretta ricopre un ruolo innegabilmente prioritario. Per questo motivo guarda con scherno e palpabile derisione l’islandese medio-basso che cerca di costringerla a camminare in sua compagnia in un apposito recinto di sgambamento. In primo luogo perché camminare in uno spazio delimitato da altri è umiliante e ozioso, e in secondo luogo perché la capretta ha quattro zampe mentre l’islandese ha due gambe; se a ciò si aggiunge il fatto che la capretta è infinitamente più in forma di un islandese che su quelle sue due gambe trascina un torso gonfio di birra e dadini di pescecane, il quadro di un rapporto di totale incomunicabilità appare chiaro e ineluttabile. In Islanda il rapporto uomocapra è inficiato da una serie di bias logicosemantici insormontabili: la capra detesta l’islandese, gli islandesi si pongono criticamente nei confronti della capra. Tutto ciò è chiaro. Per la capra, almeno.

Formaggi e simil formaggi

Parlare di formaggi islandesi è tempo perso, perché non ce ne sono, e i pochi presenti sono degli UR-formaggi, aggregati caseari di prodotti sconosciuti. Esiste una cosa, una sola cosa, unica e lattescente: lo skyr, un formaggio di latte di capra dal tipico sapore di latte di capra, in questo caso islandese. Può essere addizionato di vaniglia, frutti di bosco e di altri formaggi che sappiano di qualcosa. In tutti i casi appena descritti il sapore non cambia, resta sempre indefettibilmente caprino.

Il momento migliore per consumarlo è la sera, quando tutto appare più chiaro e definito, proprio con il calare delle tenebre. La presenza di una tenebra che, nella sua oscurità omniavvolgente anziché nascondere fa risaltare quello che di buono c’è nel mondo, nel caso del formaggio di capra islandese ha preso una cantonata sesquipedale. Inappellabile. Il formaggio resta, anche avvolto da tenebre ominose, sotto il limite del mangiabile, e la patetica e inane aggiunta di una fragola, una sola, piccola e tenera fragola, o quella di

bacche di ribes in numero dispari, non può cambiare il marcescente stato di cose: si tratta di una cosa triste. Molto triste.

Da licheni.

Il senso degli islandesi per il bello

Ogni popolazione che abita il mondo, diceva Levi-Strauss, che è un cognome unico, sviluppa un suo personale senso per il bello, che rientra in canoni estetici generali ma che cambia nelle sue caratteristiche specifiche di popolo in popolo. Per quanto riguarda gli islandesi, che pur essendo pochi sono comunque un popolo, questo senso per il bello è arrivato già corrotto da elementi esterni, molto gravosi. La gnosi estetica islandese è una saga policroma fatta di maglioni di lana pesante, di quelli che fanno subito dei pallini delle dimensioni dei testicoli di un toro, per intenderci, di colori vivaci, con toppe verdi ai gomiti, leggermente disassate. Sorge spontaneo il sospetto che gli islandesi abbiano tutti gli organi spostati verso il basso. I letti islandesi sono bassi, con materassi sottili, la schiena deve aderire perfettamente a un tavolaccio di legno di betulla ruvido, ogni intercapedine che si frapponga tra la schiena di un islandese e detto tavolaccio

è considerato un cedimento a mollezze latine; i materassi di piuma sono banditi e le coperte non esistono, Per coperta in Islanda si intendono tre lenzuola annodate tra di loro. I letti sono quasi sempre collocati vicino alle finestre, per rendere l’atto del riposo consustanziale all’assoluto Nulla che si può vedere dalla finestra. Il corpo si adagia sulla ruvida superficie, lo sguardo vagola senza una meta precisa sul cartello autostradale giallo dell’incrocio vicino a casa, una renna fa un verso da renna, e l’islandese cade in un sonno senza sogni, non prima di essersi procurato un ematoma sul comodino, che non si ricordava di possedere. Il comodino viene considerato inutile, perché non si sa mai cosa metterci sopra. Quel poco che ci viene messo viene spesso dimenticato, e tutto cade in una dimenticanza obliosa e senza senso. La dimenticanza obliosa che ti avvolge quando sei in Islanda deriva in massima parte dal livello di fermentazione epigastriale delle sostanze che hai ingerito a pranzo, a colazione o a cena. Vi sono alcune prelibatezze della cui esistenza non si può però tacere, ristabilendo un senso di equità nei confronti di una cucina che viene spesso dipinta a tinte fosche e drammatiche: allontaniamoci

dal pescecane marcio e approdiamo felici al meraviglioso ecosistema autobastante degli arrosti islandesi. Tra gli arrosti, magari non al centro e di lato, ma potentemente presente, sosterà una bottiglia di Brennivin, la deliziosa, fragrante e inaspettata acquavite islandese. Facendo attenzione, estrema, nel non confonderla con la Akvavit scandinava, è ricavata dalla fermentazione di cereali o purea di patate, il tutto aromatizzato con cumino: il sapore è intenso, forte, penetrante, e la gradazione si spinge tra i 37 e i 40 gradi. Giova ricordare, non ritenendo opportuno tacerlo, che uno de suoi soprannomi è svarti dauði, che significa morte nera; come è noto ogni soprannome non viene dato a caso, affonda le sue radici etimologiche in qualcosa o qualcuno di reale, e il brennivin potrebbe essere la causa di molte, innumerevoli cadute sulle linde strade islandesi di bevitori della sacra bevanda: essendo le cadute foriere di ematomi in varie zone del corpo ed essendo lo sviluppo cromatico dell’ematoma dal rosso vivace al nerastro diffuso, ecco, forse, uno dei motivi del soprannome, anche se sospettiamo essercene molto altri che tendiamo ad ignorare per lasciare del sintomatico ed esiguo mistero.

Altro discorso deve essere fatto per il piumone. In tutta l’Islanda si contano non più di una mezza dozzina di piumoni, tutti importati illegalmente, di un solo colore; bianco ghiaccio. L’islandese nutre un timore reverenziale nei confronti del piumone perché una antica leggenda dei popoli del nord narra di piumoni che al loro interno hanno nascosti spiriti maligni, dai quali cercano di difendersi con dei galdrastafir, piccoli pezzi di legno intagliato, folletti aggressivi che ghermiscono le membra addormentate dell’islandese e lo trasportano nel regno dei morti o in una tavola calda, il che, valutata la qualità media delle tavole calde islandesi, è molto peggio. Sorge un dubbio esegetico relativo alla presenza della parola piumone in una leggenda nordica medievale, si insinua il sospetto che si sia trattato, forse, di un illud malum filologico, ma se di errore si è trattato è giunto intonso fino ai giorni nostri e per questo motivo tutti gli islandesi moderni hanno paura del piumone, e ne comprano pochissimi, preferendo spesso dormire con una coltre di oche vive per riscaldarsi. Le oche vengono dipinte con colori vivaci per farle assomigliare il più possibile a una coperta, con un certo fastidio da

parte degli Anatridi. Altro ambito nel quale gli islandesi esprimono tutto il loro inesauribile gusto per il bello è quello dei fiori finti da mettere in bagno; in ogni bagno dotato di vasca con idromassaggio rotto e tazza sollevata e collegata alla parete da due losanghe provenienti dallo scheletro eviscerato di una nave baleniera, dotato di una luce applicata al soffitto a forma di lisca di pesce carneade, in un luogo nel quale tutti questi elementi vengano a comporsi ad unità, in un bagno islandese, quindi, ci saranno sempre almeno tre vasi di fiori finti. I fiori finti sono particolarmente amati dagli islandesi perché dopo averli comprati non devi fare più niente, solo osservarli di tanto in tanto per poter dire a te stesso quanto sei stato intelligente e furbo a comprare dei fiori finti: non devono essere interrati, non hanno bisogno di acqua, non hanno bisogno di luce, non muoiono, sono un inno all’eterno presente che è tanto importante nella vita dell’islandese moderno: eterno perché dura per sempre e presente perché te lo puoi guardare tutti i giorni. La loro collocazione preminente in bagno è dovuta alla necessità di abbellire un luogo che viene vissuto da tutti gli islandesi come un luogo peccaminoso

e oscuro, e dal tentativo di combattere queste sue caratteristiche gli islandesi hanno deciso di costruire bagni ampi, luminosissimi, pieni di legni e acciaio, con fiori finti ovunque, anche nel box doccia. Il box doccia è solitamente di colore azzurro, con una apertura superiore che permette di vedere le stelle quando ci si sta insaponando le ascelle: questa abitudine di riservare una particolare attenzione igienica alle ascelle, parte poco nobile ma essenziale del corpo, nemmeno un islandese riuscirebbe a vivere senza ascelle, mentre si osserva almeno una dei 5 milioni di stelle che popolano il cielo islandese, ci porta direttamente a un altro argomento, curioso, che alle stelle si collega in modo diretto, quello dei bubble hotels.

Gli hotel a bolla, la foresta e i rumori che non si sa che cosa siano

Uno degli hotel più apprezzati dai turisti e più odiati dagli islandesi è l’hotel a bolla o hotel da 5 milioni di stelle. Questo tipo di hotel trova la sua declinazione architettonica in una bolla, trasparente, collocata in una delle tante foreste islandesi (che non sono poi tantissime a dire il vero e noi qui diciamo il vero, a volte anche il verosimile) con una porta di ingresso alla bolla costituita da un buco nella bolla chiuso da una cerniera che di solito si incastra al secondo tentativo di effrazione: pur essendo un hotel, infatti, quelli che hanno comprato la camera e quindi il diritto di entrarci hanno spesso l’aria di ladri che colti da una tempesta in mezzo alla foresta vanno alla ricerca di un riparo sicuro e trovata questa bolla ci si infilano dentro. Quale idea ardita e peculiare è sottesa a questa eterodossa modalità alberghiera? L’idea di permettere a un turista di addormentarsi sotto una volta stellata, con la possibilità di contare

tutte le stelle in caso di insonnia: essendo, secondo una stima tratta da una ricerca effettuata dall’apposito ufficio comunale di Reijkiavik, le stelle presenti nel cielo islandese in numero non inferiore ai 5 milioni, c’è ampia materia di induzione al sonno. Esistono, però, delle fastidiose controfinalità che non possiamo evitare di citare, sia per onestà intellettuale sia perché avevamo voglia di scrivere il lemma “controfinalità”, che ultimamente non usa più nessuno.

1. Gli aghi di pino. In molte foreste ci sono i pini, i pini hanno gli aghi, gli aghi si staccano dai pini e cadono per terra, gli hotel a bolla mettono tutte queste bolle per terra e gli occupanti degli hotel da 5 milioni di stelle si ritrovano i glutei orrendamente piagati da centinaia di aghi di pino che, anche in Islanda, fanno quello che fanno solitamente gli aghi di pino, rimangono fermi e pungono. Tra le istruzioni che vengono appese all’ingresso degli hotel a bolla si legge chiaramente, al punto 5, che l’abbigliamento più indicato per soggiornare con agio in una di queste strutture è rappresentato da maglioni comodi, possibilmente senza scritte, e pantaloni di velluto a costa larga, ma poiché solo il nonno di Heidi si veste in

questo modo o tutti i turisti hanno un rapporto di parentela con Heidi, il che getterebbe una luce sinistra sulla famiglia, o devono sopportare le micro punture degli aghi di pino sui loro sederi. Rimase famoso il caso di una coppia francese che ritornata dalla vacanza in Islanda, nel corso della quale soggiornò a più riprese in hotel di questo tipo, si ritrovò scritta sui glutei destri, i sinistri erano intonsi, il testo di Vulnicura di Björk inciso sulle loro carni con aghi di pino.

2. I rami degli alberi. Nelle foreste ci sono gli alberi, e gli alberi hanno ampi e odorosi rami che sembrano protesi come mani verso il cielo (questo celeberrimo verso di Hallgrimur Petursson, poeta islandese morto nel 1674, ci ricorda come anche i poeti islandesi scrivano dei versi che sarebbe stato meglio non scrivere) e questi rami tendono a non prendere in alcuna considerazione il fatto se sotto di loro ci sia o meno un hotel, un insediamento vichingo, un cervo o del ghiaccio. Fanno i rami e basta, e in certi casi sono rami talmente convinti di sé che chiudono quasi completamente la volta celeste da sguardi indiscreti, e di stelle non te ne fanno vedere nemmeno una. Il cacciatore di stelle ha quindi due possibilità, uscire

dalla bolla, farsi una camminata nella foresta e guardare le stelle in purezza oppure fare finta di niente, affettare una sobria indifferenza e mangiare la porzione di pollo al curry e peperoni gentilmente offerta dall’organizzazione, per poi cercare uno dei suddetti rami e valutare con attenzione l’ipotesi di impiccarsi, insieme al pollo al curry rimasto.

3. Il terzo punto delle controfinalità è forse il più dirimente, in una certa misura integra e sintetizza i due precedenti: se sei in Islanda, se hai pagato un biglietto aereo non del tutto economico, se hai già girato 6 ghiacciai 9 vulcani un numero imprecisato di geyser e mangiato zuppe di eziologia sconosciuta perché non ti prendi una bella suite all’Hilton di Reykjavik e affondando nel letto di piume d’oca bevi un succo di ginepro e le stelle te le guardi su youtube?

La lingua islandese o dell’inferno in terra

La lingua islandese, come già ricordato più sopra, non è propriamente una lingua ma uno stato d’animo che cambia in modo imprevedibile, sempre verso toni di fremente incazzatura. Sentire parlare in islandese è come essere un villo intestinale che sta tentando di dare il suo contributo alla digestione di un fritto misto con molti totanetti. Di poco o nullo conforto è la notizia, sconosciuta alla maggior parte degli islandesi, che la lingua che si impadronisce, senza preavviso, del loro apparato foniatrico è identica a quella di un islandese del 1234. Nulla è cambiato da allora, se non, forse, la pettinatura dell’islandese. La lingua delle saghe norrene è la stessa che viene oggi utilizzata per ordinare un hamburger al pescecane, identica è l’intonazione delle palatali, uguale è l’ordinata successione delle fricative, inalterato lo sgomento che assale il parlante: come ricordato più sopra, solo la pettinatura ha subito qualche lieve cambiamento, passando dalla coda

mal pensato; quando ci si avvicina troppo al banco dei dolci, visti con disprezzo in tutta l’Islanda, rotea i suoi occhi artificiali esoftalmici fino a far nascere sensi di colpa irredimibili in chi sta comprando cose. Che non sono quelle che dovrebbe comprare, con ogni evidenza. In certi momenti canta arie operistiche in islandese, trasformando Lucia di Lammermoor in un pastore ermafrodito di Fossvogsdalur. Ricordiamo altresì che una delle principali catene di pizzerie islandesi si chiama Donizetti, e la pizza di riferimento è la Gaetano, con mozzarella, ginepro, aghi di pino, lichene fritto e dadini di mortadella. Come topping, niente, essendo gli islandesi persone ordinate. L’islandese viene parlato, a fatica e con un certo senso di colpa, da 320.000 persone, ed ha lo stesso gradiente di diffusione del dialetto bergamasco, che è molto più semplice. L’islandese parlato oggi è identico a quello parlato 800 anni fa, il che crea qualche piccolo problema rendendo impossibile nominare oggetti che 800 anni fa non c’erano, tipo la carta igienica o il computer, per citare i primi due che ci sono venuti in mente. Gli islandesi sono gelosissimi di questa loro particolarità e cercano di limitare in modo rigorosissimo l’introduzione di parole nuove, cercando intrecciata che ricade con noncuranza sulle spalle a una coda intrecciata che ricade con noncuranza sulle spalle. Anche in questo ambito l’Islanda è un paese conservatore. Il fatto di dover parlare come un conquistatore vichingo quando deve fare la spesa getta sempre un’ombra di scoramento su chi sta comprando un etto di salame o due confezioni di tonno a pinna blu, e per questo motivo in molti supermercati islandesi è presente un piccolo automa con due occhietti malefici e delle gambette focomeliche, si chiama Argerttur. Che vuol dire Argettur, non ha altri significati, che si affianca al consumatore non appena questo mette piede in un supermercato. Il suo scopo sarebbe quello di aiutare il malcapitato nella scelta di quello da comprare, il suo vero compito è quello di impedire alle persone di comprare quello che vogliono. Il piccolo automa beffardo finge disponibilità, all’inizio non oppone alcuna resistenza, ma mentre la permanenza dell’acquirente si secolarizza (gli islandesi sono lentissimi nel fare la spesa) si assiste a una sua umanizzazione, non si limita a pesare gli alimenti ma scuote la testa con disprezzo quando non sono quelli previsti, gira in tondo, facendo un piccolo tango

riportati tutti sbagliati, quindi se siete in Islanda e dovete proprio contare fate come facevano i contadini, lanciatevi delle capre. Lo zero si dice nùll, che mi pare una cosa adeguata, che ci fa scoprire come tutti gli islandesi siano in fondo dei parmenidei. Einn, facile, è uno, Tweir, sempre facile, è due, prir, meno facile, è tre. Spesso si salta direttamente al quattro, che è fjòrir, e se vi trovate in Islanda e volete tre panini sappiate che ve ne daranno o due o quattro, ossia i vicini di casa dell’indicibile. Cinque è Fimm, che è una bella cosa, sembra una multinazionale coreana e forse lo è, mentre stiamo per arrivare alla più grande fonte di imbarazzo per i turisti, ossia il numero sei che si dice SEX. Esistono casi documentati di turisti, soprattutto turiste, soprattutto lombarde che sono più internazionali, che dopo aver letto sex sul menu si sono lanciate in accessi sospirosi, in eretismi lessicali, in imporporamenti subitanei dei cavi poplitei: purtroppo si trattava solo del numero massimo di panini che sarebbero stati portati al tavolo senza sovrapprezzo, ossia SEI. Dal numero sette al dieci il glottologo dilettante potrebbe cominciare a pensare a una possibile dominazione sarda dell’Islanda, iniziando dal sette che è sjø al dieci che è Tiu una lunga cavalcata sillabica di comporre nuovi lemmi usando quelle vecchie; il computer, che nel 1200 non c’era, si chiama tølva, dal verbo tala che vuol dire calcolare. Pare accertato che per indicare la carta igienica, pure assente nel 1200, si usi la parola composta carta da culo, ossia rasspappìr, dove rass è culo e pappìr carta. I miracoli della metafonia. La fonologia islandese conosce un gruppo piuttosto nutrito di nasali e alcune occlusive che, dato il clima freddo, tendono a confondersi con le nasali, creando un accrocchio semantico di non facile risoluzione. La grammatica è attigua all’inferno in terra, come si ricordava prima, e in questo caso abbiamo deciso di sorvolare. Anche in Islanda ci sono i numeri, e ci sono alcune parole che li definiscono: sono abbastanza corte ma non se ne può fare a meno, se non usando le dita delle mani che devono essere contate lo stesso. Nell’Islanda medievale i contadini erano soliti lanciarsi addosso delle capre per contare, ma dopo qualche anno le capre islandesi, note per il loro carattere fiero, si sono rifiutate di essere utilizzate come un abbecedario e la lingua ha dovuto accettare dentro di sé delle parole che definissero i numeri. Ve ne elenchiamo alcune qui di seguito, per le altre ci sono decine di guide sull’Islanda in cui sono

che ricorda la zona est di Cagliari: sjø, atta, niu e tiu. Puro barbaricino. Questa lingua che sembra una cavalcata su un pony sul ciglio di un dirupo ha dato però i

Natali a un premio Nobel per la letteratura, Halldor Laxness, che nel 1955 ha portato a casa la statuetta, perdendola a Reykjavik, nel porto, per la sua opera epica che ha rinnovato l’arte e la letteratura islandese.

Mai come nel suo caso abbiamo assistito a come i premi Nobel per la letteratura vengano quasi sempre assegnati a opere che non ha mai letto né leggerà mai nessuno, ma questo è un altro discorso e non possiamo farlo in islandese perché in islandese non esiste la parola opera.

Gli incroci in Islanda anche se poi parleremo di nuovo delle porte

Parlami del Nulla. Ecco un incrocio islandese. Di una strada nazionale o di una provinciale. Ma ecco l’incrocio. Lì, il Nulla. In Islanda il Nulla ha una grande importanza concettuale, in nessun altro paese conosciuto, in nessuna altra terra emersa l’assenza totale di senso sostituisce egregiamente il senso. In una terra con qualche centinaio di vulcani attivi un cartello che invita i pochi automobilisti ad aspettare che passi qualche altro automobilista anche se tutti sanno che non passerà nessuno è una grande apertura di credito verso l’assoluto metafisico. In Islanda sono stati trovati conducenti di Saab azzurrine della fine degli anni ‘70, uno dei modelli di auto più gettonati nell’isola, in avanzato stato di mummificazione, alcuni già marmorizzati e assorbiti dalla rigogliosa natura circostante, in attesa di potersi immettere nella corsia di destra dopo aver fatto passare la macchina in attesa sulla corsia di sinistra. Questi

incroci si trasformano in muti famedii della popolazione islandese, di poco superiore alle 300.000 persone, in sfide alla concezione razionale del tempo e dello spazio, così noiosa per un islandese, che ha bisogno di grandi spazi riempiti di licheni e caprette, ma che si ferma con disciplina ferrea a incroci che sa perfettamente essere inutili, ma essendoci scritto sopra che deve fermarsi lui si ferma. Nonostante tutto. Bisogna tornare per un momento alle porte, che come ricordato più sopra in Islanda obbediscono a leggi che devono essere interpretate al contrario di come sono scritte, in quel pervio linguaggio burocratico islandese che è lo stesso usato nelle saghe, e quando apri una porta può capitare che ti si dica di stare lontano da un drago. Il drago non si capisce se sia nascosto dietro la porta o possa arrivare solo se la trova aperta, ma è evidente che l’ipotesi di trovare un sauropode obeso dietro alla porta che stai tentando di aprire non contribuisca a distendere l’animo di chi si trova davanti a una porta. È quindi consigliabile evitare, laddove possibile, di aprire porte se ci si trova in Islanda, pur tuttavia essendo necessario farlo quando ci si trova di fronte a una di esse si può seguire un piccolo, banale schema

comportamentale (come extrema ratio c’è la possibilità di sfondarla con un’ascia ma capiamo benissimo che non tutti vanno in giro con un’ascia, nemmeno in Islanda). La porta islandese non si apre come tutte le altre porte in tutto il resto del mondo perché gli islandesi fanno tutto al contrario, le porte non sfuggono a questa norma e quindi, come potete intuire, in Islanda per aprire una porta dovete chiuderla, e per chiuderla dovete aprirla. Detta così sembra una cosa semplice ma non lo è affatto, sconvolgendo la mappa delle connessioni neurali di chiunque non sia nato in Islanda e non abbia almeno 7 consonanti nel nome e 5 nel cognome. La stessa serratura è ingannevole, permettendo solo un movimento, la chiave girerà sempre verso sinistra e bisogna attendere un clock, in Islanda non esistono i click, che attesti l’avvenuto funzionamento del meccanismo. Aperta la porta, tirandola verso di sé, si faccia attenzione a non ledersi la terminazione nervosa del massetere, sono porte molto taglienti, e si entri nella stanza entro un periodo massimo non superiore ai 2 minuti e 34 secondi, scaduto il quale scatta un allarme acustico che segnala una possibile effrazione. In Islanda tutto quello che non rientra nella

norma è una possibile effrazione, non esistendo una norma perché non sanno che cosa sia. La chiusura è automatica e viene accompagnata dalla caduta di un paio di licheni che vengono inseriti negli stipiti dal costruttore. Le porte presenti negli uffici pubblici, che sono 7 in tutto il paese, vengono realizzate a mano da una ditta specializzata di cui non si conosce esattamente l’ubicazione; sono identiche alle altre con la sola differenza che negli stipiti sono stati collocati dei merluzzi, al posto dei licheni. In Islanda persiste ancora oggi una inusitata sovrabbondanza di merluzzi, e il governo ha pensato, correttamente, che da qualche parte andavano pure messi, questi merluzzi.

Il kviomàgur o cognato di ventre

In Islanda non abita tanta gente, ci sono più licheni che persone, il merluzzo impazza, le caprette si annoiano perché vengono portate a fare passeggiate sui ghiacciai, e può anche succedere che una donna possa avere più uomini, cosa che avviene anche nel resto del mondo ma che solo in Islanda viene definita con una parola specifica, che non è quella a cui state pensando voi ma che è kviomàgur, ossia cognati di ventre. Una cosa strana essere cognati di ventre, in effetti, che solo in un paese che parla ancora una lingua stabilita dal Primo Trattato Grammaticale del 1100 può essere passata sotto silenzio, e accettata con la tranquillità di chi sa che nessun ventre, in Islanda, è al sicuro. Nessuno può sentirsi al sicuro in un Paese in cui la probabilità di finire a letto con tua zia è altissima, e sia tu che la zia potreste gradire; il tutto potrebbe avvenire mentre una graziosa capretta islandese, magari nana, osserverebbe la scena con un interesse solo parzialmente adulterato

dal disgusto, per poi rivolgere la propria attenzione altrove. Quello del sesso, in Islanda, è un problema. Forse Bataille, o qualcuno con un cognome francese, i francesi vanno forte in queste cose, aveva detto che se l’uomo non canalizzasse le sue energie nell’arte, nel lavoro, nella lettura, nella musica, passerebbe tutto il suo tempo a fornicare, come le scimmie. Ora, pur non capendo fino in fondo che cosa ci sia di male a fornicare e per quale motivo le scimmie debbano essere portate ad esempio negativo di una pratica così nobile, è pur vero che trascorrere tutto il proprio tempo, quel cono di luce che ci è data da vivere su questa terra, a intrattenere rapporti sessuali coi propri simili è abbastanza tedioso, e tende a ripetere le stesse cose all’infinito, da qui la necessità di occuparsi di trigonometria o di imparare a suonare l’ocarina. In Islanda è tutto molto più difficile, perché ci sono poche ocarine. Gli Islandesi hanno una passione neanche tanto sopita per il sesso, in tutte le sue finite varianti perché, spiace dirvelo, le varianti sessuali non sono infinite ma fanno riferimento a un catalogo variegato, mutevole, ma finito. Un Paese nel quale fa spesso freddo invita a starsene quasi sempre al chiuso, a uscire poco, anche perché se si esce c’è poco da

vedere, e se collochi un essere umano in un luogo chiuso per un numero crescente di ore al giorno inizialmente fingerà di lavorare, poi si farà un caffè, mangerà una banana, si renderà conto che in Islanda ci sono poche banane e le poche esistenti sanno di tonno, farà qualche telefonata a qualche sconosciuto, leggerà un giallo, leggerà la ricetta di una torta di mele, e cercherà di fare sesso con qualcuno. Le donne islandesi sono spesso bionde, spesso poco abbronzate, e spesso muscolosissime, perché l’Islanda detiene il maggior numero al mondo di atlete che si dedicano a una disciplina sportiva che coniuga perseveranza a necessità di sollevare sette tonnellate di ghisa ogni giorno, emettendo saltuari gridolini di soddisfazione. Questa disciplina si chiama crossfit, grossomodo ha qualcosa a che vedere col culturismo, con l’atletica pesante, col nuoto, col lancio del peso, con tutti quegli sport che implicano il sollevare quello che ti capita sotto le mani per un numero variabile di volte. Ebbene pur essendo un paese piccolissimo un numero statisticamente impressionante di donne islandesi si dedica a questa attività, che sottrae molto tempo da ogni altra attività criptoriproduttiva come il sesso; da qui la crisi del maschio islandese, che

come i veri maschi in crisi non sa di esserlo e non si interroga sul motivo che lo spinge a comprare maglioni tinta pastello e a tenere in casa una iguana come animale di compagnia. Voi dovete cercare di entrare nella intimità del maschio islandese che ha una compagna che pratica crossfit, e se volete entrarci dovete farlo in punta di piedi, data la delicatezza dell’argomento.

Tra il prognatismo di molti islandesi e i licheni pare certo esistere un rapporto diretto, il prognatismo non è genetico ma funzionale, gli islandesi ne soffrono perché passano troppo tempo a guardare i licheni, e questo è il risultato.

In Islanda il cerchio è quadrato o della geometria non euclidea

In Islanda molte delle comuni forme geometriche che conosciamo subiscono un ardito cambiamento, vuoi per i forti venti vuoi perché gli islandesi la geometria non sanno cosa sia. Il vento che spira tutto il giorno sulle brulle pianure islandesi ha la capacità di livellare e di schiacciare verso il basso tutto, pecore, uomini, macchine, alianti, ciclisti in gita di piacere e forme geometriche. Il cerchio si irrigidisce sugli spigoli e diventa un quadrato, il quadrato diventa un rettangolo e i triangoli li trovate solo in Norvegia, in Islanda non ci sono. Resta irrisolto il quesito su quelli che vanno in Islanda in bicicletta in gita di piacere ma non possiamo spiegare tutto, almeno non in questo capitolo. Altre forme geometriche che subiscono la scuola islandese della deformazione dei poligoni sono, soprattutto, gli esagoni. Un esagono islandese sfugge alla classificazione delle figure geometriche di Schafli e tende a una sua dimensione originale, gli

angoli crescono, raddoppiano, triplicano, diventano ottusi o acuti a loro esclusivo piacimento. In Islanda l’esagono è il poligono dell’anarchia. I pentagoni sono, sembra, scomparsi già dal tredicesimo secolo. Alcuni, rari, rettangoli sopravvivono in piccole comunità rurali che sono, purtroppo, talmente piccole che si dimenticano di essere comunità e diventano gruppi: all’interno di questi gruppi esiste sempre un sostenitore della ortodossia geometrica, un tardo euclideo che vive in frugalità con moglie, 12 figli e un numero imprecisato di capre che gli razzolano intorno, sempre che la capra islandese razzoli, essendo un animale dalle caratteristiche molto particolari.

La capra islandese è ontologicamente diversa da quella scozzese, con la quale condivide, è vero, una parte dell’apparato neurale, ma dalla quale è fortemente divisa dalla diversa gestione del latte di capra, suo prodotto tipico; quella islandese propende fortemente per una sua commercializzazione, mentre quella scozzese è ancorata a una sua distribuzione familiare o per pochi, selezionati intimi. Le capre sono solite pascolare in anelli di erba, privi di un vero recinto, essendo l’unico recinto ammesso per le capre

islandesi quello mentale, e questa incertezza dimensionale, questa anarchia poligonale conduce molte capre giovani a girare in cerchio, a volte a scontrarsi con capre più vecchie e più esperte, creando cefalee tensive nei pastori islandesi, che sono tre in tutto e si chiamano tutti Einarsson, distinguendosi tra di loro solo per il colore delle calze indossate. In estate, quando sono senza calze, sorgono problemi giganteschi.

Caramelle e semafori

In Islanda le caramelle si mangiano senza scartarle. Sempre. Come scelta quasi obbligata, cominciata per caso da un Islandese del Mesozoico, che chiameremo convenzionalmente ISLANDESE UNO o UGO, come preferite, e poi protrattasi nel tempo con la proverbiale rilassatezza e resistenza al cambiamento della popolazione islandese. Una volta venne abbandonato un bidone giallo della spazzatura a un incrocio di Kópavogur, la seconda città islandese per importanza, che ha in tutto sette incroci, il settimo è chiuso dal 1972, e nessuno lo toccò per 30 anni. Solo quando vi cadde dentro un turista giapponese, erroneamente convinto che si trattasse di una scultura della scuola del lichenismo, il bidone venne rimosso e il giapponese ricoverato. Questa proverbiale tendenza a lasciare tutto uguale a sé stesso si incarna plasticamente nell’approccio che tutti gli islandesi hanno nei confronti delle caramelle, consumate a decine di tonnellate ogni anno senza scartarle, se non per sbaglio o perché

si era distratti da una foca emersa dal water. In Islanda può capitare abbastanza spesso che una foca emerga dal water ma non è un problema, di solito, perché il simpatico focide, dopo essersi guardato un po’ intorno, se ne va. La attitudine, che è ormai diventata ethos popolare, di non scartare le caramelle affonda la sua origine non solo in un uso che è diventato, con gli anni, istituzionalizzato, ma anche perché la carta è la parte migliore della caramelle, essendo una delle caramelle più diffuse in tutto il paese una caramella al muschio, opportunamente trattato, come avvertono i produttori anzi Il produttore, essendocene uno solo in tutta Islanda. Per opportunamente trattato si immagina un muschio verde, di quel verde che esiste solo in Islanda, in pratica un verde squillante e a tratti insolente, che dopo essere stato immerso in grandi contenitori di legno di faggio viene mescolato, seguendo proporzioni e dosi del tutto casuali, con zucchero e sciroppo di ribes, fino a creare delle deliziose stalattiti dolciastre che vengono poi impacchettate in carta giallognola con scritto sopra caramella in islandese, e chiuse una ad una con dello spago. La chiusura è fondamentale, perché deve essere coperto il piccolo ciuffo

di muschio che avvolge la prelibatezza. Per questo motivo ci sentiamo di poter affermare con ragionevole certezza che è la carta, spago compreso, la parte migliore dell’oggettino. In Islanda i semafori sono tutti rotti perché tanto non passa mai nessuno. Non che non servano, ma sono quasi sempre rotti. In islandese semaforo si scrive umfer_arljós, per ovvi motivi si limitano a scriverlo e quasi nessuno lo pronuncia, preferendo optare per modalità comunicative metaverbali quali l’indice puntato contro la colonna semaforica rotta o un robusto movimento delle ciglia, che disegnano una espressione a metà tra il sorpreso e il risentito. Di fronte al semaforo, quasi sempre rotto come ricordato prima, esce la vera natura dell’islandese, il suo lato più oscuro, la sua parte meno lambita dai ghiacci perenni che lambiscono il suo corpo. Davanti al semaforo l’islandese è nudo. O nuda, nel senso che può succedere anche alle donne. Non si tratta solo di una nudità dell’animo ma anche del corpo, poiché essendocene pochi in tutto il paese la loro temporizzazione ha caratteristiche geologiche, e tra il rosso e il verde può tranquillamente intercorrere lo stesso periodo di tempo che separa il Neoarcheano dal Mesozoico, quindi perché

non approfittare per farsi una bella, rinvigorente doccia? E per fare la doccia anche in Islanda è necessario spogliarsi, possibilmente nel retro della macchina ferma al semaforo.

In assenza di bagnoschiuma ogni islandese è in grado di triturare alcune punte di lichene, mescolarle a del fango, e ottenere un composto gradevolmente pulente. Viene solitamente applicato su alcune, non tutte, le parti del corpo con particolare attenzione per le cavità ascellari. È dimostrato, non scientificamente perché la ricerca non venne poi finanziata ma da alcuni surveys condotti dalla stampa specializzata che gli islandesi possiedono le ascelle più pulite delle terre emerse non già perché non sudino ma perché la preparazione di cui si parlava più sopra ha un forte effetto urente, una volta applicata all’ascella crea da subito l’effetto di un corpo estraneo arroventato che abbia trovato rifugio lì sotto, e questo costringe gli islandesi ad allontanare le braccia dal corpo, girando come dei pinguini. Questa postura, apparentemente innaturale, permette anche un innalzamento significativo del livello di privacy personale. Alcuni islandesi quando si avvicinano ai semafori

fanno rumore, urlano, picchiano i pugni

contro le portiere che in alcuni rari ma documentati casi si aprono e fanno rotolare fuori l’islandese che stava facendo baccano, tutto questo perché in ogni islandese si nasconde un vichingo e i vichinghi non sapevano cosa sono i semafori e si mettono a urlare nel corpo di un islandese contemporaneo. Sono cose inspiegabili che però succedono, e la cosa peggiore che si possa fare davanti a una cosa inspiegabile è tentare di spiegarla, cosa che evitiamo di fare con la acribia che ci è propria; era da 43 pagine che cercavamo una scusa per poter scrivere acribia, è arrivato il momento.

Isafjördur

Un posto incantevole, una natura incontaminata, greggi di pecore congelate insieme ai loro conduttori, questo è Isafjördur. C’è un hotel, semideserto, con alcune sagome di cartone di clienti messi accanto alle finestre per non dare una sensazione di eccessiva desolazione, che viene infatti accresciuta da questi finti turisti di plastica. L’albergo è costruito su un piccolo terrapieno, un ex cimitero di aringhe, ed è realizzato con una serie di travi disposte a losanga sui tre lati dell’edificio, essendo il quarto lato instabile perché legato alla riproduzione in plastica di una nave vichinga a grandezza naturale: gli islandesi eccellono nelle riproduzioni a grandezza naturale di qualsiasi cosa, con una spiccata, a tratti incomprensibile preferenza per le navi vichinghe, che in plastica vengono benissimo. Esiste anche un ristorante, il Tjöruhúsid, che in islandese sta per la Casa incatramata, quindi se volete mangiare qualcosa dovete entrare in una casa incatramata, che non si capisce benissimo cosa sia e forse

è assolutamente preferibile non saperlo. La celebrità locale, perché ogni ombelico del mondo, per quanto piccolo, ha delle celebrità locali, oltre al cantante folk Mugison, che passa le giornate a fare il cantante folk, è l’unica impiegata della sola biblioteca esistente in paese, Inga María Gudmunsdóttir, che dopo aver provato vertici inscalfibili di noia dando in prestito lo stesso libro per 34 volte alla stessa persona, ha creato un sito internet, www.dressupgames.com, dove bambine di tutto il mondo possono vestire come meglio credono le loro bambole virtuali.

Un accesso medio di sette milioni di utenti al mese ha sconvolto la stessa bibliotecaria, che da mesi fissa un lichene senza proferire parola. Il proprietario della casa incatramata ha un nome, Magnús, e un cognome, Hauksson, e gira costantemente coperto da una giacca a vento rosa intenso, per essere visibile da tutte le angolazioni e soprattutto perché il suo ristorante, considerato uno dei migliori di tutta l’Islanda, non dispone di normali porte, quelle cose fatte con maniglie, legno e serrature, ma di porte a spinta, tipo saloon, che permettono alle folate dell’indomabile vento artico di congelare all’istante chi si sia seduto a meno di tre metri dall’ingresso.

Sono stati trovati due turisti francesi, semi assiderati, un architetto inglese con un pezzo di aringa nel lobo auricolare destro e un gruppo di turisti bergamaschi, che bevevano birra.

In Islanda le uova vengono guardate con sospetto perché tutti sanno da dove vengono, dal culo di una gallina, e lo spirito vichingo, che si riscopre spesso indomito, del grande guerriero che ha conquistato un pezzo di Europa che ora non c’è più non può mangiare il prodotto del culo di un animale, piuttosto si rivolge all’animale nella sua interezza, lo cucina con erbe e odori della foresta, lo fa marinare in brodi di ossa di alce ma l’uovo da solo lo perplime, e per dimenticarsene, per distruggerne la perfetta e indisponente ovalità fa una frittata, smaterializza l’uovo fino a farlo diventare una cosa completamente diversa.

L’Islanda è il paradiso delle frittate e delle uova che sono diventate qualcos’altro. Resta da chiedersi per quale motivo un uovo, nonostante la sua provenienza, possa essere considerato più pericoloso di un trancio di squalo marcio ma nessun islandese ha mai indagato sull’ano dello squalo laddove l’uovo lo ha da subito messo a disagio, a soqquadro emotivo. Una nota sessuologa islandese, Corinna

Samgusdottir, aveva elaborato una teoria psicologica molto pregnante relativa alla nascita e al conseguente sviluppo di questo sentimento di avversione tutto islandese per le uova, ma dopo essersi riletta aveva concluso che non voleva dire niente e aveva mangiato i fogli, 15, che contenevano la sua ricerca. Per una popolazione abituata a mangiare pezzi di squalo putrefatto 15 fogli sono una prelibatezza.

La vita dopo la morte ma non a Reykjavík

In Islanda nessuno pensa a una vita dopo la morte. Basta questa. Un pensiero che può sembrare banale ma che come buona parte dei pensieri banali non lo è affatto, contenendo in nuce immensi squarci di verità, quasi ustionante. La verità brucia, la falsità meno perché non te ne accorgi. Nessun islandese pensa alla vita dopo la morte perché teme la presenza del lichene eterno, il lichene dei licheni che avvolge ogni aspetto della vita dell’islandese moderno. Non si parla, infatti, di fiamme eterne, nella sfortunata ipotesi in cui si trovi in islandese che ha commesso qualche errore o sbavatura etica quale quella di rompere inavvertitamente un distributore di ghiaccioli gusto salmone e sentirsi poi in colpa per averlo fatto, anche se era sottopensiero, ma di licheni eterni, di una vita ultraterrena passata a contare quanti licheni sono spuntati tra le fessurazioni delle piastrelle in cotto della casa di campagna. Avrete spero notato, quasi certamente no ma noi siamo qui per

questo, per farvi notare le cose, come poco sopra si sia impiegata l’espressione “sottopensiero” per indicare un momento di traslucida assenza di ragione, in luogo della più consueta espressione “soprapensiero”: il fatto è che nella fitta rete neurale che adorna il capo dell’islandese medio il pensiero quando è assente, anche solo momentaneamente, non è mai sopra ma sempre sotto, come i montoni che non trovano una pecora adatta per l’accoppiamento. Uno degli elementi linguisticamente e concettualmente centrali della costruzione della psiche islandese, che come ricorda il grande studioso Olafur Furolainen “deve essere raccontata se no l’inconscio diventa preconscio e senza inconscio aumentano i disturbi digestivi” (qui l’originale, per i numerosi lettori che parlano correntemente la lingua islandese “segja _arf um sálarinnar a_ ö_rum kosti ver_ur me_ vitundin me_vitund og án me_vitundar eykst meltingartruflanir”) è debitore della sua origine alla ricerca, spasmodica, di una pecora remissiva che sia disposta ad accoppiarsi con un montone, in aree appositamente attrezzate per la salvaguardia della privacy, con staccionate e pareti di vetro non riflettente. Bisogna

altresì ricordare come il montone islandese sia di carattere indocile, sempre pronto alla rissa con i suoi simili, abbia il pelo spesso pieno di nodi inestricabili di consistenza quasi gommosa, e tenda a preferire una esistenza votata alla deboscia rispetto a una fatta di probità e rettitudine. Detto questo, chi siamo noi per esprimere giudizi su un montone. Se in Islanda ti dovesse capitare di trovarti di fronte a una porta la cosa peggiore che tu possa fare è agitarti, soprattutto se la porta è chiusa.

Probabilmente non si aprirà mai, ci sono altissime probabilità che sia una porta finta, una escrescenza del muro, una superfetazione del costruttore che se ne è dimenticato e l’ha abbandonata lì, ma agitarsi è completamente inutile. Accanto a ogni porta finta in Islanda esiste, infatti, una porta assolutamente identica perfettamente funzionante, che permette di accedere a una stanza vuota in cui non c’è niente e che a sua volta viene usata come intercapedine spaziale di comunicazione con il bagno. Le porte finte sono sempre collocate in prossimità del bagno perché essendo l’islandese medio una persona profondamente timida e introversa tende a camuffare il sacro momento della evacuazione, e riempie la

propria abitazione di un numero, di solito dispari, di porte finte messe accanto a un numero diverso di porte vere che portano, dopo un percorso di un paio di miglia, al bagno. Durante il percorso solitamente la croce rossa islandese ha approntato un numero, invero congruo, di punti di ristoro che distribuiscono piccoli snacks al gusto lichene, altamente proteici. Il bagno islandese si ispira ai principi cardine dell’isola, che tutti ignorano e che quindi vengono riassunti nei tre assiomi piccolo, buio e freddo. Il bagno deve essere piccolo per evitare di sottrarre spazio ad altri più nobili ambienti dell’abitazione, una dimensione media si attesta intorno ai 2 mq, buio per permettere al fruitore di concentrarsi meglio ed effettuare ciò che il suo corpo lo ha spinto a fare nel più breve tempo possibile, freddo per aiutare i tessuti a non perdere la loro originaria, magnifica tensione muscolare. Il freddo è salvifico, il caldo è mefitico, questo si legge nel Libro di Olafur, la bibbia laica islandese. In altri passi dell’opera si dice esattamente il contrario ma è dall’unione dei disaccordi che nasce l’accordo, come recita la pubblicità del Sindacato Metallurgici Islandesi, che conta ad oggi 7 iscritti e due scissionisti. In Islanda abitano, pensano,

mangiano, dormono e probabilmente fanno cose variamente interessanti un numero impressionante di psicologi, sembra attendibile la stima di uno psicologo ogni 3 abitanti. Il quarto abitante tende a non rispondere ai sondaggi. Lo psicologo islandese ha delle caratteristiche che lo differenziano in modo netto e irrefutabile da un suo omologo danese o francese o americano, la principale delle quali è quella del maglione: tutti gli psicologi islandesi indossano un maglione, e dal maglione il paziente può inferire una serie di informazioni fondamentali sull’ analista, che potrebbe farne tesoro e migliorare il suo approccio verso i pazienti, ma costoro essendo per definizione portati a pazientare non gli dicono niente, non leggono le centinaia di messaggi così abilmente nascosti tra le trame di un maglione con scollo a V, e proseguono, pazienti, a raccontare a uno sconosciuto che poi pagano per quale motivo si masturbano leggendo riviste sulla fecondazione in vitro delle renne. Tentiamo qui una classificazione, per sua natura superficiale e incompleta, dei diversi tipi di maglioni indossati dagli indagatori della psiche islandesi. Il gusto estetico dell’islandese è minato in origine dalla

mancanza di gusto di chi abita un’isola in cui il colore medio dei maglioni è un verde marcio stinto tendente al marrone chiaro molto usurato sui gomiti. Il colore dei maglioni islandesi segue il loro utilizzo, e le linee guida islandesi dettano norme stringenti in merito ai gomiti e ai polsi, che devono essere pre usurati perché tanto si usurerebbero col tempo, quindi molto meglio prevenire. Il già citato maglione con scollo a V è appannaggio dell’élite freudiana, poche decine di persone sparse in tutto il Paese che hanno compiuto studi all’estero, vivono in case con un salotto dotato di due divani messi esattamente uno di fronte all’altro, guidano una Volvo rossa e hanno un cucciolo di pastore belga affetto da incontinenza, che tende a pisciare su tutto quello che non si muove, fosse anche la gamba del vicino di casa: questo problema tende a presentarsi raramente perché il rappresentante di questa élite non ha vicini di casa vivendo in eleganti villette bifamiliari di legno giallo dipinte di verde. Sappiamo che sono gialle perché una delle porte che danno sul cortile posteriore è scrostata, e indoviniamo il colore sottostante, che è indiscutibilmente giallo. Classico caso di come una imperfezione del materiale conduca alla

verità delle cose, come direbbe a un suo paziente uno di questi psicologi col maglione con scollo a V. Il colore di questo capo identitario sarà sempre incerto, oscillando tra un sobrio marrone zoccolo di renna a un verde lemure, essendo i lemuri tra gli animali più amati dagli analisti freudiani, fondamentalmente perché i lemuri hanno la loro stessa mimica facciale e non indossano giacche. Altro tipo di maglione, altra categoria di analista, il maglione a collo basso, fatto della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni con la differenza che questo può prendere fuoco se sfregato con vigore. Il capo in oggetto è di schietta matrice lacaniana, il colore di elezione è il bianco e viene indossato spesso abbinato a una giacca a vento con ampio marsupio anteriore, nel quale il professionista colloca una nutrita serie di oggetti transazionali, tra i quali spicca di solito una pipa, uno scaldavivande rotto, un anello di plastica, un paio di occhiali da sole senza lenti, il cinturino di un orologio senza orologio. Questa ricchezza di elementi permetterà al professionista di essere sempre in contatto col suo Io profondo ed essendo un Io profondo islandese lo scaldavivande è indispensabile, peccato che sia rotto. Il punto focale di

questa tassonomia del filato è però rappresentato dal maglione che sta al vertice della piramide psicoanalitica islandese, il maglione a collo alto, altissimo, di pesante lana vergine, col disegno di una renna partoriente applicato a punto croce sul petto. Quale immagine più commovente e al tempo stesso vivificante, per un islandese, di una renna che partorisce? Un animale che è consustanziale al vissuto islandese, anche se in Islanda le renne sono quasi completamente scomparse, creando disagi e crisi di panico in tutto gli islandesi che affollano gli studi dei loro psicologi e assistenti psichici alla persona, non riuscendo a elaborare la scomparsa di un animale simbolo della loro esistenza. Le rane non sono in grado di sostituirlo, così come poco successo hanno avuto anche le capre, che lasciano l’islandese medio in una situazione di atonia vagale molto forte, non trasmettendogli sensazioni positive se non da morte. Le capre lo sanno e stanno ben lontane da tutti, guadagnandosi una fama ingiustificata di animali freddi e scostanti, trattandosi invece solo di istinto di sopravvivenza. Quando guidi in Islanda il tempo si dilata in modo talmente forte che anche se ti

sembrano trascorse 7 ore sei alla guida della tua auto a noleggio da non più di 23 minuti, che rappresenta il tempo minimo per un turista di raggiungimento della consapevolezza islandese, ossia il rendersi conto che si è in Islanda anche se si cerca di negarlo disperatamente anche a sé stessi, il tutto mentre guardi i paletti gialli che scorrono, testimoni muti, ai lati della strada che stai percorrendo. Ogni turista che si trovi in Islanda passa attraverso tre fasi, ben definite, che si applicano indistintamente a tutti i calcatori temporanei del suolo islandese, quello che trovi tra un ghiacciaio e l’altro. Fase 1 o dell’arrivo entusiastico. Arrivi in Islanda dopo aver visto su youtube documentari di inizio secolo nei quali facoltosi turisti, per lo più inglesi, arrivano in Islanda attratti dalla bellezza primigenia della Natura e dalla semplice e immediata simpatia degli abitanti, e appena scendi sul suolo islandese appoggi la suola della tua scarpa da trekking color prugna su una merda di cane islandese, originale: non trovi nessuno ad accoglierti con entusiasmo se non due poliziotti, disarmati, che fanno parole crociate in islandese e ti salutano con un cordiale ma sbrigativo cenno della mano con le palme rivolte verso di te,

antico segno di amicizia vichinga, per farti vedere che non hanno spade o pugnali nascosti. Dopo un’iniziale delusione, la speranza di incontrare qualche vichingo che cerca di dimostrarti il suo disappunto per la tua presenza è un desiderio neanche tanto sopito del tuo animo, giunge la fase 2 o della scoperta delle strade in salita. In Islanda tutte le strade asfaltate, non quelle sterrate o le capziose lingue di terra che scorrono tra i ghiacciai perenni del centro dell’isola, sono in salita, perché l’islandese deve avere la sensazione di doversi recare da qualche parte anche quando è in giro per fare solo due passi, a zonzo. Il camminare a zonzo non entra in alcun modo nel codice comportamentale vichingo, tutto deve avere un fine e una destinazione: la strada in salita rende il cammino più faticoso e più pregno di significato, anche, e lo ricordiamo ancora, se stai andando semplicemente in tabaccheria, cosa che molti islandesi fanno più di una volta al giorno. Dopo aver scoperto le strade in salita si è pronti per la terza e ultima fase, che arriva cronologicamente terza ma che, a ben vedere, accompagnerà il turista per tutto il tempo della sua permanenza in Islanda, la fase 3 o del rifiuto o di chi me l’ha fatto fare. Il rifiuto scatta in un

momento ben preciso, ossia quando al secondo o terzo giorno di permanenza il turista si affaccia alla finestra del suo albergo, vede una giornata di luminosità accecante, un sole alto in un cielo di un blu che solo in Islanda puoi trovare, un blu che è ai confini dell’arroganza, quindi esce avvolto da un turbine di garrula gioia e viene investito in piena faccia da un altro turbine, ventoso, che rischia di buttarlo a terra. In Islanda le giornate piene di sole capitano, non così spesso ma capitano, ma è un sole che illumina un’isola sulla quale soffia un vento fortissimo, che uno non nota solo perché ci sono pochi alberi, e quindi gli vengono a mancare dei necessari metri di paragone. Senza scomodare troppe saghe nordiche, sono moltissime e finiscono tutte male, non possiamo però non citare almeno le parole di Egill Skallagrimsson, uno scaldo e poeta di corte islandese morto da più di un millennio fa e personaggio curioso (alcune fonti ci dicono che una volta uccise più di 20 uomini armati con una sola mano e che oltre a uccidere tutta questa gente in una volta sola avesse anche capacità di guaritore) che nella sua Saga, ogni islandese morto che si rispetti ne ha una, scriveva che il vero vincitore dei duelli tra i guerrieri islandesi

non era uno dei guerrieri ma il vento, che decideva dove avrebbe dovuto infilarsi la lama della spada. Molto poetico, invero, ma poco pratico se il vento soffia dalla parte sbagliata. Una parte consistente di questa metanarrazione è ancora vividamente presente nel corpo di polizia municipale di Reykjavik, per i motivi che adesso andiamo a spiegarvi.

Reykjavik è uno dei pochi luoghi in tutta

l’Islanda nel quale ci sia un numero di case superiori alle 15 unità e anche se il suo nome in islandese significa baia fumosa, il che non sembrerebbe particolarmente beneaugurante, è una bella e lucente cittadina con tante piccole strade in salita, come ricordavamo più sopra, che non vanno esattamente da nessuna parte, un centro storico che nessuno ha capito ancora dove sia, un numero incongruo di pizzerie e un corpo di polizia municipale tra i più pigri del globo. È stata fondata qualche anno fa, nell› 874 per l›esattezza, da Ingolfr Arnarson che essendo sposato a Hallveig Frooadotir impiegava alcune ore della sua giornata per chiamare la moglie in modo corretto. Per cercare di distrarsi, lanciò in acqua i braccioli in legno del suo trono e rimase a guardare su quale costa si sarebbero fermati: lì fondò Reykjavik. Nel mentre poteva evitare di chiamare la moglie, fatto che lo rilassava molto. In tutta Islanda contiamo 850 poliziotti, per un totale di

16 pistole, forse 20, molti poliziotti girano armati di soli manganello e taccuino, e dei due l’oggetto più pericoloso è il taccuino, perché il poliziotto islandese è addestrato a una sola attività, quella di fare multe. La verità è che il poliziotto islandese ha perso, nel corso dei secoli, la pugnace aggressività e fierezza dei suoi avi vichinghi, ha perso quella furia incontrollabile che avevano i berserkers quando scendevano dalle loro imbarcazioni dalle pure zoomorfe, e quando esce dal bar dove ha consumato un tè verde non zuccherato, estrae il taccuino e fa multe. A tutto. Anche ai tavolini dei bar che stanno di fronte a quello dal quale lui o lei è appena uscito/a, e quando dico multa al tavolino intendo che il foglio giallo contenente i dati della contravvenzione non viene dato al proprietario del bar ma al tavolino che come tutte le cose inanimate, in Islanda, ha invece un’anima: ecco quindi l’equazione mentale che appare in tutto il suo fragoroso nitore nella mente del tutore norreno della quiete pubblica; se questo tavolino ha un’anima è anche in grado di essere il destinatario di una multa, perché se hai un’anima puoi pagare le multe o conosci qualcuno che lo possa fare al posto tuo. Si tratta di un perfetto esempio di logica nordica, e gli islandesi

anche se fanno fatica ad ammetterlo sono nordici, molto nordici, disperatamente nordici. È del tutto comprensibile che la multa elevata a un tavolino possa sembrare una cosa strana ma non è la prima né l’ultima cosa strana islandese.

Estetica islandese

Il gusto estetico dell’islandese è minato in origine dalla mancanza di gusto di chi abita un’isola in cui il colore medio dei maglioni è un verde marcio stinto tendente al marrone chiaro molto usurato sui gomiti. Il gomito dei maglioni viene spesso intinto, come un calamaio di un romanziere ottocentesco, nei piatti che vengono appoggiati da camerieri distratti su tavoli in legno di faggio ricoperti di plastica. Resta, inaudito, il mistero della plastica messa sul legno, ma qualche motivo, ai più sconosciuto, ci sarà. Spesso i gomiti del maglione che ricordiamo essere preusurati con ampie gore fittizie di utilizzo perché il maglione le ha anche se è nuovo affogano in uno dei presidi culinari di Islanda, la zuppa di funghi. La zuppa di funghi islandese è, di solito, fatta di funghi, anche se si narra di turbinose eccezioni rappresentate da lische di pesce, ossa tritate, caramelle; il sapore, anche in questi casi, non ne risente in modo significativo, convogliando le papille gustative del commensale

verso un classico, levigato monosapore lichenico-saprofitico. Quando è fatta solo di funghi, assume la consistenza di un budino allungato sul piatto, con alcune macchie che non sono macchie ma vestigia di funghi non completamente tritati, un po’ come le code dei cirripedi di Darwin, servono a ricordare che sotto quella superficie si annidano funghi veri, e raggiunge il suo apice gustativo se servita con una abbondante spolverata di parmigiano, ma il parmigiano, in Islanda, è una cosa strana. Presente solo in alcuni supermercati della capitale, viene venduto solo in graziose confezioni verde lichene, e collocato in aree del negozio dove non ti aspetteresti mai di trovarlo, tra articoli per la casa e il reparto cosmetici, dove viene spesso scambiato per deodorante ascellare o dopobarba. Il formaggio grana islandese viene venduto in blocchi a forma di cristalli di carbonio, per eccitare il geologo che è nascosto, neanche tanto bene, in ogni islandese del centro (tutti gli islandesi sono del centro perché a nord e a sud ci sono solo ghiacciai e una comitiva di turisti tedeschi che stanno aspettando di essere rimpatriati dalla tarda primavera del 1973) e ha un caratteristico sapore di renna, se no l’islandese non riuscirebbe

ad apprezzarlo. Il formaggio per secoli era considerato un cibo impuro, in tutti i cicli di saghe nordiche che rappresentano la forma principale di apprendimento dell’adolescente locale, che le abbandonerà poco prima di drogarsi, il formaggio è il prodotto di scarto degli animali, nessun guerriero impegnato in un duello per la difesa del suo clan mangerebbe mai formaggio ma solo carne rossa leggermente al sangue con un trito di cipolle e coriandolo, e non deve quindi stupire che ancora adesso questo alimento faccia fatica a farsi strada nel catalogo mentale dei cibi islandesi, tuttavia, con calma, pazienza e con sempre in mente il gusto della carne di alce bollita con contorno di carotine, in questi ultimi anni abbiamo assistito a quello che la stampa americana, sempre molto attenta a tutto quello che comincia per I, ha definito Icelandic parmesan renaissance, la rinascita del parmigiano in Islanda. Da alimento negletto e poco considerato è diventato un cibo alla moda, un ingrediente necessario che è stato uno dei motori della nouvelle vague di cuochi islandesi che hanno invaso il paese con le loro ricette straordinariamente coinvolgenti e innovative: ecco quindi i ghiaccioli di vitello al grana del giovane

Orre Sturessonn, dall’impiattamento

avveniristico non essendoci alcun piatto ma venendo serviti su stecchi di legno di faggio attorno ai quali viene avvolta della carne di vitello precedentemente marinata in un succo di limone e angostura mentre il grana, e qui irrompe tutta la genialità dello chef, viene diffuso a pioggia sulla schiena del vitello al pascolo, col piccolo problema che il vitello sarà pure un vitello ma non è scemo e quando sente che qualcuno gli spolverizza del grana sulla schiena già intuisce che questo prima o poi vorrà cuocerlo, e quindi, non essendo del tutto d’accordo, tende a scalciare. Sturessonn ha, in effetti, una gamba di legno e un braccio in stronzio, lega molto usata in Islanda per la creazione di arti artificiali, che è peraltro molto simile al calcio, come minerale, ed è quindi in argomento.

Tornando alla zuppa di cipolle, un altro astro nascente della scena culinaria islandese, Gestur _ór Jóhannsson, che come nastro nascente è nato da tempo avendo 78 anni ma in Islanda si fa tutto con calma, è solito servirla in ciotole eduli, tranquillamente mangiabili dal cliente insieme al loro contenuto: Jóhannsson ha pensato di realizzarle con un composto di riso nero e pinne essiccate di pescecane,

all’interno del quale versare una porzione abbondante di zuppa di cipolle insaporita al cardamomo. Solo dopo lo svenimento di 679 islandesi, in pratica un terzo di tutti gli abitanti di Reijkiavik, tutti uomini calvi, Jóhannsson ha capito che il cardamomo è antagonista del riso nero e tende a creare un pastone indigeribile, e per questo motivo ha accantonato momentaneamente la sua ultima creazione; alcuni giornalisti specializzati hanno messo in giro la voce, non si sa quanto verificata, che sta lavorando a una pizza triangolare con una pasta a base di nocciole tritate, carne di angus, kiwi: altro, al momento, non è dato sapere.

Quindi, viva il parmigiano e soprattutto viva il motto più famoso di Trekko Nirvalsson, il cuoco più famoso di Islanda

_a_ brag_ast ekki án mikils

che sarebbe più o meno, essendo l’islandese una lingua impossibile da tradurre se non sei islandese

non si dà sapore senza afrore

il che è assolutamente in linea con il piatto che ha reso Nirvalsson il cuoco più

famoso di tutta Islanda nonostante sia alto solo 1 metro e 39 cm., parliamo delle zampe di alce in composta di agave e lichene disidratato con topping di crema al tarassaco.

La storia delle case con il tetto ricoperto di erba non è del tutto vera e non è del tutto falsa, è una notizia verofalsa, essendo il verosimile inesistente, in Islanda. Il ghiaccio rende la verità più facilmente falsificabile del falso, quindi se ne usa di più: nonostante queste opinabili valutazioni epistemologiche, del tutto gratuite, alcune case islandesi hanno il tetto ricoperto di erba e altre no, in modo del tutto casuale. Dove manca l’erba si possono trovare

tegole rotte, tegole non rotte, tegole che si romperanno, gatti islandesi, in alcuni rari casi una o due galline.

Il gatto islandese

Prevengo la domanda che sento galleggiare nell’aria che circonda il lettore, come sono fatti i gatti islandesi e cosa hanno di diverso rispetto agli altri: la risposta è NIENTE, un gatto islandese è del tutto identico a un gatto non islandese, solo che miagola al contrario. Purtuttavia, essendo l’argomento di grande rilievo, ritengo utile collocare qui di seguito un piccolo, supponibilmente utile decalogo volto ad aiutare chi voglia riconoscere un gatto islandese da un felino che so, canadese, danese o turco

• il gatto islandese sarà sempre molto peloso, molto austero, molto annoiato dall’essere un gatto in Islanda dove c’è sempre troppo vento e non c’è quasi mai niente da fare;

• il gatto islandese odierà il pesce, in ogni sua forma e rara declinazione: avendo visto la luce in un posto in cui trovi pesce ovunque, avrà sviluppato un’avversione genetica verso il sogno di ogni gatto

continentale, e il suo gusto andrà verso dolci lievitati, piccoli pasticci di carne, polpette di gnu;

• il gatto islandese avrà in assoluto odio gli umani che lo nutrono, ma fingerà con estrema disinvoltura che ciò non sia vero; bella scoperta direte voi, questa è una cosa che fanno tutti i gatti, però il gatto islandese vi girerà con ostentazione le spalle e l’unica cosa che vedrete per buona parte della giornata sarà il suo nobile culo di gatto islandese;

• il gatto islandese spesso dimentica di essere un gatto e tende a considerare la sua posizione identica a quella di una foca monaca;

• il gatto islandese odierà il freddo, solo crescendo capirà di essere nato in un paese in cui il sole non c’è quasi mai e quando c’è è finto e quando è finto scalda pochissimo perché è accompagnato da un vento fastidiosissimo, e nei suoi sogni penserà di essere un gatto cubano, nonostante l’embargo e il traffico chiassoso dell’Avana;

• il gatto islandese amerà moltissimo i caloriferi e pochissimo i caminetti, che hanno la pervicacemente

disdicevole caratteristica di emettere, ogni tanto, dei fastidiosi lapilli incendiari che vanno a depositarsi spesso sulla sua schiena; il gatto islandese, come tutti i gatti del mondo, non ama particolarmente avere la schiena bruciata;

• il gatto islandese non farà mai le fusa, quelle che vengono ottusamente scambiate per fusa saranno solo manifestazioni di fame;

• il gatto islandese non vorrà essere chiamato FUFFY, PAFFY, PUFFY, TAFFY, TRIFFY o accozzaglie simili di vocali e consonanti: sa essere questa una caratteristica dei suoi padroni umani, quella di dare nomi di merda a lui e ai suoi simili, e sarà sua cura evitare con assoluta attenzione di rispondere a questi oltraggi etimologici;

• il gatto islandese apprezzerà le gatte islandesi solo in ambienti chiusi e riscaldati; non c’è una ragione al mondo per la quale un gatto islandese possa solo pensare di incontrare un suo omologo femmina in prossimità di un ghiacciaio o nel retro di una pescheria, luoghi che eviterà sempre;

• il gatto islandese apprezzerà le saune solo quando riuscirà a chiuderci dentro il suo padrone finto, perché il gatto islandese, come tutti gli altri gatti del mondo, padroni non ne ha.

Il caffè islandese

Forte, nero, con poco latte e servito in tazzine senza manico, perché una antica tradizione islandese risalente al ciclo di Edda dice che il caffè, per poter essere ben bevuto, deve essere accarezzato. Il ciclo di Edda è di qualche secolo, non pochi, antecedente la comparsa del caffè in Islanda, ma non possiamo mettere in discussione una delle opere che hanno forgiato il carattere nazionale islandese, che ha tra i suoi comandamenti quello di abbracciare il caffè prima di berlo. Questo abbracciare il caffè mentre lo si beve è straordinariamente poetico e incredibilmente ustionante, soprattutto quando non si tratta di caffè freddo, praticamente inesistente in Islanda, ma di caffè normalmente caldo, in certi casi bollente: abbracciare il bollore può essere complicato. I guanti di lana pesante che si trovano in tutti i bar islandesi servono essenzialmente a questo, a non creare ustioni di terzo grado alle mani quando si beve un caffè, spesso servito con delle astarpungar, deliziose, piccole frittelline

dolci che essendo unte con una quantità di olio sufficiente per fare muovere tre gru ferroviarie, tenderanno con ineluttabile fatalità a rotolare sotto il tavolo, in coppie di tre, e venire calpestate dall’avventore che starà cercando, con scarso successo, di togliersi i guanti di lana che stava usando per bere il caffè nero, bollente. I guanti sono di lana grezza, quella che crea quei leziosi pallini che si staccano in momenti diversi della giornata, che in questo caso sono vittima di un forte tropismo verso il liquido scuro che si trova nella tazzina, nel quale cadono con una certa immancabilità e si trasformano in zollette di zucchero pelose, non particolarmente dolcificanti. Solitamente appoggiati ai lati della tazzina, possono essere collocati anche al centro del tavolino, alloggiati in comodi contenitori a forma di verza, le famose verze islandesi, dai quali possono essere scelti con tranquillità da chi sta cercando di bersi il caffè: tutto un altro discorso è quello che riguarda il cappuccino, infatti evitiamo di farlo. Le frittelline dolci di cui sopra sono quasi sempre di forma circolare con alcuni cedimenti della struttura ai lati, il che le rende simili a siluri, se avete un passato nella marina militare, o supposte, se non avete un passato nella

marina militare ma vi siete messi o fatti mettere, almeno una volta nella vita, una supposta nel culo; questo perché la identificazione della forma presuppone la visione di forme simili viste in precedenza, lo dice anche Falcinelli.

Il pane del vulcano

In Islanda il pane viene cotto sotto terra, è marrone scuro e sa di pane ma anche di altro. Un modo tipicamente islandese di cuocere gli alimenti, in particolare il pane, è quello di metterli in una pentola chiusa, se ci si dimentica di chiuderla bene potrebbero cominciare a sorgere dei problemi, sotterrarla vicino a un forno geotermico naturale, aspettare circa 24 ore, dissotterrarla e vedere quello che è successo, cercando di evitare di farsi esplodere la pentola in faccia. Il pane cotto in questo modo viene chiamato il pane del vulcano (volcano bread o eldfjallabrauð in islandese ma per gli esseri umani che non amano le catastrofi vocaliche è meglio volcano bread), uno dei suoi massimi esperti islandesi si chiama Siggi, che vive accanto a 6 stazioni geotermiche e a due geysers.

Epilogo (non necessario)

Ciò detto, dopo avere elencato una serie di notiziole di vario ed irrilevante valore sull’Islanda, resta da rispondere a una piccola ma insidiosa domanda che non possiamo eludere, non tanto perché sia piccola ma in ragione della sua insidiosità, se l’Islanda è tutte queste cose, cosa dobbiamo fare, noi, con l’Islanda? Tenerla davanti a noi come segno di tutte le cose? Pensarla come obiettivo finale dei nostri pensieri quando i nostri pensieri parlano di spazio di verde di nuvole e di cielo? Pensarla come una nostra personale mostra del silenzio, una mostra inaugurata come un museo a cielo aperto? L’Islanda è questo e tutto il suo contrario, è spazio infinito e il bar più piccolo del mondo con un solo posto a disposizione, un monotavolo e un monobicchiere e un monobarista che, per pudore, quando ti siedi si gira dall’altra parte, è una serie incongrua di piccole casette di legno che penzolano davanti agli ingressi di tutte le abitazioni, una serie che è incongrua solo per un non islandese perché un abitante dell’isola ti guarderebbe

con le pupille dilatate, stupito del tuo stupore, e ti direbbe che sono le casette degli elfi, il popolo nascosto (l’huldufòlk) che vive insieme all’altro popolo, quello che non deve nascondersi, e che non gode del diritto di voto perché le schede per le votazioni non sono sufficientemente piccole, è un paese che non ha mai visto una zanzara in tutta la sua storia e che lascia i propri figli davanti alle porte dei bar mentre le madri entrano a bere un caffè, questo sia d’estate che d’inverno, per abituarli al clima e a stare da soli, è un paese in cui sembra che non ci sia vento solo perché non ci sono alberi (solo il 2% della superficie dell’Islanda è coperta da piccole e timide conifere) ma se esci senza pensarci rischi di essere sollevato da terra e trasportato in Norvegia senza pagare il biglietto, è un paese in cui il silenzio e la luce bianca, abbacinante, indefettibile, ti avvolge come la mano di un gigante e ti obbliga a pensare a che cosa sei venuto a fare al mondo. Solo questo, oltre alle caprette che ti guardano con ostentata indifferenza, dovrebbe spingerti a fare un giro in Islanda e se dopo esserci stato dovessi avere capito per quale motivo sei venuto al mondo e che posto devi occupare e anche, in casi eccezionali, se qualcosa di

tutto quello che ti circonda abbia un senso ebbene in quel caso basta alzare gli occhi al cielo, e ringraziare la prima nuvola, fatta di quel bianco assoluto che solo le nuvole islandesi posseggono, che ti passi sopra la testa; potrebbe sembrarti che la nuvola decida di rispondere al tuo ringraziamento ma se così fosse non me ne preoccuperei, sei pur sempre in Islanda.

ISLANDE. Quasi tutte

La lingua islandese

Gli islandesi e il cibo

Gli islandesi e la natura

Reykjavik, o della impossibilità di pronunciarne

il nome in modo corretto

Come tagliare a pezzi uno squalo prima di mangiarlo

L’hamburger di Reykjavik

Tè in Islanda

Il frigorifero in Islanda

Le porte islandesi

I tranci di salmone (cotti)

La televisione islandese

Le strade islandesi

Il nulla e il vuoto

Ghiacciai e caprette

Formaggi e simil formaggi

Il senso degli islandesi per il bello

Gli hotel a bolla, la foresta e i rumori che non si sa che cosa siano

La lingua islandese o dell’inferno in terra

Gli incroci in Islanda anche se poi parleremo di nuovo delle porte

Il kviomàgur o cognato di ventre

In Islanda il cerchio è quadrato o della geometria non euclidea

Caramelle e semafori

Isafjördur

Gli islandesi e le uova

La vita dopo la morte ma non a Reykjavík

I vigili urbani di Reykjavik

Estetica islandese

Il gatto islandese

Il caffè islandese

Il pane del vulcano

Epilogo (non necessario)

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