Nel mondo contemporaneo, parlare di bellezza significa misurarsi con una tensione continua tra conservazione e trasformazione. Il quinto numero del Focus Moda di Artribune nasce proprio da questa frizione: cosa significa oggi preservare la bellezza?
Il termine “preservare” presuppone un valore originario, una forma da custodire e tutelare. Ma il concetto stesso di bellezza è instabile, vulnerabile, in continua ridefinizione. Lo testimoniano le grandi mostre che ci accompagneranno verso — e nel — il 2026: dalla rivoluzione punk e dissonante di Dirty Looks, che riporta la moda contemporanea alla Barbican dopo otto anni, all’evocazione della bellezza grottesca e militante di Nan Goldin all’Hangar Bicocca, sino alla seduzione storica e cinematografica di Maria Antonietta al Victoria & Albert Museum di Londra. La bellezza che oggi scegliamo di proteggere è spesso imperfetta, disturbante, politicizzata. Eppure continua a rivelarsi essenziale. “Beauty creates beauty”, ha detto Giancarlo Giammetti ad Artribune, riaffermando la missione della Fondazione Valentino Garavani e Giancarlo Giammetti presso PM23: la bellezza come forza generativa. È questo il nodo cruciale su cui si interrogano moda, arte e cultura oggi. Tra eco-ansia, Olimpiadi in arrivo e dialoghi con l’intelligenza artificiale, la bellezza si frammenta e si moltiplica, ma continua a essere il campo di battaglia dove si gioca il nostro futuro estetico ed etico.
Adesso che abbiamo software per plasmare i nostri doppi digitali, perché dovremmo usarli per adeguarci a rigidi canoni? Indagando l’ossessione per quel modello unico e irraggiungibile, artiste come Arvida Byström, Ines Alpha e Harriet Davey ripensano la bellezza come creazione originale. Questo numero vuole dare voce a quella molteplicità di visioni. Non per definire cosa sia la bellezza, ma per raccontare come – e perché – continuiamo a cercarla.
■ Alessia Caliendo
INDEX N. 5
INTERVIEWS
Il grande fotografo Martin
10
Andreas Kronthaler per Vivienne Westwood by Alessia Caliendo
16 I tableaux vivants di Szilveszter Makó by Alessia Caliendo
Parr apre le porte del suo Grand Hotel by Alessia Caliendo 26 Nelle Marche debutta un laboratorio creativo al confine tra arte e profumo by Alessia Caliendo
28
Bellezza ai tempi del digitale. Com’è cambiata la percezione di sé by Aurora Mandelli
32 Un invito a vestirsi di sé stessi by Margherita Cuccia
OBSERVATORY
35
Moda al museo Le migliori mostre dell’autunno inverno by Vova Motrychuk
36
Stanze con memoria L’arte di accogliere secondo Starhotels by Giulio Solfrizzi
38
The Iconic Italian Brands in una mostra sull’identità dell’Italia by Lara Gastaldi
40 Bellezza in movimento dagli archivi di moda alla reinvenzione by Alessandro Masetti
42 Saving Grace by Alessia Caliendo
EDITORIALE
Il grande fotografo Martin Parr apre le porte del suo Grand Hotel
Moquette rossa, pannellature in finto legno, un pianoforte con fiori di plastica e una “Seaside View” da cartolina: al Neues Museum di Norimberga i fotolibri di Martin Parr (Epsom, 1952) diventano un albergo britannico da attraversare stanza per stanza. Con Grand Hotel Parr, al Neues Museum Nürnberg (NMN), in collaborazione con The PhotoBookMuseum, Colonia, per la prima volta l’opera dell’autore Magnum è letta quasi interamente attraverso i libri: circa 250 titoli fra reception, Reading Lounge, Bar, Souvenir Shop e sale tematiche. Gli abbiamo chiesto perché oggi il fotolibro, anche di moda, sia il mezzo più schietto per capire il suo lavoro. Le immagini sono curate da Nikita Teryoshin.
Il fotolibro è il medium più schietto ed efficace per leggere il tuo lavoro. Come avete progettato il passaggio dalla pagina all’itinerario “d’albergo”?
Non è stata una mia idea: la proposta è arrivata da Markus Schaden e dal team di The PhotoBookMuseum, e mi è piaciuta subito. In mostra non ci saranno solo libri, ma i libri sono il perno del percorso. È naturale per me: ho sempre usato il fotolibro per mettere in forma un’idea e costruire una narrazione. Qui quello stesso “montaggio” diventa spazio: entri in reception, ti siedi nella Reading Lounge, ti muovi tra stanze tematiche come faresti sfogliando capitoli. È un modo di far leggere le immagini rispettando il loro ritmo, senza obbligarle a diventare decorazioni alle pareti.
Quale ritmo di visione ritieni ideale perché un fotolibro “respiri” in uno spazio museale?
Per me un buon fotolibro ha tre ingredienti: un’idea forte, una narrazione solida e fotografie visivamente travolgenti. A questi aggiungo un design che rispecchi il tono del progetto, quasi a “fare eco” all’idea. Se questi elementi funzionano insieme, il ritmo viene da sé: il libro respira, che tu lo legga sul divano o dentro una Reading Lounge. Non cerco mai di forzare la velocità del pubblico: lascio che siano sequenza e accoppiamenti a dettarla.
Con Fashion Faux Parr (Phaidon) hai consolidato un linguaggio di moda radicato nel mondo reale. Quali criteri usi per tradurre questo corpus in forma di libro?
Negli ultimi venticinque anni ho cercato di portare il mio lavoro per la moda in situazioni ordinarie per renderle interessanti. In un libro cerco di conservare quell’attrito: alterno backstage e scena, faccio parlare gli abiti con l’ambiente e sto attento a non trasformare tutto in puro kitsch. Mi
interessa che la moda resti ancorata alla realtà, che le immagini possano funzionare anche fuori dai codici patinati.
La tua autobiografia visiva, Utterly Lazy and Inattentive, è uscita a settembre 2025. Che cosa può il memoir scritto che l’immagine non può e viceversa?
Sono due progetti separati. A volte il testo serve: chiarisce cosa sta succedendo e aggiunge contesto, e nei miei lavori più recenti l’ho usato un po’ di più. Ma il memoir segue la sua strada, fatta di parole e ricordi; la mostra e i fotolibri la loro, affidata alle immagini e alla sequenza.
Negli ultimi mesi hai pubblicato o rivisto libri che rieditano decenni d’archivio (No Smoking, fotografie 1970–2019; Pride, 2017–2024; Animals, 2025 — il tuo primo libro per bambini).
Quali regole ti dai quando ri-racconti materiale così esteso nel tempo e cosa cambia quando il lettore previsto è un bambino?
Quest’anno ho realizzato due libri per bambini, e mi ha divertito molto. La regola principale è attrarre subito: colore e luminosità aiutano a tirare dentro chi sfoglia. Poi, se uno vuole, sotto c’è quasi sempre un livello più profondo — a volte anche politico — ma non lo dichiaro in modo didascalico: preferisco che venga scoperto. Sulla riedizione dell’archivio, penso in termini di chiarezza e scorrevolezza: più che spiegare con molte didascalie, lavoro perché siano le connessioni visive a portare avanti la storia.
Sostieni da tempo il potenziale democratico del fotolibro. In che modo la mostra misura quella “democrazia” e cosa manca ancora alle istituzioni per rendere davvero pubblico l’ecosistema del fotolibro?
Credo davvero nel fotolibro: è il modo più diretto per un fotografo di formulare un’affermazione chiara e compatta sul proprio lavoro. Per questo, negli ultimi venti-trent’anni, l’interesse è cresciuto moltissimo. A Norimberga sono felice di mostrare una selezione ampia dei miei libri: lì vedi la democrazia del medium all’opera, perché il libro è accessibile, riproducibile, condivisibile. Le istituzioni? Possono fare di più proprio su accesso e fruizione, ma intanto mi entusiasma l’idea di portare i fotolibri dentro un percorso espositivo che li mette davvero al centro del museo.
■ Alessia Caliendo
Grand Hotel Parr photo by Nikita Teryoshin
Grand Hotel Parr photo by Nikita Teryoshin
Grand Hotel Parr photo by Nikita Teryoshin
Grand Hotel Parr photo by Nikita Teryoshin
Grand Hotel Parr photo by Nikita Teryoshin
Andreas Kronthaler per Vivienne Westwood
Il direttore creativo racconta come il lascito della stilista unisca moda, attivismo, archivi vivi e collaborazioni con le istituzioni.
Innsbruck, 1966: nasce Andreas Kronthaler, stilista nonché partner creativo e marito di Vivienne Westwood. Dopo aver studiato arte e design, ha incontrato la creativa britannica negli Anni ‘80 mentre frequentava l’Università di Arti Applicate di Vienna. Così iniziano a lavorare insieme, diventano una coppia di fatto, Kronthaler prosegue nel ruolo di direttore creativo del marchio nel 2022, alla morte della fashion designer. E così contribuisce a mantenere viva l’estetica provocatoria del brand, promuovendo uno stile che fonde elementi storici, teatralità e una forte sensibilità politica quanto sociale.
Per lei tutto parte dall’idea di moda come pensiero, tradotta in un sostegno concreto dell’arte contemporanea.
Sono appena tornato dal gala dell’amfAR di Salisburgo, dove abbiamo lavorato alla creazione di costumi per l’opera Jedermann, partendo dagli abiti originali del dipartimento costumi del Festival di Salisburgo, poi venduti all’asta a beneficio della causa. I pezzi sono stati smontati, combinati, ricuciti e mescolati con elementi delle collezioni attuali per raccontare una nuova storia nel nostro stile. È stato un privilegio lavorare con i costumi, scoprirne i segreti e, soprattutto, raccogliere fondi per amfAR. Il teatro è vitale. Noi scegliamo progetti che supportano la cultura e l’attivismo in modo autentico per la maison.
Da anni la maison intreccia attivismo e business. Come rispondete alla tensione tra attivismo e vendite che riconosce essere un equilibrio delicato? Usiamo il nostro lavoro per trasmettere messaggi. Lo slogan preferito di Vivienne, “Buy Less, Choose Well, Make It Last”, rimane la filosofia più importante della maison. Si tratta di prestare attenzione, essere consapevoli, acquistare un grande capo che amerai per anni. È una questione di rispetto per Madre Natura: la prima regola del ridurre, riutilizzare e riciclare è rifiutare. Le strette relazioni create da Vivienne nel mondo della beneficenza e dell’attivismo proseguono ancora oggi. Questa capacità di unirsi sotto obiettivi comuni crea comunità, e le comunità sono una fonte enorme di potere per il cambiamento.
Nelle sue dichiarazioni emerge anche una vena collezionistica (Art Nouveau, porcellane, orologi) e, nella sua biografia familiare, un forte rapporto con l’artigianato e la materia.
Sono sempre molto attento a come vengono fatte le cose; per me è quasi più importante di come ap-
paiono. Tutto si alimenta a vicenda, tutto è connesso: il libro che leggi, la mostra che visiti, il viaggio che fai. Tutto accade dentro di te. Non sai mai come e quando emergerà, ma tutto è importante. Ad esempio, a bbiamo contribuito con alcuni look alla nuova mostra Marie Antoinette Style per il V&A e a Desire and Decay in Fashion al Barbican. Si tratta di condividere il proprio lavoro con il mondo e di cogliere l’opportunità di collaborare con istituzioni culturali.
Ad esempio, le aste di Christie’s hanno destinato risorse alla Vivienne Foundation, ad Amnesty, a MSF e a Greenpeace. Cosa avete imparato sulla governance del mecenatismo di una maison?
Siamo stati molto fortunati a poter lavorare con il fantastico team di Christie’s per realizzare questo progetto irripetibile. Una delle cose più belle è stata dare ai vestiti una seconda vita. Alcuni acquirenti erano istituzioni artistiche: i capi diventeranno parte delle loro collezioni permanenti. Un’altra cosa straordinaria è stata che oltre 20.000 persone sono passate dalle porte di Christie’s per visitare la mostra che abbiamo allestito per l’asta. Il nostro sogno sarebbe creare una risorsa educativa permanente per il pubblico.
C’è una mostra itinerante, Vivienne Westwood & Jewellery, che presenta i pezzi come objets d’art. Quale modello culturale propone per la maison: museo diffuso, archivio vivente o piattaforma curatoriale?
La mostra è pensata per raccontare la nostra storia, che supera i trent’anni, nel design di gioielli. Lo desideravamo da molto tempo ed è un’esperienza emozionante poter documentare e dare forma a questo lavoro da condividere con il mondo. Ti offre una prospettiva nuova: capisci e vedi ciò che hai fatto, e questo ti aiuta ad andare avanti. Quale ruolo attribuisce oggi all’archivio?
Abbiamo sempre mantenuto un archivio, strumento fondamentale nel nostro processo. Ci metti dentro le cose e, quando ne hai bisogno, le prendi e le usi per ciò su cui stai lavorando. È il luogo dove conservi il lavoro.
■ Alessia Caliendo
Andreas Kronthaler photographed by Juergen Teller
L’artista mixed media Luca Anzalone (1995) firma per Artribune un progetto visivo che intreccia il suo processo creativo con l’approccio radicale al design di Vivienne Westwood. I collage si fanno dispositivi spaziali e dinamici per rappresentare i corpi come “masse viventi” di riferimenti storici, fotografie autobiografiche, pattern e texture delle collezioni Westwood, insieme a vernice spray, colori a olio e fili metallici.
Con il collage, Anzalone esplora una tridimensionalità che rompe i limiti bidimensionali della carta e suggerisce nuove profondità visive. Centrale è l’approccio DIY: ogni composizione nasce da pratiche sperimentali in cui le immagini vengono decostruite fino agli elementi essenziali — toni e linee — e poi riassemblate entro silhouette espressive. Il risultato sono immagini crude e vibranti, che abbandonano la struttura originaria per acquisire una nuova identità all’interno dei propri contorni.
A cura di ■ Alessia Caliendo
I tableaux vivants di Szilveszter Makó
Tra citazioni storiche e materiali di recupero, l’incontro, anche visivo, con Szilveszter Makó — artista ungherese che costruisce set teatrali con materiali riciclati e luce naturale — è un viaggio nella disciplina e nell’imprevisto, dove la “scatola” ordina e amplifica lo sguardo. Echi del Rinascimento, del Dada e del Bauhaus attraversano ritratti di Willem Dafoe, Cate Blanchett e Monica Bellucci.
La “scatola” è diventata un elemento iconico del tuo lavoro.
Per me è insieme costrizione e liberazione. Centra il soggetto e al tempo stesso lo amplifica, impedendo che l’energia si disperda nell’inquadratura. I miei sensi reclamano ordine: mi sento a mio agio nella disciplina dei confini. Un telaio geometrico mi permette di muovermi senza perdermi nell’apertura dello studio. È un rifugio, una struttura di messa a terra, una regola. Evolvo con
la scenografia in modo naturale. Gli elementi emergono e, quando non possono più essere reinventati, svaniscono lentamente. Nel tempo ho costruito strutture in molte forme, traducendo set più vecchi e dando loro nuova vita. Oggi il mio sguardo si è spostato verso il bidimensionale, dove le prospettive collidono e la cornice si appiattisce in qualcos’altro. Non so prevedere se e come la “scatola” si dissolverà. I miei set maturano con il tempo e con i motivi del quotidiano. So però che non inseguo l’eclatante: cerco la semplicità, e non c’è nulla di più semplice di una scatola.
Lavori su uno “spartito” rigoroso di gesti e pose, o preferisci lasciare spazio all’imprevisto? Ci sono pose che mi accompagnano da anni — le gambe spalancate, certe gestualità delle dita. Sono marcatori temporali di stagioni diverse della mia vita. Queste pose sono una base a cui posso sempre tornare: mi piacciono esteticamente, bilanciano la mia pratica e mi danno pace. Le inserisco in una storia per ancorare l’immagine. Detto questo, chiamo l’imprevisto. Sul set lascio un grande spazio alla spontaneità e lo proteggo con cura. Anche nel lavoro commerciale metto in guardia i clienti dall’essere troppo rigidi: occorre lasciare margine alla variazione. Il controllo eccessivo raffredda e calcola le immagini, togliendo senso. Un set deve respirare, evolvere, sorprendere persino chi lo sta creando. Quando entriamo in studio, tutto ciò che abbiamo preparato — oggetti di scena, costumi, progetti — si ammassa in una stanza. Mi piace
Acne Paper 2025 by Szilveszter Makó
vederli collidere. Ciò che immaginavamo non sempre vuole nascere nella forma prevista. A volte l’idea rifiuta la forma che le abbiamo dato: allora cambiamo, le diamo un’altra vita. Il momento più emozionante è proprio questo: partire dalla base delle pose e poi lasciare che l’imprevisto interferisca con la storia. È quella tensione tra controllo e abbandono a tenere vive le immagini.
Hai parlato di un processo di postproduzione “segreto”. È una ricerca di perfezione o un atto di sottrazione?
Io non lo chiamerei un “segreto”, piuttosto un processo non ortodosso, dispendioso in termini di tempo e ormai raro. Chi conosce la storia della fotografia analogica potrebbe riconoscerne i passaggi; per altri resterà invisibile, e preferisco così. La mia post-produzione non insegue la perfezione, ma l’idealizzazione. Preferisco sostare sul margine romantico dello sguardo, dove la realtà inizia a deformarsi. Inseguo l’ideale come gli antichi greci scolpivano il marmo: non copiando la vita, ma piegandola in forma di racconto. Non sento il bisogno di tenere uno specchio davanti al mondo e costringere le persone a confrontarsi con la sua crudezza. Voglio che le mie immagini respirino nel territorio in cui tornano i sogni e si sveglia l’immaginazione.
Fino a che punto sei disposto a “ferire” la bellezza per restituirle una verità?
Mi discosto dall’uso corrente della parola “bellezza”, perché per me è espansiva. Non martirizzo la bellezza: la trovo nell’unicità. Ciò che altri chiamano differenza o stranezza è spesso ciò che mi colpisce più a fondo. Quanto più qualcuno è distintivo e radicato nella propria identità, tanto più mi appare bello. Non mostro “verità”, perché non sono un fotografo documentario. Le mie immagini non sono specchi di ciò che esiste: appartengono a un’altra dimensione, il paesaggio della mia mente. Quando qualcosa mi attrae, mi chiedo perché mi sono fermato proprio lì, quale elemento mi ha attirato. Individuato quel dettaglio, lo porto nel lavoro e provo a farlo aderire alla mia estetica. Questo, per me, è davvero l’“ispirazione”: non copiare ciò che hai davanti, ritoccarlo e chiamarlo tuo, ma trovare il frammento che ti muove e costruirgli intorno un mondo nuovo.
La tua traiettoria visiva ha abbracciato il Rinascimento per poi aprirsi a Dada e Bauhaus. Nel mio lavoro i passaggi tra epoche e stili avvengono in modo naturale. Quando sento il richiamo di un nuovo periodo o linguaggio, cerco l’elemento che mi parla e poi rimodello l’esperienza secondo le regole che mi do, le restrizioni che mi impongo. La coerenza nasce proprio da quel confine auto-prodotto. Lo faccio in modo subconscio, come un’abitudine o un effetto del mio stato mentale. Dico spesso che il 95% di ciò che vedo non mi piace e solo il 5% sopravvive, ma quando raccolgo quei frammenti, l’esito è inevitabilmente mio. Per questo posso muovermi tra Rinascimento, Dada, Bauhaus o folklore senza perdere identità: l’identità viene dal filtro stesso, dalla disciplina, dalle restrizioni e dal mio modo di vedere. Questo viene talvolta scambiato per mancanza di studi, ma conosco le storie e le ideologie. Non comincio finché non comprendo il contesto sociale di quei movimenti. Semplicemente non traggo con me la teoria: porto con me l’impatto visivo. Prendo un frammento, lo filtro con il mio sguardo, incontro i miei confini, ascolto i miei giudizi, e diventa altro.
Quanto è importante per te che il pubblico riconosca citazioni e riferimenti nel tuo lavoro?
Io non faccio immagini per cambiare il mondo: le faccio per me. Sono le mie ossessioni rese visibili, il mio modo di esistere e di fare esperienza. È il desiderio di fabbricare ciò che vedo, anche se esiste soltanto nella mia mente. Mi stupisce di essere finito in quest’industria: sembra inatteso. Ma devo vivere, e come chiunque devo lavorare. Dubito che qualcuno possa guardare un’immagine dal mio stesso punto di vista; non è questione di ricordare il momento esatto, è che non ci sono parole che catturino ciò che percepisco nella fotografia: è un sentimento interno, intraducibile.
Hai ritratto figure come Willem Dafoe, Cate Blanchett, Monica Bellucci e Solange. Come costruisci il momento in cui il soggetto si affida al tuo sguardo?
Io non tratto le celebrità diversamente dagli altri: entriamo in studio da pari. Il set non è una gerarchia, è uno spazio di lavoro condiviso. Non avverto i confini di cui spesso si
parla: il timore di chiedere troppo o l’imbarazzo del come comportarsi. Queste cose non mi appartengono. Quando arrivano, spesso iniziamo a parlare di questioni insolite, cose strane che non ti aspetteresti tra due persone appena conosciute. Quell’onestà e imprevedibilità crea un terreno comune. Credo che li faccia sentire in buone mani. Lo ripeto: possiamo provare, spingerci in nuove direzioni, ma non c’è rischio. C’è sempre un senso, una logica, in ciò che chiedo. Con Willem Dafoe gli ho spiegato perché volevo costruire quella casa, da dove proveniva l’idea, cosa significava. Perché desideravo quella faccia, perché l’ho messo nell’angolo come un bambino in castigo. Una volta compresa la logica, si è affidato al processo. Raramente si resta estranei sul set: parliamo, ci connettiamo, scambiamo visioni. Non è questione di diventare amici, ma di creare una partnership temporanea, due persone fianco a fianco in totale apertura. Comunicazione diretta e senza filtri: è ciò che rende possibile l’immagine.
L’uso di materiali riciclati nei tuoi set è insieme una scelta etica e una firma estetica.
Non sono solo un bene per la terra, ma anche per il portafoglio. Se qualcosa non va sostituito e c’è una soluzione più economica, quella è la strada giusta. Troppo spesso si cerca la scorciatoia per arrivare prima. È la riluttanza a cercare, reimmaginare e riutilizzare che mi irrita. Lo spreco per comodità non ha senso. Lavorare con materiali riciclati richiede fatica: bisogna guardare, adattarsi, metterci impegno, e il lavoro guadagna un altro strato di significato. Valorizzo ciò che è più dispendioso in termini di tempo: il cartone come elemento base, il legno che ha già vissuto venti vite. È lì che sta la bellezza. È lo spreco il vero nemico della creazione.
■ Alessia Caliendo
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Nelle Marche debutta un laboratorio creativo al confine tra arte e profumo
Il progetto di Filippo Sorcinelli viene raccontato fotograficamente da Davide Sartori,
Premio Luigi Ghirri 2025
AMondolfo (Pesaro e Urbino), nelle Marche, prende forma una bottega contemporanea: produzione e galleria condividono spazi e tempi, facendo del lavoro il primo testo espositivo. Artribune ha intervistato la mente che c’è dietro al progetto, Filippo Sorcinelli, leader della profumeria artistica che per la prima volta ha “dialogato” con il suo paese d’origine nelle immagini di Davide Sartori, vincitore del Premio Luigi Ghirri 2025, nell’ambito di Giovane Fotografia Italiana del Comune di Reggio Emilia.
Perché inaugurare proprio a Mondolfo il tuo primo laboratorio di produzione e una galleria d’arte?
Tornare a Mondolfo è un fatto di radici. Lì ho mosso i primi passi, lì ho assorbito da bambino la dimensione del sacro che ancora orienta il mio lavoro. Questo rientro non modifica la traiettoria del brand: la rafforza, perché rimette al centro una continuità tra arti, musica e profumeria fondata su memoria e trascendenza.
Il laboratorio produce, la galleria espone: quali processi sono resi visibili e che tipo di fruizione intendi per il pubblico?
La contiguità tra stanze di lavoro e opere rende leggibile il nesso tra gesto artigianale e forma artistica. Chi lavora attraversa quotidianamente le sale espositive e riconosce nel proprio fare una stratificazione: persino la polvere, sedimento del processo, diventa parte del racconto. Al pubblico è offerta una fruizione di prossimità, che mostra i passaggi del fare e la loro traduzione in linguaggio visivo e olfattivo.
Che tipo di maestranze locali sono coinvolte e come immagini la trasmissione dei saperi?
Il coinvolgimento è progressivo e avviene sul lavoro. Non tutti arrivano
con dimestichezza rispetto al linguaggio dell’arte, ma qui si impara operando. Stiamo progettando una scuola-bottega, ponte tra Mondolfo e Santarcangelo, dove ha sede l’Atelier LAVS, altro mio progetto dedicato ai paramenti sacri, perché le Marche necessitano di una filiera strutturata del sapere artigianale orientata al fare.
Nel laboratorio, come si traducono le scelte operative nell’ottica di un’“economia della lentezza” applicata al profumo?
La lentezza è metodo. Si lavora con consapevolezza dei tempi necessari e si condividono le esperienze di ricerca maturate, così che l’intero team comprenda il senso di ciò che produce. È un rifiuto della bulimia dei contenuti: la lezione dell’arte sacra — minuzia e cura del dettaglio — orienta ritmo, processi e qualità anche nell’ambito della profumeria artistica.
Come rientrano Mondolfo e le Marche nella cartografia senso-
riale di sacrestie e reliquie rievocata nelle tue fragranze (penso anche a Reliqvia, Basilica d’Assisi, Tu es Petrus)? Il territorio è già presente nei progetti olfattivi. Reliqvia comprende anche una piccola chiesa di Senigallia, a pochi metri dalla storica tipografia legata a Mario Giacomelli. Santa Casa, nella collezione Memento, custodisce la memoria olfattiva della Basilica di Loreto. Diverse fragranze d’ambiente tracciano una passeggiata ideale dell’infanzia a Mondolfo. La galleria d’arte continuerà con capitoli dedicati al territorio.
Dopo progetti come Epicentro (sisma 2016, sostegno a Bolognola) o Notre-Dame 15.4.2019, il nuovo spazio prevede commissioni site-specific, borse per giovani artigiani, restauri o archivi del profumo legati a Mondolfo?
L’impegno resta filantropico e indipendente. Ho investito per accrescere la consapevolezza del valore locale, con difficoltà burocratiche e senza sostegni istituzionali. Non adotto mai metriche: misuro l’impatto attraverso partecipazione, trasferimento di competenze e capacità del territorio di comunicare il proprio operato.
■ Alessia Caliendo
in alto: Filippo Sorcinelli Headquarter. a destra: Filippo Sorcinelli. Courtesy by Davide Sartori
Bellezza ai tempi del digitale. Com’è cambiata la percezione di sé
Scansioni 3D, selfie filtrati, modelle IA. Con il suo nuovo photobook Fear of Mirrors l’artista Alba Zari interroga le modalità di auto-rappresentazione che abitiamo ogni giorno.
La paura di vedersi allo specchio si chiama eisoptrofobia. Ne soffrono diversi esponenti di Hollywood, tra cui Pamela Anderson - incredibile, ma l’attrice più radiografata degli anni ‘80 non ha mai amato la sua immagine.
IL SAGGIO
“FEAR OF MIRRORS”
È da lei e la sua fobia che prende il titolo il nuovo saggio visivo di Alba Zari, Fear of Mirrors, edito da Yogurt Editions e XYZ Books, con la curatela di Francesco Rombaldi. Un’indagine sulle forme di rappresentazione che adottiamo oggi per comunicarci - avatar, selfie, icone -, insieme al potere e ai limiti dei riflessi che abitiamo ogni giorno. In una delle scene più commentate di The Substance (2024) Demi Moore rimbalza davanti allo specchio per cambiare outfit, trucco, capelli. Si sta preparando per un date al quale non andrà mai, finendo per spalmarsi il rossetto su tutta la faccia in un gesto di disperazione. Non importa quanto bella possa apparire agli occhi altrui: quel riflesso non regge il confronto con l’immagine di sé nella sua mente, accesa e irraggiungibile. Ed è talmente frustrante, talmente spaventoso, da non riuscire ad uscire di casa. “Non siamo mai stati così perfettibili” osserva Sophie Gilbert in un articolo su The Atlantic dal titolo Reclaim Imperfect Faces. Mentre online modelle IA (inesistenti) raccolgono milioni di follower, milioni di utenti (reali) sottopongono la propria immagine - eletta a valuta di scambio dalla rivoluzione digitale e dai socialad un incessante auto-restyling.
NUOVI IDEALI DI BELLEZZA
Parola magica: “ottimizzare” - tempo, performance, aspetto. Tramite botox, chirurgia, Ozempic per chi può sostenerne il costo. Tramite filtri
e app per chi no. Del resto, non ci si guarda più allo specchio ma attraverso lo schermo: una superficie viva, retro-illuminata, che al posto di un volto restituisce uno spettro di possibilità. Quale scegliere? Zari mette al centro del suo progetto l’immagine femminile e il condizionamento sociale che la modella. Attraverso scansioni tridimensionali, selfie filtrati da cuori, fragole, fiocchi, screen del suo desktop (tra ricerche accademiche sull’oggettivazione sessuale nei media e la creazione di una bambola IA), l’artista evidenzia certe sottili dinamiche del web. Se da un lato la libertà di reinventarci all’infinito sembra autodeterminante, dall’altro gli algoritmi reiterano i soliti standard estetici omogeneizzanti. Per di più, a velocità accelerata: appena ti senti in pace col tuo aspetto, ecco un nuovo trend apparire sulla tua For You Page per ricordarti che, no, sei già obsoleta. Aggiornati. Segui il ritmo scandito dai trend: dai glutei à la Kim Kardashian alla magrezza 5.0, dal rimpolpare il volto al de-fillerare tutto.
IL FENOMENO
DISMORFOFOBIA
In questo flusso sfaccettato, fin dalle prime pagine del libro ci si chiede se il liberismo digitale non sia altro che una declinazione del patriarcato in alta definizione. “Alimentando continuamente la narrazione negativa su un difetto fisico, ci alleniamo a crederci e a prendere le distanze dalla realtà” spiega la psicoterapeuta Kimberlin Shepard. La dismorfofobiapatologia che porta ad essere ossessionati da presunti difetti fino a non riuscire a guardarsi allo specchio con oggettività - non è di certo una novità della digital era. È uno degli effetti dell’anoressia, ad esempio. Ciò che cambia oggi è l’incentivo al quadrato. Qualche anno fa si parlava di Snapchat Dysmorphia: ragazze che chiedevano interventi chirurgici per assomigliare ai propri selfie ritoccati. Poi è arrivato il filtro Bold Glamour di TikTok, capace di alterare pelle, occhi, labbra e lineamenti in tempo
reale, con un realismo tanto impressionante da far scattare restrizioni ai minori di 18 anni. In Fear of Mirrors, Zari non mira a fornire soluzioni o risposte, ma ci invita ad una riflessione aperta sulla società contemporanea: lo specchio si è finalmente frantumato o, piuttosto, si è moltiplicato imprigionandoci nei nostri mille riflessi? Che poi, specchio delle mie brame, “chi è la più bella del reame” non è mai interessato a nessuno.
■ Aurora Mandelli
THE INFLUENCE OF SOCIAL MEDIA AND CULTURAL IDEALS ON BODY IMAGE AND BODY DYSMORPHIC DISORDER
AUTHOR: Dr K.H. Hussain su Frontiers in Psychiatry, 2025
SAMPLE: 403 partecipanti statunitensi
METHOD: Screening con il Body Dysmorphic Disorder Questionnaire (BDDQ)
SOURCE: Frontiers in Psychiatry
13.2% dei partecipanti ha superato il cutoff del BDDQ, indicando sintomi compatibili con la dismorfia corporea.
3.7% ha ottenuto un punteggio positivo al BDDQ, escludendo le preoccupazioni legate al peso.
È STATA RISCONTRATA UNʼASSOCIAZIONE SIGNIFICATIVA TRA LA POSITIVITÀ AL BDDQ E:
Impatto negativo percepito dei social media (χ²(2) = 19,92, p < 0,001)
Pressione culturale percepita per raggiungere un aspetto ideale.
Un invito a vestirsi di sé stessi
Lo styling contemporaneo – sostenibile e consapevole – è una pratica sempre più diffusa in un’epoca in cui la sovrapproduzione e l’iperconsumo saturano il mondo della moda. Non è più un esercizio di estetica fine a sé stessa, che si limita ad abbinare abiti e accessori a trucco e parrucco, ma una forma di riconfigurazione creativa del guardaroba. Non richiede nuovi acquisti, ma uno sguardo nuovo su ciò che già possediamo. Significa riappropriarsi dei propri abiti: reinterpretarli, riscoprirli, modificarli, ma anche scambiarli
o venderli. Ogni capo torna a essere – come da sua natura – un oggetto vivo, trasformabile, capace di moltiplicarsi in combinazioni potenzialmente infinite – tante quante ne sappiamo immaginare. Il modo in cui un abito viene combinato, stratificato o persino sovvertito nel suo uso originario dice qualcosa di chi lo sceglie. Al centro non c’è più l’oggetto da possedere, ma il gesto di chi lo indossa e il modo in cui decide di farlo. È un linguaggio visivo che interpreta l’unicità, l’autonomia e la bellezza soggettiva di chi lo pratica.
IL SIGNIFICATO
DELL’ECO-STYLING
Oggi preservare la bellezza significa dare valore proprio a questa unicità. In un contesto dominato dall’omologazione dei social, dalla velocità produttiva e dall’accumulo compulsivo, la bellezza si manifesta nel prendersi cura: dei materiali come delle narrazioni che attraversano i tessuti, delle mani che li hanno creati o le menti che li hanno ideati e delle storie di chi li ha indossati prima di noi. È una bellezza che non si misura nella novità, ma nella profondità. Lo styling consapevole invita allora a un cambio di prospettiva in un mondo che ci abitua a cercare la bellezza altrove, fuori di noi – nei modelli irraggiungibili, nella ‘perfezione’ da replicare. Fare o seguire pratiche di styling ci spinge a rivolgere
lo sguardo verso di noi. Così ogni combinazione diventa una dichiarazione di indipendenza dai canoni imposti, un esercizio quotidiano di auto-rappresentazione critica. È questo, in fondo, uno dei ruoli fondamentali del vestire: esprimere sé stessi, dando forma – ogni giorno – a un’estetica personale, fluida, in divenire. Un approccio che prende forma attraverso esperienze eterogenee, capaci di intrecciare tecnologia, cura artigianale e trasformazione personale. Tre esempi affini nell’intento lo raccontano bene.
LOOK @ THE LABEL
a sinistra: Layla Sargent, fondatrice di The Seam.
Courtesy The Seam
sotto: Jennifer von Walderdorff, fondatrice di Look @ The Label.
Ph.Jennifer von Walderdorff
La styling app incentrata sulle forme del proprio corpo è uno strumento digitale che invita a riconsiderare il proprio stile non come adesione a una norma prestabilita, ma come esplorazione personale. L’app si basa su tre passaggi – misurare le proprie forme, caricare i propri abiti, creare i propri outfit – attraverso cui valorizzare i capi che già possediamo in relazione alla nostra forma fisica e al nostro quotidiano. L’obiettivo non è costruire il guardaroba ideale, ma scoprire possibilità nuove dentro quello reale. Ideata da Jennifer von Walderdorff, l’app include anche percorsi di coaching, valutazioni personalizzate e consulenze di stile: dispositivi che, invece di suggerire cosa acquistare, aiutano a capire cosa già parla di noi.
SOPHIE STRAUSS
Styling per persone normali. Con base a Los Angeles, Sophie Strauss propone un’idea di styling radicalmente inclusiva, pensata per chi spesso si sente escluso dalle estetiche dominanti. Il suo lavoro si rivolge a chi vive un cambiamento – di corpo, identità, lavoro, vita – e desidera ristabilire una relazione sensata e sensibile con il proprio guardaroba. I capi vengono riconsiderati e adattati e lo spazio dell’armadio si trasforma in terreno di rielaborazione. Le sue consulenze – anche a distanza – si accompagnano a corsi, handbooks, wedding styling e sessioni di “closet cleanout”, dove l’atto del selezionare diventa pratica di cura. Non si tratta di cosa indossare, ma di come utilizzare ciò che si ha, ogni giorno, in modo più consapevole.
THE SEAM
Riparare per prolungare il senso delle cose. The Seam è una piattaforma nata nel Regno Unito, fondata da Layla Sargent, per facilitare l’incontro tra persone e artigiani del riparo. Dall’aggiustare una zip al ricostruire un maglione, dal rinnovare una borsa al sistemare un orlo, ogni intervento diventa parte di una narrazione materiale che non elimina le tracce del tempo, ma le integra. Non si tratta di tornare allo stato originario del capo, ma di accompagnarne l’evoluzione. La riparazione si configura così come una pratica di styling a tutti gli effetti: creativa, intenzionale, affettiva. Restituisce valore a ciò che già possediamo e sposta il desiderio dall’acquisto alla cura per ciò che amiamo.
■ Margherita Cuccia
Sophie Strauss, stylist. Courtesy Sophie Strauss. Ph. Sandy Honig
Moda al museo Le migliori mostre dell’autunno inverno
BLITZ: THE CLUB THAT SHAPED THE '80s, DESIGN MUSEUM, LONDRA
Gli anni ’80, tornati di moda per l’eccesso e il power dressing, rivivono al Design Museum con la mostra Blitz: The Club that Shaped the ’80s. Dopo quasi 40 anni di chiusura, il famoso club londinese si riapre per mostrare il luogo e le persone che non solo hanno formato la moda britannica di quegli anni ma anche lo spirito. Il leggendario locale londinese “Blitz” era frequentemente visitato da giovani artisti di nuova generazione: da fashionisti a cineasti. Fu epicentro della scena creativa frequentata da giovani stilisti, artisti e cineasti. L’esposizione parla dell’epicentro stravagante inglese attraverso 250 oggetti tra abiti, accessori, poster, strumenti musicali e riviste. In programma dal 20 settembre 2025 al 26 marzo 2026.
WESTWOOD | KAWAKUBO, NATIONAL GALLERY OF VICTORIA, MELBOURNE, AUSTRALIA
Nate un anno una dopo l’altra, le due grandi designer del nostro contemporaneo vengono omaggiate nell’omonima mostra a Melbourne. Vivienne Westwood, nata nel 1941, e Rei Kawakubo, classe 1942, saranno messe a confronto nella mostra Westwood | Kawakubo. La nuova esposizione esplora le affinità e le differenze di due linguaggi apparentemente opposti, ma accomunati da ribellione e anticonformismo. Una storia attraverso 140 capi: 80 provenienti da musei e gallerie internazionali (Met, Palais Galliera, V&A, ecc.), 40 donati da Comme des Garçons alla NGV. Inoltre, verranno anche esposti alcuni capi anni ‘70, altri della collezione Westwood Anglomania e altri ancora della cantante Rihanna e dell’attrice Sarah Jessica Parker. Ritenuta una “blockbuster exhibition”, sarà visitabile dal 7 dicembre 2025 al 19 aprile 2026.
AZZEDINE ALAÏA
E LA PASSIONE PER LA MAISON
DIOR
Due icone della moda francese si incontrano nel cuore di Parigi per dare vita a una mostra d’eccezione: dal 1° dicembre, la Galerie Dior ospiterà una mostra unica, curata a partire dagli archivi personali di Azzedine Alaïa — con la collaborazione della Fondation Azzedine Alaïa — e dedicata all’eredità creativa di Christian Dior. In esposizione, circa 30 capi storici collezionati dallo stesso couturier che nel 1965 lavorò per pochi giorni all’interno della maison, in Avenue Montaigne. Da allora, il designer franco-tunisino sviluppò un profondo legame con l’universo Dior, raccogliendo nel tempo creazioni firmate non solo da Christian Dior in persona, ma anche dai suoi successori. Tant’è che, affascinato dal genio dei suoi colleghi, Alaïa dedicò gran parte della sua vita alla conservazione della moda, selezionando e archiviando con cura quei pezzi che considerava autentiche opere d’arte. Oggi raccolti dallo storico e curatore Olivier Saillard in un’occasione imperdibile per riscoprire il dialogo tra due leggende della Haute Couture.
CATWALK: THE ART OF THE FASHION SHOW, VITRA DESIGN MUSEUM, GERMANIA
Le sfilate di moda rappresentano uno dei mezzi più potenti per comunicare con il grande pubblico. Nate originariamente come strumenti funzionali alla presentazione delle collezioni dei brand, a partire dagli anni ’60 si sono trasformate in veri e propri spettacoli. Dal 18 ottobre al 16 febbraio 2026, il Vitra Design Museum di Weil am Rhein, nel sud-ovest della Germania, ospiterà la mostra Catwalk: The Art of the Fashion Show. Un’esplorazione visiva e storica del fenomeno della sfilata, che ripercorre oltre 100 anni di fashion show: dai défilé teatrali di Alexander McQueen alle messe in scena drammatiche di Chanel, fino alla spettacolare sfilata di Fendi sulla Grande Muraglia Cinese. Secondo i curatori, la mostra non si limita a celebrare l’estetica delle passerelle, ma intende anche indagare il legame profondo tra la moda e le dinamiche sociali del nostro tempo. Che cosa raccontano davvero le sfilate? Quali miti, valori e sogni mettono in scena? E soprattutto, cosa rimane essenziale in un mondo sempre più dominato dall’immagine?
GLI
ANTWERP SIX
AL MUSEO DELLA MODA DI ANVERSA
Anversa occupa un posto speciale nella storia della moda contemporanea. È proprio qui che sono cresciuti e si sono formati i sei celebri fashion designer belgi noti come Antwerp Six. Laureati all’Accademia Reale di Belle Arti di Anversa. Nel 1986, Dirk Bikkembergs, Ann Demeulemeester, Walter Van Beirendonck, Dries Van Noten, Dirk Van Saene e Marina Yee portarono la loro visione radicale a Londra, trasformando Anversa in una nuova capitale della moda. Grazie a un’estetica sperimentale e anticonvenzionale, in netto contrasto con le tradizioni italiane e francesi dell’epoca. Per celebrare l’anniversario di quella svolta culturale, il Fashion Museum Antwerp (MoMu) inaugurerà una grande mostra dedicata agli Antwerp Six, definiti dal direttore del museo Kaat Debo come “i protagonisti che hanno plasmato la storia recente della moda”. Visitabile dal 28 marzo 2026 al 17 gennaio 2027, si preannuncia come uno degli appuntamenti imperdibili del calendario internazionale della moda.
Una “collezione” di luoghi di tutto rispetto che, anche grazie al nuovo Gabrielli, riscrive la storia dell’hôtellerie nel Bel Paese
Un tempo rifugio dell’anima per Franz Kafka, che da queste stanze affacciate sulla laguna di Venezia scriveva lettere d’amore a Felice Bauer, l’Hotel Gabrielli è tornato ad accogliere ospiti. Dopo oltre un secolo custodito dalla famiglia Perkhofer, questo palazzo risalente al 1856 apre una nuova pagina della sua storia entrando a far parte di Starhotels, primo gruppo privato alberghiero italiano già presente in città con lo Splendid Venice. Che adesso si forgia del panorama del Gabrielli che abbraccia San Giorgio Maggiore, Punta della Dogana e il bacino di San Marco.
IL FASCINO
DELL’HOTEL GABRIELLI
La sua posizione strategica, a pochi passi da Piazza San Marco e dai Giardini della Biennale, lo ha reso nei secoli crocevia di artisti, scrittori e viaggiatori. Difatti, il recente restauro, coordinato dal designer Andrea Auletta, ha seguito un approccio conservativo: lampadari di Murano, soffitti a cassettoni, colonne in pietra d’Istria e tonalità ispirate alla laguna si fondono con il comfort contemporaneo. Mentre il numero delle camere è stato ridotto da 105 a 66 per privilegiare ampiezza e luminosità, e molte offrono scorci sui tetti della Serenissima o sul giardino privato di oltre 600 metri quadrati, il più grande dell’isola centrale. Ma il cuore pulsante della nuova struttura è la Terrazza Gabrielli: 150 metri quadrati sospesi al sesto piano, con vista a 360 gradi che al tramonto si trasforma in uno spettacolo indimenticabile. A completare l’offerta, il Ristorante Felice al Gabrielli, il K Lounge Bar, una corte-giardino d’inverno e una SPA al piano nobile con hammam, sauna e trattamenti. Ogni dettaglio, dai pavimenti restaurati alle applique muranesi, è stato realizzato o recuperato grazie a maestranze locali, in piena coerenza con la filosofia del gruppo.
scopri di più su starhotels.com →
IL PROGETTO LA GRANDE BELLEZZA DI STARHOTELS
Questa rinascita è anche il simbolo di un progetto più ampio: La Grande Bellezza - The Dream Factory, iniziativa di Starhotels lanciata nel 2019 per sostenere l’alto artigianato artistico italiano. Voluta da Elisabetta Fabri, presidente e AD, la piattaforma riunisce istituzioni come l’Associazione OMA – Osservatorio dei Mestieri d’Arte e la Fondazione Cologni, premiando ogni due anni opere che esprimono eccellenza tecnica e creatività. Dal parato Selvatica di Fabscarte (2020) alla composizione floreale Primitivo di Andrea Bouquet (2022), fino all’Amphora di Cecilia Rinaldi (2024), il Premio La Grande Bellezza ha valorizzato interpreti capaci di coniugare radici e innovazione. L’impegno verso il “saper fare” si riflette anche nei progetti di restyling di altri indirizzi iconici, come l’Helvetia & Bristol di Firenze e l’Hotel d’Inghilterra di Roma, dove tessitori, vetrai e falegnami hanno contribuito a preservare il carattere degli spazi. Allo stesso tempo, Starhotels ha creato collezioni di home décor artigianali, come Cloris, servizio da tavola in vetro soffiato e lino, e Phoenix, fragranziere-scultura che unisce Murano, metalli cesellati a mano e profumi d’autore.
GLI INDIRIZZI DI STARHOTELS
Negli ultimi anni, gli hotel del gruppo si sono trasformati in “palcoscenici della bellezza” grazie a iniziative come le Craft Experiences, che portano gli ospiti nei laboratori artigiani delle città, e i Teatri di Bellezza, che espongono opere e oggetti acquistabili, riportando in vita lo spirito del Grand Tour. Il nuovo Gabrielli non è quindi solo un albergo, ma un tassello di una strategia che unisce ospitalità e cultura, rafforzando il legame tra l’Italia e il suo patrimonio di maestranze. Come la città che lo ospita, è un luogo che sa rinnovarsi senza perdere la memoria, proiettando nel futuro il fascino intatto della sua storia.
■ Giulio Solfrizzi
PLACES
Hotel Gabrielli Venezia - Starhotels Collezione Suite Lagoon View
The Iconic Italian Brands in una mostra sull’identità dell’Italia
Al Museo M9 di Mestre va in scena una celebrazione del Made in Italy attraverso i marchi più noti.
Non solo loghi e prodotti, ma un racconto corale dell’Italia attraverso i brand che hanno plasmato la quotidianità del nostro Paese. Dal 27 settembre 2025 al 15 febbraio 2026, il Museo M9 di Mestre ospita Identitalia. The Iconic Italian Brands, la mostra curata da Carlo Martino e Francesco Zurlo che ripercorre oltre cento brand iconici del Made in Italy. In un’intervista esclusiva, Serena Bertolucci, Direttrice del Museo, spiega come l’esposizione si inserisca nella missione culturale di M9, trasformando la storia industriale e visiva del Novecento in uno strumento per leggere il presente.
Un racconto che prende avvio dalla celebrazione dei 140 anni dell’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi, con lo scopo di intrecciare memoria e futuro e coinvolgere generazioni diverse, restituendo un mosaico completo della cultura italiana.
Come si inserisce la mostra Identitalia. The Iconic Italian Brands nel percorso espositivo e nella missione culturale di M9?
Questa esposizione è ideale per due motivi. Il primo è che per tema, taglio e modalità si inserisce perfettamente nella missione di M9: rendere quanto più accessibile la storia del Novecento
nella sua multidisciplinarietà. Non è possibile pensare al XX secolo in Italia senza valutare e conoscere lo sviluppo economico di questo paese, processo decisamente novecentesco. Il secondo motivo è che le nostre collezioni permanenti, con la loro attenzione alla storia materiale e ai cambiamenti della società italiana, si sono da subito dimostrati una perfetta amplificazione e valorizzazione dei concetti espressi in mostra; è davvero una affinità museologica elettiva, dove il permanente valorizza il temporaneo (e viceversa), senza forzature o sovrapposizioni, anzi amplificandone il respiro.
M9
M9 è stato definito “un laboratorio del contemporaneo”. In che modo questo progetto dialoga con il presente, pur raccontando la storia industriale e visiva del Novecento?
Questo è il grande impegno della public history; lavorare per rendere il passato comprensibile e rilevante per la società contemporanea, producendo e diffondendo la conoscenza. Ecco perché M9 è contemporaneo, perché lavora con la storia a favore del presente e perché lo fa con modi e linguaggi contemporanei, come nel caso di questa esposizione che, indagando alcune delle più importanti imprese e industrie italiane, parla in realtà del nostro modo di essere, alternando digitale e analogico in un processo armonico di accessibilità.
La mostra si struttura come un viaggio nella giornata tipo di una persona. Perché è stata scelta questa scansione temporale come chiave di lettura?
L’idea è una interessante intuizione dei curatori, i Professori Carlo Martino e Francesco Zurlo, che riesce davvero a mantenere alta la tensione narrativa dell’esposizione; più che un semplice elenco cronologico di industrie e prodotti, si è scelta una scansione temporale più accattivante e nello stesso tempo più pertinente. Il progresso, la visione industriale, il design ci sono prossimi, riguardano tutti gli aspetti della nostra vita, persino i nostri sogni e i nostri desideri. Credo che questo percorso sia in questo senso sorprendente e faccia davvero comprendere che la storia riguarda tutti noi, anche quando prendiamo un caffè!
Che tipo di impatto desiderate che abbia questa mostra sul pubblico, sia locale che nazionale?
“Identitalia” è una mostra che intende parlare a tutti, qualsiasi siano la provenienza e l’età dei visitatori. Spero sia una mostra capace di ispirare i più giovani e di attivare ricordi nei più anziani, per poi generare nuove energie. Mi auguro susciti grande interesse nelle scuole di ogni ordine e grado, per le quali stiamo attivando laboratori dedicati. Avremo anche un public program destinato al pubblico di prossimità con iniziative di approfondimento ad hoc. Insomma, confidiamo sia davvero una mostra per tutti e tutte.
■ Lara Gastaldi
PAROLA AI CURATORI
CARLO MARTINO & FRANCESCO ZURLO
1. L’anniversario dell’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi
Pensare ad una mostra sui grandi marchi del Made in Italy, immaginare cioè la messa in scena di un nuovo racconto sulle identità industriali e commerciali del nostro Paese [...] è compito complesso e allo stesso tempo ardito. Complesso poiché intorno ai marchi si condensano secoli di storia, saperi e vicende che attengono all’antropologia, al diritto, all’economia, alla sociologia dei processi culturali e comunicativi e, non in ultimo, al design ed alla più ampia cultura del progetto. [...] Ardito poiché, vista la numerosità delle entità coinvolte, [...] il rischio di incorrere in un racconto superficiale è molto elevato. L’occasione per realizzare la mostra Identitalia è stata suggerita da un’importante ricorrenza: la celebrazione dei 140 anni dall’istituzione dell’ufficio Italiano Brevetti e Marchi (UIBM).
2. Il Made in Italy tra storia e futuro
La mostra si pone come un’iniziativa per la valorizzazione dei grandi marchi del Made in Italy, in un’ottica non solo retrospettiva — attestata per esempio dalla partnership con l’Associazione dei Marchi Storici e dalla selezione di immagini di brevetti d’epoca — ma anche di visione, in cui le nuove tecnologie [...] e i nuovi media coinvolti nei processi di costruzione della Brand Equity, proiettano i marchi e le imprese nel futuro.
3. L’intelligenza collettiva dei brand italiani
Una rappresentazione della quotidianità che è come un mosaico con oltre 100 tessere che contribuiscono a comporre una possibile immagine della nostra storia e, come tale, ogni tessera/brand ha senso se collegata ad altre, dentro un quadro di riferimento che è sociale e culturale. Chi ricompone il puzzle, di fatto mette in scena le azioni previste, decise, calcolate, studiate dal creatore di quella composizione: qui non c’è un autore, bensì un’intelligenza collettiva che, a partire da una visione condivisa, emergente, unica, restituisce l’immagine di un Paese dinamico, dove le storie si intrecciano con i territori e le subculture degli stessi, alimentando gli ingredienti del successo di questi brand. Tali tessere raccontano un’altra storia italiana, attraverso i segni minori della vita quotidiana della gente [...] che vuole comprendere, attraverso artefatti e marche, le dinamiche culturali e sociali di un gruppo, di una subcultura, di una popolazione.
4. Il potere emotivo del “fatto a mano in Italia”
Questa mostra, dunque, vuole celebrare la vita minuta delle persone mettendole al centro. [...] I brand in mostra abilitano queste due capacità: da una parte favoriscono l’adesione ad un programma valoriale che raccorda ognuno di noi (simboli, risonanze, tracce, metafore, indizi) che rimandano ad altri simboli che la cultura e la storia di ognuno ha sedimentato. Diamo senso alle marche e alle loro narrazioni proprie — grazie alla possibilità di agganciare questi segni a segni che sono già in noi, sebbene talvolta ci si trovi di fronte a devianze positive, che non spiazzano ma che rilanciano su altri significati, su altre funzioni. E il legame che stabiliamo con questi segni, quelli delle marche in particolare, è di tipo affettivo, su un registro emozionale più che funzionale. (LG)
Archivio Gucci a Palazzo Settimanni a Firenze
Bellezza in movimento dagli archivi di moda alla reinvenzione
Preservare la bellezza significa riconoscerne la capacità di rigenerarsi, senza ridurre questo gesto di cura alla sola conservazione materiale. Archivi e musei della moda, infatti, non sono meri depositi di oggetti, ma fonti attive di ispirazione, capaci di trasformare tracce del passato in nuove forme e significati. La rubrica Wunderkammer, per il quinto numero di Artribune Focus Moda dedicato al tema Preserving Beauty, esplora una selezione di designer e pezzi d’archivio che testimoniano questo processo di continua riscrittura.
REINVENTARE L’ARTE
La storia dell’arte è sempre stata fonte di ispirazione per il prêt-à-porter italiano, con continui rimandi a stili, periodi e movimenti. Non sorprende che molti dei suoi protagonisti siano stati anche collezionisti, da Gianni Versace a Laura Biagiotti, fino a Valentino Garavani. Già agli albori del Made in Italy, il marchese Emilio Pucci mostrava come la bellezza potesse attraversare i secoli. Nella collezione Botticelliana (1959) infuse nuova energia nei capolavori del maestro del Rinascimento fiorentino, rielaborando graficamente con il suo tratto ironico le opere di famiglia, come la serie di Nastagio degli Onesti (1483). Tra le immagini che accompagnavano la collezione Siciliana (1955) spiccano invece gli scatti di una modella in bikini distesa sui mosaici romani di Piazza Armerina, ritratta come se stesse giocando a palla insieme alle donne del quarto secolo dopo Cristo, creando un cortocircuito visivo che attraversa i millenni.
In questo dialogo tra passato e presente, archivi e musei della moda assumono un ruolo cruciale, diventando laboratori di nuove possibilità. Quando un abito entra in queste istituzioni, il suo status cambia: da oggetto vissuto diventa documento storico e viene sottoposto a cure e restauri. Tuttavia le grandi mostre stagionali del MET e del Victoria & Albert Museum dimostrano che questi capi
non sono destinati a rimanere nell’oblio, ma attraverso la loro esposizione continuano a vivere con nuovi scopi, alimentando la cultura visiva dei visitatori e stimolando nuove idee di bellezza.
HERITAGE COME VALORE CREATIVO
Lo sa bene Frida Giannini, che durante la sua direzione creativa da Gucci (2006-2014) ha trasformato la storia del brand in uno strumento di rinnovamento attraverso la reinterpretazione di accessori cult e il recupero della stampa Flora, disegnata dall’illustratore Vittorio Accornero nel 1966 per un foulard da omaggiare a Grace Kelly. A questi progetti si affiancarono la pubblicazione di volumi fotografici celebrativi e l’apertura del Museo Gucci in piazza della Signoria a Firenze, gettando le basi per un modello di valorizzazione della bellezza che molte maison storiche hanno seguito. Il successore, Alessandro Michele (2015-2022), ha raccolto e rilanciato questo patrimonio con un approccio eclettico e inclusivo, rivoluzionando i canoni di bellezza e superando le convenzioni di genere radicate fino ad allora nell’abbigliamento, attraverso riferimenti alle decadi chiave del brand e alla storia del costume. Inoltre, nel 2021, in occasione del centenario della fondazione del marchio, ha inaugurato la nuova sede dell’Archivio Gucci a Palazzo Settimanni, nello storico laboratorio artigianale nell’Oltrarno fiorentino. A dimostrazione che, in un mondo in cui il nuovo nasce dal già esistente, preservare la bellezza significa darle nuove possibilità di vita. Archivi e musei non fissano un passato da contemplare, ma hanno il compito di rimetterlo in circolo come linguaggio, materia e immaginario. È in questa tensione tra memoria e reinvenzione che la moda continua a rivelare la sua capacità più autentica: trasformare la bellezza ereditata in una bellezza futura
■ Alessandro Masetti
SPAZIO ESPOSITIVO Saving Grace
Curated by ■ Alessia Caliendo
Francesca Allen
Cecilia Pignocchi
Bobby Beasley
Gabriele Barbagallo & Sofia Salerno
La bellezza, oggi, è terreno di scontro e di cura. Lo Spazio Espositivo di questo Focus Moda indaga che cosa significhi «preservarla», tra iconografie chiave, tecnologie dell’immagine e nuovi immaginari. Le pagine ospitano cinque opere editoriali inedite di fotografi e artisti, tra memoria, politica del corpo e futuro digitale.
WHO IS WHO
FRANCESCA ALLEN
È una fotografa e regista (1993), nota per rappresentazioni intime della girlhood e delle complessità del coming-of-age. Ha lavorato per riviste quali Dazed, British Journal of Photography, i-D e American Vogue; tra i brand con cui ha collaborato figurano Adidas, SSENSE, Nike, On Running, Chopova Lowena e Calvin Klein. Il suo lavoro è stato esposto in istituzioni tra cui la Somerset House e la The Photographers’ Gallery di Londra. Ha pubblicato i libri fotografici Plaukai (2025), I’d like to get to know you (2022) e Aya (2018). Vive e lavora a Londra. La sua fotografia costruisce ritratti ravvicinati e narrativi, attenti alla relazione con i soggetti e alle sfumature emotive del passaggio tra adolescenza ed età adulta.
CECILIA PIGNOCCHI
È un’art director e artista multidisciplinare classe 1991. Lavora tra fotografia, film, collage e illustrazione. Dopo otto anni in Wieden+Kennedy Amsterdam, nel 2023 intraprende un anno sabbatico da cui nasce la sua prima serie fotografica, Tempo Bello. Nel 2021 co-dirige il documentario Grottaroli, presentato al Tribeca Film Festival. Nel 2025 realizza Be Independent, progetto intimo sviluppato con la madre sul tema dell’identità femminile. Vive in Italia, alternando progetti commissionati e ricerca personale. Nelle sue immagini predilige linguaggi ibridi e una costruzione essenziale del racconto, mantenendo il dialogo fra esperienza privata e sguardo pubblico.
BOBBY BEASLEY
È un fotografo autodidatta, creativo e documentario nato nel 1982 e con base a Hull (Inghilterra). Il negozio di abiti vintage di famiglia, attivo nel centro cittadino da oltre quarant’anni, alimenta uno sguardo sul quotidiano: porta con sé la macchina fotografica, concentrandosi su familiari, amici e incontri casuali che catturano l’immaginazione. Predilige oggetti e situazioni note, usando flash e movimento per immagini caotiche e talvolta surreali. Ha esposto a Hull, Brighton, Parigi, Lille e Milano; sue fotografie sono state mostrate in grande formato nella
metropolitana di Parigi per Circulations 2021e, nel 2023, a Preston per il Lancashire Photography Festival. Tra le pubblicazioni: The New Yorker, MAPS, The Face, The New York Times, New York Magazine, Bon Appétit, Madame Figaro, More or Less, Die Zeit, Philosophie Magazine.
GABRIELE BARBAGALLO
È un artista visivo del 2001 la cui ricerca attraversa identità, memoria e l’impatto della tecnologia sulla percezione. Nel 2024 è selezionato per Ingenium, residenza e mostra in collaborazione con il Parco Archeologico del Colosseo a Roma, con pubblicazione Silvana Editoriale. Prende parte a Inside Out di JR al Museo del Novecento di Milano e a una residenza con Joan Fontcuberta presso il Museo di Storia Naturale di Milano. Nel 2025 il suo lavoro è presentato al MART – Galleria Civica di Trento. Ha partecipato a MEET Digital Culture Center, PhESTe al Festival della Fotografia Italiana di Bibbiena. È fondatore di Alt_Ra, progetto curatoriale e collettivo dedicato alla realtà aumentata, presentato con PhEST, INSIGHT e in altre sedi. Tra le personali: In the Name of Algorithm (Spazio Piera, Università di Trento) e la mostra vincitrice del Premio Francesco Convertini. La sua pratica intreccia fotografia, performance e media digitali, combinando tracce d’archivio e narrazioni speculative.
ALICE MURATORE
È una fotografa e artista visiva nata nel 2002. La sua pratica adotta un approccio transmediale che intreccia fotografia, performance art, installazione e videoarte. La ricerca, di taglio poetico ed esistenziale, attraversa i temi del dualismo tra vita e morte, del trascendente, dell’identità, della memoria e dell’interconnessione tra esperienza umana e ogni altra forma di vita e nonvita. Attraverso pratiche sperimentali e processi trasversali, in contaminazione con riferimenti filosofici, antropologici, ecologici e spirituali, il suo lavoro si muove lungo traiettorie liminali in cui il visibile si mescola all’invisibile, mettendo in luce nuove possibilità di percepire e abitare la realtà.