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ALESSANDRO MANZONI
I Promessi Sposi
Adattamento di Elena Frontaloni
Abbiamo preferito riportare il testo dei Promessi Sposi nella versione originale del 1842 perché il lettore si possa render conto di come una lingua si evolve negli anni.
Le espressioni usate dal Manzoni sono quasi tutte comprensibili, anche perché non è trascorso molto tempo da quando il romanzo è stato scritto (nei casi più difficili alcune note potranno essere di valido aiuto).
La selezione dei passi è stata effettuata con estrema cura. I brani riportati sono intercalati da brevi riassunti che consentiranno di seguire facilmente la trama del romanzo.
I personaggi
LORENZO TRAMAGLINO
Soprannome: Renzo.
Filatore di seta.
LUCIA MONDELLA
Filatrice e tessitrice in una filanda lombarda.
PERPETUA
Domestica di don Abbondio.
DON ABBONDIO
Parroco di campagna.
Madre di Lucia.
AGNESE MONDELLA
Frate da molti anni.
FRA CRISTOFORO
Donna che vive in convento per costrizione.
L’INNOMINATO
Tiranno famoso e dedito ad affari loschi e criminali.
Nobile che vive di rendita.
LA MONACA DI MONZA
DON RODRIGO
Capo dei bravi. IL GRISO
Capitolo I I luoghi, i tempi, gli onori
Il romanzo si apre con un’introduzione in cui il narratore, una voce dell’Ottocento, si rivolge direttamente a chi legge: dice di aver trovato un manoscritto di un anonimo autore del Seicento, una cronaca veritiera di fatti accaduti tra il 1628 e il 1630, e di aver pensato di ricopiarlo fedelmente per i contemporanei, tanto era avvincente e istruttiva la storia che vi si raccontava.
Copiate le prime pagine del manoscritto, il narratore afferma però di essersi indispettito e di aver interrotto il suo lavoro. La storia raccontata nel manoscritto gli sembrava sempre assai bella: una vicenda d’amore e di sopraffazione, di lealtà e di ingiustizia, dove le peripezie quotidiane di due persone umili si intrecciano con i grandi fatti e personaggi dell’epoca, ma lo stile dell’anonimo autore del Seicento gli appariva sempre più indigeribile: sguaiato, contorto, pomposo, privo di ironia.
Che fare? Il narratore c’informa di aver preso un’importante decisione: mantenere la trama del manoscritto, e però “rifarne la dicitura”, vale a dire lo stile.
Messe a margine le questioni teoriche, il narratore ci porta nei luoghi e nei tempi dell’azione. Siamo sul braccio sudorientale del lago di Como, nei pressi di Lecco, all’epoca del dominio spagnolo.
Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, viene, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prendere corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un’ampia costiera dall’altra parte.
Il ponte, che ivi congiunge le due rive, pare che renda ancora più sensibile all’occhio questa trasformazione e segni il punto in cui il lago cessa e l’Adda rincomincia, per ripigliare poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lasciano l’acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni.
La costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti, scende appoggiata a due monti contigui, l’uno detto di san Martino, l’altro, con voce lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in fila, che invero lo fanno somigliare a una sega.
Per un buon pezzo, la costa sale con un pendìo lento e continuo; poi si rompe in poggi e in valloncelli, in erte e in ispianate1, secondo l’ossatura dei due monti e il lavoro dell’acque.
Il lembo estremo, tagliato dalle foci dei torrenti, è quasi tutto ghiaia e ciottoloni; il resto, campi e vigne, sparse di terre, di ville, di paesi... in qualche parte boschi, che si prolungano su per la montagna.
1 In poggi e in valloncelli, in erte e in ispianate: in basse colline e piccole valli, ripide salite e pianure.
Lecco, la principale di quelle terre, e che dà nome al territorio, giace poco lontano dal ponte, alla riva del lago, anzi viene in parte a trovarsi nel lago stesso, quando questo ingrossa: un gran borgo al giorno d’oggi, e che si incammina a diventare città.
Ai tempi in cui accaddero i fatti che stiamo per raccontare, quel borgo, già considerabile, era anche un castello2 e aveva perciò l’onore d’alloggiare un comandante e il vantaggio di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli che insegnavano la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavano di tempo in tempo le spalle a qualche marito o a qualche padre; e, sul finir dell’estate, non mancavano mai di spandersi nelle vigne, per diradare le uve, e alleggerire ai contadini le fatiche della vendemmia.
Dall’una all’altra di quelle terre, dall’alture alla riva, da un poggio all’altro, correvano, e corrono ancora, strade e stradette, più o meno ripide, o piane; ogni tanto affondate, sepolte tra due muri, donde, alzando lo sguardo, non si scopre che un pezzo di cielo e qualche vetta di monte; ogni tanto elevate su terrapieni aperti, e da qui la vista spazia per prospetti3 più o meno estesi, ma ricchi sempre e sempre in qualcosa nuovi, secondo che i diversi punti piglian più o meno della vasta scena circostante, e secondo che questa o quella parte campeggia o si scorcia, spunta o sparisce a vicenda.
2 Castello: qui, fortezza militare.
3 Prospetti: panorami.
Capitolo II
Un uomo che sa il viver del mondo
Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell’anno 1628, don Abbondio, curato di una delle terre accennate di sopra: il nome di questa, né il casato del personaggio, non si trovano nel manoscritto, né a questo luogo né altrove.
Diceva tranquillamente il suo ufizio4, e talvolta, tra un salmo e l’altro, chiudeva il breviario, tenendovi dentro, per segno, l’indice della mano destra. Messa poi questa nell’altra dietro la schiena, proseguiva il suo cammino, guardando a terra, e buttando con un piede verso il muro i ciottoli che facevano inciampo nel sentiero: poi alzava il viso, e, girati oziosamente gli occhi intorno, li fissava alla parte di un monte, dove la luce del sole già scomparso, scappando per i fessi5 del monte opposto, si dipingeva qua e là sui massi sporgenti, come a larghe e inuguali pezze di porpora.
4 UFIZIO: le preghiere contenute nel libro pensato dalla Chiesa per la preghiera quotidiana del clero.
5 FESSI: aperture.
Aperto poi di nuovo il breviario, e recitato un altro squarcio6, giunse a una voltata della stradetta, dove era solito alzare sempre gli occhi dal libro e guardare avanti. E così fece anche quel giorno.
Dopo la voltata, la strada correva diritta, forse un sessanta passi, e poi si divideva in due viottole, a foggia di una ipsilon: quella a destra saliva verso il monte, e portava alla cura7; l’altra scendeva nella valle fino a un torrente; e da questa parte il muro non arrivava che all’anche del passeggiero.
I muri interni delle due viottole, invece di riunirsi ad angolo, terminavano in un tabernacolo, sul quale erano dipinte certe figure lunghe, serpeggianti, che finivano in punta, e che, nell’intenzione dell’artista, e agli occhi degli abitanti del vicinato, volevano dire fiamme; e, alternate con le fiamme, certe altre figure da non potersi descrivere, che volevano dire anime del purgatorio: anime e fiamme a color di mattone, su un fondo bigiognolo, con qualche scalcinatura qua e là.
Il curato, voltata la stradetta, e dirizzando, com’era solito, lo sguardo al tabernacolo, vide una cosa che non si aspettava e che non avrebbe voluto vedere. Due uomini stavano, l’uno dirimpetto all’altro, al confluente, per dir così, delle due viottole: uno di costoro, a cavalcioni sul muricciolo basso, con una gamba spenzolata al di fuori e l’altro piede posato sul terreno della strada; il compagno, stava in piedi, appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto. L’abito, il portamento, e quello che, dal luogo dove era giunto il curato si poteva distinguere dell’aspetto.
6 SQUARCIO: pezzetto di preghiera
7 CURA: casa del parroco (la canonica).
Non lasciavan dubbio intorno alla loro condizione.
Avevano entrambi intorno al capo una reticella verde che cadeva sull’omero sinistro, terminata in una gran nappa, e dalla quale usciva sulla fronte un enorme ciuffo; due lunghi mustacchi8 arricciati in punta; una cintura lucida di cuoio, e a quella attaccate due pistole; un piccolo corno ripieno di polvere, cascante sul petto, come una collana; un manico di coltellaccio che spuntava fuori da un taschino degli ampi e gonfi calzoni; uno spadone, con una gran guardia traforata a lamine d’ottone, congegnate come in cifra9, forbite e lucenti.
A prima vista si davano a conoscere per individui della specie dei bravi10.
Che i due descritti di sopra stessero ivi ad aspettare qualcheduno era cosa troppo evidente; ma quel che più dispiacque a don Abbondio fu il dover accorgersi, per certi atti, che l’aspettato era lui. Perché, al suo apparire, coloro si erano guardati in viso, alzando la testa, con un movimento dal quale si scorgeva che tutti e due a un tratto avevan detto: “è lui”.
Quello che stava a cavalcioni si era alzato, tirando la sua gamba sulla strada, l’altro si era staccato dal muro; e tutti e due gli si avviavano incontro.
Egli, tenendosi sempre il breviario aperto dinanzi, come se leggesse, spingeva lo sguardo in su, per spiare le mosse di coloro, e, vedendoseli venire proprio incontro, fu assalito a un tratto da mille pensieri.
8 MUSTACCHI: baffi vistosi.
9 CONGEGNATE COME IN CIFRA: che formavano una cifra.
10 BRAVI: soldati al servizio dei signorotti, i quali li ripagavano con la loro protezione e un discreto salario. Diverse leggi del tempo, ma inascoltate, tentavano di punire le atrocità solitamente commesse da questi personaggi.
Domandò subito in fretta a se stesso, se, tra i bravi e lui, ci fosse qualche uscita di strada, a destra o a sinistra, e gli sovvenne subito di no.
Fece un rapido esame, se avesse peccato contro qualche potente, contro qualche vendicativo; ma, anche in quel turbamento, il testimonio consolante della coscienza lo rassicurava alquanto: i bravi però si avvicinavano, guardandolo fisso.
Mise l’indice e il medio della mano sinistra nel collare, come per raccomodarlo; e, girando le due dita intorno al collo, volgeva intanto la faccia all’indietro, torcendo insieme la bocca, e guardando con la coda dell’occhio, fin dove poteva, se qualcheduno arrivasse; ma non vide nessuno. Diede un’occhiata al di sopra del muricciolo, nei campi: nessuno; un’altra più modesta sulla strada dinanzi: nessuno, fuorché i bravi. Che fare?
Tornare indietro non era a tempo; darla a gambe era lo stesso che dire “inseguitemi”, o peggio. Non potendo schivare il pericolo, vi corse incontro, perché i momenti di quell’incertezza erano allora così penosi per lui che non desiderava altro che di abbreviarli.
Affrettò il passo, recitò un versetto a voce più alta, compose la faccia a tutta quella quiete e ilarità che poté, fece ogni sforzo per preparare un sorriso; quando si trovò a fronte dei due galantuomini, disse mentalmente: “ci siamo”. E si fermò su due piedi.
– Signor curato – disse un di quei due, piantandogli gli occhi in faccia.
– Cosa comanda? – rispose subito don Abbondio, alzando i suoi dal libro, che gli restò spalancato nelle mani, come fosse un leggìo.
–
Lei ha intenzione – proseguì l’altro, con l’atto minaccioso e iracondo di chi coglie un suo inferiore sull’intraprendere una ribalderia, – lei ha intenzione di maritare domani Renzo Tramaglino e Lucia Mondella!?
– Cioè... – rispose, con voce tremolante, don Abbondio – ... cioè... Lor signori son uomini di mondo, e sanno benissimo come vanno queste faccende. Il povero curato non c’entra: fanno i loro pasticci tra loro, e poi... e poi, vengono da noi, come si anderebbe a un banco a riscuotere; e noi... noi siamo i servitori del comune.
– Or bene – gli disse il bravo, all’orecchio, ma in tono solenne di comando, – questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai!
– Ma, signori miei – replicò don Abbondio, con la voce mansueta e gentile di chi vuol persuadere un impaziente, – ma, signori miei, si degnino di mettersi nei miei panni. Se la cosa dipendesse da me... vedon bene che a me non me ne vien nulla in tasca...
– Orsù – interruppe il bravo, – se la cosa avesse a decidersi a ciarle, lei ci metterebbe in sacco. Noi non ne sappiamo, né vogliam saperne di più. Uomo avvertito... lei c’intende.
– Ma lor signori son troppo giusti, son troppo ragionevoli...
– Ma – interruppe questa volta l’altro compagnone, che non aveva parlato fin allora, – ma il matrimonio non si farà, o... – e qui una buona bestemmia, – o chi lo farà non se ne pentirà, perché non ne avrà tempo, e... – un’altra bestemmia.
– Zitto, zitto – riprese il primo oratore, – il signor curato è un uomo che sa il viver del mondo, e noi siamo
galantuomini11, e non vogliamo fargli del male, purché abbia giudizio. Signor curato, l’illustrissimo signor don Rodrigo nostro padrone la riverisce caramente.
Questo nome fu, nella mente di don Abbondio, come, nel forte di un temporale notturno, un lampo che illumina momentaneamente e in confuso gli oggetti e accresce il terrore. Fece, come per istinto, un grande inchino e disse:
– Se mi sapessero suggerire...
– Oh! Suggerire a lei che sa di latino!? – interruppe ancora il bravo, con un riso tra lo sguaiato e il feroce. – A lei tocca. E sopratutto, non si lasci uscire parola su questo avviso che le abbiamo dato per suo bene; altrimenti... ehm... sarebbe lo stesso che fare quel tal matrimonio. Via, che vuol che si dica in suo nome all’illustrissimo signor don Rodrigo?
– Il mio rispetto...
– Si spieghi meglio!
– ... Disposto... disposto sempre all’ubbidienza.
E, proferendo queste parole, non sapeva nemmeno lui se faceva una promessa, o un complimento. I bravi le presero o mostrarono di prenderle nel significato più serio.
– Benissimo, e buona notte, messere – disse uno di essi, in atto di partire col compagno.
Don Abbondio, che, pochi momenti prima, avrebbe dato un occhio per scansarli, allora avrebbe voluto prolungare la conversazione e le trattative.
– Signori... – cominciò, chiudendo il libro con le due mani. Ma quelli, senza più dargli udienza, presero la strada dond’era lui venuto, e si allontanarono, cantando una canzonaccia che non voglio trascrivere.
11 GALANTUOMINI: uomini per bene. Spesso Manzoni fa uso di questo termine in chiave ironica, per riferirsi a personaggi senza scrupoli.
Il povero don Abbondio rimase un momento a bocca aperta, come incantato; poi prese quella delle due stradette che conduceva a casa sua, mettendo innanzi a stento una gamba dopo l’altra, che parevano aggranchiate12.
Come stesse di dentro, si intenderà meglio, quando avremo detto qualche cosa del suo carattere, e dei tempi in cui gli era toccato di vivere.
12 AGGRANCHIATE: paralizzate.
Capitolo III
La storia di don Abbondio
Don Abbondio (il lettore se n’è già avveduto) non era nato con un cuore di leone, ma, fin dai primi suoi anni, aveva dovuto comprendere che la peggior condizione, a quei tempi, era quella di un animale senza artigli e senza zanne, e che pure non si sentisse inclinazione di esser divorato. La forza legale non proteggeva in alcun conto l’uomo tranquillo, inoffensivo, e che non avesse altri mezzi di far paura altrui. Non già che mancassero leggi e pene contro le violenze private. Le leggi anzi diluviavano; i delitti erano enumerati, e particolareggiati, con minuta prolissità; le pene, pazzamente esorbitanti e, se non basta, aumentabili, quasi per ogni caso, ad arbitrio del legislatore stesso e di cento esecutori; le procedure, studiate soltanto a liberare il giudice da ogni cosa che potesse essergli d’impedimento a proferire una condanna. Con tutto ciò, anzi in gran parte a cagione di ciò, quelle gride13, ripubblicate e rinforzate di governo in governo, non servivano ad altro che ad attestare ampollosamente l’impotenza dei loro autori; o, se producevano qualche
13 GRIDE: leggi comunicate ai sudditi attraverso un banditore che le gridava ad alta voce per le strade.
effetto immediato, era principalmente di aggiungere molte vessazioni a quelle che i pacifici e i deboli già soffrivano dai perturbatori, e di accrescer le violenze e l’astuzia di questi.
Il nostro Abbondio non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, si era dunque accorto, prima quasi di toccare gli anni della discrezione14, di essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro.
Aveva quindi, assai di buon grado, ubbidito ai parenti, che lo vollero prete. Per dir la verità, non aveva troppo pensato agli obblighi e ai nobili fini del ministero al quale si dedicava: procacciarsi di che vivere con qualche agio e mettersi in una classe riverita e forte gli erano sembrate due ragioni più che sufficienti per una tale scelta. Ma una classe qualunque non protegge un individuo, non lo assicura, che fino a un certo segno: nessuna lo dispensa dal farsi un suo sistema particolare.
Don Abbondio, assorbito continuamente nei pensieri della propria quiete, non si curava di quei vantaggi, per ottenere i quali facesse bisogno di adoperarsi molto o di arrischiarsi un poco. Il suo sistema consisteva principalmente nello scansare tutti i contrasti, e nel cedere, in quelli che non poteva scansare.
Se si trovava assolutamente costretto a prendere parte tra due contendenti stava col più forte, sempre però alla retroguardia, e procurando di far vedere all’altro che egli non gli era volontariamente nemico, pareva che gli dicesse: “ma perché non avete saputo esser voi il più forte, che io mi sarei messo dalla vostra parte”.
14 GLI ANNI DELLA DISCREZIONE: l’età del giudizio, della maturità.
Stando alla larga dai prepotenti, dissimulando le loro soverchierie passeggiere e capricciose, corrispondendo con sommissioni a quelle che venissero da un’intenzione più seria e più meditata, costringendo, a forza di inchini e di rispetto cortese, anche i più burberi e sdegnosi, a fargli un sorriso, quando li incontrava per la strada, il pover’uomo era riuscito a passare i sessant’anni, senza gran burrasche.
Pensino ora i miei venticinque lettori15 che impressione dovesse fare sull’animo del poveretto quello che si è raccontato. Lo spavento di quei visacci e di quelle parolacce, la minaccia di un signore noto per non minacciare invano, un sistema di quieto vivere, che era costato tanti anni di studio e di pazienza, sconcertato in un punto, e un passo dal quale non si poteva veder come uscirne: tutti questi pensieri ronzavano tumultuariamente nel capo basso di don Abbondio.
“Se Renzo si potesse mandare in pace con un bel no, via; ma vorrà delle ragioni e cosa ho da rispondergli, per amor del cielo? E, e, e, anche costui è una testa: un agnello se nessuno lo tocca, ma se uno vuol contraddirgli... E poi, e poi, perduto dietro a quella Lucia, innamorato come... Ragazzacci, che, per non sapere che fare, si innamorano, vogliono maritarsi, e non pensano ad altro; non si fanno carico dei travagli in cui mettono un povero galantuomo. Oh povero me! Vedete se quelle due figuracce dovevano proprio piantarsi sulla mia strada, e prendersela con me! Che c’entro io? Sono io che voglio maritarmi?”
15 I MIEI VENTICINQUE LETTORI: i miei prevedibilmente pochi lettori (si tratta dunque di una frase tra l’autoironico e il modesto).
Capitolo IV
“Perpetua! Perpetua!”
Giunto, tra il tumulto di questi pensieri, alla porta di casa sua, che era in fondo del paesello, don Abbondio mise in fretta nella toppa la chiave, che già teneva in mano; aprì, entrò, richiuse diligentemente, e, ansioso di trovarsi in una compagnia fidata, chiamò subito:
– Perpetua! Perpetua!
Si avviò pure verso il salotto, dove questa doveva esser certamente ad apparecchiare la tavola per la cena.
Perpetua era la serva di don Abbondio: serva affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare, secondo l’occasione, tollerare a tempo il brontolìo e le fantasticaggini del padrone, e fargli a tempo tollerare le proprie, che divenivano di giorno in giorno più frequenti, da che aveva passata l’età sinodale dei quaranta16, rimanendo celibe, per aver rifiutati tutti i partiti che le si erano offerti, come diceva lei, o per non aver mai trovato un cane che la volesse, come dicevano le sue amiche.
16 PASSATA L’ETÀ SINODALE DEI QUARANTA: secondo un sinodo, cioè un’assemblea di preti diretta dal vescovo, svoltosi nel Cinquecento, le serve potevano abitare nella stessa casa dei preti, purché avessero superato i 40 anni (la disposizione era poi stata confermata dal Concilio di Trento).
– Vengo – rispose, mettendo sul tavolino, al luogo solito, il fiaschetto del vino prediletto di don Abbondio, e si mosse lentamente; ma non aveva ancor toccata la soglia del salotto, che egli vi entrò, con un passo così legato17, con uno sguardo così adombrato, con un viso così stravolto, che non ci sarebbero nemmen bisognati gli occhi esperti di Perpetua, per scoprire a prima vista che gli era accaduto qualcosa di straordinario davvero.
– Misericordia! Cos’ha, signor padrone?
– Niente, niente – rispose don Abbondio, lasciandosi andare tutto ansante sul suo seggiolone.
– Come, niente? La vuol dare ad intendere a me? Così brutto com’è? Qualche gran caso è avvenuto.
– Oh, per amor del cielo! Quando dico niente, o è niente, o è cosa che non posso dire.
– Che non può dir neppure a me? Chi si prenderà cura della sua salute? Chi le darà un parere?...
– Ohimè! Tacete, e non apparecchiate altro: datemi un bicchiere del mio vino.
– E lei mi vorrà sostenere che non ha niente! – disse Perpetua, riempiendo il bicchiere, e tenendolo poi in mano, come se non volesse darlo che in premio della confidenza che si faceva tanto aspettare.
– Date qui, date qui – disse don Abbondio, prendendole il bicchiere, con la mano non ben ferma, e votandolo poi in fretta, come se fosse una medicina.
– Vuol dunque che io sia costretta di domandar qua e là cosa sia accaduto al mio padrone? – disse Perpetua, ritta dinanzi a lui, con le mani arrovesciate sui fianchi, e le gomita appuntate davanti.
17 LEGATO: stentato, come se le sue gambe fossero legate.
– Per amor del cielo! Non fate pettegolezzi, non fate schiamazzi: ne va... ne va la vita!
– La vita!
– La vita.
– Lei sa bene che, ogni volta che m’ha detto qualche cosa sinceramente, in confidenza, io non ho mai...
– Brava! Come quando...
Perpetua capì di aver toccato un tasto falso; onde, cambiando subito il tono, disse, con voce commossa e da commovere:
– Signor padrone, io le sono sempre stata affezionata; e, se ora voglio sapere, è per premura, perché vorrei poterla soccorrere, darle un buon parere, sollevarle l’animo...
Il fatto sta che don Abbondio aveva forse tanta voglia di scaricarsi del suo doloroso segreto, quanta ne avesse Perpetua di conoscerlo; onde, dopo aver respinti sempre più debolmente i nuovi e più incalzanti assalti di lei, dopo averle fatto più di una volta giurare che non fiaterebbe, finalmente, con molte sospensioni, con molti ohimé, le raccontò il miserabile caso. Quando si venne al nome terribile del mandante, bisognò che Perpetua proferisse un nuovo e più solenne giuramento; e don Abbondio, pronunziato quel nome, si rovesciò sulla spalliera della seggiola, con un gran sospiro, alzando le mani, in atto insieme di comando e di supplica, e dicendo:
– Per amor del cielo!
– Delle sue! – esclamò Perpetua. – Oh che birbone! Oh che soverchiatore! Oh che uomo senza timore di Dio!
– Volete tacere? O volete rovinarmi del tutto?
– Oh! Siam qui soli che nessun ci sente. Ma come farà, povero signor padrone?
– Oh vedete – disse don Abbondio, con voce stizzosa. – Vedete che bei pareri mi sa dar costei! Viene a domandarmi come farò, come farò; quasi fosse lei nell’impiccio, e toccasse a me di levarnela.
– Ma! Io l’avrei il mio povero parere da darle; ma poi... – Ma poi, sentiamo.
– Il mio parere sarebbe che, siccome tutti dicono che il nostro arcivescovo18 è un sant’uomo, e un uomo di polso, e che non ha paura di nessuno, e, quando può fare star a dovere uno di questi prepotenti, per sostenere un curato, ci gongola; io direi, e dico che lei gli scrivesse una bella lettera, per informarlo come qualmente...
– Volete tacere? Volete tacere? Sono pareri codesti da dare a un pover’uomo? Quando mi fosse toccata una schioppettata nella schiena... Dio liberi... l’arcivescovo me la leverebbe?
– Eh! Le schioppettate non si danno via come confetti: e guai se questi cani dovessero mordere tutte le volte che abbaiano! E io ho sempre veduto che a chi sa mostrare i denti, e farsi stimare, gli si porta rispetto; e, appunto perché lei non vuol mai dire la sua ragione, siamo ridotti a segno che tutti vengono, con licenza, a...
– Volete tacere?
– Io taccio subito; però è certo che, quando il mondo si accorge che uno, sempre, in ogni incontro, è pronto a calar le...
– Volete tacere? È tempo ora di dir codeste baggianate?
– Basta: ci penserà questa notte; ma intanto non cominci a farsi male da sé, a rovinarsi la salute; mangi un boccone.
18 IL NOSTRO ARCIVESCOVO: Federigo Borromeo (cfr. cap. 23 di questa edizione).
– Ci penserò io – rispose, brontolando, don Abbondio.
– Sicuro; io ci penserò, io ci ho da pensare.
E si alzò, continuando:
– Non voglio prendere niente, niente! Ho altra voglia: lo so anch’io che tocca a pensarci a me. Ma... doveva accadere per l’appunto a me?!
– Mandi almeno giù quest’altro gocciolo – disse
Perpetua, mescendo. – Lei sa che questo le rimette sempre lo stomaco.
– Eh! Ci vuol altro, ci vuol altro, ci vuol altro.
Così dicendo prese il lume, e, brontolando sempre:
– Una piccola bagattella! A un galantuomo par mio! E domani com’andrà?
E dicendo altre simili lamentazioni, si avviò per salire in camera. Giunto su la soglia, si voltò indietro verso Perpetua, mise il dito sulla bocca, e, con tono lento e solenne, aggiunse:
– Per amor del cielo!
E disparve.
Capitolo V Renzo e il latinorum
Don Abbondio non riesce a prendere sonno. Dopo aver passato in rassegna tutte le possibilità per non esser fatto fuori da don Rodrigo (che come si sarà inteso è un rinomato e crudele signorotto locale incapricciatosi della filatrice Lucia Mondella), risolve di rimandare le nozze tra Renzo e Lucia fino al tempo della Quaresima (quando non è consentito celebrare matrimoni), e guadagnare così due mesi di pace, durante i quali la passioncella di don Rodrigo per Lucia potrebbe scolorire. Quietatosi a questo pensiero, s’addormenta e sogna cose orribili: i bravi, torture, ricatti, lo stesso don Rodrigo. Arriva il mattino dell’8 novembre 1628. E, col mattino, Renzo.
Lorenzo o, come dicevan tutti, Renzo non si fece molto aspettare. Appena gli parve ora di potere, senza indiscrezione, presentarsi al curato, vi andò, con la lieta furia di un uomo di vent’anni che deve in quel giorno sposare quella che ama.
Era, fin dall’adolescenza, rimasto privo dei parenti, ed esercitava la professione di filatore di seta, ereditaria, per dire così, nella sua famiglia; professione, negli anni indietro, assai lucrosa, allora in decadenza, ma non a tal
punto che un abile operaio non potesse cavarne di che vivere onestamente. Il lavoro andava di giorno in giorno scemando, ma l’emigrazione continua dei lavoranti, attirati negli stati vicini da promesse, da privilegi e da grosse paghe, faceva sì che non ne mancasse ancora a quelli che rimanevano in paese.
Oltre a questo, Renzo possedeva un piccolo podere che faceva lavorare e lavorava egli stesso, quando il filatoio stava fermo, di modo che, per la sua condizione, poteva dirsi agiato. E quantunque quell’annata fosse ancora più scarsa delle antecedenti, e già si cominciasse a provare una vera carestia, pure il nostro giovane, che, da quando aveva messi gli occhi addosso a Lucia, era divenuto massaio19, si trovava provvisto a sufficienza, e non aveva a contrastare con la fame.
Comparve davanti a don Abbondio, in gran gala, con penne di vario colore al cappello, col suo pugnale del manico bello, nel taschino dei calzoni, con una cert’aria di festa e nello stesso tempo di braverìa, comune allora anche agli uomini più quieti.
L’accoglimento incerto e misterioso di don Abbondio fece un contrapposto singolare ai modi gioviali e risoluti del giovinotto.
“Che abbia qualche pensiero per la testa?” argomentò Renzo tra sé.
Poi disse:
– Son venuto, signor curato, per sapere a che ora le comoda che ci troviamo in chiesa.
– Di che giorno volete parlare?
19 ERA DIVENUTO MASSAIO: aveva iniziato a amministrare con accortezza i suoi beni, era diventato economo.
– Come, di che giorno? Non si ricorda che s’è fissato per oggi?
– Oggi? – replicò don Abbondio, come se ne sentisse parlare per la prima volta. – Oggi, oggi... abbiate pazienza, ma oggi non posso.
– Oggi non può! Cos’è successo?
– Prima di tutto, non mi sento bene, vedete.
– Mi dispiace; ma quello che ha da fare è cosa di così poco tempo, e di così poca fatica...
– E poi, e poi, e poi...
– E poi che cosa?
– E poi c’è degli imbrogli.
– Degli imbrogli? Che imbrogli ci può essere?
– Bisognerebbe trovarsi nei nostri panni per conoscer quanti impicci nascono in queste materie, quanti conti s’ha da rendere. Io son troppo dolce di cuore, non penso che a levar di mezzo gli ostacoli, a facilitar tutto, a far le cose secondo il piacere altrui, e trascuro il mio dovere; e poi mi toccano dei rimproveri, e peggio.
– Ma, col nome del cielo, non mi tenga così sulla corda, e mi dica chiaro e netto cosa c’è.
– Sapete voi quante e quante formalità ci vogliono per fare un matrimonio in regola?
– Bisogna ben che io ne sappia qualche cosa – disse Renzo, cominciando ad alterarsi, – poiché me ne ha già rotta bastantemente la testa, questi giorni addietro. Ma ora non s’è sbrigato ogni cosa? Non si è fatto tutto ciò che s’aveva a fare?
– Tutto, tutto pare a voi: perché, abbiate pazienza, la bestia sono io, che trascuro il mio dovere per non far penare la gente. Ma ora... basta, so quel che dico. Noi poveri
curati siamo tra l’incudine e il martello: voi impaziente; vi compatisco, povero giovane; e i superiori... basta, non si può dire tutto. E noi siamo quelli che ci andiamo di mezzo.
– Ma mi spieghi una volta cos’è quest’altra formalità che s’ha a fare, come dice; e sarà subito fatta.
– Sapete voi quanti siano gl’impedimenti dirimenti20?
– Che vuol che io sappia d’impedimenti?
– Error, conditio, votum, cognatio, crimen, Cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas, Si sis affinis...21 –cominciava don Abbondio, contando sulla punta delle dita.
– Si piglia gioco di me? – interruppe il giovine. – Che vuol ch’io faccia del suo latinorum?
– Dunque, se non sapete le cose, abbiate pazienza, e rimettetevi a chi le sa.
– Orsù!...
– Via, caro Renzo, non andate in collera, che son pronto a fare... tutto quello che dipende da me. Io, io vorrei vedervi contento; vi voglio bene io. Eh!... quando penso che stavate così bene; cosa vi mancava? V’è saltato il grillo di maritarvi...
– Che discorsi sono questi, signor mio? – proruppe Renzo, con un volto tra l’attonito e l’adirato.
– Dico per dire, abbiate pazienza, dico per dire. Vorrei vedervi contento.
– Insomma...
20 GL’IMPEDIMENTI DIRIMENTI: fatti che impediscono il matrimonio, nel linguaggio tecnico degli ecclesiastici.
21 ERROR, CONDITIO, VOTUM, COGNATIO, CRIMEN, CULTUS DISPARITAS, VIS, ORDO, LIGAMEN, HONESTAS, SI SIS AFFINIS...: gli impedimenti sono elencati in latino e nessuno di essi riguarda il caso di Renzo e Lucia. Il curato usa il latino perché sconosciuto a Renzo.
– Insomma, figliuol caro, io non ho colpa; la legge non l’ho fatta io. E, prima di conchiudere un matrimonio, noi siamo proprio obbligati a far molte e molte ricerche, per assicurarci che non ci siano impedimenti.
– Ma via, mi dica una volta che impedimento è sopravvenuto?
– Abbiate pazienza, non son cose da potersi decifrare così su due piedi. Non ci sarà niente, così spero; ma, nonostante, queste ricerche noi le dobbiamo fare. Il testo è chiaro e lampante: antequam matrimonium denunciet...22
– Le ho detto che non voglio latino.
– Ma bisogna pur che vi spieghi...
– Ma non le ha già fatte queste ricerche?
– Non le ho fatte tutte, come avrei dovuto, vi dico.
– Perché non le ha fatte a tempo? Perché dirmi che tutto era finito? Perché aspettare...?
– Ecco! Mi rimproverate la mia troppa bontà. Ho facilitato ogni cosa per servirvi più presto: ma... ma ora mi son venute... basta, so io.
– E che vorrebbe che io facessi?
– Che aveste pazienza per qualche giorno. Figliuol caro, qualche giorno non è poi l’eternità: abbiate pazienza.
– Per quanto?
“Siamo a buon porto” pensò fra sé don Abbondio. Poi, con un fare più manieroso che mai, disse: – Via, in quindici giorni cercherò... procurerò...
– Quindici giorni!? Oh questa sì che è nuova! S’è fatto tutto ciò che ha voluto lei: s’è fissato il giorno, il giorno arriva, e ora lei mi viene a dire che aspetti quindici giorni!?
22 ANTEQUAM MATRIMONIUM DENUNCIET...: prima che si facciano le pubblicazioni del matrimonio.
Quindici... – riprese poi, con voce più alta e stizzosa, stendendo il braccio, e battendo il pugno nell’aria; e chi sa qual diavoleria avrebbe attaccata a quel numero, se don Abbondio non l’avesse interrotto, prendendogli l’altra mano, con un’amorevolezza timida e premurosa:
– Via, via, non v’alterate, per amor del cielo. Vedrò, cercherò se, in una settimana...
– E a Lucia che devo dire?
– Che è stato un mio sbaglio.
– E i discorsi del mondo?
– Dite pure a tutti che ho sbagliato io, per troppa furia, per troppo buon cuore: gettate tutta la colpa addosso a me. Posso parlar meglio? Via, per una settimana.
– E poi, non ci sarà più altri impedimenti?
– Quando vi dico...
– Ebbene: avrò pazienza per una settimana; ma ritenga bene che, passata questa, non mi appagherò più di chiacchiere. Intanto la riverisco.
E così detto, se n’andò, facendo a don Abbondio un inchino men profondo del solito, e dandogli un’occhiata più espressiva che riverente.
Capitolo VI
Pensieracci, spiegazioni e consigli
Renzo è furioso. Esce dalla casa di don Abbondio, incontra Perpetua, inizia a parlare con lei. La donna involontariamente si lascia sfuggire alcune frasi per cui Renzo capisce che il matrimonio è rimandato per le minacce fatte al curato da persone potenti. Renzo torna indietro, costringe don Abbondio a dire la verità: don Rodrigo, invaghitosi di Lucia, gli ha vietato di celebrare le nozze.
Dopo il colloquio con Renzo, il curato, solito a mentire per togliersi dagli impicci, è colto da un febbrone, forse causato dalle troppe emozioni che ha vissuto in quella giornata. Ma la febbre più accesa è quella di Renzo, che si avvia verso casa della promessa sposa con un turbinio di pensieri in testa. Il proposito d’uccidere don Rodrigo si accavalla con l’amore per Lucia, col pentimento per il solo pensiero dell’omicidio, infine con l’incredulità rispetto all’accaduto.
Dominato da questi pensieri, passò davanti a casa sua, che era nel mezzo del villaggio, e, attraversatolo, si avviò a quella di Lucia, che era in fondo, anzi un po’ fuori.
Aveva quella casetta un piccolo cortile dinanzi, che la separava dalla strada, ed era cinto da un murettino. Renzo entrò nel cortile, e sentì un misto e continuo ronzìo che veniva da una stanza di sopra. Si immaginò che sarebbero amiche e comari, venute a far corteggio23 a Lucia; e non si volle mostrare a quel mercato, con quella nuova in corpo e sul volto. Una fanciulletta che si trovava nel cortile gli corse incontro gridando:
– Lo sposo! Lo sposo!
– Zitta, Bettina, zitta! – disse Renzo. – Vieni qua; va’ su da Lucia, tirala in disparte, e dille all’orecchio… ma che nessun senta, né sospetti di nulla, ve’… dille che ho da parlarle, che l’aspetto nella stanza terrena, e che venga subito.
La fanciulletta salì in fretta le scale, lieta e superba di avere una commissione segreta da eseguire. Lucia usciva in quel momento tutta attillata24 dalle mani della madre. Le amiche si rubavano la sposa, e le facevano forza perché si lasciasse vedere; e lei si andava schermendo25, con quella modestia un po’ guerriera delle contadine, facendosi scudo alla faccia col gomito, chinandola sul busto, e aggrottando i lunghi e neri sopraccigli, mentre però la bocca si apriva al sorriso. I neri e giovanili capelli, spartiti sopra la fronte, con una bianca e sottile dirizzatura26, si riavvolgevano, dietro il capo, in cerchi moltiplici di trecce, trapassate da lunghi spilli d’argento, che si dividevano all’intorno, quasi a guisa dei raggi d’un’aureola,
23 VENUTE A FAR CORTEGGIO: venute per accompagnare la sposa.
24 ATTILLATA: ben vestita
25 SI ANDAVA SCHERMENDO: si difendeva.
26 DIRIZZATURa: scriminatura.
come ancora usano le contadine nel Milanese. Intorno al collo aveva un vezzo di granati27 alternati con bottoni d’oro a filigrana28: portava un bel busto di broccato a fiori, con le maniche separate e allacciate da bei nastri: una corta gonnella di filaticcio di seta, a pieghe fitte e minute, due calze vermiglie, due pianelle, di seta anch’esse, a ricami.
Oltre a questo, che era l’ornamento particolare del giorno delle nozze, Lucia aveva quello quotidiano di una modesta bellezza, rilevata allora e accresciuta dalle varie affezioni29 che le si dipingevano sul viso: una gioia temperata da un turbamento leggiero, quel placido accoramento che si mostra di quando in quando sul volto delle spose, e, senza scompor la bellezza, le dà un carattere particolare.
La piccola Bettina si cacciò nel crocchio30, si accostò a Lucia, le fece intendere accortamente che aveva qualcosa da comunicarle, e le disse la sua parolina all’orecchio.
– Vo un momento, e torno – disse Lucia alle donne. Poi, scese in fretta. Al vedere la faccia mutata, e il portamento inquieto di Renzo, aggiunse, non senza un presentimento di terrore. – Cosa c’è?
– Lucia! – rispose Renzo, – per oggi, tutto è a monte; e Dio sa quando potremo esser marito e moglie.
– Che? – disse Lucia tutta smarrita.
Renzo le raccontò brevemente la storia di quella mattina: ella ascoltava con angoscia e quando udì il nome di don Rodrigo, esclamò, arrossendo e tremando:
27 UN VEZZO DI GRANATI: collana di pietre dure di colore rosso scuro (granato).
28 CON BOTTONI D’ORO A FILIGRANA: con bottoni d’oro ottenuti intrecciando sottili fili, così da formare disegni e arabeschi.
29 AFFEZIONI: sentimenti.
30 CROCCHIO: gruppetto di persone.
– Ah! Fino a questo segno!
– Dunque voi sapevate…? – disse Renzo.
– Purtroppo! – rispose Lucia. – Ma a questo segno!
– Che cosa sapevate?
– Non mi fate ora parlare, non mi fate piangere. Corro a chiamare mia madre e a licenziare le donne: bisogna che siamo soli.
Mentre ella partiva, Renzo sussurrò:
– Non m’avete mai detto niente.
– Ah, Renzo! – rispose Lucia, volgendosi un momento, senza fermarsi. Renzo intese benissimo che il suo nome pronunziato in quel momento, con quel tono, da Lucia, voleva dire: potete voi dubitare ch’io abbia taciuto se non per motivi giusti e puri?
Intanto la buona Agnese (così si chiamava la madre di Lucia), messa in sospetto e in curiosità dalla parolina all’orecchio e dallo sparire della figlia, era scesa a vedere cosa c’era di nuovo. La figlia la lasciò con Renzo, tornò alle donne radunate, e, accomodando l’aspetto e la voce, come poté meglio, disse:
– Il signor curato è ammalato, e oggi non si fa nulla.
Ciò detto, le salutò tutte in fretta, e scese di nuovo.
Raggiunti Renzo e la madre, Lucia racconta loro che alcuni giorni prima, uscita dalla filanda in cui lavorava, era stata avvicinata da don Rodrigo, che, in compagnia di un altro nobile, le aveva rivolto parole sconce.
Lei, senza rispondere, aveva affrettato il passo; poi aveva sentito il nobile ridere, e don Rodrigo rispondere: “scommettiamo?”.
Turbata da queste parole, e intendendo a pieno il loro significato (cioè che don Rodrigo aveva scommesso col suo amico di portarla a letto), si era rivolta a padre Cristoforo, il frate cappuccino suo confessore, il quale le aveva consigliato di non dire nulla a nessuno, e invece di chiedere a Renzo di affrettare il matrimonio. Ascoltate le parole di Lucia, Renzo dà in escandescenze; Agnese consiglia invece di rivolgersi a un avvocato del posto, soprannominato Azzecca-garbugli. Renzo non potrà presentarsi a mani vuote. Agnese gli consegna pertanto dei capponi, da regalare all’avvocato come ricompensa del suo parere.
Da Azzecca-garbugli
Renzo abbracciò molto volentieri questo parere, Lucia lo approvò, e Agnese, fiera di averlo dato, levò, a una a una, le povere bestie dalla gabbia, riunì le loro otto gambe, come se facesse un mazzetto di fiori, le avvolse e le strinse con uno spago, e le consegnò in mano a Renzo. Egli, date e ricevute parole di speranza, uscì dalla parte dell’orto per non essere veduto dai ragazzi, che gli sarebbero corsi dietro, gridando: “Lo sposo! Lo sposo!”
Così, attraversando i campi o, come dicono colà, i luoghi, se ne andò per viottole, fremendo, ripensando alla sua disgrazia, e ruminando il discorso da fare al dottor Azzecca–garbugli. Lascio poi pensare al lettore come dovessero stare in viaggio quelle povere bestie, così legate e tenute per le zampe, a capo all’in giù, nella mano di un uomo il quale, agitato da tante passioni, accompagnava col gesto i pensieri che gli passavano a tumulto per la mente. Ora stendeva il braccio per collera, ora l’alzava per disperazione, ora lo dibatteva in aria, come per minaccia, e, in tutti i modi, dava loro di fiere scosse, e faceva balzare quelle quattro teste spenzolate31, le quali intanto si ingegnavano a beccarsi l’una con l’altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura.
31 SPENZOLATE: che pendevano scompostamente, urtandosi.
Giunto al borgo, domandò dell’abitazione del dottore; gli fu indicata, e vi andò.
All’entrare, si sentì preso da quella soggezione che i poverelli illetterati32 provano in vicinanza di un signore e di un dotto, e dimenticò tutti i discorsi che aveva preparati; ma diede un’occhiata ai capponi, e si rincuorò. Entrato in cucina, domandò alla serva se si poteva parlare al signor dottore.
Adocchiò essa le bestie, e, come avvezza a somiglianti doni, mise loro le mani addosso, quantunque Renzo andasse tirando indietro, perché voleva che il dottore vedesse e sapesse che egli portava qualche cosa. Capitò appunto mentre la donna diceva:
– Date qui, e andate innanzi.
Renzo fece un grande inchino: il dottore l’accolse umanamente, e lo fece entrare con sé nello studio. Chiuse l’uscio, e fece animo al giovane, con queste parole:
– Figliuolo, ditemi il vostro caso.
– Vorrei dirle una parola in confidenza.
– Son qui – rispose il dottore, – parlate.
E si accomodò sul seggiolone. Renzo, ritto davanti alla tavola, con una mano nel cocuzzolo del cappello che faceva girare con l’altra, ricominciò:
– Vorrei sapere da lei che ha studiato...
– Ditemi il fatto come sta – interruppe il dottore.
– Lei m’ha da scusare: noi altri poveri non sappiamo parlar bene. Vorrei dunque sapere...
– Benedetta gente! Siete tutti così: invece di raccontare il fatto, volete interrogare, perché avete già i vostri disegni in testa.
32 ILLETTERATI: senza cultura letteraria e giuridica.
– Mi scusi, signor dottore. Vorrei sapere se, a minacciare un curato, perché non faccia un matrimonio, c’è penale.
“Ho capito” disse tra sé il dottore, che in verità non aveva capito. “Ho capito”. E subito si fece serio, ma di una serietà mista di compassione e di premura; strinse fortemente le labbra, facendone uscire un suono inarticolato che accennava un sentimento, espresso poi più chiaramente nelle sue prime parole.
– Caso serio, figliuolo; caso contemplato. Avete fatto bene a venir da me. È un caso chiaro, contemplato in cento gride, e... appunto, in una dell’anno scorso, dell’attuale signor governatore33. Ora vi fo vedere, e toccar con mano.
Così dicendo, si alzò dal suo seggiolone, e cacciò le mani in quel caos di carte che c’era nel suo studio, rimescolandole dal sotto in su, come se mettesse grano in uno staio34.
– Dov’è ora? Vien fuori, vien fuori. Bisogna aver tante cose alle mani! Ma la dev’esser qui sicuro, perché è una grida d’importanza. Ah! ecco, ecco.
La prese, la spiegò, guardò alla data, e, fatto un viso ancor più serio, esclamò:
– Il 15 d’ottobre 1627! Sicuro, è dell’anno passato: grida fresca; son quelle che fanno più paura. Sapete leggere?
– Un pochino, signor dottore.
– Bene, venitemi dietro con l’occhio, e vedrete. E, tenendo la grida sciorinata in aria, cominciò a leggere, borbottando a precipizio in alcuni passi, e fermandosi distintamente, con grand’espressione, sopra alcuni altri, secondo il bisogno:
33 GOVERNATORE: all’epoca, Gonzalo Fernandez de Cordova.
34 STAIO: contenitore per cereali.
Azzecca-garbugli legge la grida, che, tra l’altro, promette austere punizioni a chi con la violenza e grazie a una posizione di potere, tenta di evitare matrimoni già concordati. Renzo, che sa un poco leggere, segue la lettura dell’Azzeccagarbugli con gli occhi, tentando di capir qualcosa di quello che dice.
Chi non ha capito invece nulla è proprio l’avvocato: crede che Renzo sia un bravo, autore di un misfatto simile a quello descritto nella grida e tenta di rassicurarlo con un lungo discorso allusivo.
Mentre il dottore diceva tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone35 sta sulla piazza guardando al giocatore di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai.
Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo:
– Oh, signor dottore, come l’ha intesa? L’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno, io non fo di queste cose, io! E domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto a che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottenere giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.
– Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?
35 MATERIALONE: sciocco.
–
Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque che io dovevo sposare oggi – e qui la voce di Renzo si commosse, –dovevo sposare oggi una giovane, alla quale discorrevo36, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse... basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo...
– Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie?
Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurare le parole, e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate. Non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentire discorsi di questa sorte, discorsi in aria.
– Le giuro...
– Andate, vi dico: che volete che io faccia dei vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani.
E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero.
– Imparate a parlare: non si viene a sorprendere così un galantuomo.
– Ma senta, ma senta... – ripeteva invano Renzo.
Il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse:
36 DISCORREVO: con la quale ero fidanzato (con la quale parlavo: è un modo di dire preso dal linguaggio popolare).
IClassici
StoriedaNobel
Le nozze di Renzo e Lucia, popolani vissuti nell’Italia del XVII secolo, vengono impedite dal nobile Don Rodrigo, che così vuole dimostrare la sua arroganza e prepotenza. Attraverso la famosa storia dei due “promessi sposi”, vengono presentate le negligenze dei potenti, le ingiustizie pubbliche e private, la speranza nella fede e nella divina Provvidenza. Ma il capolavoro di Manzoni è anche un sontuoso affresco storico, ricco di pietà e ironia, storia e invenzione, commozione e riflessione.
Un’edizione dove le pagine originali sono intervallate da brevi riassunti.
Alta leggibilità abc
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