Da 25 anni la Giornata Nuovo Futuro invita a scelte professionali slegate dagli stereotipi di genere
Per il politologo Michael Hermann l’elettorato svizzero ha dimenticato il valore del bene comune
ATTUALITÀ Pagina 15
L’innovativa indagine di Burri e Prampolini negli spazi della Collezione Olgiati a Lugano
CULTURA Pagina 21
Nella terra dell’Arca di Noè
Ghost of Yotei, il nuovo capitolo firmato Sucker Punch espande l’orizzonte visivo della saga
TEMPO LIBERO Pagine 39
Altro che dolcetto o scherzetto
Carlo Silini
Oggi si sono un po’ attenuate, ma fino a qualche anno fa divampavano le polemiche tra i fautori della festa di Halloween e i suoi oppositori. Questi ultimi sostenevano che Halloween – celebrata il 31 ottobre, vigilia di Ognissanti (1 novembre) e seguita dalla Commemorazione dei defunti (2 novembre) – offuscasse il significato spirituale di queste ricorrenze, trasformandole in eventi consumistici e superficiali. I fautori ribattevano che si trattava di un’usanza innocua, adottata dagli Stati Uniti (pur avendo origini celtiche), pensata per divertire i bambini, che gironzolavano di casa in casa vestiti da streghe, fantasmi e mostriciattoli. Suonando il campanello, intimavano ai padroni di casa un candido «dolcetto o scherzetto», ricevendo biscotti, cioccolatini o caramelle. In breve, non era il caso di farne una crociata ideologica. Si può discutere su chi avesse ragione (e, in parte, ce l’avevano tutti), ma è certo che, in un mondo globalizzato, è inevitabile che le tra-
dizioni si mescolino e si contaminino tra loro. Per dire: esistono, senza scandalo, pizzerie Bella Napoli a Tokyo, mentre nelle nostre lande prealpine abbondano i ristoranti di sushi e i kebabbari, che con le nostre tradizioni hanno poco da spartire. Nel caso specifico, alle festività pagane si sono sovrapposte le celebrazioni cristiane, e a queste ultime le usanze sociali (e commerciali) americane, esportate dalla globalizzazione. Detto ciò, sono convinto che, dal punto di vista dell’immaginario macabro, la tradizione cristiana sia meravigliosamente più affascinante (e orripilante) dell’iconografia di Halloween. Zombie, spettri, mascheroni diabolici: li abbiamo inventati noi, molti secoli prima e molto meglio di Hollywood e della divulgazione industriale dei travestimenti horror contemporanei. Il tardo Medioevo europeo ha elaborato il motivo, al contempo agghiacciante e ironico, della
danza macabra, con festose adunate di scheletri che ballano in tondo. Ogni scheletro reca le insegne simboliche di ciò che era in vita: i re la corona, i papi la tiara, i guerrieri la spada, i monaci il saio, i contadini la zappa. Come a dire che, in una sorta di democrazia dell’aldilà, davanti alla morte siamo tutti uguali.
I brividi dei film horror, con giovani splendide ragazze precipitate nel terrore da figuri mostruosi, hanno un clamoroso precedente nell’erotismo macabro del maestro alsaziano Hans Baldung Grien. In un dipinto conservato al Museo di Basilea (1517), la Morte – le cui ossa sono ancora ricoperte da pelle essiccata – imprime un gelido bacio sulle labbra di una fanciulla dalle forme generose. Afferra un’altra ragazza per i capelli e le mostra, con gesto imperioso, la tomba aperta ai suoi piedi, ordinandole: «Hie must du yn» («È lì che devi scendere»), come racconta Louis Réau nel saggio Iconographie de l’art chrétien. L’arte nord-euro-
pea di quei tempi anticipa gli zombie con immagini di scheletri ricoperti di brandelli di carne che pendono come stracci dalle ossa, mentre dal centro dell’addome fuoriescono gli intestini.
Quanto al Ticino, qua e là si ammiravano teorie di teschi (veri) allineati negli antichi ossari. Quello di Cevio è stato abbellito, a metà del Settecento, da un pittore ignoto che ha disseminato sulle pareti un tripudio di scheletri che leggono, scrivono, maneggiano falci e martelli, sorreggono libri. Forse la stessa mano ha affrescato una dama e un cavaliere nel fiore degli anni, in abiti sfarzosi nella parte alta del corpo e completamente scarnificati dalla vita in giù. Un messaggio inequivocabile sulla nostra transitorietà, che è anche un discreto schiaffo alle ginnastiche e alle creme anti-age, e al contempo un invito a fare buon uso del tempo che corre e se ne va come le foglie nel vento d’autunno. Altro che dolcetto o scherzetto.
Enrico Martino Pagine 34-35
Enrico Martino
P er molti i premi della cassa malati sono insostenibili
Salute ◆ Marcel Napierala è CEO del Gruppo Medbase, il fornitore di servizi sanitari del Gruppo Migros Il suo pensiero sui 100 miliardi di costi della salute e dei premi in continua ascesa
Nina Huber
Marcel Napierala, anche lei è irritato dal nuovo aumento dei premi?
No. C’era da aspettarselo e i premi continueranno a salire anche l’anno prossimo. Ho un modello assicurativo alternativo e i miei premi aumenteranno del 4,5%. Ma non ho intenzione di cambiare cassa malati, poiché sono soddisfatto.
Questi aumenti però sono un bel problema…
Sì, per molte persone i premi sono già adesso insostenibili. Bisogna però distinguere tra i costi della salute e i prezzi in ambito sanitario: i medici e gli altri fornitori di servizi non ricevono denaro in più per le prestazioni erogate. Eppure i premi aumentano.
Perché?
Stiamo invecchiando, le alternative mediche aumentano e la richiesta di trattamenti e medicamenti cresce. Per non parlare delle prestazioni supplementari ora coperte dall’assicurazione di base, come ad esempio la psicoterapia. Il nostro sistema sanitario di alta qualità quest’anno ci costerà 100 miliardi di franchi.
Tutti gli attori del sistema sanitario dovrebbero assumersi le proprie responsabilità affinché i costi aumentino in modo più moderato
Ha una ricetta contro questi incredibili costi della salute?
Tutti gli attori del sistema sanitario – casse malati, ospedali, assicurazioni nonché pazienti – devono assumersi le proprie responsabilità affinché i costi aumentino in modo più moderato. Noi di Medbase contribuiamo a questo obiettivo lavorando in modo efficiente in termini di costi.
Cosa significa concretamente?
Non tutti hanno bisogno di recarsi subito dal medico: spesso è sufficiente un consulto telefonico. La misurazione della pressione arteriosa può essere effettuata anche in farmacia. Siamo a favore dell’assistenza integrata. Se il sistema sanitario fosse un aeroporto, Medbase sarebbe Skyguide: coordiniamo infatti al meglio lo svolgimento delle varie procedure. Puntiamo sulla collaborazione tra medici, farmacisti, personale infermieristico, fisioterapisti e psicoterapeuti, con il supporto di offerte digitali. Evitiamo così trattamenti doppi o non necessari.
Cosa significa questo in termini di risparmio?
I risparmi sono misurabili concretamente nei modelli assicurativi alternativi. L’anno scorso, 260’000 persone hanno scelto un modello con Medbase come interlocutore principale, risparmiando circa 800 franchi a persona rispetto all’assicurazione standard. Si tratta di un totale di oltre 200 milioni di franchi.
Qual è il ruolo delle farmacie?
Oltre 50 fanno parte del Gruppo Medbase.
Le farmacie possono offrire molto di più della vendita di medicamenti. In farmacia è per esempio possibile farsi misurare la pressione arteriosa, farsi vaccinare o auscultare organi.
Per noi la farmacia è un «Point of care», non un mero punto vendita. Inoltre, con «Zur Rose» abbiamo anche una farmacia online per un comodo approvvigionamento in tutta la Svizzera.
Quanto conta la prevenzione?
La prevenzione è una leva importante. Un ottimo esempio è la pulizia dentale, cui si sottopone il 52 percento della popolazione. I denti malati possono nuocere a tutto il corpo.
Cosa fa lei per mantenersi in salute?
Pratico molto sport. Essendovi nato – sono originario di Kandersteg – mi piace muovermi in montagna, a piedi o in bicicletta, e d’inverno adoro lo sci di fondo. Assumo anche integratori, come zinco, preparati multivitaminici e ferro, per via del maggior fabbisogno energetico. Non bevo quasi più alcolici… e divento noioso. (ride)
In che modo Medbase si integra con la Migros?
Nel 2010 mi sono deciso per la fusione con la Migros perché persegue gli stessi valori e crede come noi nelle cure mediche di base. Insieme vogliamo garantire a tutti l’accesso alle prestazioni sanitarie. Grazie alla Migros, Medbase ha potuto svilupparsi ulteriormente. Oggi la salute è uno dei quattro settori di attività strategici della Migros.
Negli ultimi anni siete cresciuti molto affermandovi come uno dei principali fornitori di assistenza di base in Svizzera, con quasi 200 sedi. Volete crescere ancora?
Una certa grandezza aiuta a essere innovativi e flessibili. La qualità viene prima di tutto. E con questo intendo anche un buon rapporto con il personale. Se possibile, continueremo a crescere, ma mantenendo dimensioni ragionevoli.
Riuscite ancora a trovare medici a sufficienza?
di risparmio dei modelli assicurativi alternativi*
1. Modello HMO
A differenza del modello standard con libera scelta del medico, il modello HMO consente di risparmiare dal 20 al 25% sui premi. Gli assicurati devono prima rivolgersi a uno studio medico HMO, che li indirizzerà, se necessario, a un altro medico.
2. Modello medico di famiglia
Nel modello del medico di famiglia (dal 15 al 20 percento), il medico di famiglia è il primo punto di riferi-
mento e decide in merito ai rinvii.
3. Modello Telmed
Il modello Telmed offre risparmi simili a quelli del modello del medico di famiglia, ma richiede una consulenza telefonica prima delle visite mediche, spesso con una scelta limitata di medici.
4. Modello farmacia
Nel modello farmacia (dal 15 al 20 percento), una farmacia partner è il primo
punto di riferimento per la risoluzione di problemi minori in loco; nei casi più complessi indirizza il paziente altrove.
In tutti i modelli, gli sconti variano a seconda della cassa malati, del cantone, della franchigia e dell’anno tariffario. *Fonte: versicherung-schweiz.ch
Ulteriori suggerimenti sono disponibili su iMpuls.ch:
Sì, considerato il settore sì. Offriamo buoni modelli di lavoro con orari interessanti e modelli a tempo parziale molto richiesti. Ma la carenza di medici è un problema non indifferente.
Se potesse esprimere un desiderio per migliorare il sistema sanitario svizzero, quale sarebbe?
Tutti gli attori dovrebbero mettere da parte i propri interessi e assumersi la responsabilità comune del sistema sanitario. La politica deve favorire passi piccoli, ma efficaci. I medici di famiglia, i farmacisti e altri gruppi professionali della medicina ambulatoriale meritano più considerazione, perché costituiscono il primo punto di accesso alle cure mediche di base.
Marcel Napierala (50) è CEO di Medbase. Nel 2001 ha fondato Medbase con uno studio di medicina sportiva a Winterthur. Medbase è diventata un’affiliata Migros nel
SOCIETÀ
Aiutare i giovani in difficoltà
La Fondazione il Gabbiano ha inaugurato il progetto «Secondo piano» dedicato a ragazzi tra i 14 e i 20 anni che non hanno un’occupazione e non sono in formazione
Aperitivo nella giungla
Gli studiosi hanno osservato che gli scimpanzé, i primati più simili a noi, si rilassano in compagnia condividendo veri e propri cocktail naturali
Scegliere un mestiere oltre lo stereotipo di genere
Formazione ◆ Compie 25 anni la Giornata Nuovo Futuro, un progetto che invita ragazze e ragazzi a sperimentare, per un giorno, una professione in cui il proprio genere è sottorappresentato
Si terrà giovedì 13 novembre la Giornata Nuovo Futuro, l’edizione 2025 di un ben consolidato progetto di cooperazione tra scuola, mondo del lavoro e genitori, il quale apre nuove prospettive alle ragazze e ai ragazzi con l’intento di contribuire a far in modo che possano pensare al proprio domani a prescindere da condizionamenti di genere.
Durante questa Giornata – che è un progetto degli Uffici e delle Commissioni per le pari opportunità – , le allieve e gli allievi di 2ª e 3ª media che lo desiderano possono accompagnare una persona di riferimento al lavoro oppure partecipare a uno dei progetti supplementari, sperimentando, per un giorno, una professione in cui il proprio genere è sottorappresentato.
Attraverso il principio del cambio di prospettiva, hanno così la possibilità di avvicinarsi a lavori che tendenzialmente non avrebbero preso in considerazione e vengono incoraggiati a porre i propri interessi e le proprie capacità in primo piano nell’ottica della scelta di una strada professionale, mettendo al tempo stesso in discussione i pregiudizi che dipingono alcune professioni come più adatte agli uomini ed altre più adatte alle donne. In questo modo il progetto contribuisce quindi a promuovere le pari opportunità nelle scelte lavorative e nei progetti di vita fin dalla giovane età, come pure un maggiore equilibrio fra i sessi nella formazione e nel mondo del lavoro.
«Oggi si osservano ancora forti differenze nelle scelte formative tra ragazze e ragazzi, molti pregiudizi resistono in modo più sottile e meno consapevole»
La Giornata Nuovo Futuro è un’iniziativa nata nel 2001 come «Giornata nazionale delle ragazze» nell’ambito del programma per i posti di tirocinio 16+ della Conferenza svizzera delle/dei delegate/i alla parità fra donne e uomini. «Nel corso degli anni la Giornata si è evoluta, aprendosi anche ai ragazzi e ampliando costantemente l’offerta di professioni che i e le partecipanti possono sperimentare. Oggi, alla sua 25ª edizione, coinvolge migliaia di enti pubblici ed aziende in tutta la Svizzera, oltre ovviamente a numerose ragazze e ragazzi di 2ª e 3ª media», afferma Barbara Rossi, coordinatrice Nuovo Futuro per la Svizzera italiana.
Come accennato in precedenza, l’iniziativa si compone di un programma di base, nell’ambito del quale studentesse e studenti accompagnano al
lavoro un genitore o una persona loro vicina per scoprire un mestiere atipico per il proprio genere, cui si aggiungono dei progetti supplementari. In questo secondo caso, sono aziende, come pure organizzazioni, enti pubblici e istituti di formazione, ad aprire le proprie porte ai ragazzi che si iscrivono per esplorare una professione che suscita il loro interesse e nella quale, secondo le statistiche, il loro genere è tuttora poco presente.
Oltre a ciò, la Giornata Nuovo Futuro – sostenuta finanziariamente dalla Segreteria di Stato per la formazione, la ricerca e l’innovazione (SEFRI) – contempla l’organizzazione di progetti interni scolastici (un’attività da svolgere in classe sul tema del genere in relazione ai percorsi formativi e professionali) e progetti di approfondimento (offerti in collaborazione con associazioni di categoria, istituti di formazione e altri partner dell’iniziativa).
Sin dalla sua creazione, la Giornata Nuovo Futuro ha riscosso un grande successo, cresciuto notevolmente negli anni tanto che ad oggi sono più di mezzo milione le ragazze e i ragazzi che vi hanno preso parte: «Nel 2024, nel solo Canton Ticino, ben 620 allieve e allievi hanno partecipato ai progetti supplementari; mentre a livello nazionale i e le partecipanti sono stati oltre 12mila», precisa la coordinatrice per la Svizzera italiana della Giornata Nuovo Futuro. «Anche la partecipazione di aziende ed enti pubblici è sempre più attiva: nella sola Svizzera italiana, l’anno scorso, oltre 70 strutture hanno partecipato alla Giornata, riconoscendo in essa un’occasione concreta per promuovere la parità di genere e far scoprire i propri settori a giovani talenti». A livello nazionale, sempre nel 2024, 732 aziende si sono registrate per il programma di base, accogliendo i figli dei collaboratori, mentre per i progetti supplementari gli oltre 12mila posti offerti da 1’810 aziende, organizzazioni ed istituti di formazione sono stati occupati nel giro di poche ore. «Oltre alle proposte più tradizionali, come le professioni tecniche, informatiche, socio-sanitarie e dell’educazione, l’edizione 2024 ha ampliato l’offerta con nuovi progetti, tra cui “Una giornata da logopedista” e “Una giornata da specialista in risorse umane” per i ragazzi», aggiunge Barbara Rossi. Delle nuove opportunità che consentono un ulteriore ampliamento delle prospettive per i giovani di cui di fatto c’è bisogno, se si considera che nel nostro Paese su circa 250 percorsi formativi offerti, la decisione dei ragazzi continua a ricadere su un numero limitato di professioni: «Le statistiche del 2024 mostrano che la metà delle ragazze opta ancora per 4 profes-
sioni principali: impiegata di commercio, operatrice sociosanitaria, operatrice socioassistenziale e impiegata del commercio al dettaglio. I ragazzi, pur considerando una maggiore varietà, concentrano le loro scelte su un insieme ristretto di 14 professioni, principalmente tecniche e manuali, tra cui impiegato di commercio, informatico, elettricista, impiegato del commercio al dettaglio, impiegato in logistica, meccanico d’automobili, polimeccanico, agricoltore, cuoco, carpentiere, operatore socioassistenziale, falegname e disegnatore – spiega la coordinatrice Nuovo Futuro per la Svizzera italiana – dei dati che evidenziano come, fin dalla scuola media, le scelte formative continuino ad essere influenzate da stereotipi di genere».
In linea di principio, un mestiere è considerato come «atipico» quando la percentuale di donne o, rispettivamente, uomini, che lo esercita è inferiore al 40%. A livello di formazione, per esempio, i ragazzi fra i nuovi studenti per la professione di «operatore sociosanitario/operatrice sociosanitaria AFC» si attestavano nel 2024 al 16.1%, mentre le ragazze che hanno optato per la formazione di «costruttore/costruttrice stradale AFC» non sono andate oltre il 3.1%. «Sebbene si sia fatto molto per superare la distinzione tra mestieri maschili e femminili, nella pratica si osservano ancora forti differenze nelle scelte formative tra ragazze e ragazzi. Molti pre-
giudizi resistono in modo più sottile e meno consapevole – continua la nostra interlocutrice – gli stereotipi di genere si formano infatti già nella prima infanzia, attraverso processi di socializzazione che attribuiscono in modo implicito – e a volte esplicito – caratteristiche diverse a maschi e femmine. Bambine e bambini vengono spesso incoraggiati a sviluppare competenze e attitudini differenti, anche solo attraverso il tipo di giochi e sport proposti, i colori o i modelli di comportamento valorizzati. Con il passare degli anni, queste differenze si consolidano e, nella fase dell’adolescenza, il desiderio di appartenenza al gruppo e la paura del giudizio possono rafforzare ulteriormente l’adesione a scelte più conformi alle aspettative di genere. La mancanza di modelli di riferimento e la scarsa visibilità di alcune professioni, soprattutto quelle “atipiche” dal punto di vista di genere, poi non aiutano. I ragazzi, ad esempio, evitano spesso le professioni della cura perché considerate meno prestigiose o “poco maschili”, mentre le ragazze tendono a sottovalutarsi in ambiti come l’informatica o l’ingegneria, anche se hanno le competenze necessarie». Un fenomeno, questo, che contribuisce alla segregazione orizzontale del mercato del lavoro: «Nei settori tecnico-scientifici continua a prevalere la presenza maschile, mentre nei settori socio-sanitari ed educativi resta predominan-
te la componente femminile – continua – e i dati statistici lo confermano sia nel Canton Ticino che nel resto della Svizzera».
Seppur negli ultimi decenni la società abbia compiuto progressi significativi sul fronte dell’uguaglianza di genere, anche in ambito professionale, un cambiamento profondo di mentalità richiede tempo. Ecco perché iniziative come quella di cui stiamo parlando sono importanti. «Tutte le iniziative che lavorano per il superamento degli stereotipi di genere hanno la loro utilità e contribuiscono, ciascuna a modo proprio, a creare una società più aperta e inclusiva. Nello specifico, ciò che distingue la Giornata Nuovo Futuro è l’approccio pratico: l’obiettivo non è solo informare, ma coinvolgere attivamente ragazze e ragazzi in un’esperienza sul campo», commenta Barbara Rossi. Esperienza pratica che, in questo come in altri ambiti, è spesso determinante: «Poter sperimentare un mestiere, incontrare da vicino chi lo esercita, mettersi in gioco in prima persona consente ai e alle giovani di superare preconcetti spesso radicati, anche in modo inconsapevole, confrontarsi direttamente con le proprie capacità e scoprire percorsi che rispecchino davvero le proprie inclinazioni», conclude la coordinatrice Nuovo Futuro per la Svizzera italiana.
Informazioni www.nuovofuturo.ch
Il prossimo 13 novembre le ragazze potranno sperimentare anche una giornata da falegname. (Nuovo Futuro)
Alessandra Ostini Sutto
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È tempo di un buon brasato
Attualità ◆ Un piatto gustoso che accontenta tutti agli amanti della carne. Per un risultato di successo, l’aletta di manzo è un’ottima scelta, tanto più che questa settimana è in offerta speciale alla tua Migros
Le stagioni più fredde sono sinonimo di piatti corroboranti, ricchi di aromi, che scaldano corpo e anima, perfetti da gustare in occasione di piacevoli momenti conviviali. Uno di questi piatti è sicuramente ben rappresentato dal brasato di manzo, una ricetta intramontabile a cottura lenta che richiede la giusta attenzione e una buona pazienza per un risultato ben riuscito.
Tagli ideali e preparazione
Tra i tagli bovini particolarmente indicati per la preparazione di un ottimo brasato, possiamo citare il cappello del prete, l’arrosto spalla o collo, oppure l’aletta, ricavata dalla spalla del bovino. Queste carni si distinguono per la loro fibra grossa e la ricchezza di tessuto connettivo e nervi che, sciogliendosi durante la lunga cottura, si trasformano in una sorta di gelatina, rendendo la carne particolarmente tenera e saporita.
I brasati si possono cucinare lentamente sia sul fornello utilizzando una brasiera con coperchio a buona tenuta, oppure dopo la rosolatura possono essere trasferiti in forno per terminare la cottura in un tegame con coperchio resistente al calore. I tagli di carne di grosse dimensioni sono più indicati per la cottura al forno, in quanto il calore si distribuisce meglio all’interno della pietanza cuocendola uniformemente. Non bagnare troppo la carne con vino, brodo o acqua, in quanto la carne rilascia già i suoi saporiti succhi durante la cottura.
Per la verifica della cottura, il brasato è cotto quando, infilzando nel pezzo di carne un forchettone, quest’ultimo esce senza fare resistenza e la carne si sfalda facilmente. Si può anche verificare la cottura per mezzo di un termometro da carne. In questo caso la temperatura al cuore dovrebbe essere tra i 90 e i 95 °C.
Specialità per Ognissanti
Azione 27%
Aletta di manzo IP-SUISSE, in self-service per 100 g Fr. 2.70 invece di 3.70 dal 28.10 al 3.11.2025
La ricetta Brasato con salsa alle verdure
Ingredienti per 6 persone
• 1,5 kg di aletta di manzo o arrosto spalla di manzo
• 7 dl di vino rosso, ad es. merlot
• 1,5 dl d’aceto di vino rosso
• 1 cipolla piccola
• 5 bacche di ginepro
• 3 chiodi di garofano
• 350 g di verdura, ad es. carote, sedano e porro
• sale
• pepe
• 2 cucchiai d’olio d’arachidi
• 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro
Preparazione
1. Metti la carne in una scodella profonda. Aggiungi il vino rosso e l’aceto. Dimezza la cipolla e uniscila alla marinata con le bacche di ginepro e i chiodi di garofano. Copri e lascia marinare in frigorifero per ca. 48 ore. Gira la carne due volte.
2. Scalda il forno statico a 170 °C. Taglia le verdure a pezzettoni. Estrai la carne dalla marinata e falla sgocciolare bene. Condisci con sale e pepe. Fai rosolare la carne in un tegame o una brasiera, nell’olio per 5 minuti. Aggiungi le verdure e il concentrato di pomodoro e fai rosolare brevemente. Sfuma con la marinata. Copri il tegame, inforna e prosegui la cottura per 1½-2 ore. Prova cottura: un forchettone infilzato nella carne deve poter essere estratto con facilità.
3. Togli la carne dalla salsa. Frulla le verdure nella salsa, poi filtrala e riversala in padella. Regola di sale e pepe. Affetta il brasato trasversalmente alle fibre e servilo con la salsa. Spätzli e knöpfli sono contorni ideali.
Attualità ◆ Presso i banchi pasticceria e Take Away Migros questa settimana potete trovare il pane dei morti prodotto artigianalmente
Il pane dei morti, o oss da mord o oss da mort, è una specialità molto diffusa anche alle nostre latitudini che si usa consumare e preparare in occasione della commemorazione dei cari defunti, la festa di Ognissanti, che si celebra il 1° novembre. Questo dolce tipico viene prodotto anche all’interno del laboratorio di pasticceria artigianale di Migros Ticino dagli abili pasticceri che, partendo da semplici e genuini ingredienti quali farina, zucchero, uva sultanina, frutta candita, miele e cannella, creano un’irresistibile variante morbida dalla tipica forma ovale e con una spolverata di zucchero a velo in superficie.
Una curiosità: secondo alcuni testi antichi, si presume che una sorta di questo dolce fosse già prodotta in valle di Blenio nel 1700. Per mantenere la freschezza del pane dei morti più a lungo, si consiglia di conservarli in una scatola con chiusura ermetica.
Pane
Una lunga tradizione ticinese
Attualità ◆ Le mostarde e i marrons glacé Sandro Vanini sono prodotti gastronomici storici legati al nostro cantone
Le mostarde di frutta e i marrons glacés firmati Sandro Vanini sono dei prodotti imprescindibili, che apportano quel tocco di raffinatezza e autenticità in più alla nostra tavola, grazie a una lavorazione artigianale attenta e minuziosa da parte dei mastri canditori della Sandro Vanini di Rivera, azienda con oltre 150 anni di storia alle spalle. Che si tratti di accompagnare carni, formaggi, salumi, verdure, oppure di concedersi un momento di dolcezza speciale in qualsiasi momento della giornata… con i prodotti di elevata qualità Sandro Vanini farai sempre la scelta giusta.
Le tre mostarde monogusto fichi, arance e ciliegie regalano un’esperienza unica grazie al loro caratteristico sapore dolce e piccante tipico di questa preparazione antica con radici che risalgono addirittura al Medioevo.
Dolci tentazioni per eccellenza, i marrons glacés sono un prodotto molto gettonato soprattutto sotto il periodo natalizio, dal momento che rappresentano un regalo sempre molto gradito. Oltre agli storici marrons glacés classici con glassa preparati secondo la ricetta originale di nonno Vittorio Vanini, disponibili in scatole regalo di diversi formati come pure in vasetto, la gamma Migros include anche i marrons confits, più leggeri e con meno zuccheri rispetto agli originali, in quanto privi di glassa.
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Marrons Confits Non Glacés Sandro Vanini
Mostarda di arance
Mostarda di ciliegie
Sandro Vanini
Mostarda di fichi
Sandro Vanini
Marrons Glacés Sandro Vanini
In vendita nelle maggiori filiali Migros
Ritrovare la bussola
partendo dal secondo piano
Giovani in difficoltà ◆ La Fondazione il Gabbiano ha inaugurato un nuovo progetto con atelier educativi dedicato a ragazzi tra i 14 e i 20 anni che non hanno un lavoro e non studiano
La stagione dei tenori
Ticino ◆ A pochi giorni di distanza si sono spenti Alberto Lepori e Franco Masoni, due personalità forti della politica cantonale
Orazio Martinetti
«Mi verrebbe da dire che la condizione dei giovani non è peggiorata a causa di qualcosa di particolare e non possiamo parlare di disagio giovanile. Il punto è che a non stare bene è la società intera. Un malessere legato non solo alle insicurezze del quotidiano e alle difficoltà del mercato del lavoro ma anche alle incertezze che viviamo a livello globale. Sono punti di fragilità, questi, che si ripercuotono sui giovani. La gioventù è sempre stata “problematica” da un certo punto di vista e bella allo stesso tempo. Ma oggi ci sono tanti adulti, tanti genitori che fanno fatica e tutta questa loro pressione ricade automaticamente sui giovani».
Parla Edo Carrasco, direttore generale della Fondazione Il Gabbiano, da lungo tempo attivo nell’accompagnamento socioprofessionale e psicoeducativo di giovani e adolescenti in Ticino. Lo interpelliamo nel pieno di un nuova sfida: riagganciare i NEET, acronimo inglese che significa Not in Education, Employment or Training. Tradotto: ragazzi che non sono occupati, non studiano e non seguono corsi di formazione. Una inattività che può derivare da difficoltà scolastiche, scoraggiamento, mancanza di opportunità. Ebbene, per loro una nuova chance è ora pronta a decollare con un progetto concreto. Si chiama «Secondo piano», proprio perché lì si trova nell’edificio di via Maderno 18 a Lugano e richiama appunto una parte di giovani troppo spesso messa in secondo piano.
Edo Carrasco, come è nato questo nuovo progetto e quali obiettivi si propone? Il progetto è sorto da una possibilità di partecipare a un bando Interreg, in collaborazione con alcuni partner italiani, che sostiene iniziative i cui interessi in ambo i Paesi sono di livello nazionale. Il tema riguarda ragazzi che non hanno attività scolastiche, formative, occupazionali. Staccati, dunque, da una rete sociale e che hanno delle difficoltà. Mentre finora con i progetti che avevamo sviluppato con Il Gabbiano lavoravamo con giovani adulti dai 18 ai 25 anni e con qualche minorenne, abbiamo visto in questi anni una crescita delle difficoltà socioeducative e un maggiore disagio psichico presso ragazzi più giovani. Ed è per questo che abbiamo voluto partire con questo progetto rivolto a un target dai 14 ai 18, fino ai 20 anni che cercherà di accogliere giovani che si trovano in crisi già alla fine delle scuole dell’obbligo o che dopo le Medie non hanno ancora trovato una loro strada, che si trovano chiusi su se stessi o che hanno difficoltà personali di vario genere. Si tratta di giovani segnalati all’Assicurazione invalidità o seguiti dal Magistrato dei minorenni e dai sostegni pedagogici di istituti scolastici.
Cosa s’intende concretamente per NEET?
Questa casistica, definita NEET, è nota da una decina di anni a livello europeo. Basti pensare che in Italia riguarda 2 milioni e mezzo di
giovani. Sono dunque dei fenomeni veramente preoccupanti. A livello europeo abbiamo partecipato anche a degli scambi – sono stato in Danimarca, in Spagna e Olanda – e abbiamo osservato che si tratta di un problema trasversale a tutta l’Europa che tocca i giovani più fragili e sensibili. Il post-Covid ha accelerato determinati meccanismi di isolamento in certi ragazzi. Per questo abbiamo cercato di offrire qualcosa di nuovo che non esisteva prima alle nostre latitudini. Questo bando ci permette di sperimentare per due anni il progetto e di avere scambi di esperienze professionali con i partner che hanno partecipato con noi al bando. In questo momento, con la crisi economica che attraversa il nostro Cantone, non sarebbe stato possibile proporre qualcosa di nuovo senza questo aiuto e, inoltre, abbiamo trovato anche dei fondi privati. Occorre però essere realistici: le difficoltà economiche ci sono e si ripercuotono su tutto il settore. Come Fondazione abituata a rispondere ai bisogni di ragazzi in difficoltà, ci sembrava importante accogliere questa fascia un po’ più giovane e provare a trovare delle soluzioni concrete per aiutarla a ritrovare un percorso personale formativo che permetta di rimanere attivi all’interno della società.
Come sarà strutturato «Secondo piano»?
Il nostro progetto propone una serie di attività diversificate che consentano a ogni partecipante di scoprire molti mondi. Il nostro programma prevede un calendario settimanale suddiviso in mezze giornate diurne. Non sono state immaginate come delle lezioni scolastiche, bensì come attività pratiche integrate: videogiochi educativi, fotografia con stampa in camera oscura per cercare di carpire le immagini in modo diverso, muovendosi sul territorio, nella città. Ci sarà inoltre un laboratorio Podcast che insegna le tecniche dell’audio e del suono. C’è inoltre un atelier di «cambio abito» di costume, dove le ragazze e i ragazzi pos-
sono provare una miriade di vestiti collezionati da una nostra amica sarta; inoltre abbiamo un’Officina del dolce in cui imparare ricette che si possono realizzare anche a casa. La griglia si completa con attività del verde e di sartoria. Una nostra consulente condurrà invece uno spazio legato all’orientamento professionale, esercitando i colloqui professionali e l’allestimento di curriculum vitae efficaci. Una psicologa terrà inoltre colloqui individuali e famigliari, con un approccio sistemico relazionale e collaborando con i servizi e i terapeuti del territorio.
Quanti giovani potrete accogliere? Accoglieremo tra gli 8 e i 10 giovani. Stiamo completando i primi colloqui. L’idea è di diventare operativi con le attività settimanali a partire da novembre. In questo momento abbiamo concluso l’allestimento di tutti gli atelier e disponiamo di tutti gli operatori. I partecipanti devono fare quello che riescono: se qualcuno non è in grado di prendere parte a tutte le attività si cercherà di creare un programma personalizzato per portarlo ad attivarsi progressivamente. L’obiettivo è che i ragazzi riescano a svolgere buona parte delle proposte e permettere loro di vedere e sperimentare più attività. Una volta raggiunte alcune competenze, potranno partecipare a stage e ad esperienze professionali concrete, finalizzate alla ricerca di un impiego di apprendistato o di una scuola. Lavoreremo inoltre in stretto contatto con la Città di Lugano e il Comune di Massagno. Inizialmente è importante che il ragazzo trovi un suo equilibrio e qualcosa che lo possa motivare, poi progressivamente comincerà degli stages ed infine si spera che inizi una formazione che gli permetta di ottenere un diploma e un suo futuro formativo. Si tratta, insomma, di riagganciarli da un profilo relazionale in un momento di crisi per poi motivarli a trovare la loro strada, con la speranza che possano intraprendere un percorso più sereno per la loro vita adulta.
Un cantone politicamente vivace e sanguigno, in cui spiccavano numerosi «tenori», personalità vigorose che dettavano la linea rinfrancando la platea. Nel dopoguerra i congressi erano affollatissimi, le relazioni introduttive dei presidenti lunghe e articolate, sia a destra che a sinistra dell’arco partitico. Alcuni nomi sono rimasti impressi nella memoria: Flavio Cotti, Pier Felice Barchi, Sergio Salvioni, Dick Marty, Argante Righetti, Werner Carobbio… alcuni di loro sono ancora attivi e lucidissimi: Pietro Martinelli, Franco Cavalli e Tito Tettamanti, per fare tre nomi. In questa folta pattuglia militavano anche i due politici di lungo corso recentemente scomparsi: Alberto Lepori (classe 1930) e Franco Masoni (1928), democristiano il primo, liberale il secondo. Nel clima della guerra fredda categorie e definizioni apparivano cristalline: tutti sapevano collocare Lepori e Masoni nell’emiciclo, illustrare la loro cultura politica, indicare le loro preferenze e i loro riferimenti. Entrambi laureati in giurisprudenza, avevano mosso i primi passi nei loro rispettivi comuni (Massagno e Lugano) prima di approdare in Gran Consiglio. Qui però i percorsi si divisero: Lepori fu eletto nel governo cantonale (dove rimase dal 1968 al 1975), mentre Masoni prese il treno per Berna, prima sui banchi del Consiglio nazionale e poi su quelli del Consiglio degli Stati. Agli incarichi a tempo pieno degli esecutivi preferì la paziente e puntigliosa tessitura nei legislativi, non meno onerosa ma intellettualmente più gratificante, giacché Masoni guardava anche altrove, e prima di tutto al suo amato Carlo Cattaneo, di cui si fece promotore, assieme ad altri studiosi (svizzeri e italiani), dell’edizione critica delle opere (scritti e carteggi). Era attratto anche dalla poesia, e in questo ricordava un’altra figura rilevante nella storia politica del cantone: il Consigliere federale Giuseppe Lepori. Di quest’ultimo Alberto era nipote, custode delle memorie familiari e curatore delle sue opere giuridiche (tra cui il volume uscito postumo Diritto costituzionale ticinese). Una delle sue massime preoccupazioni riguardava gli orizzonti del partito cattolico-conservatore (poi Ppd e oggi Centro), ovvero la necessità di poggiare la piattaforma programmatica su solidi pilastri storici e ideali. Di qui i suoi continui sforzi –evidenti nell’opuscolo del 1998 «Dalla storia nasce il programma del Partito» – di fissare le coordinate per una politica dai tratti profondamente umani-
tari e umanistici: la socialità, la sussidiarietà, la difesa dei diritti dell’uomo. In questo spazio ideologico-politico Lepori si muoveva a suo agio, come provano le sue collaborazioni all’Associazione per la storia del movimento cattolico nel Ticino e i suoi articoli regolarmente consegnati al periodico di riflessione cristiana «Dialoghi». La politica e la cultura: due settori che occorreva porre in dialogo, preoccupazione costante sia in Lepori che in Masoni. «Vogliamo informarci, discutere, proporre»: questa l’esigenza che nel 1962 indusse la Federazione goliardica ticinese ad organizzare una giornata di studio sul tema. A tenere la relazione principale fu invitato Norberto Bobbio, il professore torinese che nel 1955 aveva raccolto in volume presso Einaudi proprio alcuni saggi su questo problematico rapporto. Alla discussione parteciparono Franco Cavalli, Guido Pult, Giuseppe Curonici, Elzio Pelloni e naturalmente il giovane avvocato Franco Masoni, persuaso che alle vecchie incrostazioni dottrinarie, al malcostume rissoso e ai semplici interessi elettorali occorresse anteporre «l’intelligenza e il merito». Gli anni tra i Sessanta e i Settanta furono ricchi di intemperanze e di polemiche, anche velenose. Per l’élite liberale, che aveva la sua base nella Lugano bancaria e la sua roccaforte giornalistica nella «Gazzetta Ticinese», la progressione del Partito socialista autonomo (Psa) rappresentava un pericolo: andava arginata in tre ambiti strategici: la scuola, la radiotelevisione, la gestione del territorio. A scorrere, sia pure velocemente, i giornali dell’epoca, si rimane colpiti dall’asprezza dei duelli, anche all’interno dello stesso Plrt, tra l’ala radicale e l’ala liberale: confronti che spesso assumevano le vesti delle contrapposizioni sistemiche: liberalismo/marxismo, laicità/confessionalità, onestà/disonestà, bene/male e via di seguito, in un clima che lasciava poco spazio alle posizioni moderate. Chi osserva con occhio critico le baruffe odierne, proverà un senso di nostalgia per quella stagione permeata di passioni e di epici confronti. Ma allora i quotidiani (ben sei, e per un breve periodo addirittura sette) entravano in ogni casa, fungendo da tramite tra i partiti (ancora ben strutturati e influenti) e l’opinione pubblica. In tale arena le singole personalità assumevano mansioni di regia riconosciute e rispettate, con un’attenzione particolare all’organizzazione del consenso, politico-clientelare ma anche culturale.
L’avvocato Franco Masoni è stato deputato in Gran Consiglio, Consigliere Nazionale e Consigliere agli Stati. (Keystone)
Guido Grilli
Tra le attività proposte anche un atelier di sartoria. (www.fgabbiano.ch)
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Insieme per un aperitivo nella giungla
Mondoanimale ◆ Gli scimpanzè, i primati più simili a noi, si rilassano in compagnia condividendo veri e propri cocktail naturali Maria Grazia Buletti
Una combriccola di amici riuniti intorno a un aperitivo improvvisato tra scambi, vocalizzazioni e momenti di socialità. No, non siamo in un bar all’aperto all’ora dell’happy hour, ma nel cuore del Parco nazionale di Cantanhez, in Guinea-Bissau, dove un team di ricercatori guidato da Anna Bowland e Kimberley Hochings (del Centre for Ecology and Conservation dell’Università inglese di Exeter) ha osservato un gruppo di scimpanzé selvatici mentre condividevano un gigantesco frutto del pane africano naturalmente fermentato. Grazie a telecamere nascoste nella vegetazione, gli studiosi hanno catturato un raro spaccato di vita sociale tra i nostri parenti più stretti, scoprendo poi che quello che poteva sembrare un semplice spuntino si è invece rivelato essere qualcosa di più: una vera e propria «bevuta» collettiva a base di etanolo naturale contenuto nella polpa fermentata del frutto. E sono almeno una decina gli episodi documentati dalle telecamere nascoste in cui gli scimpanzé si sono riuniti attorno ai frutti fermentati dell’albero Trichoscypha africana. «Una volta maturati, questi frutti sviluppano naturalmente alcol in concentrazioni comprese tra lo 0,01% e lo 0,61%». Lo spiegano i ricercatori secondo i quali «questo comportamento potrebbe rappresentare una forma primitiva di feasting : il radunarsi in gruppo per consuma-
re cibo e bevande». Una pratica che, negli esseri umani, è alla base di molte tradizioni culturali e sociali. È la parziale risposta alle domande inevitabili sul «Cocktail selvaggio» e sulle abitudini conviviali degli scimpanzé, la cui scoperta è stata pubblicata sulla prestigiosa rivista «Current Biology», accendendo i riflettori e l’interesse su un comportamento finora poco o per niente noto.
Alla luce della convivialità alcolica dei primati più vicini e simili a noi, è lecito chiedersi ora se essi cerchino intenzionalmente l’alcol contenuto nella frutta fermentata. Ancora più affascinante sarà scoprire quale sia il motivo di questa scelta. Secondo Anna Bowland, del Centro per l’Ecologia e la Conservazione dell’Università di Exeter «potrebbe esserci un legame con i meccanismi cerebrali che, grazie al rilascio di dopamina ed endorfine, anche negli esseri umani associano l’alcol a sensazioni di piacere e rilassamento». Ma l’ipotesi va oltre e ci si interroga se, proprio come accade per la nostra specie Homo sapiens, anche per gli scimpanzé la condivisione di queste «bevute» possa davvero avere un ruolo nel rafforzare i legami sociali.
La teoria avanzata dai ricercatori è senza dubbio molto interessante e porterebbe a rafforzare l’ipotesi secondo la quale il comportamento osservato negli scimpanzé potreb-
be non essere un semplice caso isolato di consumo di frutti fermentati, ma l’espressione di una dinamica sociale dalle radici evolutive profonde, condivisa con l’Homo sapiens. In altre parole, secondo i ricercatori: «Il consumo conviviale di sostanze leggermente alcoliche potrebbe rappresentare un’eredità comportamentale risalente a un antenato comune delle grandi scimmie africane e degli esseri umani moderni». Questo comportamento è lungi dall’essere casuale e sembra infatti seguire schemi precisi: «Il radunarsi in gruppo, il consu-
mo collettivo del frutto fermentato, la gestione condivisa delle “porzioni” e l’apparente assenza di conflitti durante l’interazione». La scoperta apre quindi la strada a una nuova linea di ricerca, incentrata sul ruolo dell’alcol, in dosi naturali e limitate, come possibile facilitatore della socialità anche tra le altre grandi scimmie: «L’etanolo, in piccole quantità, è noto per i suoi effetti neuromodulatori». Così i ricercatori ribadiscono come nell’essere umano può stimolare il rilascio di dopamina e endorfine, generando sensazioni di benessere, riducendo la
timidezza e favorendo l’interazione sociale. Perciò: «È plausibile ipotizzare che meccanismi simili agiscano anche nel cervello degli scimpanzé, che con noi condividono oltre il 98% del patrimonio genetico». In questo contesto, il comportamento osservato non sarebbe solo una curiosità etologica, ma una finestra sulle origini evolutive della convivialità intesa come strategia adattativa per rafforzare i legami all’interno del gruppo. Se ulteriori studi confermassero questa ipotesi, ci troveremmo di fronte a un tassello importante per comprendere come alcuni aspetti della cultura umana, come il «brindare insieme», possano avere radici ben più antiche, inscritte nella nostra storia evolutiva e condivise con altri primati. Rimane ancora da scoprire se gli scimpanzé siano in grado di metabolizzare l’etanolo in modo simile agli esseri umani, anche se alcune ricerche suggeriscono che un adattamento molecolare in tal senso potrebbe risalire a un lontano antenato comune. Quel che è certo, però, è che la prossima volta che condividerete un brindisi tra amici, potreste pensare a quei gruppi di scimpanzé che si radunano nella savana attorno a un frutto fermentato. In fondo, il piacere dello stare insieme, magari con un bel drink in mano, potrebbe essere molto più antico di quanto crediamo.
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Gli scimpanzé vivono momenti «conviviali» che probabilmente hanno un ruolo nel rafforzare i legami sociali. (Animalia.bio)
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L’altropologo
Il mare sulla luna
Salire nottetempo sul ponte di una barca a vela alla fonda da qualche parte remota delle Isole Incoronate –quelle che i Croati chiamano Kornati o anche Stomorski – al centro della costa dalmata è un’esperienza unica. Dovesse poi capitare che ci sia la luna piena lo stupore sfuma per lasciare spazio ad un senso di estraniamento: quelle che i naviganti della Serenissima chiamavano le Isole Incoronate appaiono come una miriade di ciotole di purissima maiolica rovesciate bocca in giù nell’acqua. Emergono da un mare immobile come immobili dorsi di balene addormentate. La bonaccia fa specchio a una luna che esalta il candore del calcare in un riverbero che quasi offende l’occhio. Se De Chirico avesse mai dipinto paesaggi avrebbe dipinto le Incoronate: metafisiche, surreali, inquietanti: dove siamo? Dove andiamo? Chi siamo? Il Mare della Tranquillità che compare nelle mappe
della Luna è lì, alle Isole Incoronate… Così il vostro Altropologo di riferimento. Navigante per mancata vocazione – di sottocosta e piccolo cabotaggio – una volta l’anno con tre amici attraversa l’Adriatico per infilarsi in quel labirinto che sono le isole dell’antica Dalmazia, oggi Croate e Montenegrine, e perdersi fra fiordi e insenature, a scanso di secche ed improvvise raffiche di bora – ora ridossati alla costa ora invece lanciati in mare aperto per sfruttare il vento favorevole. Spostandosi come vecchi mercanti veneziani di cala in cala e di porto in porto fra toponimi antichi che come tutte le cose di mare rispondono ad almeno due – a volte più – denominazioni nazionali perché le cose di mare sono di tutti e di nessuno… Pelagosa/Palagruza, Lastovo/Lagosta/Augusta Insula: porta meridionale della rotta che i mercanti greci seguivano verso gli empori di Spina e Adria per commer-
La stanza del dialogo
I ragazzi e il fascino del gruppo
Gentile Signora,
vedovo da sei anni, vivo con mio figlio Francesco dodicenne e con la mia nuova compagna. Sinora è andato tutto bene. Il ragazzo, è cresciuto bene: allegro, spiritoso, amato da tutti. Ma a volte patisce la disciplina scolastica. Gli è sempre stato d’aiuto Ugo, il compagno di banco: un ragazzo serio, studioso, il classico primo della classe. Ugo, figlio unico di famiglia modesta, è spronato a studiare per corrispondere alle attese di promozione sociale dei genitori. Abitiamo in un quartiere dove la maggior parte dei ragazzi sono ricchi, viziati e annoiati e, anche per questo Ugo non è mai stato assimilato nella classe. Ciò nonostante l’amicizia tra i due compagni di banco è rimasta salda e leale. Almeno sinché nella coppia si è introdotto un terzo. Un ragazzino inquieto, che allo studio preferisce i videogiochi. Un mito per i compagni. La sua ultima trovata è stata far circolare, tra gli amici, immagini pornografiche prese da qualche sito Internet. Anche
mio figlio purtroppo sembra sedotto dal carisma di questo ragazzo. Mi preoccupa che per stargli dietro, e per far parte del gruppo, Francesco sembri disponibile a voltare le spalle al suo amico Ugo, sempre più isolato. La lealtà per me è un valore fondamentale. In più non sono disposto a liquidare come «ragazzate» la diffusione di immagini pornografiche tra adolescenti. Il comportamento di mio figlio mi mette in difficoltà, ma non so come affrontare il problema con lui. / Un papà
Caro papà, la vostra famiglia ha conosciuto la ferita del lutto ma ha saputo ricomporre, intorno a Francesco, un nucleo familiare in grado di garantirgli affetto e sicurezza. Tuttavia la serenità dei figli non è mai un bene definitivamente acquisito: è un fragile equilibrio che la vita rimette continuamente alla prova. Ora, con l’ingresso in preadolescenza, Francesco si trova ad affrontare un passaggio che riguarda tutti
Alimentazione
Per
ciare vasellame con l’ambra del Baltico e l’oro degli Sciiti. Quella che i Romani chiamarono l’Augusta Insula era ricchissima per essere punto di riferimento obbligato quasi al centro dell’Adriatico. Lontana dai possibili attacchi dei pirati dalmati divenne punto strategico della marina jugoslava interdetto al turismo. Oggi è un gioiello, un trionfo di flora mediterranea che sembra voler crescere fino sotto l’acqua senza lasciar spazio agli scogli… Scivolare non visti nottetempo in porto a Lastovo, al termine della traversata dalle Isole Tremiti, è un’esperienza sempre emozionante… viene in mente Montale, il suo Euforia di Naufraghi… e tutti quei sentimenti lì perché il mare è bello anche e proprio perché è sempre pericoloso non foss’altro che nella mente. Poi uno ascolta storie improbabili, quelle che i marinai hanno ispirato alla gente di terra, che ha paura di
loro perché i marinai sono infidi… Così, alle Bocche di Cattaro – il Kator montenegrino – si sente ancora raccontare la storia delle Tre Sorelle. Chi dice si chiamassero Fiomena, Gracijana e Rina – chi Nera, Bianca e Rosa. Figlie di un ricco mercante vivevano in armonia in un bel palazzo –siamo nel XVI secolo – costruito dal padre. Talmente armonica e condivisa era la loro vita che finirono per innamorarsi tutte dello stesso uomo. Che era però un marinaio. Questi (pare si chiamasse Valentin) preferiva delle tre Rina – la più giovane. Sotto pressione – mettiamola così – dall’eccesso d’amore decise di tornare per mare promettendo che al suo ritorno avrebbe sposato quella delle tre che lo avesse aspettato con più fervore. Le Tre Sorelle allora decisero di ritirarsi a una vita virtuosa di preghiera in attesa del ritorno dell’amato. Passarono gli anni senza che il Nostro tornasse. La più
anziana delle sorelle morì. Le altre due allora decisero di murare la finestra della sua stanza con vista mare per dare un chiaro segnale al Valentin di ritorno. Poi morì anche Gracijana – e Rina murò anche la sua stanza. Oggi, delle tre finestre del palazzo vista mare ne rimane aperta solo una. Incalzato dalle domande del vostro Altropologo preferito, l’anziana oste di una dignitosa bettola sul retro delle mura della Città Vecchia di Cattaro, dall’aspetto di chi abbia combattuto più di una battaglia amorosa, mi spiegava che il marinaio non fosse mai più tornato. «Perché nessuno ha provveduto allora a murare le sua finestra?» –insistevo. Come irritata sbottò: «Perché Rina è ancora là che aspetta! Cosa crede?! Noi donne non siamo come voi uomini». Poi un attimo di pausa: «… poi dicono che là, nella casa delle Tre Sorelle, ci sia un fantasma…». Misteri della Dalmazia.
i ragazzi, ma che per lui assume un significato particolare. Sta imparando a costruirsi un’identità, all’interno del gruppo dei pari, dove vigono leggi diverse da quelle della famiglia: leggi dure, a volte spietate, ma che si devono affrontare per crescere. Di fronte ai coetanei, ogni ragazzo è chiamato a misurarsi con l’eventuale trasgressione dei valori familiari. Sulla scacchiera della classe, ognuno occupa una posizione diversa. Ugo, il «primo della classe», rappresenta l’impegno, il merito, la costanza, valori che, in questa fase, spesso vengono messi in ombra dall’esuberanza dei più carismatici, come il nuovo arrivato. Quest’ultimo, con la sua inquietudine e il suo fascino, incarna la seduzione del rischio, l’attrazione per ciò che infrange le regole. È il volto, acerbo ma già riconoscibile, di un certo tipo di maschilità dominante, fatta di audacia e di sfida. E non stupisce che un ragazzo come Francesco, intelligente
ma ancora fragile, trovi difficile sottrarsi a quel magnetismo. Lei ha ragione a non liquidare gli episodi accaduti come semplici «ragazzate». La manipolazione di immagini sono azioni che violano la dignità delle persone e rivelano una precoce insensibilità verso l’altro, in particolare verso le donne. Tuttavia, è importante distinguere: se da un lato occorre condannare con chiarezza il gesto, dall’altro bisogna evitare che la colpa ricada indistintamente su tutti. Francesco non è un complice attivo, ma un ragazzo che cerca di non perdere il gruppo, anche a costo di tacere. In questo silenzio non c’è solo viltà ma anche la paura di restare solo, di essere tagliato fuori, di perdere un’identità ancora in formazione. È ora necessario che Francesco senta la vostra fiducia, più ancora che la vostra disapprovazione. Cercate di spiegargli che la vera forza non sta nel seguire il gruppo, ma nel saper dire di no
di Laura Botticelli
controllare le calorie non basta togliere l’alcol
Buongiorno Laura, ho 70 anni e per la mia salute ho deciso di perdere peso perché ho una pancia troppo prominente e mi limita parecchio nel movimento e nella quotidianità. Sto cercando quindi di ridurre le porzioni del cibo e ho deciso di ridurre anche il mio consumo di birra e sostituirla con quella analcolica. Il problema è che dopo qualche mese il mio peso non sta cambiando e quindi mi chiedo se anche la birra senza alcol fa ingrassare e cos’altro posso fare. / Valerio
Buongiorno Valerio, se il suo peso e la sua circonferenza vita incidono sulla sua salute fa bene a desiderare di perdere un po’ di chili. Come fare? Normalmente ci si concentra su due punti fondamentali: l’alimentazione e il movimento. Il primo passo da intraprendere è quello di cambiare le proprie abitudini
alimentari. Se ha valutato che consuma pasti troppo abbondanti fa benissimo a ridurli. Io le chiedo anche se questi siano equilibrati perché aiuta molto seguire i principi della piramide alimentare, quindi le consiglio di prepararsi sempre un piatto con delle fonti di proteine, un carboidrato e tante verdure in modo da non farle mancare nulla in termini di nutrienti e aiutarla a controllare l’apporto calorico. Attenzione pure al condimento, da non sottovalutare la quantità di olio che si usa. Importante è anche l’idratazione e qui l’acqua dovrebbe farla da padrona. Per quel che concerne la birra, in effetti un suo consumo regolare può portare a un aumento di peso addominale dovuto all’alto contenuto calorico della birra – una birra da 33cl può avere dai 100 ai 180 kcal – combinato con l’effetto dell’alcol sul corpo,
che rallenta la combustione dei grassi. Ha fatto quindi bene ad evitarne il consumo ma anche con la birra analcolica non ha visto dei grandi cambiamenti. La spiegazione sta nel fatto che la birra analcolica è prodotta in modo simile alla birra normale. Gli ingredienti principali sono acqua, malto d’orzo e luppolo. La differenza è che l’alcol viene rimosso o ridotto a meno dello 0,5% ABV (Alcohol by Volume) durante il processo di produzione della birra quindi sebbene la birra analcolica contenga meno calorie della birra normale a causa della bassa o zero gradazione alcolica, contiene comunque calorie derivanti dai carboidrati. Ad esempio, una tipica porzione da 33cl ne contiene tra le 50 e le 80 calorie, la maggior parte delle quali proviene dai carboidrati. Pertanto, sebbene sia un’opzione a minor contenuto calorico rispetto alla
birra alcolica, non è priva di calorie. Come per qualsiasi altro alimento o bevanda che contiene calorie, quindi, se ne si consuma in eccesso senza bilanciarlo con una dieta sana e un regolare esercizio fisico esso può incidere sul bilancio energetico e non farle perdere peso. Sostituisca quindi la birra analcolica con l’acqua e con moderazione, magari una volta alla settimana si conceda una birra analcolica o normale. Desidero renderla attento pure sul fatto che le pance tendono ad essere più prominenti nelle persone anziane anche per via dell’avanzare dell’età perché il fabbisogno calorico diminuisce e spesso si diventa meno attivi. Non si dimentichi quindi di praticare dell’attività fisica, iniziando magari con passeggiate oppure il nuoto o il ciclismo. Secondo le raccomandazioni dell’OMS, al fine di migliorare
quando qualcosa ferisce la propria coscienza. Raccontategli che anche voi, da ragazzi, avete provato la paura di essere esclusi, e che la libertà non è mai un dono, ma una faticosa conquista. In questo momento, Ugo rappresenta una figura preziosa per vostro figlio: il testimone silenzioso di un’altra possibilità di essere maschio, amico, individuo. Tuttavia non imponete a Francesco di rompere con gli altri, ma incoraggiatelo a coltivare le buone amicizie. La vostra famiglia, solidale e armoniosa, gli insegnerà più di mille prediche, che si può sempre ricominciare.
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a info@azione.ch (oggetto «La stanza del dialogo»)
la salute in generale gli adulti over65 anni dovrebbero svolgere almeno 150 – 300 minuti alla settimana di attività fisica aerobica di moderata intensità o almeno 75 – 150 minuti di attività fisica aerobica a intensità vigorosa ogni settimana o una combinazione equivalente di attività con intensità moderata e vigorosa. Si raccomanda, inoltre, di associare esercizi di rafforzamento dei maggiori gruppi muscolari, 2 o più volte la settimana. Se con tutti questi accorgimenti non dovesse vedere un miglioramento si rivolga a un dietista per aiutarla in maniera più personalizzata.
Informazioni
Avete domande su alimentazione e nutrizione? Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a info@azione.ch (oggetto «Alimentazione»)
di Cesare Poppi
di Silvia Vegetti Finzi
Un dolce inizio di Avvento.
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ATTUALITÀ
Chiesa anglicana: una donna al vertice
La nomina di Sarah Mullally ad arcivescova di Canterbury ha suscitato molte critiche negli ambienti conservatori
Pagina 16
«La violenza non merita perdono»
Le donne di Kibera, immensa baraccopoli in Kenya, lottano per i loro diritti tra baracche, miseria e maltrattamenti quotidiani
Pagina 17
Non c’è pace in Medio Oriente
Profittando dell’attenzione internazionale sulla situazione nella Striscia, il Governo Netanyahu spinge sulla Cisgiordania
Pagina 19
L’interesse personale sopra ogni cosa
Svizzera ◆ In tempi di incertezza l’elettorato sembra dimenticare il valore del bene comune. Per il politologo Michael Hermann è il riflesso di un cambiamento nel rapporto tra Stato e cittadini, incoraggiato dall’élite politica ed economica che guarda agli USA
Basta alzare un attimo lo sguardo dal proprio micromondo, fatto di qualche difficoltà a sbarcare il lunario o a trovare le giuste motivazioni per affrontare la quotidianità, per vedere un pianeta che sembra aver smarrito la bussola. Guerre, crisi climatica, instabilità economica e sociale, erosione della democrazia e delle istituzioni: un mosaico di emergenze che crea l’immagine di un tempo tormentato. «Viviamo in un’epoca in cui la gente cerca stabilità e punti fermi in un mondo dominato dall’incertezza», osserva Michael Hermann, politologo e direttore dell’istituto di ricerca demoscopica Sotomo. «In Svizzera una parte importante della società si sente disorientata, quasi sopraffatta dalle dinamiche attuali. È questo senso di smarrimento che alimenta il desiderio di sicurezza e di difesa dei propri interessi».
I media, e ancora di più i social media, contribuiscono a rafforzare le differenze e le contrapposizioni
Una ricerca di stabilità e certezze che emerge anche nei risultati scaturiti ultimamente dalle urne. Secondo Hermann, questa tendenza si era già intravista più di un anno fa nella votazione sulla tredicesima rendita AVS e si è ripresentata con l’abolizione del valore locativo. Chi possiede un appartamento o una casa vuole garantirsi un futuro sicuro, privo di preoccupazioni finanziarie, senza un mutuo da pagare o da lasciare ai figli. Secondo l’amministrazione federale, quel «sì» espresso il 28 settembre scorso comporterà minori entrate fiscali per circa due miliardi di franchi all’anno, che si sommano agli oltre quattro miliardi della tredicesima AVS. «Tra non molto dovremmo esprimerci sull’iniziativa dell’Alleanza del Centro sull’imposizione fiscale delle coppie. Anche questa favorirà quella parte di elettorato che sta già piuttosto bene economicamente», ricorda Hermann. «E il prossimo anno toccherà all’iniziativa “200 franchi bastano" dell’UDC, che promette un ulteriore risparmio all’elettorato».
Insomma, si fa strada un atteggiamento che fa pensare più al proprio tornaconto che al bene comune, perché il mondo là fuori è già abbastanza incerto e pericoloso. Stando a Hermann, colpevole di questo comportamento è anche l’élite economica che ha tradito quell’idea di Svizzera fondata sul liberalismo, accompagnato da un forte senso di responsabilità verso gli altri e la collettività. «Da al-
cuni decenni quell’élite si lascia ispirare dal modello di liberalismo americano», afferma il politologo. «Lo si è visto già nei primi anni Duemila con i casi Swissair, UBS, e poi più di recente con Credit Suisse. Una tendenza che oggi viene ulteriormente rafforzata dal clima internazionale che spinge tutti a pensare un po’ più a sé stessi che agli altri».
Per tanti non vale la pena dare ascolto agli inviti di chi chiede maggiore prudenza per quanto riguarda la spesa pubblica
In mezzo a un mare in burrasca, la Svizzera è sempre riuscita a cavarsela e a mantenersi a galla, nonostante gli tsunami globali, dalla crisi finanziaria a quella dell’eurozona, dalla pandemia di Covid-19 alla crisi energetica. Con il passare degli anni si è così consolidata la convinzione che, tutto sommato, non valga la pena dare troppo ascolto agli inviti di chi chiede maggiore prudenza per quanto riguarda la spesa pubblica, perché in
fondo «ce la siamo sempre cavata». «Tutti vogliono ricevere una fetta di quella torta», osserva Hermann, sottolineando come a rafforzare questa mentalità da Paese della cuccagna contribuiscono anche i partiti che promettono sgravi fiscali senza prevedere misure per mantenere in equilibrio le finanze dei Cantoni e della Confederazione.
Incomprensibile per il politologo è anche la politica a lume di naso dei partiti che sembrano incapaci di guardare oltre la durata di una legislatura. «In Svizzera le elezioni raramente producono cambiamenti sostanziali negli equilibri di potere, eppure sembra che la preoccupazione principale dei partiti sia evitare che un’iniziativa popolare venga proposta in votazione poco prima del rinnovo del Parlamento», continua Hermann. «Temono che il voto possa favorire gli avversari politici, dimenticando però di proporre possibili soluzioni al disagio da cui quelle iniziative nascono».
L’esperto di geografia politica ricorda inoltre i vari fossati – tra città e campagna, tra giovani uomini e
giovani donne, tra generazioni, tra Cantoni latini e svizzero-tedeschi, tra polenta e Rösti – che attraversano in tutte le direzioni la Svizzera. Il fatto che le linee di frattura non corrano parallele, ma si incrocino, contribuisce a rafforzare il tessuto che tiene insieme la Willensnation, la Nazione fondata sulla volontà e non su un’unica lingua o cultura. Di recente Michael Hermann ha notato però che la voglia di colmare questi fossati e di superare le divisioni è in parte venuta meno. «È come se avessimo perso la capacità di trovare un terreno comune», afferma il direttore di Sotomo. «I media, e ancora di più i social media, contribuiscono a rafforzare le differenze e le contrapposizioni, spingendo tutti verso una comunicazione più aggressiva, meno filtrata». Un clima rude che si respira soprattutto negli USA e che, secondo il politologo, si fa sentire anche in Svizzera. «Non è un problema finché i fossati cambiano e si ridisegnano», dice Hermann. «Lo è invece quando ci si trincera dentro, quando non si è più disposti a cercare il confronto dialettico con chi la pensa diversamente».
In un mondo sempre più interconnesso, dove le notizie viaggiano alla velocità della luce e il globale diventa quasi locale, ciò che accade in un altro angolo del pianeta sembra avvenire davanti alla porta di casa. Non stupisce quindi che si abbia spesso la sensazione di vivere in un pianeta fuori controllo, in un perenne stato di insicurezza. «Il rischio è di sentirsi sopraffatti e di rifugiarsi in una sorta di guscio protettivo», evidenzia l’esperto, ricordando che le indagini condotte dall’istituto di ricerca Sotomo mostrano, da un lato, una generale soddisfazione per la propria vita, ma dall’altro rivelano un diffuso pessimismo, in particolare tra le giovani generazioni che non credono di poter contribuire a migliorare il proprio futuro e quello della società. «È importante – conclude il politologo –che con le loro scelte politiche, i genitori e gli anziani di oggi non pensino solo al proprio tornaconto, ma che si impegnino a creare condizioni che offrano anche ai più giovani, a chi non ha ancora una casa o una pensione garantita, reali prospettive di sviluppo».
Viviamo in un mondo iperconnesso, dove eventi lontani sembrano vicini generando un senso diffuso di insicurezza e caos. (Freepik)
Luca Beti
La prima donna a guidare la Chiesa anglicana
Potentissime ◆ La nomina di Sarah Mullally ad arcivescova di Canterbury ha suscitato critiche negli ambienti conservatori Cristina Marconi
Fino a pochi anni fa non potevamo sapere quanto una mitra stesse bene su un caschetto biondo, con un volto femminile aperto e intelligente a sostenere la grandiosità del paramento. Cambiano i tempi e cambia pure l’iconografia, ora che Sarah Mullally (nella foto) è diventata arcivescova di Canterbury, la massima autorità spirituale dell’anglicanesimo. Prima donna dopo 105 uomini nella storia della Chiesa d’Inghilterra, iniziata nel 597 quando Agostino di Canterbury arrivò nel Kent da Roma, istituzione che oggi conta oltre 85 milioni di fedeli nel mondo. «Nel caos apparente che ci circonda, nel mezzo di una profonda incertezza globale, la possibilità di guarigione risiede solo in atti di gentilezza e di amore», ha dichiarato Mullally, che dal 2026 in poi avrà davanti a sé una miriade di compiti erculei, tra cui quello di riempire le chiese sempre più vuote e prendere posizione nei dibattiti etici del mondo occidentale, ma anche quello di gestire le sensibilità rigide e conservatrici di alcune comunità molto dinamiche ma contrarie alla leadership femminile.
«Sono naturalmente sovversiva», ha detto di sé, e la sua nomina apre un divario profondo anche con il Vaticano ancora contrario alle ordinazioni femminili
L’arcivescovo uscente, Justin Welby, è stato spinto a dimettersi prima della scadenza naturale dei 70 anni per una «marcata mancanza di curiosità» verso un terribile caso violenze perpetrate da un avvocato e leader spirituale di campi estivi cristiani fin dagli anni Sessanta-Ottanta. L’uomo, John Smyth, frustava i bambini e i ragazzi in una casupola nel giardino di casa sua, sfruttando l’enorme influenza che aveva su questi giovani di ottime famiglie, provenienti da scuole che, per non intaccare la propria reputazione, hanno preferito allontanarlo, prima in Zimbabwe e in poi Sudafrica, senza preoccuparsi delle altre vittime che nel corso degli anni hanno superato di molto il centinaio. Tra loro c’era anche un sedicenne affogato dopo uno dei tipici bagni che Smyth amava fare insieme ai ragazzi nudi, ennesimo capitolo di uno scandalo di abusi non solo sessuali. E Welby, che
«Io intendo essere una pastora che permetta al ministero e alla vocazione di ciascuno di fiorire», ha detto Mullally, la cui nomina alla «cattedra d’Agostino» è stata approvata da Re Carlo, formalmente capo della Chiesa d’Inghilterra. (Keystone)
conosceva l’uomo dagli anni Ottanta, non ha fatto niente per portarlo davanti alla giustizia prima della sua morte, avvenuta nel 2018.
La Chiesa anglicana reca i segni del vecchio impero britannico e delle enormi disuguaglianze, economiche, sociali e teologiche, all’interno della cosiddetta «comunione». Basterà la solidità umana e teologica della nuova arcivescova, oltre alle evidenti doti di mediazione che ha dimostrato fin da quando, a soli 36 anni, è stata nominata capo del servizio infermieristico inglese, con 400mila persone sotto di lei? Basterà la profonda spiritualità che, dopo essersi avvicinata alla religione a 16 anni, l’ha portata a scegliere di fare l’infermiera oncologica e non la dottoressa per dare un senso più completo e profondo al concetto di cura? Mullally, 63 anni, dislessica, sposata e madre di due figli, sacerdote dal 2002, vescova di Londra dal 2018, è una scelta poten-
te, che sa di modernità e di progresso. «Sono naturalmente sovversiva», ha detto di sé, e la sua nomina, seppur attesa, apre un divario profondo anche con il Vaticano, dove papa Leone XIV ha detto che intende continuare sulla linea di apertura di Francesco, pur ritenendo «altamente improbabile» che si arrivi alle ordinazioni femminili. Ma i problemi principali riguardano il dialogo all’interno della comunione, le critiche giunte dal Sudamerica e dalla Nigeria, dove i cristiani sono 20 milioni e devono vedersela con gli attacchi di Boko Haram e di altri gruppi radicalizzati che, soprattutto al nord, hanno fatto 52mila vittime in 14 anni. Martiri veri e propri.
L’arcivescovo Henry Ndukuba, primate della chiesa anglicana locale, ha definito la nomina di Mullally «un evento triste» e ha affermato il suo allineamento con la Global Anglican Future Conference, Gafcon,
che raccoglie le chiese più conservatrici delle 40 e passa di comunione anglicana, quelle fra cui l’arcivescova è «primus inter pares». Ciascuna ha giurisdizione, e solo alcune di queste hanno approvato l’ordinazione femminile, che in Inghilterra è arrivata nel 1985, seguita dal presbiterato nel 1995 e, 10 anni fa, dalla prima donna vescovo.
«Nel caos apparente che ci circonda, nel mezzo di una profonda incertezza globale, la possibilità di guarigione risiede solo in atti di gentilezza e amore»
«Io intendo essere una pastora che permetta al ministero e alla vocazione di ciascuno di fiorire», ha detto Mullally, la cui nomina alla «cattedra d’Agostino» è stata approvata da Re Carlo, formalmente capo della
Chiesa d’Inghilterra. Dicono sia molto decisa nel seguire una linea di persuasione morale in modo da tenere insieme le differenze, tanto che uno dei suoi motti è: «Se vuoi andare veloce vai da solo, se vuoi andare lontano vai insieme». Fermamente contraria al suicidio assistito, è invece considerata molto aperta sulle coppie omosessuali. «Quello che dobbiamo ricordare è che si tratta di persone, e la Chiesa cerca di dimostrare amore a tutti, perché riflette il Dio dell’amore, che ama tutti», ha affermato dopo essere stata una delle principali fautrici della benedizione per le coppie stabili e aver affermato che la Chiesa deve avere gli occhi aperti «sul male che abbiamo fatto» soprattutto alle persone LGBT. L’appuntamento è per il 25 marzo prossimo, alla cattedrale di Canterbury, quando avverrà l’insediamento ufficiale di Mullally: un momento storico per una tradizione che abbraccia la modernità.
«Non devi perdonare se tuo marito ti bastona»
L’autista dopo essersi infilato in una stradina laterale di Kibera, lo slum della periferia di Nairobi e il più grande di tutta l’Africa, mi lascia all’indirizzo indicato. Timoroso, non vuole neanche scendere dall’automobile. Intorno un brulicare di persone: ragazzi corrono con gli scooter, bambini giocano per strada, ai lati piccole rivendite di frutta e generi alimentari. Nato nei primi anni del secolo come un insediamento coloniale degli inglesi, oggi riunisce 12 villaggi in soli 2,5 chilometri quadrati. Ci abitano tra 250mila e 2,5 milioni di persone, a seconda delle fonti. È la terra desolata degli ultimi, che vivono dentro baracche da 4 metri per 4 fatte mura di fango e tetti di lamiera, sopra un pavimento di terra, senza servizi igienici e acqua potabile – una sola latrina ogni 50 tuguri – con continue epidemie di colera e percentuali altissime di HIV. Il cinquanta per cento delle persone che abita qui è disoccupato; c’è una forte criminalità; abuso di droghe e alcol, distillati illegali e pericolosi come il micidiale chang’aa (ricavato da miglio, mais e sorgo); l’aspettativa di vita è di 30 anni e, a causa delle violenze sessuali, una ragazza su due tra i 15 e i 24 anni rimane incinta prematuramente.
A causa delle violenze sessuali, una ragazza su due tra i 15 e i 24 anni rimane incinta prematuramente
Ma c’è anche chi resiste agli stupri e alla malora dei giorni, forme di auto-organizzazione e resistenza, artisti e gruppi teatrali, così come le donne di Feminist for peace che si battono contro la violenza di genere, sostenute dall’Agenzia donne dell’Onu e anche dall’italiana AICS di Nairobi.
La loro sede di si trova al pianoterra di uno stabile, superato l’ingresso c’è la sala riunioni dove mi aspetta Editar Adhiambo Ochieng, leader del gruppo, una giovane donna corpulenta e battagliera, lo sguardo intenso, insieme alle sue compagne. «Eravamo un gruppo di donne e ci sentivamo oppresse», esordisce, «qui c’è una società molto patriarcale, anche solo parlare in pubblico non ci era concesso», racconta. «Così, dieci anni
fa hanno creato questa associazione informale, «su trenta di noi, ventotto avevano subito delle violenze, sessuale oppure fisica, raccontandoci le nostre storie abbiamo iniziato ad analizzare il trauma».
Juliet, minuta e dai modi dolci, mi spiega che qui danno sostegno alle donne che hanno subito violenza, con problemi di gravidanza o di salute mentale, forniscono informazioni su pace e sicurezza, «ma le aiutiamo anche a sviluppare stili di vita più sostenibili e ad emanciparsi economicamente». Coinvolgono anche i ragazzi, per diffondere quella che definisce «una mascolinità positiva», «li aiutiamo ad essere maschi senza il machismo», dice divertita, usando principalmente i giochi da tavolo, «è un modo ludico che usiamo per parlare di temi difficili come la violenza di genere». Ma questo è anche un centro di accoglienza: «Diamo asilo alle donne che hanno subito violenza, qui possono essere visitate da un medico, avere un supporto psicologico e una cura legale», ma non possono restare più di 48 ore. L’idea è quella di creare una «comunità di sopravvissu-
te». «Aiutiamo queste donne a sentirsi meno sole in un momento in cui vedono tutto nero», aggiunge. May – una donna possente, le unghie appuntite e smaltate di un rosso vivo, i capelli folti – cerca di spiegarmi la meccanica sociale, il buco nero che avvolge questo slum maledetto. «Qui a Kibera la grande disoccupazione crea livelli di povertà e di stress molto forte. Si vive in ambienti malsani e senza privacy, e poi tra le persone c’è un terribile sentimento di disperazione».
Picchiare una donna è normale, fa parte della cultura tradizionale, «anche le donne la percepiscono come la normalità, e poi per come è fatto questo posto mancano luoghi sicuri», sostiene, «se una di noi viene picchiata, denuncia il proprio compagno, poi la notte deve tornare nella baracca, non c’è un altro posto dove può chiedere asilo. E magari quando fa ritorno viene bastonata di nuovo». Durante le elezioni la violenza aumenta nelle strade e dentro le case del quartiere, la polizia diventa più aggressiva, «i partiti di potere danno soldi alle gang giovanili per essere votati, e questi
ragazzi comprano alcol, si drogano e poi se la prendono con le donne». Dice che a Kibera molti bambini vivono da soli perché i genitori li hanno abbandonati, oppure sono sempre ubriachi, «sono loro a tenere in piedi la famiglia, ma a volte non hanno niente da mangiare, allora sono costretti a vendersi».
Adesso i turisti vengono qui a fare dei «safari umani», pagando un biglietto per vedere dal vivo noi poveri cristi
May è convinta che la povertà qui sia il peggiore dei mali: «Se molti avessero un lavoro potrebbero avere una esistenza migliore, non si stordirebbero con droghe e alcool per affrontare la vita che è durissima, e poi ci fanno stare in questi tuguri, ma siamo circondati da quartieri ricchi, la violenza è frutto anche di questa pianificazione urbana». Quartieri di sontuose ville e giardini come Karen, che prende il nome dalla scrittrice danese Blixen che in un cottage
oggi diventato museo visse e scrisse La mia Africa, «tutto questo è voluto dal Governo centrale, farci vivere con meno di un dollaro al giorno, capisci?»
Editar Adhiambo Ochieng è nata nelle strade di questo quartiere e racconta: «Quando abbiamo iniziato eravamo viste come nemiche della gente, nella Bibbia devi perdonare 70 volte 7» ci dicevano, «lo dice Gesù Cristo a Pietro. Allora rispondevo: invece non devi perdonare affatto se tuo marito ti bastona!». Agguerrita come poche mi dice che le sue vere eroine, quelle che le danno la forza per lottare, non sono le «stelle nere» Angela Davis e la poetessa statunitense Audrey Lorde, oppure Hope Nankunda, l’attivista ugandese. «Ad ispirarmi sono le donne di Kibera che come me hanno subito violenza, donne che conosco sin da quando ero bambina, e so che sono state stuprate, hanno tirato su i figli, sono state abbandonate, eppure non si sono mai arrese, sono qui in piedi, con tutta la loro forza e il loro coraggio». Quando esco dallo stabile l’autista mi sta aspettando nel vicino parcheggio, prendo posto sul sedile al suo fianco e poi parte attraversando cauto le piccole strade polverose. C’è sempre una grande energia in questo quartiere, nelle viuzze sterrate tra le baracche, e una calma apparente, irreale, che nasconde la violenza, il dolore dei margini. E quando scende la notte cresce la paura per gli incendi. Adesso vengono qui anche i turisti a fare dei «safari umani», pagando un biglietto passeggiano con gente del posto per le vie a vedere dal vivo questi poveri cristi. Ma come ha detto uno di loro che vive qui da molti anni a un quotidiano: «Kibera non è un parco nazionale e noi non siamo animali selvatici».
Le attiviste di Feminist for peace. Da sinistra: May, Jane, Editar e Juliet. In basso il loro ufficio e un’istantanea dalla baraccopoli.
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Occhi puntati sulla Cisgiordania
Medio Oriente ◆ Profittando dell’attenzione internazionale sulla situazione nella Striscia, il Governo Netanyahu ha accelerato la costruzione di nuovi insediamenti nelle terre che chiama «Giudea e Samaria». Si parla di annessione formale: escalation in vista
Lucio Caracciolo
La guerra su sette fronti scatenata da Israele in risposta al massacro del 7 ottobre è destinata a durare a tempo indeterminato. Di più: è stata costruita per non avere una fine, ma per ristabilire la deterrenza dello Stato ebraico nel suo vicinato. Il fragile cessate-il-fuoco sul fronte di Gaza, più volte interrotto, non sembra peraltro capace di andare oltre lo scambio di ostaggi. Il famoso piano Trump che dovrebbe portare per gradi all’affermazione di un protettorato internazionale sulla Striscia, a guida trumpiana, è in stallo.
Il fragile cessate-il-fuoco sul fronte di Gaza, più volte interrotto, non sembra capace di andare oltre lo scambio di ostaggi. Il piano di Trump è in stallo Per capire questa situazione conviene tornare all’origine. Ovvero alla scelta dello Stato ebraico, e in particolare del suo leader Bibi Netanyahu, di vendicarsi del sanguinoso pogrom di Hamas. Una vendetta non è una strategia. È il tentativo di contenere la pressione dell’opinione pubblica israeliana, traumatizzata come mai dalla sconfitta e dalla pur breve invasione di territorio proprio da parte delle milizie islamiste. Allo stesso tempo, Israele intende iniziare a rompere l’assedio iraniano via propri clienti nella regione e nei territori occupati, fino a mettere in questione il ruolo di Teheran come potenza regionale.
Quel che non tanto il massacro di Hamas quanto la risposta di Gerusalemme ha tragicamente cambiato, e che continuerà a cambiare tra una tregua e l’altra, è il rapporto di forza tra i contendenti. Questa guerra di Gaza termina il presunto status quo fissato nel 2005 dal Governo Sharon, d’intesa con Bush junior: Israele molla Gaza, contando sul fatto che i palestinesi vi si sarebbero sbranati per controllar-
la. Scommessa vinta. Prima via liquidazione di Fatah e Anp da parte di Hamas nel 2006, oggi nella caccia dei militanti islamisti ai clan e alle milizie arabe affittate da Israele, in crudo svolgimento.
La mossa di Sharon puntava sulla progressiva penetrazione dei coloni in Cisgiordania, dove l’Anp di Abu Mazen si era autoridotta a mini-Quisling, abile soprattutto nel taglieggiare i compatrioti e intascare gli aiuti israeliani e internazionali. Fantasma utile a Israele perché teneva in piedi la favola dei due Stati, che tutt’ora assicura l’esistenza di un unico Stato, il proprio, sulla base di rapporti di forza totalmente asimmetrici. La questione palestinese era così messa in naftalina. Israele trattava con sé stesso, per modulare tempi e modi dell’annessione formale della Cisgiordania. Da Rabin a Netanyahu tutti i Governi israeliani avevano scommesso su Hamas per spaccare un fronte palestinese già sufficientemente diviso. A costi abbastanza limitati, in collaborazione con il Qatar (soldi) ed Egitto (esercito e intelligence), le porte di Gaza erano subaffittate al movimento islamista, classificato terrorista eppure titolare di puntuali versamenti mensili via corrieri con valigetta Doha-Tel Aviv-Gaza. Oggi la partita di Gaza è sempre più legata a quella in Cisgiordania. Profittando dell’attenzione internazionale sul genocidio nella Striscia, il Governo Netanyahu ha accelerato la costruzione di nuovi insediamenti in quelle terre che Israele chiama biblicamente Giudea e Samaria. La decisione della Knesset di avviare la discussione sull’annessione formale di questi territori occupati sembra anticipare un incendio di proporzioni geopoliticamente maggiori rispetto a quello di Gaza. Se Gerusalemme dovesse affermare la propria sovranità su territori che in realtà già controlla, ma che per il diritto internazionale non le appartengono, per i Paesi arabi diventerebbe impossibile riprendere
la strada che adesso surrettiziamente riesplorano con la mente. Ovvero recuperare ed espandere gli accordi di Abramo con Israele, basati sullo scambio di tecnologie e armi israeliane con energie e asset finanziari arabi.
Uno Stato nazionale palestinese non sarebbe in ogni caso possibile per carenza di Nazione ma continuiamo a parlarne come se fosse un’opzione
Tutte le iniziative della Casa Bianca hanno sempre mirato a ripristinare questo sogno, poggiato peraltro su interessi molto concreti. E sulla generale indifferenza dei regimi arabi per la causa palestinese. Un fatto che rende
ancora più evidente l’asimmetria fra i contendenti. Da una parte una potenza economica, tecnologica e militare di grande spessore, appoggiata dagli Stati Uniti, dall’altra un popolo diviso e abbandonato da coloro che negli anni successivi alla fondazione dello Stato ebraico si erano battuti, almeno nominalmente, per restituire ai palestinesi le terre e le case perdute nella guerra del 1948. Peggio, i palestinesi hanno confermato in questa guerra di essere tutt’altro che uniti. Consideriamo solo l’atteggiamento dei palestinesi di Israele, cittadini di serie B o anche solo ospiti (Gerusalemme Est) dello Stato ebraico, di fronte al genocidio dei presunti fratelli della Striscia: non hanno mosso un dito. E consideriamo anche il grado di frattura che all’interno
di quel mondo separa storicamente i clan, le famiglie e altri aggruppamenti informali. Con ciò si rende evidente che in ogni caso uno Stato nazionale palestinese non sarebbe in ogni caso possibile per carenza di Nazione. Eppure continuiamo a parlarne come se fosse un’opzione plausibile. Un esempio fra molti di come il principio di realtà sia oggi espunto dalle relazioni internazionali.
Scontato che chiudere in tempi ragionevoli i sette fronti aperti non è possibile, sarà decisivo per Trump, che tanto ha scommesso sulla sua «pace» in Medio Oriente, fornire finalmente un’idea dettagliata di come gestire un’emergenza che altrimenti rischia di sfuggirgli di mano. Con conseguenze non solamente nella regione, ma nel mondo.
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Un palestinese accanto ai suoi attrezzi dopo che Israele ha bloccato l’accesso a una zona destinata alla raccolta delle olive in un
villaggio nei pressi di Hebron, in Cisgiordania. (Keystone)
CULTURA
Uno spazio intimo per l’arte Spazio d’arte ai Frati, situato nella chiesa dell’ex convento dei Cappuccini a Lugano, ospita una mostra dell’artista ticinese Anna Bianchi
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Per un LAC che appartenga a tutti A colloquio con il direttore generale e musicale del LAC Andrea Amarante, per parlare della sua visione di spazio culturale
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La mai finita lotta per il bene Don Pino Puglisi, ucciso nel 1993 da Cosa Nostra e la sua lotta per la legalità in un’opera toccante a firma di Sonseri e Pagani
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L a materia ribelle di Enrico Prampolini e Aberto Burri
Mostre ◆ I due maestri italiani del Novecento si confrontano in una mostra allestita negli spazi della Collezione Olgiati a Lugano Entrambi hanno contribuito a saggiare traiettorie atipiche per delineare nuovi orizzonti espressivi
Nel Novecento la materia nell’arte è oggetto di profonde sperimentazioni che rivoluzionano la rappresentazione pittorica tradizionale. A partire dalle ricerche delle avanguardie storiche, Cubismo e Futurismo in primis, l’introduzione nel quadro di oggetti d’uso comune e di frammenti della realtà conduce molti artisti a esplorare le possibilità comunicative di nuovi elementi, ad analizzarne il potenziale simbolico e a sondare concetti inediti di spazio e dinamismo, nonché a mostrare la verità intrinseca delle cose, il loro peso, il loro respiro.
Da quando Picasso realizza nel 1911 la celebre Natura morta con sedia impagliata, opera che apre l’atto estetico alla dimensione del reale, il dibattito sull’impiego di materiali inusuali rispetto al medium convenzionale della pittura si fa acceso, svelando tutta l’attrattiva di approcci creativi innovativi capaci di incarnare le trepidazioni di un periodo storico complesso.
Enrico Prampolini e Alberto Burri furono tra i maggiori protagonisti italiani di una continua ricerca di approcci creativi innovativi
In ambito italiano, dove la materia è centrale in tutta l’arte del XX secolo, questo tipo di indagine trova due straordinari interpreti in Enrico Prampolini e Alberto Burri, artisti che in momenti diversi e in modo totalmente differente condividono la lungimirante attitudine a saggiare traiettorie atipiche per delineare nuovi orizzonti espressivi.
Sebbene entrambi siano avviluppati nelle intricate maglie del secolo breve, l’uno, Prampolini, è attivo nella prima metà del Novecento, l’altro, Burri, nella seconda. Cosicché, quando tra gli anni Quaranta e Cinquanta i loro percorsi si intersecano a Roma, il primo è ormai giunto quasi al termine della sua carriera, mentre il secondo si è da poco affacciato sulla scena artistica.
Ancor più che quello temporale è però lo scarto concettuale a caratterizzare il confronto tra i due artisti. Per Prampolini la materia è evocazione, idealismo, spinta verso l’ignoto: totalmente priva di un portato drammatico, essa è un modo per superare la dimensione terrena e addentrarsi in un territorio misterioso. Per Burri, invece, la materia rivendica sempre la sua presenza e la sua tensione tragica: essa non è rappresentazione, metafora o allusione, ma genesi di un nuovo linguaggio che porta con sé l’inevitabile fardello delle inquietudini esistenziali dell’essere umano.
Il raffronto diretto tra questi due protagonisti del Novecento prede vita negli spazi della Collezione Giancarlo e Danna Olgiati a Lugano, grazie a una mostra curata da Gabriella Belli e Bruno Corà che testimonia molto bene come entrambi gli artisti abbiano saputo sviscerare con piglio riformatore le potenzialità dell’elemento materico. Come poi lo abbiano fatto in maniera del tutto distinta l’uno dall’altro, viene sottolineato con raffinatezza ed efficacia dall’allestimento affidato all’architetto Mario Botta, che ha scandito con scelte cromatiche opposte il percorso della rassegna: pareti candidamente bianche accolgono le opere di Prampolini, ad amplificarne l’elegante visionarietà, pareti nere fanno invece da sfondo alle opere di Burri, a rimarcarne la potenza lancinante.
Di Prampolini, nato a Modena nel 1894, personalità sagace, eclettica, cosmopolita e abilissima nell’intessere relazioni con i colleghi di tutta Europa, la mostra espone l’emblematica opera dal titolo Béguinage, realizzata nel 1914, due anni dopo l’adesione del pittore al movimento futurista. In questo piccolo quadretto di poco più di venti centimetri, una piuma, un pezzo di stoffa e una pennellata di colore vengono applicati su un semplice
supporto di legno: gioco, provocazione o esperimento che sia, si tratta di un precoce atto di insubordinazione dell’artista alle tecniche tradizionali che racchiude, in nuce, la propensione alla manipolazione di materiali anomali alla base delle sue « pitture cosmiche» degli anni successivi.
La mostra, curata da Gabriella Belli e Bruno Corà, illustra come gli artisti abbiano sviscerato le potenzialità della materia
A segnare l’approdo alla fase più visionaria di Prampolini, che prende vita proprio grazie all’energia dei nuovi elementi, è Intervista con la materia, del 1930, opera in cui spugna, sughero e galatite popolano lo spazio prima dominato dalla pittura. Come documentano i quadri degli anni Trenta esposti in rassegna le tele dell’artista accolgono ora sabbia, colla e ritagli, in un’incessante ricerca di espressioni simboliche e metaforiche che risentono anche della feconda rete di contatti creata da Prampolini fin dagli anni Venti con il movimento surrealista e con il gruppo parigino di Cercle et Carré.
Particolarmente interessanti sono poi gli « automatismi polimaterici» degli anni Quaranta, lavori di piccole dimensioni in cui l’artista costruisce su una base di gesso o legno armoniose composizioni fatte di oggetti banali come bottoni, trine, stoffe, ovatta e pettini, dando vita a originali microcosmi di un infallibile rigore e di un’immaginifica levità.
Le ultime opere esposte a Lugano appartengono agli anni Cinquanta, un periodo ancora prolifico per il pittore, che continua a sviluppare con originalità il proprio linguaggio. Lavori come Tensioni astratte, Apparizioni bioplastiche, datate 1954, e Composizione S 6: zolfo e cobalto, del 1955, possono essere considerate una sorta di lascito di Prampolini agli artisti che verranno dopo di lui, con la speranza che essi possano cogliere il significato della sua indagine e prenderla come punto di partenza per nuove elaborazioni.
Di Burri, nato a Città di Castello nel 1915, protagonista di una vicenda singolare che lo ha visto abbandonare la professione di medico per accostarsi alla pittura dopo un’esperienza di prigionia in Africa e in Texas durante il secondo conflitto mondiale, la mostra presenta un nutrito gruppo
di opere che rivelano come la sperimentazione della materia sia per l’artista un modo per dar vita a un lessico capace di esprimere i drammi vissuti attraverso una ridefinizione dei parametri estetici.
Da qui la sua arte che, a partire dal 1948, respinge i mezzi tradizionali della pittura per affidarsi a materiali umili e rudi – ora bruciati, ora lacerati, ora strappati e ricuciti – che si manifestano nella loro palpitante fisicità. È una svolta radicale, questa, destinata a lasciare un segno indelebile e a influenzare numerose correnti artistiche internazionali.
Con quel senso della misura e dell’equilibrio che assimila nella sua terra natale dai dipinti di Raffaello e di Piero della Francesca durante gli anni giovanili, Burri realizza i primi importanti cicli: sono le « Composizioni», i « Catrami», i «Sacchi», i « Gobbi». Tutte serie ben documentate nell’esposizione che decretano una nuova concezione dello spazio pittorico attraverso l’uso della materia nuda e cruda.
Ancor più estremi sono i lavori in cui l’artista impiega il fuoco per aggredire l’elemento materico, incendiandolo e squarciandolo alla ricerca di spazi sconosciuti. Quella utilizzata da Burri nelle sue « Combustioni» per bruciare plastica, tela, vinavil, alluminio e legno è una fiamma purificatrice che attraverso l’atto distruttivo porta all’edificazione di qualcosa di inedito, in grado di rinnovare profondamente le forme della materia.
In mostra a Lugano ci sono anche i « Cretti» degli anni Settanta, opere che il pittore realizza affidandosi alla terra, all’aria e all’acqua. In questi lavori il composto da lui prodotto è una miscela di caolino, acqua e vinavil che con la lenta azione dell’aria si asciuga e si essicca, creando concrezioni inerti percorse da crepe e fenditure. Un altro materiale particolarmente caro all’artista è il cellotex, con cui vengono realizzate molte opere negli anni Ottanta e Novanta. L’opacità, l’omogeneità e l’arrendevolezza di questo elemento sono caratteristiche che Burri trova appropriate per dare una configurazione visiva al silenzio e all’assenza. Eppure in Nero e oro, lavoro del 1993 presente in rassegna, la primigenia uniformità di una materia soffocata sembra gridare al mondo la sua « irriducibile presenza»
Dove e quando
Prampolini Burri. Della Materia. Collezione Giancarlo e Danna Olgiati, Lugano. Fino all’11 gennaio 2026. Orari: da giovedì a domenica dalle 11.00 alle 18.00. Ingresso gratuito. www.collezioneolgiati.ch
Enrico Prampolini, Automatismo polimaterico F, 1941, Collage e olio su tavola, 32.4 × 40.6 cm (Collezione Giancarlo e Danna Olgiati, Lugano; foto: Stefania Beretta)
Alessia Brughera
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La magia dello chalet a casa tua.
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Fermarsi e guardare in profondità
Mostre ◆ Spazio d’arte ai Frati, situato nell’ex Convento dei Cappuccini a Lugano, presenta le opere della ticinese Anna Bianchi
Daniele Bernardi
Con Infinitudini di Anna Bianchi la Fondazione Convento Salita dei Frati e l’Associazione Biblioteca Salita dei Frati di Lugano inaugurano un nuovo spazio espositivo, situato in quella che fu la chiesa dell’ex convento dei Cappuccini. La curatela del progetto è affidata a Simone Soldini, già direttore del Museo d’arte di Mendrisio e oggi responsabile di quello che è, appunto, il percorso dello «Spazio d’arte ai Frati».
Lo Spazio d’arte ai Frati nasce dal desiderio di dare una casa ad artisti ticinesi che abbiano consolidato il proprio lavoro negli anni
«L’idea è nata in seguito alla mostra dedicata, nel 2023, a fra Roberto Pasotti», ci racconta. «Ma quando mi è stato chiesto di occuparmi della programmazione di una rassegna, ho subito reputata inadeguata la soluzione di allora. Pertanto, con l’aiuto di tre eccellenti artigiani, ho ricavato dai materiali esistenti una nuova configurazione spaziale, premurandomi di valorizzare un luogo che, in seguito alle trasformazioni subite, necessitava di un intervento ragionato. Infatti la struttura allestita dialoga ora col contesto, mettendo idealmente in relazione quanto esposto, ad esempio, con la presenza della bellissima pala d’altare di fra Semplice da Verona».
Lo Spazio d’arte ai Frati andrà a completare quella che è una proposta culturale già estremamente densa, creando, occasionalmente, anche un possibile ponte fra conferenze e mostre. In un’epoca che da (troppo) tempo tende a investire di valore i progetti roboanti, che vedono l’arte collocata nell’algida cornice dei cosiddetti «grandi eventi», l’iniziativa si delinea quindi all’opposto, eleggendo la breve misura e il piccolo
quale consono luogo di accoglienza per chi ha alle spalle un già più che solido percorso. «L’idea è quella di dare una casa
ad artisti ticinesi che hanno consolidato il proprio lavoro negli anni», continua Soldini. «Non sarà dunque un luogo di sperimentazione, ma di
Un’opera di Anna Bianchi (Heitmann); sotto, veduta dei nuovi spazi espositivi.
ospitalità per figure dal profilo definito. Inoltre, anche per questioni logistiche, si tratterà sempre di mostre contenute, poiché sulle pareti adibite all’allestimento si possono riunire al massimo una trentina di opere. Al momento si prevedono tre esposizioni l’anno. Cominciamo con Anna Bianchi, per poi passare a Simonetta Martini e in seguito a una collaborazione con Visarte Ticino, che ha già accolto la proposta».
E a proposito di artiste dal profilo definito, Anna Bianchi è certamente una figura ideale per iniziare: nata a Mendrisio e formatasi a metà degli anni ’70 presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, negli anni ha soggiornato a New York, Roma, Vienna e Parigi, lavorando poi per un decennio in Italia, tra Liguria e Toscana. Dedita a una pittura certosina, intrisa di cura e riflessione, lei stessa
Il richiamo dell’acqua da Golino ai Caraibi
definisce il suo lavoro come esplorativo di paesaggi interiori dei quali sonda il tempo e nei quali si immerge al fine di ricavarne vibranti epifanie, che paiono emergere come da universi paralleli (caratteristica che sia nei risultati sia per approccio ricorda non poco l’opera di Henriette Zéphire, artista-medium scoperta nel 1966 da Jean Dubuffet e oggi parte della Collection de l’Art Brut di Losanna).
A un primo ingannevole sguardo gli oli esposti – specie i luminosi rossi che qui spiccano con forza –potrebbero apparire come astratti, ma non è così. Ciò che caratterizza la pittura di Anna Bianchi sembra piuttosto essere una sorta di vocazione topografica che la porta, da un lato, alla definizione di compositi orizzonti arcaici, dall’altro alla definizione di vere e proprie mappe sulle quali continenti in formazione e disgregazione si muovono suggerendo un che di sacro e, talvolta (più di rado), di apocalittico.
«La mia è una pittura che va guardata in profondità», dice l’artista parlando del suo lavoro. «Bisogna soffermarcisi, poiché vi è una continua stratificazione di colori al suo interno. E ogni colore ha una sua vita propria. Si tratta di una materia molto densa ma, al contempo, anche evanescente. Ne nasce una cavernosità, che è molto importante per me: sono spazi popolati di forme antiche e primordiali, in cui io mi inoltro; si tratta di visioni, di mondi lontani, che mi permettono di gettare luce su ciò che più mi interessa: le trasformazioni, le mutazioni oggi in atto, le desertificazioni e i posti in rovina».
Dove e quando
Anna Bianchi, Infinitudini, Lugano, Spazio d’arte Ai Frati (Via Cantonale 2a).
Orari: ve-sa-do 14-18. Fino all’8 novembre 2025
Cinema ◆ Nel nuovo documentario di Fulvio Mariani, Claudio Gazzaroli si racconta attraverso immersioni e immagini
Nicola Falcinella
Immergersi nell’acqua, che sia un laghetto alpino o il Mar dei Caraibi, è anche un viaggio alla scoperta di sé stessi. È questo che guida Claudio Gazzaroli, ticinese di Golino, da sempre attratto dall’acqua ben oltre la sua professione di idraulico. Una passione che l’ha portato nel tempo a interessarsi di fotografia e di viaggi. Le sue immagini e le sue vicende hanno interessato uno dei massimi documentaristi svizzeri, Fulvio Mariani, che vanta una carriera ultra quarantennale, con all’attivo decine di documentari di montagna e di viaggio, dal primo successo con Cumbre (1985) fino al recente Il ragno della Patagonia. Ne è uscito un suggestivo lavoro dal titolo La leggerezza sommersa, coprodotto da Rsi e sostenuto dalla Ticino Film Commission, in uscita ora nelle nostre sale con due anteprime.
L’immersione è un punto di partenza per un percorso di conoscenza e un’apertura all’esterno e al mondo, sebbene alimentato da una sorta di paradosso. «Andare sotto il ghiaccio è un richiamo interiore, lo faccio per me stesso», spiega Gazzaroli all’inizio,
mentre si cala nelle acque, ancora circondate e coperte da neve e ghiaccio di un lago nell’alto Ticino. La filosofia del protagonista prevede che non esista una stagione indicata per esplorare i fondali, prevale il richiamo dell’avventura, che può essere vicino a casa, in stagni, pozze o laghi ticinesi o mari lontani e misteriosi. Una continua ten-
sione verso l’ignoto, spinto da una passione che l’uomo non potrebbe portare avanti senza il pieno sostegno e la condivisione della sua famiglia. Seguendo Gazzaroli si scoprono la metamorfosi delle salamandre o la deposizione delle uova da parte di rane e rospi o, più prosaicamente, ci si cala nel lago a breve distanza dalla riva di Lugano per pu-
lizie e manutenzioni di filtri. Via via ci si allontana dalle origini e ci si dirige verso le coste sudcoreane della remota isola di Jeju, per immergersi con le donne pescatrici di una comunità che vive di sussistenza, o quelle messicane dello Yucatan, dove si sente la presenza delle civiltà antiche e si incontra la ballerina e apneista cilena Rose. Il documentario è caratterizzato da un doppio sguardo, quello di Gazzaroli sulla natura e sui mondi che lo affascinano e quello del regista (appassionato da sempre di viaggi e incontri) sul fotografo e sub. Il film diventa così un gioco di riflessi come quelli possibili sull’acqua, un gioco di luci, ombre, bui, improvvise illuminazioni. Le immagini mostrano la bellezza della natura, e non vogliono illustrare la vita dell’esploratore o le fatiche o i rischi, bensì sono quasi astratte e sott’acqua somigliano più a inquadrature di pellicole fantascientifiche che di documentario naturalistico. La scoperta della natura – compresi fenomeni poco visti come gli affascinanti «cenote» messicani, grotte ora sommerse ma abitate al tempo dei Maya – si accompagna al-
la scoperta di sé stessi. Un viaggio introspettivo e interiore che diventa spirituale e mistico, di cui tocca a Rose, con il suo contributo poetico e quasi magico, rivelare gli aspetti più significativi allo spettatore. Il film lascia una sensazione di apertura e di stupore. E se il sonoro è una componente cruciale, con i rumori della natura, i silenzi, le poche parole e l’atmosfera di sospensione, è forse il tempo l’elemento dominante ne La leggerezza sommersa, un tempo diverso dalla percezione comune, calato in una dimensione diversa che offre nuove prospettive di visione e di pensiero.
Dove e quando
Le anteprime de La leggerezza sommersa sono previste mercoledì al Lux di Massagno alle 20.15 e giovedì al Palacinema di Locarno, in presenza di regista e protagonista. Il film sarà poi in cartellone da giovedì all’Iride di Lugano e al Rialto di Muralto, mentre una proiezione speciale con i due ospiti è prevista a Blenio mercoledì 12 novembre alle 20.30.
Immagine utilizzata per la locandina del film
La leggerezza sommersa
Un centro culturale che non ha più pareti
Incontri ◆ A colloquio con Andrea Amarante, direttore generale del LAC di Lugano
Simona Sala
«Sono particolarmente soddisfatto di poter annunciare la partnership con Percento culturale Migros Ticino (…) in occasione dei primi dieci anni di vita del LAC. In un periodo non privo di criticità, ottenere il sostegno di un soggetto privato di primo piano nella vita culturale della Svizzera italiana rafforza un ente pubblico come il nostro, che promuove progetti e iniziative per il territorio, sostenendone la creatività e lo sviluppo». La notizia, qui riportata nelle parole del direttore generale, è di pochi giorni or sono: il Percento culturale Migros Ticino (gestito da Luca Corti) è diventato partner istituzionale di LAC Lugano Arte e Cultura per la stagione 2025/26. Un sodalizio che rafforza la missione del LAC come luogo d’incontro tra le arti e la comunità.
Questa stagione, però, rappresenta anche un’altra prima: una conduzione artistica nuova, fresca e attenta al territorio, che con passione e competenza sta costruendo il nuovo direttore generale e musicale Andrea Amarante. Lo abbiamo incontrato negli spazi dell’ex convento di Santa Maria degli Angioli.
Andrea Amarante, quella del LAC rappresenta una grande sfida, cui lei, però, non giunge impreparato, come dimostrano le sue esperienze. Ci parla del suo percorso?
Al termine degli studi di pianoforte, ho iniziato a lavorare come pianista per lirica, muovendomi in Emilia-Romagna con cantanti internazionali. Dal 2002 al 2009 ho lavorato a Spoleto, diventando anche responsabile dei corsi di formazione. È lì che ho deciso di lasciare la musica praticata per dedicarmi alla politica culturale. Non ero mai stato un interprete nel senso tradizionale, ma un preparatore: vivevo la mia professione come un servizio all’artista. Sono poi stato assistente di un festival in Tirolo, quindi al San Carlo di Napoli come segretario artistico. In seguito, ho lavorato alla Scala di Milano, dove, sotto la direzione musicale di Daniel Barenboim, ho coordinato i servizi musicali e la programmazione
annuale. Ho poi intrapreso una nuova esperienza come coordinatore artistico della Luzerner Sinfonieorchester, per la quale, al KKL, ho curato la programmazione e le tournée dal 2015 al 2024.
Lei è arrivato nell’aprile del 2024: cosa ha trovato?
Il fatto di ritrovarmi con una stagione già disegnata dal mio predecessore Etienne Reymond mi ha permesso di portarla avanti per tutto l’anno e, allo stesso tempo, di iniziare a programmare per il futuro, facendo qualche esperimento per conoscere il pubblico, la città e il suo ritmo. Sono entrato in contatto con diversi attori culturali allora esterni al LAC, come il fondatore della United Soloists Orchestra, con cui abbiamo organizzato un concerto con Stefano Bollani: il primo sold out. Un’esperienza simile a quella con Space÷Division un gruppo di appassionati di musica elettronica che ha proposto un lungo dj set al LAC: anche lì ho visto un pubblico eterogeneo, intergenerazionale e in parte nuovo.
Il LAC cerca dunque nuove forme di sinergia con gli attori del territorio?
Sì, e questi primi segnali mi hanno confermato quanto fosse necessario aprirsi a nuove forme di collaborazione. Ho iniziato a lavorare anche con Jazz in Bess, dove ho trovato persone straordinarie, che dedicano ogni minuto libero alla musica e al confronto. Non dobbiamo dimenticare che il LAC riceve un importante sostegno pubblico, derivante dalle tasse dei cittadini: ho dunque il dovere di fare tutto il possibile affinché il mio servizio raggiunga il maggior numero di persone. Tutti devono poter varcare le porte del LAC, senza ostacoli e senza sentirsi in soggezione. Credo che la musica, e l’arte in genere, abbiano una valenza non solo estetica ma anche sociale: creano relazioni, comunità, appartenenza. Ciò significa mettere al centro le attività pensate per le persone, con le persone e in funzione delle persone. È un processo che va continuamente rinnovato,
perché le persone e le loro esigenze cambiano.
Nella sua figura di uomo mitteleuropeo si coniugano una visione nordica e una partenopea. Come si definirebbe?
Non saprei definirmi: mio padre è di origine meridionale, mia madre di Trieste. Ho vissuto a Napoli e mi ci sono trovato bene; ho vissuto in Tirolo e mi ci sono trovato bene. Ora sto imparando ad amare la gente e la cultura di questo luogo, che mi accoglie con calore e curiosità.
Il LAC, con i suoi 10 anni appena compiuti, è un centro culturale giovane. Ma come si pone di fronte ai giovani?
Nel corso del primo colloquio finalizzato ad assumere la direzione musicale del LAC, si è toccato anche il tema dei giovani, sempre più assenti dagli appuntamenti concertistici. Per quanto possa sembrare impopolare, è innegabile che oggi sia più diffici-
Scrivere il teatro che manca
le appassionarli alla musica classica. Vivono l’ascolto in modo diverso, più frammentato e immediato, e questo richiede nuovi linguaggi e rituali d’accesso. La prima opera che vidi fu Don Giovanni, e alle quattro del mattino ero già in fila davanti al teatro Verdi di Trieste: oggi questo tipo di attesa non esiste più.
Ma il nostro compito è proprio questo: creare nuove forme di fruizione della musica, nuovi rituali d’ascolto, nuovi motivi per cui un giovane si senta a casa in un centro culturale come il LAC. Per questo ho ripreso a studiare ciò che conoscevo meno – jazz, elettronica, pop – cercando punti di incontro fra linguaggi diversi e costruendo una stagione equilibrata per generi e stili. Mi sono ad esempio reso conto che a Lugano mancava una tradizione di musica vocale: ho quindi inserito in cartellone Mariza, interprete di fado, un linguaggio nato dalla classica e attraversato da influenze arabe e mediterranee. Abbiamo coinvolto il
Prismi 2026 ◆ Bando aperto per il Laboratorio di alta formazione in scrittura teatrale
La drammaturgia in lingua italiana, in Svizzera, è un’arte ancora tutta in divenire. Prismi è un percorso formativo – oggi alla sua terza edizione – nato proprio per colmare un vuoto, dato che questa pratica artistica manca, sì, di tradizione ma non di urgenza. Ideato all’interno del progetto Luminanza, ciò che è presentato come «laboratorio di alta formazione in scrittura teatrale» si propone di trasformare l’impazienza dei novizi in grammatica professionale, offrendo a quattro autrici e autori uno spazio di crescita. Il percorso si presenta come un anno intensivo, gratuito ma esigente: lezioni obbligatorie, workshop periodici, cinque giorni di residenza, verifiche con attori, e un accompagnamento individuale affidato a tutor riconosciuti, registi, sceneggiatori, drammaturghe, scrittori, attrici. Tra i professionisti coinvolti figurano Alan Alpenfelt, Francesca Garolla e Mat-
teo Luoni del direttivo, inoltre ci saranno docenze e laboratori con Carmelo Rifici, Tindaro Granata, Giulio Mozzi, Fabiana Iacozzilli, Manuel Maria Perrone e Anne Haug. I lavori che saranno svolti, peraltro, non resteranno in un cassetto se raggiungeranno la loro forma compiuta: i testi potranno essere presentati in mise-en-espace durante la Vetrina Prismi al LAC, all’interno di una rassegna dedicata alla drammaturgia contemporanea svizzera nel 2027; mentre estratti selezionati potranno essere tradotti in francese e tedesco per renderli visibili oltre il contesto locale. È un’architettura di relazioni che vuole mettere a sistema autore, interpreti e operatori, favorendo il passaggio dalla scrittura alla circolazione; obiettivo già centrato durante le precedenti edizioni. Possono candidarsi persone di nazionalità svizzera, residenti in Svizze-
za nella scrittura; è richiesta anche la comprensione di almeno una lingua
tra francese, inglese o tedesco. Ci si candida inviando un progetto di testo (soggetto, scaletta, ipotesi di scrittura o stesura parziale) e materiali di
consolato portoghese e, in occasione della festa nazionale del Portogallo, inviteremo il Rancho Folclorico «Os Amigos de Locarno» a esibirsi nella hall: prima del concerto ci saranno danze tradizionali aperte al pubblico. È giusto che anche la comunità portoghese, che in Ticino conta oltre 10’000 persone, abbia un motivo in più per venire al LAC. Mi piacerebbe che il LAC offrisse non solo arte, ma anche spazi per incontrarsi, studiare, lavorare, condividere. Anche l’offerta culinaria ha un ruolo: un centro culturale è vivo quando genera incontro, non solo quando presenta uno spettacolo.
Il territorio come parte integrante della stagione…
Per me il Ticino era una terra di passaggio tra Lucerna e casa. Ora sto imparando a conoscerlo davvero, e vi trovo realtà incredibili: vitalità, originalità, esperienza, talento. Sono profondamente innamorato del luogo in cui mi trovo a vivere e lavorare.
presentazione (biografia, autopresentazione, estratti di scritti precedenti, motivazioni, link, eccetera), in un unico file PDF che non superi le dieci cartelle a bando@luminanza.ch; la chiusura è fissata per le 23:59 del 23 novembre 2025.
La selezione avviene in due fasi: valutazione dei materiali e, successivamente, breve colloquio con il direttivo di Prismi (che include anche Carmelo Rifici, direttore artistico di Lac, e Mara Travella, direttrice artistica della Casa della letteratura). I nomi dei percorsi precedenti mostrano come l’esperienza produca risultati concreti: autori formati da Luminanza e Prismi sono già comparsi in rassegne nazionali e internazionali, ottenendo menzioni e rappresentazioni in città quali Lugano, Zurigo, Berna e Londra. / Red.
Informazioni www.luminanza.ch/bando
Andrea Amarante, direttore generale del LAC dal 2024. (Sebastiano Piattini)
ra o titolari di Permesso F, con buona padronanza dell’italiano ed esperien-
Prismi
Il classico a prezzo vantaggioso.
Cronaca di un sacrificio annunciato
Graphic novel biografiche ◆ Don Pino Puglisi e la lotta per la legalità in un’opera toccante a firma di Sonseri e Pagani
Benedicta Froelich
Nell’ambito di quello che, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, ha costituito il periodo più violento nella drammatica epopea della lotta tra mafia e Stato italiano, si può senz’altro affermare che parecchie siano le figure distintesi per uno spirito di dedizione spesso portato alle estreme conseguenze – ovvero, al consapevole sacrificio della propria vita.
A far spiccare, tra tanti nomi, quello del sacerdote Giuseppe «Pino» Puglisi – ucciso da Cosa Nostra nel 1993, e beatificato dalla chiesa cattolica nel 2013 – sono state soprattutto la costante e sincera umiltà e forza d’animo da questi espresse attraverso la fede, che ne hanno fatto un vero esempio per molti venuti dopo di lui.
Un segno essenziale per raccontare l’umiltà come forma di rivolta, l’eroismo di chi resiste senza clamore e la fede che diventa linguaggio civile
Un personaggio di questo calibro –sfaccettato e affascinante, eppure da sempre vicino alla gente comune –non poteva essere a lungo ignorato da un mezzo narrativo dalla connotazione «popolare» quale il fumetto; appare quindi naturale la scelta di dedicargli una biografia disegnata come quella realizzata nel 2021 da Riccardo Pagani su testi di Marco Sonseri, ormai autentico «veterano» di quel sottogenere in rapida espansione rappresentato dalle graphic novel dedicate a personaggi le cui esperienze di vita possono definirsi come caratterizzate da un forte impegno civile: prima di dedicarsi a Puglisi, lo sceneggiatore ha infatti firmato i volumi dedicati a Giorgio Perlasca (2011) e Paolo Borsellino (2021).
Così, ciò che maggiormente colpisce in questo Don Puglisi, pubblicato per i tipi della ReNoir Comics, non è tanto la conferma di Sonseri come una delle voci più autorevoli e appassionate del panorama di lingua italiana, quanto piuttosto il risultato della sua sinergia con l’esordiente Pagani, responsabile dei disegni: difatti, sebbene a prima vista la componente grafica del volume possa apparire come poco «spettacolare» in termini di virtuosismi tecnici, in realtà la connotazione stilistica dell’intero fumetto è strettamente legata allo sguardo e punto di vista prescelto dalla narrazione. Ecco, quindi, il perché di uno
stile di disegno volutamente semplice e privo di fronzoli, quasi sottotono, in cui l’assenza di evidenti velleità artistiche dà vita a un codice espressivo quasi scarno nella sua palese onestà – proprio come sommesso e discreto era il modo di presentarsi del protagonista dell’opera. Ciò produce un effetto comunicativo immediato, permettendo al lettore di concentrarsi sui particolari della vicenda, senza che l’estetica rubi mai la scena alla vicenda narrata; il che risulta ancor più cruciale in una storia come quella di Don Pino, fatta di innumerevoli, singoli momenti solo apparentemente poco eclatanti, dal momento che ognuno di essi rappresenta, a modo suo, un atto di resistenza, rivelatore di un’implicita presa di posizione che avrebbe definito l’intera esperienza umana del sacerdote.
Il racconto ripercorre le vicende di Puglisi, incluso il vero e proprio «miracolo» da lui operato quando, inviato a occuparsi dei parrocchiani del paesino siciliano di Godrano – luogo ben più pericoloso di quanto non apparisse a prima vista, poiché profondamente intriso della cultura mafiosa delle cosche locali – riuscì, tramite il suo ministero sacerdotale, a risanare la sanguinosa faida tra due famiglie rivali. Da lì, Padre Puglisi si ritroverà costantemente in prima linea contro Cosa Nostra, fino al trasferimento nel quartiere palermitano di Brancaccio, dove egli stesso era nato e dove si svolgerà la fase più nota della sua storia – proprio quella che, grazie al finale tragico, conferirà immortali autorità e credibilità a una figura fino a quel momento e in quei luoghi perlopiù sconosciuta: quella del prete «contro», il quale, confrontato con un nemico ben più forte di lui, decide di sfidare la cultura dell’illegalità e dell’omertà, combinando i dettami della fede con l’instancabile impegno a favore dello sviluppo di una coscienza civile nei cittadini.
Per come narrata da Sonseri e Pagani, la vita di Don Pino si presenta come una vera e propria odissea nelle pieghe più oscure dell’Italia del ventesimo secolo – un’odissea per molti versi «nascosta» dalla natura umile e perfino discreta nella dimessa dignità di un prete che, da solo e senza nessun aiuto tangibile, mette la propria vita al servizio di quegli stessi valori destinati a condannarlo a morte.
È chiaro che un simile racconto presentava, dal punto di vista narrativo, alcuni rischi – su tutti, quello di
soccombere alla tentazione di dipingere il personaggio come un anacronistico cavaliere senza macchia e senza paura, per molti versi fuori tempo massimo e slegato dalla realtà; invece, in Don Puglisi l’eroico sacrificio in nome della socialità e del senso di umanità più sentito e profondo assume i contorni di una «crociata del quotidiano», ammantata dell’ordinarietà della vita di tutti i giorni, e,
proprio per questo, ancor più significativa. In tutto ciò, la narrazione lineare e mai enfatica di Sonseri si rivela fondamentale, portando alla luce le caratteristiche di Don Pino che ne hanno fatto, nell’immaginario collettivo, una presenza benevola e positiva, ispiratrice di un cambiamento che, per un breve momento, era davvero parso possibile; la perfetta fusione con il disegno di Pagani completa
l’opera, facendo sì che l’approccio –un racconto a più voci, animato da chi ha conosciuto e amato Puglisi – possa risultare davvero universale e sentito. «Io vi mando come pecore in mezzo ai lupi», così si legge nel Vangelo di Matteo in riferimento alla missione degli apostoli dopo la morte di Gesù: una citazione che Sonseri inserisce in apertura della graphic novel, mostrando Padre Pino mentre varca per la prima volta i confini del paese di Godrano, diretto verso un fato ineluttabile – proprio come un fedele discepolo che parta in missione. E anche in questo risiede il vero fascino dell’opera; sebbene quella di Puglisi sia per molti versi una tragedia annunciata, una volta chiuso il volume la sensazione è che le tavole di Sonseri e Pagani siano riuscite a infondere un vero, autentico senso di speranza nel lettore – soprattutto, a trasmettere tutta l’abbagliante bellezza del sentimento che animava il loro eroe: stesso anelito altruistico capace di giungere fino all’annullamento del sé, in un atto d’amore che combina la più profonda etica cristiana con il senso civico. Quello che, forse, ogni vero ecclesiastico dovrebbe essere disposto a compiere.
Bibliografia
Marco Sonseri (testi), Riccardo Pagani (disegni), Don Puglisi Renoir Comics, 2021, 112 pp.
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In fin della fiera
Parole incrociate
Esistono due modalità per giocare con le parole incrociate in treno: da soli, in silenzio, oppure ad alta voce, instaurando una modalità assembleare con quei passeggeri che, volenti o nolenti, hanno avuto la disgrazia sedersi vicino al giocatore. Ho ricevuto in dono questa seconda modalità, durante un viaggio da Torino verso Bologna. Protagonista una vivace anziana con due figlie, sulla quarantina, che si vergognavano della mamma ciarliera.
La signora si assesta, appoggia la borsa in grembo e, da vera professionista, ne estrae matita, gomma da cancellare e una corposa rivista che non è la riconoscibile «Settimana enigmistica». Si sistema e dà inizio alle danze per completare uno schema già iniziato. Appartiene alla specie dei giocatori che coinvolgono i presenti anche quando conoscono già la risposta. Una figlia siede di fronte a lei e finge di leggere una rivista tenendola alzata in modo da coprirsi il viso. Invano. La madre con
Voti d’aria
gesto imperioso gliela abbassa e urla perché è anche sordastra: «Di… puntini puntini… ce n’è una sola». La figlia sbuffa: «Ma dai! Lo sai benissimo! “Di mamma!”» «Io lo so, siete voi due figlie ingrate che non lo sapete! E comunque la risposta giusta è mamme!».
La figlia s’intigna: «E perché? Se ce n’è una sola, come dici tu, è singolare, è mamma». «No! Perché c’è una “e” sulla colonna verticale». «Avrai sbagliato l’altra risposta». «Impossibile, questa la sanno anche i bambini dell’asilo. Senti qua: corrente di pensiero praticata dal filosofo Gianni Vattimo. La risposta è: Ermeneutica». Interviene l’altra figlia, stupita: «E tu come fai a saperlo?». «Quando abitavamo in via Mazzini il professor Vattimo era nostro vicino di casa e lo incontravo tutti i giorni dal lattaio. Ma non perdiamo tempo, andiamo avanti», esorta la madre, neanche si trattasse di finire un lavoro urgente. «Sentite questa: Organo del corpo umano, si raccomanda di non met-
Chi ha paura dell’educazione
«I femminicidi non si combattono con l’educazione sessuale» ha detto il ministro italiano dell’istruzione Giuseppe Valditara (3+). E si può anche essere d’accordo. La delinquenza non si combatte con l’educazione alla legalità. Il razzismo non si combatte con l’educazione all’eguaglianza. Il bullismo non si combatte con l’educazione al rispetto. L’omofobia non si combatte educando all’inclusione. La violenza non si combatte educando ai valori della pace. L’aggressività non si combatte con l’educazione alla mitezza. Eccetera. D’accordo, ha ragione Mattia Feltri (6-) nel suo «Buongiorno», la rubrica quotidiana della «Stampa». Chiediamo troppo alla scuola, sostiene. Educazione alla legalità, all’uguaglianza, alla sessualità… E se la chiamassimo semplicemente educazione? Servirà pure a qualcosa l’educazione. Soprattutto, il manovratore
(l’autore collettivo della famosa manovra finanziaria) ha qualche fiducia nell’educazione, nella scuola, nell’istruzione? Sembrerebbe che più del bullismo, dei femminicidi, della delinquenza, dell’omofobia faccia paura l’educazione, in qualunque modo la si declini. Che sia educazione di questo o di quello, non va mai bene. Educazione sessuale? No. Educazione affettiva? No. Allora chiamiamola educazione sentimentale. No, no e poi no. Si è detto che istituire l’educazione sessuale nelle scuole rischierebbe di aprire alle teorie gender. Dunque, nel dubbio meglio di no. Ma l’educazione? Si potrebbe capovolgere tutto e chiedere al ministro di sottoscrivere questa affermazione: la delinquenza, i femminicidi, il razzismo, il bullismo, l’omofobia, la violenza eccetera eccetera non si combattono senza educazione. Va bene così? E allora
A video spento
terlo tra moglie e marito. Quattro lettere». «Il dito», mi scappa detto. L’altra figlia si rivolta e mi arruola come suo alleato: «La sente?», mi dice. «Provoca. Non più tardi di una settimana fa io e mio marito ci siamo lasciati per colpa della mia più cara amica e lei allude». La madre, soave, non perde la calma: «Sei tu che hai la coda di paglia. Questa rivista l’hanno stampata prima che Giorgio ti mollasse, come facevano a saperlo? Andiamo avanti. Ha detto: Tale la madre, tale la figlia. Nove lettere. Questa la so: Ezechiele». La figlia è furibonda: «Ma che razza di parole incrociate sono queste dove si parla solo di madri?». «Non è vero, parlano anche di Vattimo. E di scrittori famosi. Senti questa: La scrittrice italiana Grazia Deledda e lo scrittore russo Maksim Gor’kij hanno un titolo in comune. Sette lettere». Cedo alla tentazione e propongo: «La madre». Mi arriva un’occhiata di puro odio dalla figlia tradita da Giorgio. La madre: «Questa è difficile: Ti-
tolo italiano del serial televisivo turco Aldatmak. Dieci lettere». Silenzio. Una voce di donna dalla fila di sedili dietro i nostri: «Tradimento». «Esatto», proclama la giocatrice. Mi sporgo per vedere chi ha parlato e la giovane viaggiatrice non fa in tempo a nascondere lo smartphone. Non vale. Fra le tante vittime di Google c’è anche l’innocente gioco delle parole incrociate. La figlia, livida: «Hai tutte le fortune, anche una viaggiatrice che parla il turco». Mi convinco che Giorgio non aveva poi tutti i torti. La giocatrice mi arruola come suo socio: «Con tradimento abbiamo completato la 15 verticale, sei lettere, Sarabi. Scommetto che lei non sa cosa significa». Ammetto la mia ignoranza: «È la prima volta che sento questa parola». L’altra figlia, sinora muta, lascia cadere dall’alto: «Lo sanno tutti. È il nome della madre del Re Leone». La giocatrice: «Con le parole incrociate non si finisce mai d’imparare. Ti danno gli stru-
menti per far bella figura in società». La tradita: «Ma se parla solo di madri!». «Non è vero. Guarda qui: quattro lettere. Si trova a Milano, in via Bellerio». «Secondo me – dico – lì c’è la sede della Lega». La figlia non molla: «Magari ci abita la madre di Salvini». La giocatrice non raccoglie e prosegue: «Nelle commedie sta chiuso nell’armadio Sei lettere». Occhiata di trionfo alla figlia: «Amante». Prosegue, rivolta a me: «Senta questa. Uccello bravo a fare il salto. Sette lettere». Di fronte al mio smarrimento proclama: «Ma è la quaglia! Fa il salto fra moglie e amante!». È la dichiarazione di guerra. Per fortuna, con il consueto ritardo il nostro treno arriva a Bologna, dove scendo. Mentre cammino sulla banchina, la voce della madre sovrasta l’altoparlante della stazione: «Franti, tu uccidi tua madre. Dice il maestro in un libro famoso». Mi verrebbe da suggerire Cuore ma taccio; ci penserà quello a cui tocca il mio posto.
perché non si vuole investire nell’educazione? Qualcuno ha sentito parlare di istruzione e di scuola nel dibattito sulla manovra economica? Qualcuno, nei grandi sommovimenti mondiali che caratterizzano questi nostri tempi bellici e «bullici», ha sentito la parola «educazione»? Diciamo la verità, nessuno. L’educazione è chiaramente un concetto impopolare. Parlarne non fa prendere voti. Immaginate un politico che faccia campagna elettorale con lo slogan: PIÙ EDUCAZIONE! PIÙ ISTRUZIONE!! PIÙ SCUOLA!!! Meriterebbe un voto d’aria di gran lunga superiore al 6, ma sono pronto a scommettere che sarebbe destinato al fallimento. E sono anche pronto a scommettere che nessuno mai oserà tanto. Né in Italia né altrove. Non è più il tempo di Piero Calamandrei, il grande giurista e politico antifascista
Spettacolari tradimenti nei secoli dei secoli
Tutta colpa di una telecamera malandrina, quella che durante i concerti e le grandi manifestazioni sorprende chi si sta baciando, e di Chris Martin, il cantante dei Coldplay (ex marito di Gwyneth Paltrow) che vedendo sul maxischermo l’inquadratura di un abbraccio ha esclamato: «Ohi guarda quei due: o stanno avendo una relazione oppure sono molto timidi». Quella dei due amanti sorpresi da una telecamera e licenziati dalla loro azienda è una vicenda nota, ma è anche una grande storia d’inquietudine, nel momento in cui il tradimento diventa non solo pubblico ma materia di commenti sui social.
Uno dei format di maggior successo in Italia è Temptation Island, il «programma sulle corna», come ormai tutti lo chiamano. Nonostante schiere di improvvisati analisti si siano esercitati a spiegare il fenomeno sul web, resta una trasmissione tutta incentrata sul
tradimento, sulla tentazione, sul fascino «proibito» del cedimento, quell’imboscata nella quale tendiamo a cadere gioiosamente e volontariamente. Da un po’ di tempo il tradimento, pur continuando a essere un atto clandestino, è diventato oggetto di analisi, studi, riflessioni. Secondo Esther Perel, in Così fan tutti (Solferino), il tradimento è un sentimento vitale, l’antidoto più potente al terrore della morte: «L’inaspettata iniezione di desiderio erotico ci spinge oltre il quotidiano, spezzando il ritmo e la routine della consuetudine. Ogni senso è amplificato: il cibo ha un sapore migliore, i colori sono più vividi e la musica non ha mai avuto un suono così dolce». È così? La pubblicistica di ambito psicologico spiega che il tradimento è il venire meno a un impegno di fedeltà e lealtà, sia morale sia giuridico, nei confronti di una persona o di un’istituzione. In ambito sentimentale, il
tradimento si riferisce alla rottura della fiducia e delle aspettative all’interno di una relazione. Poco prima della scomparsa, Giulio Giorello ha scritto un libro molto importante: Il tradimento. In politica, in amore e non solo, edito da Longanesi: la figura del traditore esiste da sempre, ha dato origine a noti miti ed è stata costantemente approfondita. Nell’ottica delle religioni, il tradimento è una deviazione dell’animo umano. Giuda ne è l’emblema. Il tradimento ha il suo fascino perché ha bisogno di sotterfugi, alleanze. Si insinua in una routine forse noiosa e ha un suo fine utilitaristico. Condivisibile la definizione che si dà nel Macbeth di William Shakespeare quando Macduff chiede alla madre chi sia il traditore e la donna risponde: «Uno che giura e mente». Giorello passa in rassegna una serie di casi divenuti «mitici» nella storia e nella letteratura: da Bruto e Cassio a
che diceva: «Se si vuole che la democrazia prima si faccia e poi si mantenga e si perfezioni, si può dire che la scuola a lungo andare è più importante del Parlamento e della Magistratura e della Corte costituzionale» (il voto d’aria lo lascio al lettore). Non è più neanche il tempo in cui Barack Obama poteva dire una frase su cui l’attuale presidente sarebbe pronto a vomitare: «L’ignoranza non è una virtù» (idem). Pasolini, che nelle celebrazioni del 2022 una presidente del Senato (2) ha chiamato Gian Paolo, è morto cinquant’anni fa e il disprezzo per la cultura l’ha percepito con lucidità con grande anticipo. Sosteneva che un tempo i sottoproletari rispettavano la cultura anche se non si vergognavano della propria ignoranza: anzi, erano fieri del loro modello di vita. Erano analfabeti che possedevano il «mistero della realtà». Oggi a di-
sprezzare la cultura (gli intellettuali, i «professoroni», i «giornaloni», le università…) sono i potenti del mondo. E Pasolini già vedeva i piccoli borghesi e i proletari imborghesiti odiare tutto ciò che sapeva di cultura per omologarsi ai modelli televisivi e al conformismo linguistico. Chiamava «fascismo» questa omologazione forsennata indotta dalla frenesia del consumo, un potere senza camicia nera ma capace di plasmare le vite e le coscienze. Oggi al consumo si è aggiunta la religione della tecnologia (e di conseguenza del denaro). Intorno agli stessi anni di Pasolini, Italo Calvino spiegava: «Un Paese che distrugge la sua scuola non lo fa mai solo per soldi, perché le risorse mancano, o i costi sono eccessivi. Un Paese che demolisce l’istruzione è già governato da quelli che dalla diffusione del sapere hanno solo da perdere». Voto d’aria? Fate voi.
Jago, da Macbeth a Don Giovanni, da Spinoza a Trotski, dal pirata William Fly a Tex Willer. Quello di Bruto e Cassio, pugnalatori di Cesare, è un caso politico ideale per ogni tipo di allegoria. Dante li fa marcire nel profondo inferno, ritenendoli i traditori di quell’ottimo Cesare che Dio ha voluto regnasse sul mondo riunito sotto l’egida romana affinché si diffondesse la notizia del Verbo. Al contrario, Machiavelli e Leopardi vedono in Bruto e Cassio dei liberatori, mentre in Cesare il vero traditore, colui che ha usurpato il potere del popolo decretando la fine della gloriosa repubblica romana. Il tradimento è quindi concetto assai ambiguo, che può essere interpretato secondo punti di vista sempre diversi. Avishai Margalit ha pubblicato da Einaudi il saggio Sul tradimento. L’adulterio, il tradimento, l’apostasia non vengono più considerati con la gravi-
tà di una volta. Inoltre sostiene che la tensione tra l’ubiquità del tradimento e il progressivo allentamento della sua considerazione è un segno della differenza esistente tra etica e moralità nei rapporti umani. Non si può definire con sicurezza cosa sia un tradimento. Per alcuni è un informatore, per altri è chi ti pugnala alle spalle: un eroe o un vile. Eppure, il concetto di ciò che significa tradire è costante attraverso i secoli e le culture. Il tradimento mina la fiducia più solida. La tesi principale di Margalit, argomentata anche attraverso una serie imponente di riferimenti storici, letterari e religiosi, è che il tradimento scioglie il collante che tiene uniti i rapporti forti: dunque, ha necessariamente sempre a che fare con l’etica, non con la morale. Mai dimenticare che tradire deriva dal latino tradere composto di «tra» (oltre) e «dare» «consegnare», cioè consegnare al nemico.
di Bruno Gambarotta
di Paolo Di Stefano
di Aldo Grasso
GUSTO
Halloween
Il risveglio degli spiriti
Ad Halloween ci sono salsicce spaventose, biscotti terribili e toast orribili. Tuttavia, sono davvero deliziosi!
Testo: Dinah Leuenberger Immagini: Claudia Linsi
Ragnatela di bastoncini salati
Ingredienti per ca. 6 pezzi
1 busta di glassa bianca per dolci ½ busta di glassa al cioccolato scura ca. 80 g di bastoncini salati 20 g di codette di cioccolato 12 occhi di zucchero
1. Sciogli a bagnomaria nella busta le due varietà di glassa in acqua non troppo calda.
2. Adagia sempre 5 bastoncini salati su un foglio di carta da forno, formando raggi che si toccano al centro.
3. Taglia di poco un angolo della busta con la glassa bianca. Versala dapprima sul centro dei raggi e lasciala asciugare leggermente. Poi versala formando altri raggi tra i bastoncini. Versala tutt’attorno per i fili della ragnatela. Lascia asciugare un poco.
4. Taglia di poco un angolo della busta con la glassa scura. Versa la glassa sulle ragnatele formando un punto grande ca. 2 cm per il ragno. Cospargi la superficie con codette di cioccolato. A piacimento, forma anche le gambe. Incolla gli occhi di zucchero con una goccia di glassa. Fai consolidare in frigo.
Ricetta
Bastoncini lunghi salati Party
Carote fantasma
Le fette di carota di questa ricetta si trasformano in piccoli fantasmi. Una ricetta divertente per festeggiare Halloween.
Toast all’avocado con mostro
Il toast alla guacamole con olive, peperoni e uova ha l’aspetto di un divertente mostro. La ricetta perfetta per Halloween.
Tomme mummia
I tomme al forno in manto di pasta assomigliano a mummie. Senza occhi vanno bene tutto l’anno come stuzzichini.
Pipistrelli agli Oreo
Basta poco per trasformare i biscotti Oreo in divertenti pipistrelli. Una ricetta facile e veloce per Halloween.
Salsicce mummia agli spaghetti
Ingredienti, piccolo pasto per 6 pezzi
ca. 100 g di spaghetti 6 salsicce, ad es. knackerli 1 l di brodo di verdura olio d’oliva 12 occhi di zucchero ½ cucchiaino di maionese salsa di pomodoro con verdure per guarnire
1. Infilza gli spaghetti in fila lungo le salsicce, lasciando uno spazio di ca. 5 mm tra uno spaghetto e l’altro.
2. Porta a bollore il brodo in una grande padella, poi riduci il calore. Distribuisci le salsicce lungo il bordo della padella, in modo che gli spaghetti siano completamente immersi nell’acqua. Lessali al dente lasciando sobbollire leggermente l’acqua.
3. Leva le salsicce con gli spaghetti dalla padella. Spennella gli spaghetti con poco olio. Arrotola le salsicce negli spaghetti. Incolla gli occhi di zucchero con pochissima maionese.
4. Nel frattempo, scalda la salsa in una pentola. Adagia le salsicce mummia su un piatto e distribuisci la salsa sugli spaghetti.
Ricetta
Carote al kg Fr. 1.40
Tomme Minis Jean-Louis 5 x 30 g Fr. 3.80
PREZZO BASSO
PREZZO BASSO
PREZZO BASSO
TEMPO LIBERO
Una ricetta veloce e profumata
Passo dopo passo, così si fa un salmone al forno fatto in casa leggero e aromatico da gustare con burro alle erbe e al limone
Ghost of Yotei, bellezza glaciale senza anima
Sucker Punch torna nel Giappone feudale con un mondo più vasto e affascinante, anche se la forza narrativa di Tsushima si dissolve nella neve dell’Hokkaido
La montagna dell’Arca e le chiese del lago
Reportage ◆ Dalle iscrizioni urartee sulle mura di Van ai monoliti funerari selgiuchidi di Ahlat, passando per i monasteri armeni e le cicatrici del Novecento, l’Anatolia orientale si rivela come un archivio a cielo aperto di memorie stratificate
Una grande nuvola bianca sospesa su un andirivieni di morbidi pianori punteggiati di grandi rettangoli blu, le tende dei pastori che hanno sostituito pelli di montone e cavalli con plastica e pick-up. Poi lentamente un immenso cono di roccia spruzzato di ghiaccio emerge nell’afa mattutina sui lunghi rettilinei di una superstrada di cui spesso fanno le spese cani centrati come birilli da camion mastodontici lanciati a folle velocità.
Il monte Ararat più che un paesaggio è un mantra mentale, un’emozione incancellabile quando la luce radente dell’alba crea un’ombra scura che scivola nella pianura sottostante. Per gli armeni che la possono guardare solo dall’altro lato della frontiera è il «Luogo creato da Dio», la Montagna Sacra, iconico simbolo di un’Armenia perduta, raffigurata insieme all’Arca persino sulla bandiera nazionale. Per i turchi invece è l’Ağrı Dağı, la «Montagna del dolore». Ma per tutti è la Montagna dell’Arca di Noè.
Chiunque, quando se la vede davanti, cerca con gli occhi della fantasia il relitto più famoso della storia che sarebbe ancora lassù, imprigionato in una tomba di ghiaccio: «Il settimo mese l’Arca si fermò, il diciassettesimo giorno del mese, sui monti di Ararat» è scritto nella Genesi, parole che si sono trasformate in un’irresistibile calamita per generazioni di esploratori, cacciatori di tesori, avventurieri e fanatici religiosi, a partire dal re assiro Sennacherib che secondo il Talmud avrebbe trasformato in idolo un legno appartenuto all’Arca.
Archeologia biblica
Da allora tutto quello che la riguarda è avvolto da un’impenetrabile nebbia di storie e leggende, persino il luogo in cui avrebbe toccato terra – che secondo alcune fonti sarebbe in realtà il Monte Judi, più a sud e vicino al confine con la Siria. L’Ararat entrò in scena nel tardo medioevo e la corsa alla ricerca dell’Arca iniziò in realtà solo nel diciannovesimo secolo con la nascita dell’archeologia biblica. Il primo scalatore registrato fu Friedrich Parrot nel 1829, un tempo in cui per gli abitanti dei villaggi ai piedi della montagna salire sull’Ararat era un atto blasfemo, come arrampicarsi sull’Olimpo per i greci o sul monte Kailash per i tibetani. Nel 1876 lo seguì James Bryce che ritornò con un pezzo di legno lavorato dall’uomo, e ai dubbi sulle sue origini rispose disinvoltamente che «nessun uomo scredita la propria reliquia». Era solo il primo di una folla di aspiranti Indiana Jones, perlopiù appartenenti al filone religioso, scesi dall’Ararat brandendo
frammenti di legno che – sottoposti ai controlli di esperti – risultavano molto più recenti. Ci sono anche le «arche fantasma», sporgenze di basalto che nelle fotografie ricordavano forme e dimensioni dell’Arca, e non manca neppure uno strepitoso Pesce d’Aprile del 1883, quando un giornalista neozelandese riportò la fantomatica notizia che una valanga aveva riportato alla luce l’Arca e un acquirente americano, Barnum, progettava di esporla nel suo famoso circo.
Qualche anno dopo, l’arcidiacono della chiesa caldea John Joseph Nouri affermò di averla ritrovata, rafforzando la sua credibilità con un irresistibile curriculum di Grande Ambasciatore Apostolico di Malabar, India e Persia, Rappresentante del Patriarcato Imperiale di novecento milioni di asiatici e Primo Esploratore Universale ad avere percorso un milione di miglia; certezze minate nel 1894 da un ricovero in un manicomio a San Francisco. Da allora è cresciuta un’arkeology nutrita da interpretazioni letterali di leg-
gende e sacre scritture, foto misteriosamente scomparse, o evanescenti visioni dell’Arca tra una tempesta di neve e un colpo di vento che per un attimo ha spazzato via le nuvole. Nel ventesimo secolo molti gruppi evangelici conservatori degli Stati Uniti fecero del suo ritrovamento la fideistica testimonianza di un sito archeologico con le prove dell’esistenza di Dio. Un mix di fede, sete di avventura e pseudoscienza trasformato in una versione evangelica del Mostro di Loch Ness in cui razionalità e irrazionalità convi-
vono senza problemi, insieme all’immancabile complottismo che accusa i governi di occultare la verità.
Satanisti, boicottaggi e spionaggio
Nel 1940 la rivista «New Eden» di Los Angeles pubblicò la presunta storia di un aviatore russo che nel 1917, testando un avveniristico aeroplano, aveva scoperto un gigantesco relitto sull’Ararat, ma lo scoppio della Ri-
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Anatolia nordorientale. Il Monte Ararat, non lontano da Dogubayazit. Sotto: il Nemrut Dagi (Monte Nemrut) è una montagna che si erge dalla sponda sudoccidentale del Lago di Van. È alta 3.050 m e la sua caldera ellittica ha un diametro di circa 7x8 km; a destra: Castello di Van. Sardur Bucu (la Torre di Sardur, 840-830 a.C. prende il nome dal re urarteo Sardur I.); di fianco: il Palazzo Ishak Pasha, vicino a Dogˇubeyazıt: raro esempio di palazzo storico turco, completato nel 1784.
Enrico Martino, testo e foto
voluzione russa aveva bloccato la notizia perché i bolscevichi boicottavano qualsiasi propaganda religiosa. Nel 1948 anche Aaron Smith, decano del Pople’s Bible College del Nord Carolina in cerca della prua dell’Arca, si guadagnò dalla sovietica Pravda l’accusa di «spionaggio per gli imperialisti anglo-britannici».
Quattro anni dopo un armeno nato ai piedi dell’Ararat rivelò sul letto di morte al pastore avventista californiano Harold Williams di avere partecipato da ragazzo a una spedizione «guidata da perfidi scienziati satanisti» che, dopo avere tentato invano di distruggere l’Arca in preda a una furia incontrollabile, lo avevano minacciato di morte perché mantenesse il segreto. Molte di queste spedizioni assomigliano a spensierate gite per dilettanti su una montagna che da lontano rievoca idilliache stampe giapponesi del monte Fuji ma che vicino alla vetta si frantuma bruscamente in un aspro e pericoloso caos di rocce vulcaniche.
Folgorazioni religiose
Altre scalate invece furono pianificate con una preparazione meticolosa, come quelle guidate all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso da James Irwin, l’ottavo uomo a mettere piede sulla Luna che si dimise dalla NASA dopo una folgorazione religiosa sull’Apollo 15. Tuttavia, anche lui dopo una sequela di fallimenti dovette ammettere che «è più facile camminare sulla Luna». Nonostante tutto, il flusso di aspiranti scopritori non si è mai fermato e uno di loro, l’autoproclamato missionario Donald Mackenzie, è addirittura scomparso nel nulla nel 2010, lasciando come unica traccia i resti della sua tenda.
La leggenda dell’Arca di Noè continua ad attirare scalatori, missionari, fanatici e avventurieri sulle pendici del monte Ararat
Quando l’esploratore inglese James Bryce nel diciannovesimo secolo vide l’Ararat per la prima volta scrisse: «Nessuno che l’abbia mai visto emergere maestosamente sopra le altre vette potrebbe dubitare che la sua vetta abbia infranto tutte le onde». Una visione che ancora oggi attira ogni anno a Doğubeyazıt almeno un centinaio di aspiranti cacciatori dell’Arca, e circa quattromila persone pronte a scalare la montagna, con o senza il permesso delle autorità turche. Sono loro, secondo i residenti, a far girare l’economia dei centomila abitanti, perché «senza scalatori e turisti fallirebbero proprietari di cavalli, ristoranti, hotel e taxisti, e se finalmente arriverà la pace tra curdi e governo potremmo diventare un paradiso per scalatori, un nuovo Kilimanjaro».
Forse è vero, anche se è difficile non immaginare ogni sorta di traffico in una polverosa città di frontiera al confine con l’Iran ufficialmente isolato dalle sanzioni: è indubbio che l’Ararat è un potenziale magnete turistico per una regione tra le più povere della Turchia.
Il Paradiso Segreto
Per adesso a Doğubeyazıt devono accontentarsi dell’İshak Paşa Sarayı, un palazzo da Mille e una notte sospeso su uno spigolo roccioso che domina un paesaggio da veduta orientalista del diciannovesimo secolo. Le sue
Cavustepe, le fondamenta in pietra della cittàfortezza urartea di Sardurihinli, risalente all'VIII secolo a.C., e del palazzo del re Sarduri II. Le pietre di basalto nero del tempio con iscrizioni cuneiformi.
sale istoriate nei giorni di festa riempiono gli occhi di interi villaggi curdi in gita e di ragazze che si rincorrono nei cortili, rosse in viso come le fodere dei loro cellulari, scattando selfie da mandare alle amiche. Chi invece non si scompone più di tanto è il proprietario della casa da tè appollaiata sopra il complesso, «io questo panorama lo vedo tutti i giorni» sorride sornione mentre aspetta gli inevitabili avventori.
A sud di Doğubeyazıt, un immenso specchio d’acqua salmastra chiuso da un orizzonte di montagne color ocra provoca un dubbio spazio-temporale, siamo ancora in Occidente o già nel cuore dell’Oriente? Forse è proprio il lago Van, il più grande della Turchia, il centro di gravità immobile del Sakli Cennet, il «Paradiso segreto» di questa Anatolia orientale, a siderale distanza dalle atmosfere cosmopolite di Istanbul ma attraversata da lampi di storia in comune con un Occidente che ne ha perso persino il ricordo.
La linea di frattura e Van Nel cuore di una regione impregnata di quello che probabilmente è il più alto tasso di densità e diversità culturali del mondo, si trova un’eredità storica affollata da Ittiti, Romani, Bizantini, Arabi, Persiani, Ottomani, Armeni, Georgiani e Russi. Affaccendati per
secoli in guerre infinite per occupare quella che ancora oggi per politologi e diplomatici è una Fault Line per eccellenza, una linea di frattura geografica e simbolica tra Europa e Asia.
Un confine invisibile, ma concreto e reale, che potrebbe annidarsi tra le spirali di pietra di una vera e propria cipolla archeologica, la cittadella di Van iniziata dai sovrani urartei nel nono secolo avanti Cristo e trasformata dalle più sfrenate fantasie dei pittori del XVIII secolo in un’onirica colonna a picco sul lago. Nonostante il terremoto del 2011, ultimo di una lunga serie, la «Perla dell’est» è una delle città più dinamiche dell’Anatolia orientale, con un traffico da videogioco in cui al posto dei mostri ti schizzano davanti donne velate e ciclisti bambini. «Van in questo mondo, il paradiso nel prossimo» diceva un proverbio armeno: purtroppo per molti di loro il paradiso è arrivato troppo presto con la prima pulizia etnica del ventesimo secolo. Centinaia di migliaia di morti, cui i turchi da sempre oppongono le loro vittime, negando il genocidio. Una faida infinita che qui nessuno ama rievocare, meno che mai gli assonnati camerieri intenti a smontare pile di sedie per affrontare i primi clienti del mattino. Meglio, molto meglio, rievocare ai pochi turisti di passaggio il raro Gatto di Van, famoso per i suoi occhi di colore diverso e la capacità di pescare nuotando.
gli archeologi, e una fonte di reddito per lo storico guardiano del sito, l’ultraottantenne Mustafa Keman che ha creato dal nulla un geniale marketing turistico, imparando a scolpire caratteri e simboli urartei su piccole stele di pietra trasformate in insoliti souvenirs. Per decenni Urartu Mehmet, come lo chiamano i compaesani, ha osservato gli archeologi che interpretavano i caratteri cuneiformi diventando, almeno secondo lui, una delle dodici persone al mondo che sanno scrivere e leggere in urartico. Ancora più a sud il castello di Hosap, un nido d’aquila appeso a una collina, sembra sul punto di precipitare sulla lunga fila di botteghe di gommisti e meccanici del villaggio di Guzelsu, in trepida attesa di un probabile guasto meccanico proveniente dallo scarso traffico diretto verso il vicino Iraq.
Le leggenda dell’Isola Akdamar
Il passato armeno del lago Van riaffiora sull’isoletta di Akdamar, di fronte a un molo dove un barcone pomposamente ribattezzato traghetto salpa a insindacabile giudizio del capitano solo quando è pieno, o più spesso quando i turisti sfiniti dall’attesa accettano di pagare un sovrapprezzo per essere trasportati all’isola. Direttamente nel decimo secolo, davanti ai miti biblici che si rincorrono sulle mura ricoperte di bassorilievi della basilica della Santa Croce, capolavoro assoluto dell’architettura armena e simbolo di un passato tornato all’antico splendore dopo decenni di abbandono.
Anche il nome tradizionale dell’isola, Akhtamar, risalirebbe a una leggenda armena sull’amore della principessa Tamar che ogni notte accendeva una luce per guidare un ragazzo che la raggiungeva a nuoto. Fino a quando il padre, scoperta la tresca, spense la luce lasciando annegare il ragazzo che gridava « Akh, Tamar », «Oh, Tamar», un urlo disperato che risuonerebbe ancora nel buio.
Çavuştepe e il castello di Hosap
Il vero gioiello però è una collina sospesa a sud est del lago su un paesaggio verde acceso punteggiato di villaggi, Çavuştepe con la sua grande pietra di basalto nero ricoperta da iscrizioni cuneiformi annidata tra le scarne rovine del palazzo-fortezza costruito tra il 764 e il 735 a.C. dal re urarteo Sardur II, sovrano di un regno esteso dal mar Caspio alla Mesopotamia. Un frammento della storia più antica della regione per
Il vulcano più giovane dell’Anatolia
Il fascino asiatico del paesaggio invece esplode all’interno del cono spezzato del Nemrut Dagi, un’ellisse lunga otto chilometri che nasconde un lago profondo più azzurro del cielo, è il vulcano più giovane dell’Anatolia da non confondere con l’omonima montagna nel sud-est della Turchia. Ai suoi piedi emergono dall’erba bruciata dal sole gli ottomila monoliti rossastri alti più di quattro metri e ricoperti di incisioni cufiche, la raffinata calligrafia araba, del cimitero selgiuchide di Ahlat, probabilmente il più grande del mondo e in attesa di essere nominato Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO.
Quasi una visione, come l’Arca di Noè vagamente rococò e pericolosamente inclinata su un lato che naviga su un improbabile tappetino alle spalle dell’impiegato alla reception di un albergo di Agri. Ultimo flash di contraddizioni sospese tra un passato mitico e una modernità sanguigna, in un continuo gioco di specchi tra ricordi biblici, un remoto medioevo cristiano e testimonianze di un Islam austero.
Informazioni
Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.
Mustafa, conosciuto localmente come «Urartu Mehmet», arrivò per la prima volta alle rovine urartee nel 1963.
Sapere degli esperti: Cosa si cela dietro al ringiovanimento epigenetico della pelle?
Si apre un nuovo capitolo nella ricerca anti-age: Con NIVEA Cellular Epigenetics Siero Ringiovanente, NIVEA presenta un’innovazione rivoluzionaria che inverte visibilmente l’invecchiamento cutaneo in sole due settimane. Ciò è possibile grazie al principio attivo epigenetico Epicelline®, sviluppato sulla base della tecnologia Age Clock brevettata.
La formula combina Epicelline® con tre tipi di acido ialuronico, che idratano intensamente ogni strato della pelle e svolgono un’azione rimpolpante. La pelle non solo viene levigata ma anche rinforzata dall’interno.
Dr. Cassandra Falckenhayn, responsabile scientifica per la bioinformatica, NIVEA
Che cosa rende l’epigenetica così rivoluzionaria per la cura della pelle?
Dr. Falckenhayn: Per molto tempo si è ritenuto che l’invecchiamento della pelle fosse determinato geneticamente. Ma l’epigenetica dimostra che: Fattori ambientali come i raggi UV, lo stress o l’alimentazione influenzano il modo in cui i nostri geni lavorano – e di conseguenza il modo in cui la nostra pelle invecchia. Questa scoperta sta cambiando radicalmente la ricerca anti-aging.
Come funziona esattamente questo meccanismo?
Dr. Falckenhayn: Le nostre cellule cutanee usano oltre 15.000 geni – questo è il nostro «codice della pelle» individuale. Con il passare del tempo, la lettura di questo codice può rallentare o bloccarsi. La buona notizia: Questi blocchi sono reversibili. Grazie a principi attivi ad azione epigenetica, come Epicelline®, possiamo
Con NIVEA Cellular Epigenetics Siero Ringiovanente nuova era nella cura della pelle efficace, per una pelle giovane che riflette come ci si sente davvero.
*Studi clinici, tasso di conferma, 31-43 donne, 2024
Ricetta della settimana - Salmone al forno
Ingredienti
Piatto principale
Ingredienti per 4 persone
6-8 cipollotti
¼ di limone
4 spicchi d’aglio
¼ di mazzetto d’aneto
½ mazzetto d’erba cipollina
80 g di burro, morbido
1 cc di sale
4 Filetti di salmone senza pelle da circa 150 g l’uno sale per condire pepe
Preparazione
1. Dimezzate i cipollotti per il lungo, poi tagliateli in tre parti di traverso, in modo da ottenere dei bastoncini oblunghi. Distribuiteli in una pirofila. Scaldate il forno statico a 180 °C (calore superiore e inferiore).
2. Grattugiate finemente la scorza del limone, poi tagliatelo a fettine sottili. Distribuite la metà delle fettine di limone sui cipollotti e tenete da parte quelle che avanzano per guarnire. Affettate finemente gli spicchi d’aglio e tenetene da parte 1/3. Distribuite il resto sui cipollotti.
3. Tritate finemente le erbe. Mescolatele con il burro, la scorza di limone grattugiata e il sale. Distribuite un poco del burro alle erbe sui cipollotti.
4. Incidete a losanga fino al centro la superficie dei filetti di salmone. Infilate le fettine d’aglio tenute da parte in alcune fessure. Cospargete la superficie dei filetti con il burro alle erbe rimasto, spalmandone un po’ anche nelle fessure incise.
5. Adagiate i filetti sui cipollotti e i limoni nella pirofila. Guarnite con le fettine di limone tenute da parte. Cuocete al centro del forno per circa 15-20 minuti. Il pesce al centro dovrebbe essere ancora leggermente traslucido (vedi suggerimento). Prima di servire condite con un po’ di sale e pepe.
Consigli utili
Dopo 15 minuti in forno, controllate il grado di cottura dei filetti. Il tempo di cottura ottimale varia a seconda dello spessore dei filetti, del forno e del livello di cottura desiderato. Al centro, il pesce dovrebbe essere ancora leggermente traslucido. Non cuocete troppo a lungo il salmone, altrimenti risulterà troppo asciutto. Invece dell’aneto potete usare il prezzemolo. Per un piatto ancora più aromatico disponete alcuni rametti di timo sotto e sopra il pesce.
Preparazione: 30-40 minuti; cottura in forno: 15-20 minuti
Per porzione: circa 31 g di proteine, 38 g di grassi, 5 g di carboidrati, 480 kcal
Offerte ed esperienze invitanti
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Ghost of Yotei , un ritorno senza rivelazioni
Videogiochi ◆ Il seguito di Ghost of Tsushima amplia il mondo di gioco con il selvaggio Hokkaido ma perde l’intensità narrativa del primo capitolo
Davide Canavesi
Da qualche anno il Giappone sta guadagnando sempre più popolarità mainstream. Che sia l’accettazione di fumetti e cartoni animati, meglio detti manga e anime, come forma d’intrattenimento per tutti e non per un invisibile sottobosco di fanatici Otaku , oppure per il crescente numero di turisti che, approfittando della relativa debolezza dello Yen giapponese, decidono di visitare il Paese del Sol Levante in massa. Il mondo dei videogiochi è da sempre uno dei punti che uniscono il mondo intero alla cultura nipponica. E non solamente perché Nintendo e Sony PlayStation sono entrambe società giapponesi ma anche e soprattutto per quei giochi, anche molto famosi, ambientati proprio in Giappone. Tuttavia, non sono poi tanti gli studios di videogiochi non basati nel Paese che siano riusciti a catturarne l’essenza in modo da offrire un prodotto che sia al contempo godibile e fedele alle tradizioni, sia da un punto di vista iconografico sia per quel che concerne l’atmosfera. Basti pensare al recente Assassin’s Creed Shadows, accompagnato da lunghe polemiche riguardo ambientazione e rappresentazione di questa cultura ben distinta.
Una delle eccezioni alla regola è Sucker Punch, studio di videogiochi
che si trova a Washington, negli Stati Uniti. Ghost of Tsushima , uscito nel 2020, è stato quasi universalmente apprezzato sia da pubblico che critica. Ora, a cinque anni di distanza, ecco arrivare Ghost of Yotei. Abbandonati gli atolli al largo dell’isola di Kyushu in favore dell’Hokkaido, nell’estremo nord del Paese, questo nuovo gioco tenta di ricatturare quella formula che così bene ha funzionato qualche anno fa.
Ghost of Yotei si lascia alle spalle le gesta del samurai Jin Sakai: questa volta saremo protagonisti della storia di Atsu, una donna guerriera temprata da molte lotte, non da ultima la campale battaglia di Sekigahara, che, nella storia reale, rappresenta uno dei momenti più cruciali del Giappone del 1600. Lasciato il sud, Atsu ritorna alla sua terra natale in cerca di coloro che hanno brutalmente trucidato la sua famiglia. Al suo ritorno trova l’isola oggetto di contesa tra due schieramenti: un gruppo di assassini, ritenuti responsabili delle sofferenze della protagonista, e uno shogun intenzionato a conquistare il territorio. Non resta altro che rimboccarsi le maniche e affilare la spada. Ghost of Yotei è in quasi tutto e per tutto un notevole passo avanti rispetto al gioco precedente. Il titolo,
Giochi e passatempi
Cruciverba
La moglie al marito: «Caro, stasera c’è la partita, invita i tuoi amici che ho comprato la birra!» – «È grave?» Scoprite la risposta della moglie risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate.
(Frase: 2, 4, 5, 2, 9, 1, 2, 6)
ORIZZONTALI
1. Vesti da magistrati
5. Mangia con ingordigia
10. Pianta con foglie carnose usata in erboristeria
11. Se si pesca, si mette al fresco...
12. L’attore Selleck
13. Il dei tali...
14. Antica lingua francese
15. Danno un punto a scopa
16. Le prime volte
17. Anagramma di otri
20. Una villa di Roma
21. Desiderio poetico
23. Viene in camera dopo me...
24. Simbolo chimico del sodio
25. Fine, termine per Virgilio
26. Fiume polacco
27. Ponce all’acquavite
28. Un pesce
29. Una donna fra i Titani
30. Piccola rana verde
32. Documento Unico di Circolazione
33. Una corsa a Londra
34. Prefisso che vuol dire vino
35. Verbo attivo
36. Ninfa greca delle acque
37. Pianta dalle proprietà emollienti e antinfiammatorie
VERTICALI
1. Nome femminile
2. Vi nacque van Gogh
3. Gigante biblico
4. Simbolo chimico dell’elio
5. Soffrono per amore
6. Pari... senza gol
7. Le ghirbe del cammelliere
8. Pronome personale francese
9. Le iniziali dell’attrice Muti
specialmente su PlayStation 5 Pro, è un’assoluta delizia per gli occhi. Pur non mostrando i panorami che più comunemente associamo al Giappone, ci permetterà di visitare vasti territori sconosciuti ai più. Dalle cime innevate dell’imponente monte Yotei a campi fioriti, villaggi Ainu e fortezze samurai. Il gioco è interamente doppiato in italiano e in giapponese e offre diversi «filtri» per cambiare non solo l’aspetto del gioco, come la modalità Kurosawa (ispirata al famoso regista nipponico) ma anche la colonna sonora con la modalità
Watanabe che sostituisce le musiche originali con versioni lo-fi particolarmente apprezzabili.
Durante le sue peripezie, Atsu imparerà progressivamente a combattere non solo con una katana (la spada classica giapponese) ma con tutta una varietà di armi offensive che forniscono un bel ventaglio di tecniche e tattiche di combattimento. Al giocatore la scelta di un approccio diretto o indiretto nell’affrontare i vari pericoli dell’isola. Peccato che, a differenza del gioco precedente, non ci sia più nessun conflitto mora-
le tra il comportarsi onorevolmente in battaglia oppure usare qualsiasi mezzo pur di sconfiggere i nostri avversari.
La ricerca di vendetta di Atsu la porterà anche a interagire con tanti personaggi, alcuni buoni e alcuni decisamente cattivi senza però dimenticare missioni e ricerche più calme e rilassate. Un tempio nascosto, un altare da onorare o una volpe nella neve alta da rincorrere, il mondo di Ghost of Yotei è particolarmente vivo e intrigante da esplorare. L’unico vero problema di questo gioco è la storia. Più debole rispetto al precedente, si basa sulla trita e ritrita vendetta personale. In questo, Yotei manca di quell’anima che invece era così presente in Tsushima. Forse s’è voluto creare un gioco dalle tematiche fin troppo moderne, in cui una samurai donna è accettata senza batter ciglio, al posto di mettere in avanti una storia in cui dobbiamo dimostrare il nostro valore e la nostra bravura in un mondo che, nel Giappone rurale del XVII secolo, non era molto propenso a farlo. Sarebbe stata una storia molto più intrigante. Detto questo, Ghost of Yotei rimane un sequel di qualità che, pur perdendosi un po’ per strada, saprà garantire dalle 30 alle 40 ore di divertimento ed esplorazioni.
11. Prefisso replicativo
14. In botanica è noto come mal bianco
15. Un figlio di Poseidone
18. Clamorosa lite
19. Cura tutti i mali
22. Motore a Londra
23. Spiazzi nei boschi
25. Il Galdino... dei
«I Promessi Sposi»
26. Governò l’Egitto negli anni ’70
27. Particelle cromosomiche
29. Aggettivo possessivo
31. Un articolo
33. Simbolo chimico del radon
34. L’Harris famoso attore
Le iniziali del cantante Leali
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku cliccando sull’icona «Concorsi», homepage in alto a destra Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano . Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
Hit della settimana
Settimana Migros
partire da 3 pezzi
11.90 invece di 19.90
Tutte le capsule Delizio, 48 pezzi per es. lungo crema, 13.86 invece di 19.80, (100 g = 4.81)
Mango Brasile/Spagna, il pezzo 1.–Mandarini Spagna, rete da 1 kg 1.–28. 10 – 3. 11. 2025
Filetto dorsale di salmone affumicato d'allevamento, Scozia, 300 g, in self-service, (100 g = 3.97)
di 9.95
di 25.50 Frey Branches Milk in conf. speciale, 50 x 27 g, (100 g = 0.94)
Polli interi Optigal Svizzera, 2 pezzi, al kg, in self-service
la calzetteria da donna e da uomo (articoli Hit esclusi), per es. collant da donna transparent mat nude Essentials, il pezzo, 5.97 invece di 9.95
Gli invitanti colori dell’autunno
Tutte le mele e le pere, Migros Bio e Demeter per es. Mele Gala Migros Bio, Svizzera, al kg, 3.92 invece di 4.90 20%
Zucca Hokkaido Svizzera, al kg 27%
2.70 invece di 3.70
1.35 invece di 1.85
Peperoni misti Spagna / Paesi Bassi, sacchetto da 500 g, (100 g = 0.27) 27%
Pomodori ciliegini misti Svizzera/Spagna, vaschetta da 500 g, (100 g = 0.69) 30%
Verdura mista o piselli dell'orto, Farmer's Best prodotto surgelato, in conf. speciale, 1 kg, per es. piselli dell'orto, 3.90 invece di 5.59, (100 g = 0.39) 30%
3.95 invece di 4.95
Cachi mini Spagna, 400 g, confezionati, (100 g = 0.99) 20%
3.95
Insalata autunnale Migros Bio 200 g, (100 g = 1.98) Hit
Migros Ticino
8.95 invece di 12.95 Orata reale M-Classic, ASC d'allevamento, Turchia, 2 pezzi, 720 g, in self-service, (100 g = 1.24)
Migros Ticino
Dal prosciutto intero
5.40
Bresaola Casa Walser
3.85 invece di 4.85 Salametti al Merlot nostrani Ticino, in conf. da 2 pezzi, per 100 g 20%
La spalletta si ottiene dalla spalla del maiale, un taglio che si sviluppa a forma di pala attorno alla scapola. La carne del prosciutto arrotolato e della noce di prosciutto si ricava invece dalla coscia. Gustosi abbinamenti a queste carni sono l'insalata di patate e una salsa di senape al miele.
Noce di prosciutto Quick IP-SUISSE per 100 g, in self-service 33%
1.95 invece di 2.95
Noci di anacardi, gherigli di noci o noci miste, Sun Queen per es. miscela di noci, 3 x 200 g, 8.80 invece di 13.20, (100 g = 1.47) conf. da 3 33%
IDEALE CON
Miele di bosco, M-Classic liquido, 550 g, 2.31 invece di 3.30, (100 g = 0.42) a partire da 2 pezzi 30%
Deliziosi e ricchi di proteine
Tutto l'assortimento Emmi per es. Caffè Latte Macchiato, 230 ml, 1.72 invece di 2.15, (100 ml = 0.75) 20%
2.35 invece di 2.95 Le Gruyère piccante Migros Bio, AOP circa 250 g, per 100 g, prodotto confezionato 20%
1.95 invece di 2.35
Formaggella grassa Nostrana per 100 g, prodotto confezionato 17%
4.10 invece di 5.15
Asiago pressato DOP per 250 g, prodotto confezionato, (100 g = 1.64) 20%
6.80 invece di 8.55 Mini Babybel in conf. speciale, retina da 18 x 22 g, (100 g = 1.72) 20%
da 4 25%
1.20 invece di 1.55
Emmentaler dolce circa 250 g, per 100 g, prodotto confezionato 22%
Mozzarella Galbani sferica o mini, in confezioni multiple, per es. palline, 4 x 150 g, 7.50 invece di 10.–, (100 g = 1.25)
Migros Ticino
I drink Oh! sono ricchi di proteine e poveri di grassi. Sono privi di lattosio e senza zuccheri aggiunti. La linea «zero» non contiene nemmeno dolcificanti. Con 35 g di proteine per 500 ml, sono compagni ideali per tutti i giorni. I drink sono disponibili in vari gusti, ad esempio al cioccolato.
Croccante e irresistibile
A base di pasta madre
Tutti i tipi di pane Hercules per es. mini bio cotto su pietra, 400 g, 3.04 invece di 3.80, prodotto confezionato, (100 g = 0.76) 20%
Tutti i cake Petit Bonheur per es. cake al cioccolato, 420 g, 4.16 invece di 5.20, prodotto confezionato, (100 g = 0.99) 20%
Tutte le torte non refrigerate per es. Torta di Linz Petit Bonheur, 400 g, 3.04 invece di 3.80, prodotto confezionato, (100 g = 0.76) 20%
1.65
Cornetto al burro multicereali 90 g, in vendita sfusa, disponibile nelle maggiori filiali, (100 g = 1.83)
4.–
4.50
Trancio di tiramisù 275 g, prodotto confezionato, (100 g = 1.64)
Pane Toast & Sandwich M-Classic, IP-SUISSE 2 x 620 g, (100 g = 0.32)
4.10
prussiani Petit Bonheur in conf. speciale, 516 g, (100 g = 0.79)
Biscotti
3.90
Fai la scorta di convenienza
conf. da 5 40% 7.–
conf. da 3 33%
Rösti Original M-Classic 3 x 750 g, (100 g = 0.31)
conf. da 6 22%
Spaghetti Agnesi 5 x 500 g, (100 g = 0.30)
Conserve di frutta Sun Queen fette di ananas, mezze pesche o mezze pere, in confezioni multiple, per es. fette di ananas, 6 x 140 g, 6.– invece di 7.70, (100 g = 0.71)
a partire da 2 pezzi 30% 7.50 invece di 12.50
Tutti i prodotti a base di patate M-Classic Delicious prodotto surgelato, per es. crocchette di rösti, 600 g, 3.36 invece di 4.80, (100 g = 0.56)
invece di 10.50
a partire da 2 pezzi 30%
Tutto l'assortimento di miele (prodotti «Dalla regione.» esclusi), per es. miele di bosco liquido, 550 g, 2.31 invece di 3.30, (100 g = 0.42)
conf. da 3 25%
Pizze toscana o margherita, M-Classic prodotto surgelato, per es. toscana, 3 pezzi, 1080 g, 8.85 invece di 11.85, (100 g = 0.82)
Il cioccolato fa bene all’anima
Tutte le tavolette di cioccolato Frey (prodotti Sélection e confezioni multiple esclusi), per es. al latte finissimo, 100 g, 2.– invece di 2.50 a partire da 3 pezzi 20%
Tutti gli Snickers, Twix, Bounty e Mars per es. Twix, 5 pezzi, 250 g, 2.60 invece di 3.25, (100 g = 1.04) a partire da 2 pezzi 20%
riduzione
i biscotti Créa d'Or per es. pizzelle, 100 g, 2.50 invece di 3.10 a partire da 2 pezzi
Finissimosvizzerocioccolato svizzero
8.70 invece di 13.20
Biscotti rotondi Chocky M-Classic al cioccolato o al latte, 4 x 250 g, (100 g = 0.87)
20x CUMULUS Novità
4.40 Kinder Schoko-Bons 200 g, (100 g = 2.20)
Tutti
Palline Lindor Lindt al latte, fondenti assortite o assortite, con design natalizio, 500 g, (100 g = 4.67)
5.95
Les Grandes Lindt noisettes-crispy cookie, -crunchy nougat o -salted caramel, 150 g, (100 g = 3.97), in vendita nelle maggiori filiali 20x CUMULUS
Tavoletta di cioccolato
g, (100 g = 10.27), in vendita nelle maggiori filiali
Offerte con fattore benessere
Per un sorriso splendente
Tutto l'assortimento Candida (confezioni multiple e da viaggio escluse), per es. dentifricio Multicare 7 in 1, 75 ml, 2.96 invece di 3.95, (100 ml = 3.95)
4.40
invece di 5.90
da denti Candida Comfort, Sensitive Premium, Charcoal o White Brilliant, (1 pz. = 2.20)
LO SAPEVI?
Da oltre 75 anni, Candida è la marca propria della Migros esperta nel settore dell'igiene orale. I suoi prodotti di alta qualità sono sviluppati per soddisfare tutte le esigenze di igiene orale. Grazie alla sua competenza scientifica e alla pluriennale esperienza, Candida è raccomandata dai dentisti.
Dental Fluid Candida per es. Parodin, 2 x 500 ml, (100 ml = 0.68)
conf. da 2 25%
7.40
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Dentifricio Candida
Professional Sensitive o White Diamond, 2 x 75 ml, (100 ml = 4.93)
Dischetti d'ovatta Beauty & Co. per es. quadrati, 2 x 50 pezzi, 2.95 invece di 3.70, (100 pz. = 2.95) conf. da 2 20%
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La prima marca svizzera di preservativi certificati vegani e sostenibili Essenze ai fiori di Bach in diverse varianti
Tutto l'assortimento Feelgood per es. Classic, 10 pezzi, 7.60 invece di 9.50, (1 pz. = 0.76) 20%
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6.75
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conf. da 2
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Prodotti per lo styling Taft per es. spray per capelli Ultra, 2 x 250 ml, (100 ml = 1.35)
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invece di 11.90 Accendigas Flexy Home
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Minirose M-Classic, Fairtrade disponibili in diversi colori, mazzo da 30, lunghezza dello stelo 40 cm, il mazzo
Candele profumate Home mela-cannella o vaniglia, in conf. speciale, 50 pezzi 33% 11.95
Tutti i pannolini Rascals (confezioni multiple escluse), per es. Newborn 1, 22 pezzi, 5.33 invece di 7.95, (1 pz. = 0.24)
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Ghette da bambini disponibili in blu o rosa, tg. 98/104–146/152
SAPEVI?
Realizzare il proprio calendario dell'Avvento è un modo creativo per addolcire l'attesa del Natale per i propri cari. È semplicissimo: basta riempire 24 diverse buste e sacchettini con piccole sorprese e buoni, mettere i numeri sui vari regali e disporli in un cestino con una ghirlanda di luci.
Prezzi imbattibili del weekend
32%
2.–invece di 2.95
Cordon bleu di maiale IP-SUISSE
4 pezzi, per 100 g, in self-service, offerta valida dal 30.10 al 2.11.2025
30%
Oli d'oliva Don Pablo
1 litro o 500 ml, per es. 1 litro, 6.97 invece di 9.95, offerta valida dal 30.10 al 2.11.2025
Tutti i succhi freschi Anna's Best a partire da 75 cl, refrigerati per es. succo d'arancia, 1 litro, 3.08 invece di 4.40, offerta valida dal 30.10 al 2.11.2025, (100 ml = 0.31) a partire da 2 pezzi 30%