Azione 42 del 13 ottobre 2025

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SOCIETÀ Pagina 3

In Finlandia è in funzione la più grande batteria a sabbia del mondo: una scommessa ecologica

Dall’Europa a Taiwan vanno sempre più forte manuali e «kit» per sopravvivere alle crisi

ATTUALITÀ Pagina 15

Bad Bunny e lo spettro dell’ICE

« Absolutely ridiculous ». Con queste lapidarie (quanto poco insolite) parole il presidente degli Stati Uniti Donald Trump è intervenuto in una diretta tv per liquidare la scelta di affidare il prestigiosissimo Super Bowl halftime show all’artista portoricano Bad Bunny (alla lettera, Coniglio cattivo, all’anagrafe Benito Antonio Martínez Ocasio). Mancano più di quattro mesi alla finale del Campionato della National Football League, evento sportivo-mediatico per eccellenza, che si terrà in California e che può contare su oltre 130 milioni di spettatori, trasformandosi così potenzialmente anche in una dichiarazione politica, eppure Oltre Oceano già si scaldano gli animi, e il presidente in persona scende in campo per condannare la scelta artistica degli organizzatori.

Bad Bunny potrà essere un concetto astratto per Donald Trump, per i suoi coetanei, per la sua amministrazione e per chiunque la sostenga, ma di sicuro non lo è sia per i latinos sia per la generazione Z di mezzo mondo. Purtroppo, agli occhi dei detrattori, il rapper – che ha un numero di ascoltatori maggiore al numero degli elettori di Trump – ha dalla sua un grande difetto, anzi due, non è «americano», ma portoricano (per quanto Porto Rico sia uno Stato associato agli USA), e, soprattutto canta in spagnolo, quando, di lingua ufficiale in America, dicono i MAGA, ce n’è solo una, ed è l’inglese.

Bad Bunny è ben conscio di cosa rappresenti la sua appartenenza culturale in questo periodo, e dall’alto di questa sua consapevolezza ha deciso, nel momento di organizzare il suo tour mondiale, di escludere gli Stati Uniti, con un danno economico notevole per tutte le parti coinvolte.

La sua decisione non è da addursi solamente a un segnale di protesta, ma

anche a un senso di protezione verso i suoi, ossia quella sterminata comunità latina che, frequentando un concerto del proprio idolo rischia di incappare nelle maglie dell’ICE (U.S. Immigration and Customs Enforcement), la temuta agenzia federale statunitense che si occupa di applicare le leggi in materia di immigrazione, incaricata di prendere in custodia almeno 3mila cittadini considerati illegali al giorno. Gli agenti di ICE si rivelano molto efficienti, non disdegnando, per i loro sequestri, la forza bruta (sottolineata da passamontagna e occhiali neri) esercitata in supermercati, associazioni religiose e scuole: uno stadio gremito di latinos non può dunque che fare gola. Di fatto, all’annuncio del concerto del portoricano in occasione del Super Bowl, la segretaria della Sicurezza Interna degli Stati Uniti d’America Kristi Noem, ha assicurato che gli agenti ICE «saranno ovunque». Per farsi un’idea dei metodi e delle procedure degli agenti ICE, basta guardare in rete ciò che succede in questi giorni in molte città statunitensi.

Oltre al colore della pelle, costituisce un discrimine anche l’idioma utilizzato, oggi negli Stati Uniti ci si aspetta che si parli l’inglese, non lo spagnolo – che sollievo pensare per un attimo alle nostre quattro lingue ufficiali, in un contesto politico che (per ora, poiché nulla è scontato, come dimostrano i tempi attuali) garantisce equità e rispetto delle minoranze.

Bad Bunny non cambierà lo stato dell’arte con il suo concerto, ma la sua è una resistenza che potrebbe, in un futuro prossimo o lontano, essere presa a esempio proprio da quella Generazione Z che si muove sulla scia dei social e che ha creato disordini in Nepal e ora ne sta facendo nascere di nuovi in Marocco.

CULTURA Pagina 21

A dieci anni dalla sua nascita, la Fondazione Braglia celebra l’Espressionismo più luminoso

Smilestones riduce la Svizzera in un percorso immersivo che unisce modellismo, paesaggio e memoria

TEMPO LIBERO Pagina 35

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Moreno Invernizzi – Pagina 33
Simona Sala

Grande riapertura per Migros a Locarno

Info Migros ◆ Giovedì 16 ottobre riaprirà il rinnovato il centro commerciale Migros City Center Lago a Locarno in Via Stefano Franscini 31: vi aspettiamo al Supermercato e al Take Away

Aperto nel 1993, dopo diversi ammodernamenti nel corso degli anni, questo centro commerciale Migros a Locarno aveva bisogno di una completa ristrutturazione per tornare attraente e al passo coi tempi. Migros Ticino, dopo un primo radicale intervento nel 2009, consapevole che il progetto possa ridare slancio a tutto il Locarnese, ha deciso con convinzione di investire nuovamente nella struttura e nel territorio. L’aggiornamento del Supermercato Migros e il completo ripensamento del Take Away Migros, iniziati nel gennaio di quest’anno, permettono alla Cooperativa regionale di fare un ulteriore importante passo avanti nel rinnovo e nella modernizzazione della propria rete di vendita. L’investimento complessivo per i lavori di questo apprezzato centro commerciale di Migros Ticino è stato di 15 milioni di franchi L’intero stabile è stato completamente risanato sia energeticamente sia a livello di sistemi, nel rispetto delle nuove normative in vigore e dei più alti standard Migros di sostenibilità ambientale. Tutta l’impiantistica installata è volta alla sensibile riduzione delle emissioni nell’ambiente, grazie all’aumentato confort energetico – con nuovo isolamento termico dell’edificio – , all’impiego di impianti che utilizzano l’acqua di falda, nonché di impianti per produzione del freddo commerciale con CO2 e recupero del calore, e a un performante e tecnologicamente avanzato impianto fotovoltaico per autoconsumo montato sul tetto dell’edificio.

Anche le strutture interne del supermercato e del nuovo punto di ristoro, totalmente ammodernate e ora all’avanguardia, sono caratterizzate dai più alti standard di costruzione e sostenibilità a livello ambientale e permettono di fare un salto epocale, passando da un’era energivora a un’era ipertecnologica e pienamente sostenibile. I consumi energetici saranno drasticamente abbattuti.

È stata inoltre posata all’esterno dell’edificio una nuova facciata di metallo, che rende unica e accattivante la nuova immagine del centro commerciale Migros City Center

Lago: il progetto architettonico è stato seguito dal giovane e frizzante studio di architettura Inches Geleta di Locarno, che ha ottenuto diversi premi e riconoscimenti negli ultimi anni.

L’edificio, di proprietà della Cooperativa regionale Migros

Ticino, si sviluppa su più piani:

• Il Piano – 1 ospiterà una comoda autorimessa, con 110 posti auto, un nuovo atrio di accesso al centro, quattro postazioni di ricarica per auto elettriche e comodi e larghi parcheggi per famiglie

• Il Pianterreno accoglierà il rinnovato Take Away Migros, con un look fresco e moderno, appositamente studiato dall’architetto Daniela Fischli di Lugano, che disporrà sia di una sala interna sia di una terrazza esterna. Al suo fianco una curata enoteca Vinarte, un chiosco, un salone di parrucchieri e centro per l’estetica, una farmacia e altri commerci al dettaglio per soddisfare al meglio i bisogni e le necessità di beni e servizi degli avventori. Troverà inoltre sede un nuovo suggestivo spazio a doppia altezza, che fungerà da piazza comune

interna e che sarà arredato con sedute e vegetazione.

• Il Piano 1: proporrà un Supermercato Migros di ultimissima generazione, il primo realizzato in Ticino con il nuovo concetto nazionale «Papillon», concepito per migliorare notevolmente l’esperienza d’acquisto della clientela, rendendo gli ambienti più accoglienti, comodi, luminosi e moderni.

Dopo meno di 10 mesi di cantiere riaprono dunque giovedì 16 ottobre 2025 in completa nuova veste sia il Supermercato Migros sia il Take Away Migros di Locarno, nonché l’enoteca Vinarte.

Accessibilità di Supermercato e Take Away Migros Locarno

Il Supermercato Migros allestito all’interno del centro commerciale

Migros City Center Lago, con una superficie di 1’900 metri quadrati, tornerà a essere il punto di ritrovo per i locarnesi e sarà in grado di servire comodamente tutta la popolazione residente in Città, nonché i numerosi studenti e lavoratori in zona e i turisti di passaggio per lunghi periodi dell’anno.

L’esercizio si presenta completamente nuovo, più accogliente e moderno, con ampi spazi interni: gli ambienti del punto vendita, grazie alla stretta collaborazione avuta in passato con Team Ticino Accessibile, saranno comodi e facilmente agibili anche da persone con mobilità ridotta.

Anche il nuovo Take Away Migros sarà accogliente, luminoso e spazioso: con una superficie di più di 100 metri quadrati saranno circa un’ottantina i coperti interni – in alcuni vi sarà la possibilità di caricare i dispo-

Non solo Take Away, ma anche punto di ritrovo

A Locarno non è stato rinnovato solamente il supermercato, ma si è rivolto un occhio di riguardo anche alla zona Take Away. Ne abbiamo parlato con Simone Teta, responsabile settore gastronomia di Migros Ticino: «Il nuovo Take Away proporrà sostanzialmente lo stesso assortimento di prima, ma in una veste del tutto rinnovata, con un design nuovo che intendiamo implementare in tutte le sedi. Nel Take Away sarà inoltre presente anche Sushi Mania, e i gelati disporranno di un mantecatore integrato, che li renderà più morbidi. Vorrei anche presentare la nostra zona mall

con i suoi circa 80 posti, rivolta e pensata per tutti, in modo da trasformare Locarno Lago in un prezioso punto aggregativo e di ritrovo»

La nuova facciata di Migros Lago a Locarno.

Il personale di Migros Lago è pronto a tornare ad accogliere la clientela di Locarno e dintorni. (Oleg Magni)

pia varietà di articoli confezionati, da una vasta gamma di prodotti congelati, nonché da una completa e curata scelta di generi non alimentari, comprensiva del ben strutturato angolo beauty, che proporrà un completo assortimento di articoli per la cura del corpo.

In ottica di sostenibilità, sarà presente una nuova parete ecologica atta al riciclaggio, che includerà anche lo scomparto per consegnare i sacchi Migros per la raccolta delle plastiche miste e tetrapak.

A rafforzare l’offerta Migros a Locarno ci penserà il Take Away Migros di nuova concezione, con bar per caffè, gipfel e brioche, la sfiziosa pasticceria a servizio, il nuovo angolo gelato, per poi passare al salato con sushi e un’offerta di altri piatti caldi e freddi, panini, pizza, insalate e bibite a libero servizio. Sarà data sia l’opportunità di consumare sul posto sia la possibilità dell’asporto. La presenza di Migros Ticino nel centro commerciale verrà poi impreziosita da una raffinata enoteca Vinarte.

sitivi elettronici – ai quali vanno ad aggiungersi altri 60 posti a sedere in terrazza, che in parte risulta coperta. Gli esercizi sono facilmente raggiungibili sia a piedi sia con i principali mezzi pubblici o in auto, avendo una buona quantità di posteggi coperti direttamente collegati al centro e a completa disposizione della clientela Migros. Il supermercato sarà dotato di casse a servizio adatte ai disabili, ma anche, per chi va un po’ di fretta, di una batteria di comode e veloci postazioni Subito per il self-scanning e self checkout. Pure il Take Away Migros, oltre alle casse tradizionali, disporrà di una cassa Subito.

Offerta di Supermercato e Take Away Migros Locarno

Il supermercato sarà caratterizzato da assortimenti alimentari e non alimentari vasti, ben calibrati e orientati a soddisfare i più attuali bisogni degli avventori. La clientela avrà così la possibilità di farvi sia una spesa quotidiana veloce sia acquisti settimanali più importanti e consistenti. Fiore all’occhiello del nuovo negozio sarà l’ampio e curato reparto di frutta e verdura. La superficie dedicata ai prodotti freschi avrà un’importanza notevole, così come il reparto dedicato ai prodotti pronti per il consumo immediato, sia caldi sia freddi. Il punto vendita locarnese continuerà a disporre degli apprezzati banchi carne e pesce a servizio, con l’integrazione di lavorati e salumeria preparati freschi in filiale dai competenti consulenti di vendita Migros.

L’offerta sarà completata da un’am-

Iniziative per la riapertura di Supermercato e Take Away Migros Locarno Per sottolineare questo nuovo significativo intervento nella propria rete di vendita, Migros Ticino ha previsto svariate attività. Nelle prime quattro settimane d’apertura vi sarà un 20% di sconto a rotazione su interi settori merceologici. Da giovedì 16 a sabato 18 ottobre il nuovo Take Away Migros proporrà un trancio di pizza a scelta, una bevanda a scelta e un caffè a soli CHF 10. Per i più piccoli, sabato 18 ottobre dalle ore 10 alle ore 17, trucca bimbi, mentre per i più grandi, aperitivo offerto dalle ore 10 alle ore 13. Dal 20 al 22 ottobre, per ogni CHF 50 di spesa, si riceverà invece in omaggio una fantastica borraccia griffata Migros Lago. Spicca poi il grande concorso in essere da lunedì 27 a mercoledì 29 ottobre, con in palio fino a CHF 1’600 in carte regalo! Chiudono questo corposo e speciale pacchetto promozionale le sempre apprezzate degustazioni degli articoli Nostrani del Ticino, previste nelle giornate di venerdì 7 e sabato 8 novembre.

Orari e contatti di Supermercato e Take Away Migros Locarno

Il responsabile del Supermercato Migros Bosko Stojcev e i suoi 26 collaboratori, così come il gerente del Take Away Migros Andrea Distefano e i suoi 8 assistenti, tutti ben inseriti nella comunità locale, cordiali e preparati, sono pronti a soddisfare i bisogni della clientela con cura e attenzione, in un clima accogliente e famigliare.

Orari di apertura

Supermercato Migros Locarno

Lunedì-venerdì: 8.00-19.00

Giovedì: 8.00-21.00

Sabato: 8.00-18.30

Tel. 091 721 76 00

Take Away Migros Locarno

Lunedì-venerdì: 7.30-19.00

Giovedì: 7.30-21.00

Sabato: 7.30-18.30

Tel. 091 821 76 00.

Simone Teta

SOCIETÀ

La musica e il cervello

Nuovi studi scientifici si occupano di «anedonia musicale», l’incapacità di emozionarsi durante l’ascolto

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La povertà silenziosa

Il Percento culturale Migros lancia una campagna di sensibilizzazione alla povertà

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Auto, quale futuro?

All’Automobile Club di Milano in occasione di un convegno sono state illustrate le sfide del futuro

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Quando non ci sarà più neve Il Dazio Grande di Rodi-Fiesso attraverso una mostra invita a riflettere sugli sport legati alla neve

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Energia dalla sabbia: la scommessa finlandese

Tecnologia ◆ A Pornainen è stata messa in funzione la più grande batteria a sabbia del mondo, un contenitore d’acciaio di circa 13 metri di altezza per 15 metri di larghezza

Una fonte di energia che fornisce riscaldamento attingendo a risorse non costose e facilmente reperibili, senza ricorso a fonti fossili, senza produzione di inquinamento. Suona strano quanto promettente, e questa volta l’Uovo di Colombo arriva dalla Finlandia.

La tecnologia delle Sand Battery (batterie a sabbia) è stata sviluppata ed è commercializzata da Polar Night Energy, società finlandese pioniera nel campo dello stoccaggio di energia termica, ora leader mondiale in questo settore emergente.

Le Sand Battery di Polar Night Energy sono sistemi di accumulo di energia termica su larga scala e ad alta temperatura che utilizzano sabbia di provenienza sostenibile, o materiali simili, ma anche sottoprodotti industriali, come mezzo di stoccaggio. La sabbia, utilizzata come serbatoio, accumula energia pulita, di origine solare o eolica, ma non solo, sotto forma di calore. E poi la rilascia per vari usi.

Grazie alla RWB Groupe SA, l’innovativa tecnologia sarà traghettata anche ai Cantoni svizzeri di lingua francese

Il successo è arrivato già alla prima installazione commerciale, nel 2022 a Kankaanpää, dove il progetto pilota ha presentato risultati superiori alle aspettative: una potenza di 200 kW con capacità di 8 MWh, sviluppata da una struttura alta 7 metri, con diametro di 4, che ospita circa 100 tonnellate di sabbia di provenienza locale come mezzo di stoccaggio. Si tratta di un sistema a elevata efficienza, per diversi motivi. Il primo è il carattere auto isolante della sabbia: il calore la attraversa molto lentamente, con perdite ridotte, che restano minime (in genere meno del 5%) anche in fase di stoccaggio, nell’arco di settimane. L’energia viene in genere immagazzinata per giorni, non per mesi, in linea con le esigenze contingenti. Le dimensioni, poi, hanno un peso importante: le batterie a sabbia più grandi perdono proporzionalmente meno calore di quelle più piccole. Di conseguenza, le batterie a sabbia di grandi dimensioni (GWh) possono raggiungere un’efficienza di andata e ritorno superiore al 90%, rendendole una soluzione affidabile per lo stoccaggio di energia rinnovabile.

Con un comunicato stampa dello scorso 11 giugno, la società ha annunciato la messa in funzione della più grande batteria a sabbia al momento esistente al mondo (un contenitore d’acciaio di circa 13 metri di altezza per 15 metri di larghezza), commis-

sionata a Pornainen per la rete di teleriscaldamento di Loviisan Lämpö. Si tratta di una struttura più imponente della precedente, in grado di fornire 1 MW di potenza termica, con una capacità di stoccaggio pari a 100 MWh, dieci volte più grande di quella di Kankaanpää. Utilizza circa 2000 tonnellate di pietra ollare frantumata come mezzo di accumulo termico. E mentre in estate è in grado di coprire il fabbisogno termico di quasi un mese a Pornainen, in inverno, la copertura arriva a una settimana circa. Secondo il CEO di Loviisan Lämpö, l’impianto aiuterà a ridurre drasticamente le emissioni del sistema di teleriscaldamento locale di quasi il 70%, segnando un passo decisivo verso l’obiettivo di neutralità climatica fissato per il 2035. Bruciare per produrre energia non è infatti più accettabile secondo ricercatori e tecnici finlandesi: la Sand Battery consentirà di spegnere la rete di riscaldamento a gasolio e di ridurre il consumo di cippato di legno del 60%, mentre l’attuale caldaia a biomassa continuerà a fungere da riserva, a supporto della

batteria a sabbia nei periodi di maggior consumo.

Oltre all’eliminazione dei combustibili fossili dalla filiera dell’energia, questa nuova tecnologia si appoggia alle rinnovabili, solare ed eolico, supportandone la diffusione, in sicurezza e senza produrre scorie o materiali tossici di scarto.

Questa tecnologia si appoggia a energie rinnovabili come solare ed eolica, supportandone la diffusione

Le ricadute positive riguardano principalmente le reti per il teleriscaldamento, sia per abitazioni private sia per edifici commerciali, comprese le piscine comunali. Attualmente le batterie a sabbia infatti producono calore, ma la società finlandese, in collaborazione con Valkeakosken Energia sta lavorando allo sviluppo di un sistema che consentirà di convertire il calore immagazzinato in elettricità (un processo noto come Power-to-

Heat-to-Power – P2H2P). Si tratta di un progetto pilota, che avrà base a Valkeakoski, in Finlandia, e l’inizio dei lavori è previsto per l’autunno di quest’anno.

I risultati decisamente incoraggianti finora raggiunti hanno fruttato all’azienda il supporto di numerosi investitori, e la Polar Night Energy ha raccolto ben 7,6 milioni di euro in seed capital (fondi finanziari per nuove attività). Del resto i vantaggi competitivi sono piuttosto chiari: a fronte di un sistema relativamente semplice e compatto, che utilizza materiali economici e di facile reperibilità, l’impianto si avvia automaticamente e produce risultati sul lungo periodo, garantendo uno stoccaggio flessibile (da ore a mesi), offrendo una soluzione pratica e scalabile per l’accumulo di energia rinnovabile su scala industriale.

Sarà la RWB Groupe SA a traghettare questa tecnologia dalla Finlandia fino ai Cantoni svizzeri di lingua francese (Vaud, Vallese, Friburgo, Neuchâtel, Giura, Ginevra e la parte francofona di Berna), grazie

a un accordo di cooperazione firmato recentemente. La società, che vanta oltre 85 anni di esperienza, con i suoi 270 professionisti è leader in Svizzera nel campo ingegneristico. «Riteniamo che le Sand Battery siano una tecnologia promettente per facilitare la transizione energetica, offrendo un’alternativa ottimale al mercato in rapida evoluzione. Questa partnership ci consente di offrire nuove soluzioni rivoluzionarie per l’accumulo e l’utilizzo di calore rinnovabile», ha commentato Yves Meuwly, membro della direzione generale di RWB Groupe SA.

La società fungerà da partner in esclusiva per Polar Night Energy nella regione, nel settore energetico, incluso il segmento del teleriscaldamento, favorendo auspicabilmente l’introduzione e la diffusione dei sistemi ad accumulo di calore nel cuore dell’Europa. La partnership punta alla creazione e gestione di progetti sia per il settore privato sia pubblico, con una forte attenzione allo sviluppo sostenibile e all’interazione tra persone e ambiente.

Veduta dall’alto della batteria a sabbia finlandese. (Polar Night Energy)
Amanda Ronzoni

Tempo di castagne

Attualità ◆ L’autunno è la stagione delle castagne. Questi deliziosi frutti si prestano per tantissime ricette, dalle caldarroste ai dolci più svariati fino alle preparazioni salate come zuppe, ripieni, risotti e paste

In generale, malgrado esistano molte varietà, si tende a distinguere le castagne secondo due gruppi: le castagne selvatiche che crescono spontaneamente nei nostri boschi e quelle coltivate, selezionate per ottenere una qualità superiore, dette comunemente marroni. Le prime hanno dimensioni più piccole e irregolari, mentre i marroni sono più tondeggianti e grossi.

Le castagne sono un alimento ad alto valore nutritivo, grazie al loro contenuto di carboidrati, proteine, vitamine e sali minerali. Inoltre, sono prive di glutine. Un tempo dalle popolazioni rurali erano considerate il «pane dei poveri», in virtù delle loro proprietà nutrizionali.

Sia le castagne sia i marroni si prestano bene per la preparazione di molte ricette, sia dolci sia salate. Dalle tradizionali caldarroste alle castagne al forno, dalle zuppe al risotto alle castagne, passando per gli gnocchi e il castagnaccio a base di farina di casta-

gne fino ai marrons glacé e alle confetture… non ci sono praticamente limiti alla fantasia in cucina.

Voglia di caldarroste anche a casa? Niente di più facile. Anche se non si possiede un camino e l’apposita pa-

Cremosità tutta nostrana

Attualità ◆ Con la raclette dei Nostrani del Ticino piacere culinario e convivialità sono garantiti!

Per arricchire un plateau di formaggi misti per raclette, perché non servire anche qualche fetta della variante ticinese della specialità nazionale per eccellenza, vale a dire la Raclètt du Gutard? Si tratta di un formaggio a pasta semidura prodotto ad Airolo

du Gutard

300 g Fr. 8.95

In vendita nelle

della bucata, le castagne arrostite si possono preparare tranquillamente anche in forno. Lascia le castagne o i marroni in ammollo in acqua fredda per un’oretta. In questo modo sarà più facile inciderle, resteranno più morbide e saranno più facili da sbucciare. Incidile sulla parte bombata, tagliando la buccia esterna e la pellicina, senza penetrare troppo nella castagna.

Due gustose ricette

Gratin di castagne e cavoletti di Bruxelles

Per 4 persone

• 250 g di castagne con la buccia

• 6 00 g di cavoletti di Bruxelles

• sale

• 4 uova

• 4 dl di latte

• pepe

• 100 g di formaggio, ad es. emmentaler

Preparazione

Mondate i cavoletti e cuoceteli al dente in abbondante acqua salata per ca. 10 minuti. Scolateli, passateli sotto l’acqua fredda e fateli sgocciolare bene.

Con un coltello affilato, praticate un’incisione a croce sulla buccia delle castagne. Immergetele in acqua bollente e lasciatele cuocere per 5 minuti. Scolatele e immergetele in acqua fredda. Pelatele e distribuitele in una pirofila con i cavoletti.

Scaldate il forno statico a 200 °C.

Trasferisci le castagne in una teglia ricoperta di carta da forno. Aggiungi una tazza resistente al calore con 1 dl di acqua, in modo che i frutti secchino meno. Inforna al centro del forno regolato con la funzione ad aria calda a 250 °C e cuoci per ca. mezz’ora. A metà cottura, versa l’acqua della tazza nella teglia con l’ausilio di un guanto da forno.

dal Caseificio del Gottardo, utilizzando latte di montagna della regione. Grazie alle buone erbe alpine di cui si cibano le mucche, questo latte risulta particolarmente aromatico e di elevata qualità. La trasformazione è affidata agli esperti casari del caseificio, i quali, con cura e competenza, creano ogni giorno saporiti formaggi legati alle nostre tradizioni. Come appunto il formaggio da raclette nostrano che, con il suo sapore delicato e la sua cremosità, regala un’esperienza autentica ad ogni assaggio.

Sbattete le uova con il latte e condite con sale e pepe. Versate la miscela sui cavoletti e le castagne. Grattugiatevi il formaggio e gratinate al centro del forno per ca. 20 minuti. Servite il gratin con un’insalata di carote o un’insalata a foglie.

Castagne glassate

Per 4 persone

• 4 0 g di zucchero bruno

• 1,5 dl d’acqua

• 5 00 g di castagne

• 1 cucchiaio di burro

• sale

Preparazione

Preparate un caramello chiaro sciogliendo lo zucchero in un tegame a fuoco medio. Aggiungete con cautela l’acqua, poi le castagne e il burro. Riducete il liquido quasi della metà fino a ottenere una sorta di sciroppo. Condite con il sale. Prima di servire mescolate bene le castagne in modo che risultino glassate uniformemente.

Un sorso di Ticino

Attualità ◆ Una tisana sinonimo di gusto e benessere in ogni momento della giornata

Azione 20%

Tisana Monte Generoso

50 cl Fr. 1.84 invece di 2.30 dal 14.10 al 20.10.2025

Un sapore avvolgente e naturale sono le peculiarità di questa tisana nostrana, realizzata con un sapiente mix di acqua di sorgente e infuso di erbe officinali quali menta piperita, menta mela, melissa, mente citrata, fiordalisi e stella alpina, il fiore simbolo delle nostre alpi. Un prodotto che fa bene a corpo e spirito!

Raclètte
maggiori
filiali Migros

Un piatto memorabile

Attualità ◆ La sella di capriolo è uno dei piatti più apprezzati dagli amanti della selvaggina Questa settimana il pregiato taglio è in offerta speciale presso i banchi macelleria della tua Migros

Tenera, magra, succosa e intensamente aromatica: la sella di capriolo è talmente irresistibile che trasforma ogni pasto in un’esperienza indimenticabile. Servita con i suoi contorni tradizionali come per esempio spätzli, cavolo rosso, castagne caramellate, pere al vino rosso, cavoletti di Bruxelles e confettura di mirtilli rossi, soddisfa tutti gli estimatori di selvaggina. Ricavata dalla parte dorsale dell’animale, è uno dei tagli più pregiati e, per apprezzare appieno il suo sapore,

la carne deve rimanere rosa al cuore. È relativamente facile da preparare, ma è importante prestare attenzione alla cottura, in modo che la carne mantenga tutta la sua tenerezza e succosità.

Ricordiamo a tutti i buongustai che attualmente alla Migros sono ottenibili diverse altre specialità a base di selvaggina, come i salmì cotti o crudi di cervo o capriolo, le fettine di cervo, capriolo e cinghiale, senza dimenticare alcune varietà di salumeria.

Azione 15%

Sella di capriolo Austria, per 100g Fr. 4.90 invece di 5.80

La ricetta

Sella di capriolo classica

Ingredienti per 4-6 persone

• 1 sella di capriolo di ca. 2 kg

• 5 0 g di burro

• 1 mazzetto di timo

• 1 mazzetto di rosmarino

• 3 -5 bacche di ginepro

• Sale e pepe

Preparazione

Togliere accuratamente la pellicina fibrosa che ricopre la sella. Separare delicatamente la carne dall’osso centrale. Condire con sale, pepe, timo e rosmarino (anche all’interno). Legare la sella con uno spago in più punti. Rosolare la carne nell’olio da entrambi i lati per qualche minuto e infornarla nel forno preriscaldato a 200-220 gradi per 10-12 minuti fino al raggiungimento della temperatura al cuore di 54-57 °C. Sciogliere 50 grammi di burro in una padella, aggiungere del timo, del rosmarino e qualche bacca di ginepro schiacciata. Togliere la sella dal forno, eliminare lo spago e irrorarla con il burro alle erbette. Rimettere la carne nel forno spento e con la porta semiaperta per altri 10 minuti. Estrarre la sella dal forno e separare completamente la carne dall’osso. Tagliarla quindi a fettine e disporle su un piatto di portata preriscaldato. Servire con i suoi contorni tradizionali e una salsa a piacimento, ad esempio ai funghi, usare il fondo di cottura affinato, oppure semplicemente un filo di burro fuso.

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Flavia Leuenberger

Quando la musica non emoziona

Prospettive ◆ Le aree del cervello che ascoltano e decodificano le melodie sono attive, il problema è nella comunicazione: non «parlano» fra loro

C’è chi ascolta una sinfonia di Beethoven e si commuove fino alle lacrime, chi trova in una vecchia canzone pop la chiave per ricordare un amore passato, chi non resiste all’impulso di ballare appena sente i primi accordi dell’hit preferita. E poi ci sono persone, poche ma reali, per le quali la musica è soltanto una sequenza di suoni, mai un’esperienza gratificante. Non si tratta di insensibilità né di incapacità di provare piacere in generale, ma di una condizione «particolare» e rappresenta una perfetta dimostrazione di quanto complessa sia la relazione tra attività cerebrale, emozioni e identità. Già anni fa un team di neuroscienziati, guidato da Josep Marco-Pallarés e Ernest Mas-Herrero, all’Università di Barcellona aveva pubblicato la prima descrizione dettagliata di persone in grado di percepire, analizzare e ricordare la musica, ma completamente insensibili al suo fascino emotivo. Questi soggetti, spesso inconsapevoli della loro «diversità», hanno un udito perfettamente normale e provano soddisfazione o gioia davanti ad altri stimoli (dal buon cibo a una vincita, dal sesso alle interazioni sociali). Solo la musica, inspiegabilmente, non li tocca. Studi preliminari avevano individuato persone per cui la musica era «inutile», ma mancavano strumenti per distinguere un semplice disinteresse (legato, ad esempio, a motivi culturali o generazionali) da un fenomeno neurobiologico profondo. Ora i neuroscienziati fanno un passo avanti nello studio pubblicato sulla rivista Trends in Cognitive Sciences: alla base c’è una disconnessione tra due circuiti fondamentali: uditivo, che elabora i suoni, e della ricompensa, che genera sensazioni di piacere.

Magari esistono altre forme di «anedonia specifica», legate non alla musica ma ad altri stimoli, dal cibo al contatto sociale

Le scansioni di risonanza magnetica funzionale (fMRI) mostrano infatti che, negli individui con anedonia musicale, le aree deputate alla percezione delle melodie funzionano regolarmente. Quando però la musica raggiunge il «centro ricompensa», l’attività neuronale risulta attenuata, come se mancasse il collegamento in grado di trasformare l’ascolto in esperienza emozionale. Per identificare con precisione i casi di anedonia musicale, i ricercatori hanno ora messo a punto il Barcelona Music Reward Questionnaire (BMRQ), un test che esplora cinque dimensioni nelle quali la musica può risultare gratificante: evocare emozioni, modulare l’umore, rafforzare i legami sociali, stimolare il movimento e offrire nuove esperienze da scoprire e collezionare. Chi soffre di questa

condizione tende a ottenere punteggi bassi in tutte queste aree, indipendentemente dal genere musicale o dal contesto di ascolto. Questa dissociazione porta i ricercatori a una conclusione chiara: il problema non riguarda né i centri dell’udito né il sistema del piacere in generale ma la comunicazione tra i due, ovvero manca la connessione tra ciò che udiamo e ciò che ci emoziona. I centri a valle lavorano, ma non ricevono il segnale giusto. Ma perché alcune persone nascono o diventano «insensibili» alla musica? Le cause non sono ancora chiare. I dati disponibili suggeriscono un intreccio complesso tra fattori genetici e ambientali. Studi su gemelli indicano che l’attitudine ad apprezzare la musica è per il 54% influenzata dal patrimonio genetico. Ciò significa che i geni contribuiscono in modo rilevante a plasmare il grado di sensibilità musicale di ciascuno. Ma le influenze ambientali, familiari e culturali restano importanti. Un ambiente in cui la musica è centrale può forse «allenare» la connessione tra circuito uditivo e ricompensa, ma non sempre è sufficiente. Oggi i ricercatori stanno lavorando con genetisti per scoprire i geni implicati e comprendere, ad esempio, se esistano mutazioni che aumentano il rischio di anedonia musicale. Allo stesso tempo, stanno cercando di capire se questa particolarità sia un tratto costante dell’identità o un fenomeno che si modifica con il tempo, l’età, le esperienze vissute. Questa ricerca non riguarda soltanto la curiosità di spiegare un’anomalia rara. I meccanismi che la sottendono possono gettare luce sui disturbi più gravi legati al sistema della ricompensa: la depressione, la dipendenza da sostanze, persino i disturbi alimentari. In questi casi, il «piacere» viene meno in senso generalizzato oppure risulta deviato verso uno stimolo specifico. Comprendere le «anedonie specifiche» potrebbe aiutare a sviluppare

Ripensare il senso dell’insegnamento

Libri ◆ Le riflessioni di Massimo Recalcati nel suo La luce e l’onda

Manuel Rossello

In un suo saggio sulla scuola del 2014 il filosofo Massimo Recalcati insisteva sulla necessità di rivivificare l’atto della lettura in classe. E lo faceva cristallizzando il suo pensiero in una formula forse fin troppo provocatoria («bisogna trasformare il testo in un corpo erotico»). Formula che tuttavia aveva il merito di sollecitare un ripensamento radicale di pratiche didattiche che spesso riducono il lavoro sul testo a compilazioni, griglie o quiz, quando non sviliscono il testo stesso a pretesto per infliggere agli allievi batterie di esercizi grammaticali. Procedimenti, questi ultimi, che evocano piuttosto un’autopsia.

fumo dei limoni o l’acre odore della polvere da sparo. Ogni vero maestro non pretende di estinguere le mancanze di un allievo, ma agendo nella zona prossimale di tali mancanze, le renderà ogni volta generative. E vedrà l’errore come qualcosa di prezioso, poiché non c’è nulla come l’errore che ci consenta di capire qualcosa del funzionamento della mente.

terapie mirate, magari in grado di riattivare collegamenti cerebrali saltati o aiutare il cervello a trovare nuove fonti di gratificazione. «Un meccanismo simile potrebbe essere alla base delle differenze individuali nelle risposte ad altri stimoli gratificanti, –afferma Josep Marco-Pallarés, l’autore del nuovo studio insieme a Ernest Mas-Herrero – indagare su questi circuiti potrebbe aprire la strada a nuove ricerche sulle differenze individuali e sui disturbi correlati alla ricompensa, come l’anedonia, la dipendenza o i disturbi alimentari».

L’ipotesi è che esistano anche altre forme di «anedonia specifica», legate non alla musica ma ad altri stimoli, dal cibo al contatto sociale. La sfida ora è capire se l’anedonia musicale rappresenti una caratteristica stabile della persona o se possa modificarsi nel tempo. I ricercatori stanno collaborando con genetisti per individuare i geni coinvolti e verificare se questa particolare «sordità emotiva» alla musica sia reversibile. Potrebbe darsi, spiegano, che modulando la connettività tra circuiti cerebrali sia possibile cambiare la percezione del piacere musicale, aprendo nuove prospettive anche per la neuro-riabilitazione in altri campi.

In definitiva, lo studio sull’anedonia musicale ci ricorda che dietro l’apparente universalità delle emozioni si nasconde una variabilità individuale sorprendente. Non tutti provano brividi ascoltando una sinfonia o una canzone pop, e questo non significa avere meno sensibilità o capacità cognitive. Significa piuttosto che il cervello umano, pur essendo un organo universale, interpreta il mondo esterno seguendo percorsi unici. Comprendere queste differenze non solo arricchisce la conoscenza neuroscientifica, ma invita a riflettere sul concetto stesso di piacere: un territorio comune, sì, ma declinato in infinite sfumature individuali.

Undici anni dopo, con La luce e l’onda. Cosa significa insegnare?, il filosofo milanese torna sull’argomento approfondendo le ragioni – e anche l’urgenza – che dovrebbero indurre a ripensare il senso dell’insegnamento in tutta la sua complessità. La luce e l’onda del titolo sono immagini funzionali a indicare da un lato la figura del maestro, che deve per così dire illuminare l’allievo allargandone le possibilità di visione; dall’altro l’onda simboleggia la spinta fuori dalla comfort zone, l’impatto con il mare della vita che costringe l’allievo verso la necessaria soggettivizzazione del sapere, che gli consenta cioè di trovare il suo stile, la sua voce. Più tardi troveremo la nostra voce – ammonisce il professor Keating nell’Attimo fuggente – e più tardi inizieremo a vivere una vita degna di questo nome. Ma quali figure di maestri ci fanno tornare alla mente queste parole? Quali sono stati luce e onda per ciascuno di noi? Nel mio caso è stato Fernando Bandini, che ogni quindici giorni, dopo un estenuante viaggio in treno da Padova, teneva memorabili lezioni all’università di Ginevra. Prima poeta che professore, Bandini appassionava alla poesia senza alcun tono professorale, e quando parlava di Montale o di Ungaretti a noi studenti sembrava di sentire il pro-

In un’epoca in cui la figura e il prestigio dell’insegnante sono svalutati e messi in discussione, in cui il predominio sempre più pervasivo delle tecnologie informatiche e la burocratizzazione della scuola riducono le occasioni di sviluppo della soggettività e di crescita interiore, la scuola deve continuare a essere sempre più un luogo di resistenza e al tempo stesso di creatività, un luogo dove sia possibile mobilitare il desiderio di sapere dei giovani, un sapere in grado di allargare l’orizzonte della vita.

Negli anni la riflessione sulla scuola si è fatta inarrestabile, cagionando un numero quasi incalcolabile di contributi critici. Di formazione lacaniana, l’autore si muove con agio nella sterminata bibliografia, a proposito della quale non si possono non notare da un lato la sua critica alle tesi francamente unilaterali di Foucault sull’equivalenza tra sapere e potere e sulle finalità normalizzatrici della scuola (tesi smentite ogni giorno dalla pratica di ogni insegnante); dall’altro la preveggenza, a tanti anni di distanza, di Pasolini quando stigmatizzava la presa invisibile del mercato sulla società o il valore illusoriamente salvifico degli oggetti di consumo. La relazione tra insegnante e allievo – è questo il cuore del libro – si dispiega e prospera se il maestro rinuncia a essere «un rifugio, un’ombra che mentre ripara la vita dall’impatto con l’onda annulla il desiderio dei suoi allievi vincolandoli a una dipendenza senza vita». E in ogni caso l’autore ribadisce che, al di là di qualunque posizione ideologica, la finalità ultima della scuola non è quella di formare dei docili esecutori, bensì di collaborare all’affermazione dello spirito critico e alla realizzazione vitale dell’allievo, anche a prezzo della perdita di carisma dell’insegnante.

L’immagine dell’onda a cui si accennava prima non va dunque vista solo come un trampolino verso la vita, ma anche come la necessaria emancipazione – o meglio: il necessario tradimento simbolico – del maestro da parte dell’allievo. Così, nelle parole di Nietzsche, Zarathustra risponde a chi continua a seguire il suo insegnamento: «Si ripaga male un maestro, se si rimane sempre scolari».

Bibliografia

Massimo Recalcati, La luce e l’onda. Cosa significa insegnare?, Einaudi, 2025

Spesso chi soffre di anedonia musicale è inconsapevole della sua «diversità». (Keystone)
Immagine di copertina del libro di Recalcati.

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Il dramma silenzioso della povertà

Campagna

Percento culturale ◆ Ben 1,4 milioni di persone in Svizzera possono a malapena permettersi i beni di prima necessità; la loro sofferenza è poco visibile, ma il Percento culturale la mette al centro della sua nuova campagna di sensibilizzazione

«Il denaro non è la cosa più importante», dice Elisabeth. Eppure quasi tutto nella sua vita quotidiana ruota intorno ai soldi. Elisabeth è una mamma single che vive nel Canton Argovia con i suoi due figli (11 e 13 anni) e 3200 franchi al mese, quindi molto al di sotto del livello minimo di sussistenza. Tuttavia, dice: «In qualche modo ce la facciamo sempre». Elisabeth è una delle 700’000 persone in Svizzera che sono ufficialmente classificate come povere perché hanno a disposizione meno di 2315 franchi al mese (per una persona sola) o 4051 franchi per una famiglia con due figli. La donna, di formazione meccanica di automobili, appartiene al gruppo particolarmente vulnerabile dei genitori single. In Svizzera è infatti ancora difficile conciliare la cura dei figli con un lavoro adeguatamente retribuito.

Tuttavia la 44enne non vuole richiedere l’assistenza sociale, per paura di indebitarsi e anche per orgoglio. Preferisce essere povera piuttosto che dipendere da aiuti esterni. Ha un buon rapporto con il padre dei bambini, ma lui può contribuire poco dal punto di vista economico. Per guadagnare svolge tre lavori diversi, tutti con retribuzione oraria, variabili a seconda della stagione, ma per questo flessibili. «I miei figli hanno bisogno di me più che di tanti soldi», dice. Lotta ogni giorno per offrire loro una vita dignitosa, senza far mancare hobby e vacanze. Il fatto che entrambi i bambini siano appassionati di musica e sport la riempie di orgoglio. I suoi sogni sono invece costantemente rimandati. «Ho un budget annuale e devo calcolare, bilanciare, soppesare le cose, chiedere aiuto… non riesco mai a stare tranquilla». L’orticaria cronica di cui soffre potrebbe essere una conseguenza di questa situazione.

La speranza che arrivino tempi migliori

Chi è colpito dalla povertà, come Elisabeth, deve lottare per non perdere la speranza. In questo momento Elisabeth spera che un’organizzazione ecclesiastica contribuisca ai costi delle lezioni di musica. Spera di riuscire a pulire un numero sufficiente di finestre così da mettere da parte qualcosa per un paio di giorni di vacanza. Spera che il tetto della sua vecchia casa, che d’inverno è piena di spifferi e che è riscaldata a legna, rimanga ben saldo.

«Le persone con un budget limitato sono sempre sotto stress per far quadrare i conti. Partecipano meno alla vita sociale e tendono a essere meno sane. È un circolo vizioso», afferma Andreas Reinhart, portavoce della Caritas di Zurigo. «Alla Caritas ci rendiamo conto ogni giorno che sempre più persone vivono al limite delle proprie possibilità economiche. Ora i tempi di attesa per il nostro servizio di consulenza per il risanamento dei debiti sono più lunghi e mai prima d’ora così tante persone hanno fatto acquisti nei mercati Caritas». Sembra che l’aumento del costo della vita stia trasformando sempre più persone in Svizzera nei cosiddetti «working poor», ovvero lavoratori poveri. In altre parole, persone che lavorano ma che devono soppesare ogni centesimo due volte.

Sono in corso diversi sforzi per presentare una strategia

I soldi sono già pochi all’inizio del mese

Marco è uno di questi lavoratori poveri. Non poveri secondo la definizione federale, ma a rischio di povertà. Padre di tre figlie di età compresa tra gli 11 e i 14 anni, lavora a tempo pieno a Basilea come sous-chef nella ristorazione di alto livello. Guadagna 5100 franchi netti. «Quando lo stipendio arriva alla fine del mese, pago prima tutte le fatture in sospeso. Con i restanti 200-400 franchi cerchiamo di sbarcare il lunario per un mese». Persino la scuola montana per una delle sue figlie è oltre il suo budget, e Marco si vergogna un po’ delle biciclette vecchie delle ragazze. Quando i costi per il riscaldamento sono stati aumentati di 3000 franchi all’anno, non è riuscito a dormire per notti intere. Quando gli viene chiesto che cosa vorrebbe potersi permettere, riflette a lungo e poi risponde: «Un appuntamento dal parrucchiere». Ma, soprattutto, deve guarire del tutto. Sta infatti ancora facendo i conti con le conseguenze di una lacerazione aor-

tica potenzialmente letale. Non può permettersi di essere malato.

Secondo l’Ufficio federale di statistica, quasi uno svizzero su cinque non è in grado di far fronte a una spesa imprevista di 2500 franchi. Sono particolarmente a rischio i nuclei monoparentali, le famiglie numerose, le persone con un basso livello di istruzione, gli anziani e le persone con un background migratorio.

Vivere con 9,50 franchi al giorno

Per Myroslava la giornata è buona quando riesce a comprarsi una tavoletta di cioccolato fondente, ovviamente con una riduzione del 50%. La donna, un’ucraina di 57 anni, vive con 9,50 franchi al giorno di aiuti d’emergenza cantonali. Prima della guerra era un’insegnante e aveva una bella vita, dice. Ora vive in un appartamento con sei persone e condivide una stanza. Hanno messo un armadio al centro per creare almeno un po’ di privacy. «Voglio sfruttare al meglio la mia opportunità qui in Svizzera».

Il fenomeno in cifre

2315 franchi

Questo salario mensile in franchi segna la soglia di povertà per una persona sola.

Per due adulti con due bambini di età inferiore ai 14 anni, la soglia è di 4051 franchi.

1,4 milioni

di persone in Svizzera vivono in condizioni di povertà. La metà di loro vive al di sotto della soglia di povertà, l’altra metà appena al di sopra. Ciò corrisponde al 16% della popolazione totale.

323’100

bambini sono colpiti o a rischio di povertà. Ciò corrisponde al 20,3% di tutti i bambini.

24%

è la percentuale di cittadini stranie-

Anche per sostenere il padre anziano e il figlio adulto, rimasti in Ucraina. A tal fine, Myroslava passa fino a cinque ore al giorno a studiare il tedesco. A livello orale, capisce ogni parola. Finché non raggiunge il livello C1, cerca di fare del suo meglio con quel poco che ha. «Il Vita Parcours nella foresta è gratuito, molti musei sono gratuiti con la CartaCultura di Caritas, e io canto in un coro», dice. «Non mi dispiace mangiare poco o vivere in condizioni anguste, ma voglio partecipare alla vita qui». Myroslava ha bisogno di parlare con la gente.

In imbarazzo per colpa della società

Marco, padre di famiglia, non si vergogna di avere pochi soldi. «Indosso abiti vecchi e a buon mercato, non andiamo mai in vacanza». Ciò che lo opprime è la sensazione di essere giudicato a causa della sua povertà. «Non ho scelto io di essere povero, ma spesso ho la sensazione che la gente pensi questo di me». Anche Elisabeth, mamma single, non si considera una vittima. «Trovo sempre una soluzione. Non ho fatto nulla di male». Ma c’è una cosa che trova vergognosa: «La gente si gira dall’altra parte invece di aiutare».

Cosa fanno la Confederazione e i Cantoni per combattere la povertà in Svizzera? Lo chiediamo a Thomas Vollmer, capo divisione dell’Ufficio federale delle assicurazioni sociali. Ci spiega che il tasso di povertà in Svizzera si aggira intorno all’8% dal 2017. «Il fatto che questo tasso sia rimasto stabile anche in tempi di crisi dimostra che il sistema sociale svizzero fondamentalmente funziona. Tuttavia l’obiettivo di ridurre la povertà non è ancora stato raggiunto». Per questo motivo sono in corso diversi sforzi per presentare una strategia nazionale contro la povertà entro il 2027.

lontariato. «Se posso aiutare gli altri mi sento meglio», afferma Myroslava, che partecipa al teatro dell’operetta di Bremgarten e al Parlamento dei rifugiati dell’NCBI. «Così mi sento meno sola». Elisabeth assiste le persone che vivono in povertà per le questioni amministrative presso la Caritas di Aarau. Marco controlla ogni venerdì le donazioni di carne per Les Cartons du Cœur e dà consigli sulla preparazione. Chiunque sia stato colpito dalla povertà sa quanto sia importante qualsiasi aiuto. «Non siamo un peso. Siamo persone con un potenziale e soprattutto con la volontà di dare un contributo», dice Myroslava sperando che oggi sia una buona giornata, con un po’ di cioccolato fondente e magari anche un caffè.

Partecipa al nostro sondaggio sulla povertà https://engagement. migros.ch/it/in-rosso

Impegno Migros Insieme contro la povertà

ri a rischio di povertà. Uno straniero su dieci vive al di sotto della soglia di povertà.

23%

è la percentuale di persone oltre i 65 anni a rischio di povertà.

10%

è la percentuale di persone in Svizzera con difficoltà ad arrivare alla fine del mese.

19%

è la percentuale della popolazione che non è in grado di far fronte a spese impreviste di 2500 franchi.

11%

è la percentuale della popolazione che deve rinunciare a un’attività ricreativa regolare perché non può permettersela.

Per Andreas Reinhart della Caritas di Zurigo i tempi della politica sono ancora troppo lunghi: «Ci sono ancora troppi lavori scandalosamente sottopagati, ad esempio nel settore delle pulizie o della ristorazione. Qui è necessario un intervento urgente». Un’assistenza all’infanzia completa e a prezzi accessibili, riduzioni dei premi più generose e sussidi supplementari per le famiglie fornirebbero un sollievo per le persone a rischio di povertà.

Cosa aiuta le persone colpite?

Come la vedono Myroslava, Marco ed Elisabeth? Tutti vogliono lavorare, ma a condizioni eque. Elisabeth sogna un lavoro in ambito amministrativo, con orari flessibili. Myroslava continua a imparare il tedesco e spera di trovare un impiego che le permetta di stare a contatto con la gente. E Marco, lo chef esperto che cucina per i ricchi e famosi di Basilea? Vorrebbe una retribuzione migliore e scuole diurne gratuite per le sue figlie. «Questo darebbe a mia moglie più opportunità di trovare un buon lavoro».

Persone con un potenziale

Nonostante le risorse limitate, tutti e tre sono impegnati in attività di vo-

Il Percento culturale Migros è impegnato da decenni in numerosi progetti di lotta alla povertà in Svizzera. Uno degli obiettivi è dare alle persone colpite dalla povertà l’accesso alla vita sociale e culturale. «Essere colpiti dalla povertà non significa solo avere troppo poco denaro, ma anche non sentirsi un membro a pieno titolo della società», afferma Kerstin Klauser, viceresponsabile della Direzione Società e cultura della Migros. L a campagna «In rosso» sta attualmente attirando l’attenzione sul problema attraverso cartelloni pubblicitari e contributi sui social media: «Vogliamo sensibilizzare l’opinione pubblica e mostrare che la povertà esiste anche in un Paese ricco come la Svizzera».

Ulteriori informazioni in-rosso.ch

nazionale contro la povertà entro il 2027.

Le auto e la mobilità di domani

Motori ◆ Tecnologia e sostenibilità al centro di un convegno che si è svolto di recente a Milano

Mario Alberto Cucchi

«Quale futuro per la mobilità» è stato il tema centrale del convegno organizzato a Milano a fine settembre in cui sono state affrontate le tematiche legate in generale ai trasporti e in particolare all’automobile. Avere una mobilità efficiente è fondamentale per i cittadini perché serve a migliorare la qualità della vita. «Il processo di elettrificazione è in ritardo rispetto alle aspettative degli esperti?» è stata la prima domanda posta dal giornalista Umberto Zapelloni, organizzatore del convegno che si è svolto nella sede dell’AC (Automobile Club) Milano.

A Milano si è parlato di incentivi statali, di elettrificazione, di colonnine e incidenti nella mobilità del futuro

«Noi pensiamo che l’elettrificazione sia la soluzione, ma nel frattempo durante la transizione bisogna spingere sull’ibridazione», ha dichiarato Michele Crisci, top manager di Volvo. «L’elettrificazione è inarrestabile – replica Francesco Calcara, top manager della Casa coreana Hyundai –e sarà il punto di atterraggio, ma noi continueremo a offrire auto dotate di motore endotermico e ibridizzate. Nella nostra gamma disponiamo di tutti i tipi di alimentazione, persino

dell’idrogeno. Per quanto riguarda l’elettrico, grazie alla tecnologia 800 volt che abbiamo, possiamo ricaricare l’80 per cento della batteria in soli 18 minuti».

Si è parlato anche di incentivi sta-

MIGROS-Annonce_MiniTAC_Halloween-142x220-V1-01.10.25-IT-IMP.pdf 3 04/10/2025 13:40

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tali. «Gli incentivi sono una droga per il mercato e non dovrebbero tecnicamente esistere in natura perché limitati nel tempo e nello spazio», dichiara Alfredo Altavilla, Special Advisor BYD per l’Europa. «Un in-

centivo che dura 3-4-6 mesi non sposta assolutamente nulla. Vogliamo svuotare l’Oceano con un cucchiaino». Altavilla non vede bene il futuro dell’industria europea: «Da qui a tre anni i costruttori cinesi che oggi sono 165 si ridurranno a una ventina. Ma gli stakeholders europei mi sembrano i passeggeri di Titanic. Con la nave che affonda si preoccupano dell’orchestra».

Affrontato anche il tema delle colonnine di ricarica. Siamo in una fase in cui la nostra infrastruttura cresce in funzione della sostenibilità di lungo termine. Si cerca di evolvere verso una riduzione di costi in base alla fascia oraria. Il costo dell’energia potrebbe scendere del 30 per cento rispetto alle ore diurne. Dall’esperienza attuale emerge che l’aspetto più importante è l’affidabilità della colonnina. Se non funziona, oltre il 40 per cento degli utenti non tornerà più su quella colonnina. Oltre il 90 per cento di problematiche vengono riscontrate nella fase di approccio, soprattutto riguardo alla localizzazione. Un altro problema risiede nel fatto che nell’inizializzazione i consumatori spesso non capiscono come fare; il terzo problema è nel pagamento. Ma è tutto risolvibile. In Europa è elettrica una vettura su sei. Le colonnine a oggi sono davvero tante rispetto alle auto in circolazione, ma poche pensando al futuro in cui gli intervenuti al convegno sperano.

Per decarbonizzare non c’è solamente l’elettrico: fra le soluzioni già oggi disponibili, ci sono anche i biocarburanti

Attenzione: va detto che l’elettrico è uno dei vettori, ma per decarbonizzare ci sono più soluzioni, come per esempio i biocarburanti. A livello continentale non è mai stata vietata una tecnologia per legge. E invece con i motori endotermici lo stanno facendo. C’è bisogno di pluralità. In Europa si vendono tre milioni di auto in meno, quindi qualcosa non ha funzionato. Intervenuto a Milano anche Gabriele De Giorgi, Senior Manager di Uber. «Noi vogliamo essere in grado di risolvere i problemi

di mobilità indipendentemente dal tipo di tecnologia, che alla guida ci siano i robotaxi o gli autisti. Il futuro per noi è ibrido e la guida autonoma convive e conviverà sempre più con la guida tradizionale. In un futuro che vediamo ancora distante ci sarà una vera trasformazione della mobilità». Durante il Convegno si è anche parlato di tutto quello che si può fare per prevenire gli incidenti con il progetto europeo «The road to zero» che punta a un azzeramento dei decessi sulle strade entro il 2050 attraverso la riduzione della velocità, l’uso di infrastrutture più adeguate, veicoli più sicuri e un’assistenza post-incidente più efficiente. Ecco allora che a Milano si sono confrontati costruttori, ricercatori e istituzioni. «La sicurezza è nel DNA di Bosch», spiega Maurizia Bagnato, manager di Bosch Mobility. «Investiamo sulla guida autonoma e oggi l’opportunità è quella di aggiornare il software a distanza. Gli aggiornamenti OTA, Over The Air, fanno sì che il prodotto non vada incontro a invecchiamento. Un computer centrale può controllare tutta la vettura. Un’integrazione a 360 gradi che aumenta il livello di sicurezza». «Brembo, azienda leader mondiale per gli impianti frenanti, fa la sua parte», spiega Dino Maggioni, System GBU Chief Operating Officer Brembo. «Alla base della sicurezza c’è un sistema frenante, e poiché con le automobili elettriche sono aumentate, e di molto, le masse in gioco, ecco quindi che abbiamo studiato sistemi frenanti differenti: il futuro è già qui. Oltretutto riduciamo le emissioni grazie a materiali di attrito di nuova concezione. Queste sono tutte innovazioni radicali». Tutti d’accordo sul fatto che la vivacità dei costruttori oggi è straordinaria. Molte le nuove tecnologie, numerosi i modelli e i nuovi dispositivi rivolti alla sicurezza. Talmente tanti che hanno messo in difficoltà i consumatori nella scelta. È necessario puntare sulla neutralità tecnologica. La regolamentazione e le politiche non dovrebbero favorire una tecnologia specifica rispetto ad altre, ma lasciare al mercato la libertà di scegliere la soluzione più competitiva per raggiungere determinati obiettivi. Diagnosi fatta, ora ci vuole la cura.

Il giornalista Umberto Zapelloni con Alfredo Altavilla, Special Advisor BYD per l’Europa.

La montagna sempre protagonista

Mostre ◆ A Rodi-Fiesso il Dazio Grande ospita Après-lift – Versante sud

Nella valle Leventina la cultura dello sci è viva e saldamente legata al territorio. È una forte tradizione locale che coinvolge anche le nuove generazioni. Questo spirito di resilienza di fronte al clima che cambia, portando con sé un minor innevamento e maggiore incertezza, emerge con chiarezza nella mostra Après-lift – Versante sud, allestita al Dazio Grande a Rodi-Fiesso, frazione di Prato Leventina, nell’ambito del programma culturale dell’omonima Fondazione dedicato quest’anno al tema Alpi in transizione. Curata da Nicola Castelletti e Giulia Pedrazzi in collaborazione con il Museo Alpino Svizzero ALPS di Berna, la presentazione riprende da quest’ultimo il nucleo originale di una proposta del 2022-23 sugli impianti sciistici dismessi, arricchendola con i risultati di un’indagine incentrata sulla testimonianza di sei rappresentanti dei rispettivi comprensori della Leventina, tuttora in attività.

Sebbene si trovino in contesti in parte diversi, i comprensori sono accomunati dalla portata delle sfide

Il primo approccio sulla sorte degli impianti sciistici sul versante Sud delle Alpi rivela quindi una realtà che, pur di fronte a nuove sfide per lo più comuni, mette in atto strategie innovative e diversificate per affrontarle con implicazioni non solo turistiche ed economiche, ma anche sociali. I promotori della mostra –l’architetto e museografo Nicola Castelletti e la storica Giulia Pedrazzi – sono accomunati dalla passione per la montagna, sodalizio che ha fatto da tramite con il direttore del Museo ALPS Beat Hächler, desideroso di ampliare al Sud delle Alpi la riflessione su un tema d’attualità e dal marcato impatto emotivo. L’indagine effettuata in Leventina vuole quindi essere un primo approfondimen-

to che in futuro potrebbe estendersi agli altri comprensori della Svizzera italiana. La scelta di partire da questa valle si spiega con il suo ruolo di culla dello sci ticinese, come dimostra l’attività tuttora presente. Va infatti ricordato che ad Airolo è nata la prima stazione sciistica del Cantone con il locale sci club da annoverare tra i fondatori della Federazione svizzera di sci nel 1904.

Nel salone al secondo piano dello storico Dazio Grande per l’intera stagione invernale si possono ammirare belle immagini d’epoca e alcuni reperti (sci, ancore, piattelli) che testimoniano l’evoluzione della pratica dello sci nella regione. I sei totem centrali sono il fulcro dell’allestimento curato da Nicola Castelletti. Essi presentano, oltre alle immagini, i testi di Giulia Pedrazzi relativi alle sfide e alle strategie dei sei comprensori: Airolo Lüina, Airolo Pesciüm, Carì, Cioss Prato, Dalpe Bedrina, Prato Leventina. Un QR code permette di accedere per ognuno alle interviste da cui sono stati tratti i testi riassuntivi.

Cosa emerge da queste interviste a persone con funzioni dirigenziali?

Rispondono i curatori: «Di fronte alle medesime domande, notiamo che le risposte trovano una certa convergenza sulle sfide, seppure i contesti siano diversi fra loro, mentre a livello di strategie la posizione, la dimensione e la gestione dei comprensori determinano visioni diverse per il futuro. Di sicuro il settore dimostra una buona dinamicità. Accanto a impianti a gestione aziendale, come può essere quello di Airolo Pesciüm, troviamo piccole realtà a gestione familiare (Cioss Prato) o amatoriale (Dalpe Bedrina e Prato Leventina) o ancora situazioni particolari come Airolo Lüina e Carì».

Partiamo quindi dalle sfide: «Tutti i comprensori, tranne Cioss Prato, dispongono di un impianto d’innevamento programmato che dovrebbe compensare la mancanza di neve naturale. Il problema è la temperatura. I picchi di freddo sono diventati più

rari e brevi, mentre l’ideale sarebbe poter azionare questi impianti per alcuni giorni di seguito verso fine novembre in modo da garantire un fondo duraturo. L’attività sciistica, per i comprensori più piccoli, si concentra poi durante le vacanze di Natale e di Carnevale e nei fine settimana. Il personale è un altro punto delicato, perché manca manodopera locale e gestire gli stagionali è più complicato. Un tempo diversi residenti assicuravano il funzionamento degli impianti in inverno, ritornando alla loro attività principale di agricoltori nella stagione estiva».

Dal punto di vista delle strategie la collaborazione fra questi due settori è però ancora centrale nell’ambito del processo di destagionalizzazione in corso. Un tema che ritorna nelle diverse interviste, sebbene emerga come, senza l’inverno, il comprensorio tenda a perdere la sua ragion d’essere. In mostra si scoprono però proposte e curiosità su come mantenere viva l’attenzione dei fruitori nei mesi estivi. Il target invernale è costituito

dagli amanti dello sci e di altre attività sportive sulla neve. Sono persone e famiglie locali e provenienti da fuori zona che trovano nella diversità dei comprensori la destinazione adeguata alle loro esigenze. «Per l’estate –proseguono Nicola Castelletti e Giulia Pedrazzi – si punta a una maggior coinvolgimento della popolazione locale. I gruppi attivi nella gestione dei comprensori sono motivati, coesi e rappresentano una generazione relativamente giovane ancora attiva professionalmente. Un ulteriore punto di forza è il loro agire in rete, risultato ottenuto anche grazie all’esperienza maturata negli anni nelle diverse località. Non è infatti raro incontrare oggi in posti di responsabilità persone che hanno imparato a sciare vicino a casa, sono diventate monitrici e monitori di sci in un’altra località e così via fino ad assumere un impegno più gestionale e strategico».

I contenuti della mostra originale Après-lift provenienti dal Museo ALPS di Berna sono invece collocati ai lati della sala, quasi a contrappor-

si anche visivamente alla vivace realtà leventinese. Titoli accattivanti – Il più lungo, Il più controverso, Il più alto, Il condannato a morte – richiamano l’attenzione su impianti svizzeri in disuso, alcuni da ammirare come retaggio di un glorioso passato, altri smantellati e venduti. Fra i sette casi proposti (sempre con brevi testi e le relative interviste ai protagonisti da ascoltare tramite codice QR) uno riguarda anche il Ticino, e più precisamente lo sci-lift costruito a Moneto nelle Centovalli, punto di riferimento nella regione con altri piccoli impianti negli anni Settanta del secolo scorso. Sul lato opposto della sala completa l’immersione in un trascorso sciistico completamente scomparso una serie di immagini del fotografo Olivier Rüegsegger. Da segnalare che Après-lift è anche un libro in lingua tedesca (AS Verlag, Zürich) firmato da Daniel Anker che propone 49 itinerari sciistici per scoprire gli impianti dismessi in Svizzera. Fra scomparsa e trasformazione passando dal paesaggio alla società, la mostra Après-lift – Versante Sud offre uno sguardo ricco di contenuti sull’evoluzione del turismo invernale alpino. È sicuramente anche lo spunto ideale per un dibattito sul tema che i promotori sperano di poter concretizzare attraverso incontri pubblici da proporre nei prossimi mesi. Se il clima cambia, così come le dinamiche economiche e sociali, senza dimenticare le abitudini di viaggio, la montagna – affermano diverse testimonianze raccolte in Leventina – è sempre lì ed è lei, a prescindere dalle stagioni, la protagonista della vita dei suoi abitanti.

Dove e quando Après-lift – Versante sud, Rodi-Fiesso, Dazio Grande. Fino al 9 novembre 2025. Orari: gio-do durante gli orari di apertura della locanda o su appuntamento (+41 79 240 19 83). www.daziogrande.ch

Veduta della mostra al Dazio Grande.
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Le parole dei figli

Woke

«Stay woke!». Quando alla mia 17enne Clotilde scappa questo invito dopo che al Tg è passata una dichiarazione di Trump, capisco che da genitore devo fermarmi a comprenderla bene. Perché in quelle due semplici Parole dei figli c’è un intero sistema di valori che contraddistingue la Generazione Z. Il termine woke, che deriva dal verbo inglese to wake (svegliarsi), indica letteralmente qualcuno che «si è svegliato». L’Oxford English Dictionary l’ha inserito ufficialmente nel vocabolario nel 2017 con questa definizione: «In origine: ben informato, aggiornato. Ora principalmente: attento alla discriminazione e all’ingiustizia razziale o sociale». In breve: woke vuol dire essere politicamente coscienti, aver aperto gli occhi sulle storture del mondo. Nella mia redazione al «Corriere della Sera», i colleghi Milena Gabanelli e Paolo Giordano hanno

Terre Rare

dedicato settimane a studiare il fenomeno. La conclusione a cui sono arrivati è che i fondamenti del pensiero woke sono almeno tre: 1) lotta contro ogni forma di discriminazione: razziale, di genere, sessuale, coloniale, economica 2) consapevolezza che le diverse forme di oppressione sono interconnesse e come tali vanno combattute in modo unitario 3) critica alle strutture di potere dove l’ingiustizia è sistemica, con l’obiettivo di riformarle dal profondo. Il riflesso più concreto di questo pensiero nella vita di tutti i giorni è nell’uso del linguaggio, considerato il primo e più potente strumento per cambiare la realtà. La cultura woke promuove un linguaggio inclusivo che mette sempre al centro la persona. Esempi pratici: non si dice più «un disabile», ma «una persona con disabilità», per non ridurre un individuo a

una sua condizione. Si cercano forme linguistiche che non presuppongano il genere, attraverso lo sdoppiamento («le studentesse e gli studenti»), l’uso di termini neutri («il personale» invece de «i dipendenti») o, nelle forme scritte più militanti, con l’introduzione della schwa ( ) o dell’asterisco (*): «car tutt », «car* tutt*». A tal proposito, mi è capitato di leggere testi (bellissimi!) di Clotilde scritti in modo tale che era impossibile riconoscere il sesso della persona protagonista, lasciando piena libertà di immedesimazione. Ecco, allora, che lo «Stay woke!» di un adolescente, magari in risposta a una dichiarazione sessista, razzista o omofoba, è un concentrato potentissimo di concetti culturali e generazionali. È l’affermazione della propria posizione, un modo per condannare il pregiudizio; invitare (o sfidare) l’altro

Movimento di evoluzione regressiva

Provo un certo fastidio quando il mio browser mi propone «Gemini può riassumerti quest’articolo. Ti interessa? Clicca qui». È una specie di moto di ripulsa interiore, di orgoglio ferito, direi. «So benissimo riassumermi gli articoli da solo, grazie», rispondo a voce alta. «Anzi, prima di tutto preferisco leggerli, per capire di cosa mi vogliono parlare, poi decido io». Ma mi rendo conto di quanto questo sia un tipico atteggiamento da boomer Sono «vecchia scuola». Mio figlio, ad esempio, non avrebbe nessun problema a farsi fare il riassunto di un testo dall’Intelligenza artificiale. Si perde meno tempo. Si va al sodo (il tempo risparmiato comunque non ho ancora capito dove va a finire, sospetto nella Playstation, e va bene anche così). Il rimprovero che nelle scorse settimane l’esperta Maria Grazia Giuffreda muoveva su queste pagine all’IA,

rischiosa macchina per la pigrizia, mi è ben chiaro. Dovremmo evitare il tranello della comodità automatica. Specialmente nel caso di decisioni importanti (sarà vero che Trump ha fatto calcolare i tassi dei dazi da imporre alle varie Nazioni a ChatGPT? E quale versione ha usato, poi? Quella gratuita o quella a pagamento?). Ma no, non c’è partita. Il mondo, oggi, ha bisogno di risposte veloci, adatte a decisioni veloci. Che siano corrette, mature, equilibrate, affidabili, importa relativamente poco. Ci si regola procedendo, osservando come evolvono i fenomeni. Siamo una società che avanza per trial and error e i nostri stessi apparati elettronici sono progettati così, ineluttabilmente. Mentre penso a queste cose, rievocando i gloriosi tempi passati, mi capita in mano un vecchio libro di storia della letteratura. Pieno di citazioni

Approdi e derive

La scomparsa dell’altro

In questi giorni terribili mi viene difficile proporre spunti di riflessione su questioni legate alla nostra realtà e al nostro modo di vivere e convivere. Sono in difficoltà nel soffermarmi sulle derive del nostro modo di abitare la vita e ancor più fatico a immaginare la possibilità di incamminarci verso un mondo migliore, verso relazioni e legami più veri e più armoniosi.

La vergogna che provo per la tragedia umanitaria che si sta consumando a Gaza rischia di prendere il sopravvento sul desiderio e sull’impegno a ragionare attorno a domande che comunque continuano a interpellare il nostro agire quotidiano, in prima persona.

La devastazione invade mente e cuore e rende difficile volgere lo sguardo su altre realtà.

Credo che comunque dobbiamo continuare a farlo, anche perché proprio nelle disarmonie che incontriamo per strada, ogni giorno, proprio nella no-

a diventare più consapevole; affermare la propria identità e i propri valori; tracciare un confine invalicabile tra ciò che è socialmente accettabile e ciò che, secondo i canoni della sua generazione, non lo è più. Ma c’è un’altra faccia della medaglia. L’Oxford Learner’s Dictionaries, dopo aver definito woke, aggiunge: «Questa parola è spesso usata in senso disapprovante da coloro che si oppongono a nuove idee e pensano che altre persone si arrabbino troppo facilmente per queste questioni». E qui la scoperta impossibile da ignorare: anche molti giovani usano il termine woke in modo negativo. C’è un conflitto interno alla stessa Generazione Z che noi adulti tendiamo a ignorare, forse perché ci piace raffigurarli come i salvatori del mondo. Ma generalizzare è sempre sbagliato. Già nel gennaio 2024, un editoriale del «Finan-

cial Times» di John Burn-Murdoch ha suscitato un ampio dibattito, mostrando come le visioni di giovani uomini e donne si stiano drammaticamente distanziando: negli Stati Uniti, i dati Gallup mostrano che, dopo decenni di sostanziale allineamento, le femmine tra i 18 e i 30 anni sono ora più progressiste del 30% rispetto ai loro coetanei maschi. La Germania mostra un divario identico, mentre nel Regno Unito è di 25 punti. Tuttavia, anche qui, non è possibile fare di tutta l’erba un fascio. L’anti-woke tra i giovani della Gen Z non è solo una questione di genere. Ha a che fare con la rise of anti-intellectualism, l’ascesa dell’anti-intellettualismo. Tradotto: il dilagare della superficialità, che va di pari passo con l’ostilità e il disprezzo verso gli intellettuali, la scienza e il pensiero critico. Neppure gli adolescenti ne sono immuni.

latine. Corro con gli occhi in fondo alla pagina in cerca della traduzione… che non c’è. È un libro degli anni Venti del Novecento. Cento anni fa, chi scriveva un testo con ambizioni scientifiche sapeva di avviarlo a un contesto di lettori che conoscevano perfettamente il latino. Le traduzioni non erano quindi necessarie. Mi rendo conto che forse, proprio la generazione di noi boomer, negli anni Sessanta, ha interrotto senza troppi problemi questa tradizione. Una tradizione scientifica! Siamo noi, i primi che hanno potuto avviarsi a studi accademici senza passare prima per le forche caudine di Orazio, Ovidio, Lucrezio, per non parlare del terribile Tacito, e che al massimo se la sono cavata con qualche esamino integrativo. Che differenza generazionale… I professori di inizio Novecento, se ci avessero conosciuto, cosa avrebbero

pensato di noi? Che eravamo i colpevoli dissipatori di un’acquisizione fondamentale. Ancora qualche anno fa, discutendo con un caro amico, compagno di studi, ci rendevamo conto oggettivamente di questa nostra debolezza. Lui, studioso di ottima caratura, era il primo ad abbozzare una spiegazione: «Rispetto ai vecchi docenti sappiamo probabilmente molto meno. Non abbiamo imparato molte regole, è vero, non abbiamo letto tanti libri come loro. Ma in caso di necessità sappiamo dove trovare le informazioni che ci servono. Siamo passati, in altre parole, da una cultura interiorizzata a una cultura informata: una cultura che, in fondo, pratica un principio di economia delle risorse».

Non c’è dubbio che, per molti aspetti, in particolare nel settore delle scienze umanistiche, si sia operata una semplificazione concettuale, che è an-

data a scapito di un certo numero di competenze e conoscenze. La portata della «semplificazione» proposta dall’Intelligenza artificiale dunque, potrebbe essere correlata a tale movimento, che potremmo chiamare di regressione evolutiva, o di evoluzione regressiva. Più si procede nello sviluppo intellettuale collettivo, più si perde qualcosa. E d’altro canto torna alla mente un curioso articolo proposto molti anni fa da Umberto Eco, in cui lo studioso invocava la necessità per la società di dimenticare le nozioni acquisite, quale fondamentale passaggio per l’accrescimento delle competenze umane, che vanno costantemente riconquistate. Vorrei rileggerlo. L’avevo messo nel classificatore dove tengo i ritagli di giornale, chissà dov’è... Mi pare nello scaffale in alto, nella libreria. Aspetta, ma no, chiedo a Gemini. Faccio prima.

stalgia per una bellezza troppo spesso tradita, si riverbera il male grande degli attuali portatori di morte. Un caro amico che vive in una metropoli europea mi scrive della fatica e della tristezza che lo assalgono ogni volta che gira per le strade, sempre un po’ impaurito dalla costante minaccia di essere aggredito. Lo colpisce la brutalità con cui vengono aggrediti ogni giorno soprattutto i giovanissimi e gli anziani. Mi racconta di episodi realmente accaduti, tra cui quello capitato recentemente a un collega settantenne, ferito in modo importante in pieno centro da due persone che gli hanno strappato zaino e computer. Certo, la nostra piccola realtà è più tranquilla e più sicura, tuttavia, toute proportion gardée, comportamenti non proprio piacevoli e armoniosi li possiamo vedere anche passeggiando a Lugano, magari nella elegante via Nassa. Basta scorrere i social o le pagine dei lettori dei quotidiani per

trovarvi voci di persone preoccupate e rattristate per tanti comportamenti inadeguati e disattenti, quando non addirittura offensivi, nei confronti degli altri. Non entro nel merito di questi episodi vissuti e raccontati perché sarebbe troppo grande il pericolo di scivolare nel moralismo. E soprattutto è grande il rischio di sentirsi dire che ognuno deve poter fare quello che vuole, deve essere libero di comportarsi in modo autentico, lasciando perdere inutili formalismi, insomma: basta regole di comportamento ormai superate. Fa riflettere questa idea di autenticità che se ne fa un baffo del rispetto dell’altro e del sentimento di appartenenza e considera gli aspetti formali della convivenza solo balzelli passatisti che ostacolano la libera espressione di sé stessi. Siamo di fronte a una triste deriva in cui l’individuo responsabile, che sta al cuore dei valori della moder-

nità, si consegna a forme di vita individualistiche e autoreferenziali in cui l’attenzione alla presenza dell’altro si infragilisce quando addirittura non scompare. Eppure, per citare solo una bella voce tra le molte, il filosofo Lévinas diceva che il mio io si costituisce nella relazione con l’altro, nello sguardo dell’altro che mi interpella. Questa cosiddetta autenticità, spesso invocata come espressione di libertà, ne tradisce profondamente il senso, consegnandolo all’unico desiderio di poter esibire il proprio esserci sulla scena della vita. In questa esibizione collettiva, lo sguardo dell’altro rimane solo una presenza sfocata sullo sfondo, lasciata lì solo per esibire qualcosa anche lei, magari quel «mi piace» sempre atteso e gradito. Nel mio ultimo libro ho cercato di indicare un cammino personale che ci mettesse in contatto con gli strati più profondi della nostra umanità. Un invito a coltivare l’intimità con sé

stessi e con l’altro, perché l’autenticità del vivere sorge dal nostro mondo interiore, in quel profondo contatto con noi stessi che accoglie la presenza dell’altro e il sentimento di una comune appartenenza alla vita. Si tratta di un’esperienza oggi difficile perché questo mondo spettacolo è un continuo, potente richiamo all’esibizione di sé. In questa atmosfera pervasiva l’esporsi, discreto e autentico, a intime verità dell’esistere rischia di essere soffocato, quando non addirittura tradito.

Ed ecco che ci si appella allora a una «autenticità» misera e tarocca, che in realtà non è che malintesa libertà, o meglio liberazione, da ogni inutile legame con l’altro.

Tramonto dei legami: un tragico segnale? Forse anche nel ragionare sulle derive del nostro vivere e convivere, fin dentro i dettagli di piccole cose quotidiane, è possibile riconoscere qualche segno della attuale catastrofe del mondo.

di Lina Bertola
di Simona Ravizza
di Alessandro Zanoli

ATTUALITÀ

Difesa: cittadini in prima linea Dall’Europa a Taiwan, tornano di moda manuali e «kit» per sopravvivere alle crisi

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Marocco in rivolta I giovani protestano ancora contro malasanità, corruzione e mancanza di prospettive

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Focus su Hamas Uno sguardo al passato mentre in Egitto si riaccende la speranza di poter giungere alla pace

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La sindaca di Genova Ritratto di Silvia Salis, volto nuovo di una sinistra in cerca di identità, molto attiva sul piano nazionale

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Dietro alla fede, una precisa agenda politica

Reportage da Washington ◆ Viaggio nel cristianesimo trumpiano, un movimento che unisce patriottismo, tradizionalismo e religione, trasformando il pulpito in un’estensione della campagna elettorale

È una domenica mattina a Washington, nel cuore dello U Street Corridor, un tempo epicentro della cultura afroamericana e oggi quartiere di locali, teatri e nuova vitalità urbana. Nel Lincoln Theatre, storico tempio del jazz, non si entra per un concerto ma per il servizio della Passion City Church, una delle circa 800 chiese della capitale. La band sul palco intona melodie trascinanti, la platea canta a occhi chiusi, con le mani alzate verso il cielo. L’atmosfera è insieme festosa e intensa, sospesa tra musica e preghiera.

Per la destra americana, il nuovo fervore che attraversa le chiese non è solo un fatto di fede: è una battaglia culturale

John e sua moglie Pam, texani trapiantati da cinque anni a Washington per lavoro, sono seduti nelle balconate. «Negli ultimi mesi la chiesa è più piena – raccontano – ma soprattutto la gente ascolta davvero il messaggio». Non sono solo titoli o statistiche, per la coppia il «revival» è una realtà: sono panche occupate, occhi lucidi, un fervore che attraversa le congregazioni da un capo all’altro del Paese. Dopo l’assassinio di Charlie Kirk (l’attivista Maga e podcaster ultraconservatore ucciso in un college dello Utah a settembre) la destra religiosa americana parla di risveglio spirituale. E, a giudicare da questa celebrazione, non sembra mera retorica. Quando il pastore sale sul palco, la musica si abbassa. Lui si inginocchia e con voce rotta dall’emozione invoca Dio perché guarisca la Nazione e la benedica. Dalle prime file al fondo della sala, molti lo seguono: decine di persone in ginocchio.

Per anni, i sociologi della religione hanno raccontato un’America che perdeva la fede. I numeri lo confermavano: ogni anno la percentuale dei cristiani praticanti si restringeva, le chiese si svuotavano, i ministri si affannavano a cercare anime. Poi, quasi all’improvviso, la curva ha smesso di scendere. In molte comunità si è visto un ritorno dei fedeli.

I segnali di un’inversione di tendenza si erano già intravisti lo scorso anno. Secondo i dati di Circana BookScan, nel 2024 le vendite di Bibbie sono aumentate del 22%. E questa volta a tornare alle Scritture e a riempire le chiese non sono gli anziani, ma i giovani. Il rapporto State of the Bible USA 2024 conferma che oltre un quinto della «Generazione Z» ha iniziato a leggere più spesso i testi sacri. Quella che per anni era stata etichettata come la «generazione meno reli-

giosa» sembra oggi più introspettiva, alla ricerca di un credo più profondo, in un Paese percepito come relativista. Ma non solo; contro ogni previsione, sono soprattutto gli uomini a guidare questo ritorno: la frequenza è oggi più alta tra i ragazzi che tra le ragazze.

Per la destra americana, il nuovo fervore che attraversa le chiese non è solo un fatto di fede: è una battaglia culturale, la dimostrazione che la religione può tornare a definire l’identità stessa della Nazione. E Donald Trump, pur non essendo un credente da manuale, ne è diventato il simbolo politico. Alla Casa Bianca si è circondato di quelli che chiama i suoi «meravigliosi cristiani»: uomini e donne che oggi siedono ai vertici di Ministeri e Agenzie federali. Ma si è anche lasciato ispirare da personaggi come Paula White, telepredicatrice carismatica e sua consigliera spirituale, portavoce del controverso cosiddetto Vangelo della prosperità, una dottrina controversa che lega il benessere economico alla benedizione di Dio.

Il cristianesimo trumpiano è una fede politica, un movimento che fonde patriottismo e religione, trasfor-

mando il pulpito in un’estensione della campagna elettorale. Le sue radici affondano nel progetto ideologico noto come Project 2025, il piano redatto in campagna elettorale dalla Heritage Foundation, un think tank conservatore, per preparare il ritorno di Trump al potere. Nel loro manifesto si delinea un’America teocratica, governata da valori conservatori: aborto bannato, diritti LGBTQ+ ridotti al silenzio, via dai programmi scolastici tutto ciò che sa di «woke progressista» (dal razzismo, al cambiamento climatico all’evoluzione) e confini chiusi.

«Ho visto la morte di Charlie Kirk trasformarsi in strumento politico: usata per raccogliere fondi e cercare consenso»

Una visione del Vangelo e della spiritualità che molti credenti respingono. Tra loro c’è John Cox, pastore della Vermont Avenue Baptist Church, a pochi isolati dal Lincoln Theatre. La sua è una delle chiese nere più storiche di Washington: fondata alla fine

dell’Ottocento, è stata per decenni un faro per la comunità afroamericana e un pilastro del movimento per i diritti civili. In questo stesso tempio, Martin Luther King Jr. salì più volte sul pulpito per predicare giustizia, uguaglianza e libertà. «C’è sempre stato chi ha usato il nome di Dio per giustificare azioni lontane dal suo insegnamento. Gesù, la parola Dio e la Bibbia esercitano un potere profondo, e chi ambisce al potere terreno spesso cerca di appropriarsene», ci dice il reverendo. «Così, anche figure politiche, e persino presidenti, finiscono per brandire la Bibbia non come simbolo di fede, ma come strumento di autorità».

Cox, da anni in prima linea nelle battaglie per la giustizia sociale, guarda con preoccupazione alla retorica di questo «risveglio». Teme che dietro il linguaggio religioso si nasconda qualcosa di molto diverso dalla spiritualità autentica. «Quando si negano cibo o cure mediche a chi ne ha bisogno –spiega – o si sostiene che gli immigrati irregolari non meritano assistenza sanitaria, in realtà si sta dicendo: non mi importa delle persone, voglio decidere io chi ha diritto a qualcosa e chi

no». Poi aggiunge: «Questo è l’opposto dello spirito di Cristo, che non restringe l’accesso, ma lo allarga. Nelle Scritture, Gesù accoglie le donne accusate di adulterio, i malati, gli esclusi dal tempio. È l’esatto contrario di ciò che la destra radicale predica oggi, ovvero un’agenda politica mascherata da Vangelo». Il pastore, con tono deciso ma velato di amarezza, asserisce: «Negli ultimi tempi ho sentito sempre più persone discutere di religione attorno alla figura di Charlie Kirk. Dopo la sua morte, molti hanno cercato di legare Dio alle sue parole. Ma se si ascoltano davvero i suoi discorsi e li si confronta con quelli di Cristo, la differenza è netta: Gesù non esclude, non umilia, non fa sentire nessuno indegno». E aggiunge: «Viviamo in un tempo in cui tanti vogliono soltanto proclamare la propria opinione, sentirsi parte di una fazione. Così ho visto la morte di Kirk trasformarsi in strumento politico: usata per raccogliere fondi, cercare consenso, spingere la gente a votare in un certo modo». È questo il pericolo della religione trumpiana: «Non è fede. È manipolazione. E in tutto questo non c’è né amore, né Dio».

Manuela Cavalieri e Donatella Mulvoni
Secondo i dati di Circana BookScan, nel 2024 le vendite di Bibbie sono aumentate del 22%. (Keystone)

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Difesa: cittadini e cittadine in prima linea

Prospettive ◆ Dall’Europa a Taiwan, il confine tra sicurezza e vulnerabilità passa sempre più spesso dalla nostra capacità di organizzarci da soli/e

E in Svizzera?

L’intervista ◆ Ryan Pedevilla ci parla dell’importanza di «rifugi» e scorte alimentari

Romina Borla

L’Europa invita la popolazione a prepararsi al peggio, lanciando o rilanciando manuali e «kit di sopravvivenza», come racconta l’articolo a lato. In questo contesto come si muove la Confederazione? Esistono dei prontuari nostrani, organici ed esaustivi, per affrontare le emergenze?

Nel marzo scorso la Commissione europea ha fatto qualcosa di insolito: con un video che è circolato molto sui social network, Hadja Lahbib, commissaria Ue per l’Uguaglianza e la Preparazione e gestione delle crisi, ha invitato i cittadini dell’Unione a preparare un kit di emergenza per 72 ore, con acqua, cibo non deperibile, medicine e documenti essenziali. Il messaggio era piuttosto semplice, ma anche un po’ preoccupante: in caso di crisi come blackout, disastri naturali, attacchi informatici o perfino conflitti improvvisi ogni persona dovrebbe poter contare per almeno tre giorni solo sulle proprie risorse. Non è paranoia, aveva spiegato Bruxelles, ma realismo. Il tempo medio necessario perché i servizi tornino a funzionare dopo una grande interruzione è stimata in circa 72 ore. E la raccomandazione di marzo si inseriva in una strategia più ampia di Preparedness Union, che punta a rafforzare la resilienza civile in tutta l’Europa. Eppure la mossa ha suscitato un certo spaesamento, con talk show ed editoriali sull’allarmismo europeo. Anche un recente studio della Banca centrale europea, analizzando l’uso del contante durante crisi significative nell’area dell’euro – la pandemia, l’invasione russa dell’Ucraina, il blackout iberico dell’aprile del 2025 e la crisi del debito sovrano greco di dieci anni fa –spiegava che il contante resta un bene rifugio e uno strumento di pagamento essenziale anche in economie altamente digitalizzate. Il suggerimento quindi di tenere in casa contanti utili per «circa 72 ore» veniva trasformato da qualcuno come una specie di «allarme della Bce». Il fatto è che finora, nella coscienza collettiva occidentale, i kit di sopravvivenza e i consigli per le emergenze appartengono a un passato remoto, alle guide militari, a Paesi lontani o ai gruppi che frequentano i corsi di sopravvivenza per complottisti. Ma in molte realtà questo genere di informazioni per la società civile sono tornate da tempo.

A partire dal 2018 il Governo svedese ha ricominciato a distribuire annualmente a milioni di famiglie un opuscolo intitolato If Crisis or War Comes, una trentina di pagine su cosa fare in caso di bombardamenti, attentati, interruzioni elettriche da tenere «in un posto sicuro», per poterlo consultare in qualunque momento. Spiega come procurarsi acqua, come reagire

a un’allerta, come comportarsi se arrivano ordini di evacuazione. È un manuale pratico e sobrio, che tratta il cittadino come parte attiva della Difesa nazionale, un elemento fondamentale per non trasformarlo in spettatore impotente.

Più di recente la Finlandia ha scelto un approccio simile, ma digitale: il Governo ha messo online The Preparing for incidents and crises guide (Guida per prepararsi a incidenti e crisi) dove si trovano istruzioni su come affrontare emergenze di ogni tipo, dai blackout agli attacchi informatici fino a un eventuale attacco militare. C’è anche una sezione dedicata alla disinformazione, con consigli su come distinguere i messaggi ufficiali dalle voci costruite per seminare panico o confusione.

Per la sopravvivenza

È soprattutto dopo l’inizio dell’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Russia, ma anche dopo la pandemia da Covid-19 e altre emergenze simili, che l’idea di una società civile completamente scollegata dal sistema emergenziale pubblico è tornata a essere un potenziale problema. E così anche altri Paesi hanno seguito la strada di Svezia e Finlandia. La Francia, per esempio, ha annunciato la creazione di un «manuale di sopravvivenza» per ogni famiglia, mentre nei Paesi baltici da anni esistono campagne che incoraggiano i cittadini a prepararsi a crisi improvvise, dai blackout ai sabotaggi. In tutti questi casi il messaggio è simile: la Difesa non riguarda solo gli eserciti, ma anche la capacità dei civili di resistere (o meglio, sopravvivere). A spingere in questa direzione non è soltanto la paura della guerra in senso classico, ma qualcosa di più subdolo: la guerra ibrida, che non si dichiara mai apertamente e si combatte nelle infrastrutture, nei server, manipolando le informazioni a disposizione delle persone. Prepararsi significa anche imparare a riconoscere quando l’allarme è reale e quando è costruito.

Dall’altra parte del mondo, in Asia orientale, il principio di precauzione e di coinvolgimento della società nei servizi d’emergenza civili funziona da sempre. In Giappone il cosiddetto «kit di sopravvivenza» si prepara sin dalle scuole elementari, per esem-

pio, per affrontare le catastrofi naturali. Nell’ultimo anno, con l’Amministrazione guidata da Lai Ching-te, anche Taiwan ha portato il concetto di preparazione civile a un livello ancora più esplicito, dopo che per anni servizi privati di addestramento della società civile avevano avuto un boom di iscrizioni.

A settembre il Governo di Taipei, continuamente minacciato da una potenziale invasione militare da parte della Repubblica popolare cinese, ha pubblicato un nuovo manuale di difesa civile, l’ultima versione di un progetto avviato nel 2022. È un documento dettagliato che spiega come reagire in caso di un attacco, dove trovare i rifugi antimissile, come comunicare con le autorità, come mantenere la calma e verificare le informazioni. Include anche consigli su come parlare di guerra con i bambini, come affrontare la paura, come non farsi manipolare dal panico collettivo. Non è un manuale militare, ma un testo di educazione civica per tempi incerti. «Quello che sta facendo il presidente Lai Ching-te non è eccessivo», dice ad «Azione» Hung-jen Wang, professore di Scienze politiche alla National Cheng Kung University di Taiwan e direttore esecutivo dell’Institute for National Policy Research. «In realtà programmi simili esistono già in diversi Paesi nordici e in alcune aree degli Usa: mirano a rafforzare la capacità dei cittadini di difendersi e di mantenere la resilienza durante le crisi. Non si tratta solo di prepararsi alla guerra, ma anche a disastri naturali o emergenze su larga scala. Considerata la crescente ostilità della Cina nei confronti di Taiwan, l’approccio del presidente Lai rappresenta un importante richiamo alla necessità di sviluppare un senso di vigilanza e di difesa collettivo. Ritengo che sia una scelta prudente e necessaria». La logica è la stessa che Bruxelles ha provato a importare in Europa: la preparazione non è catastrofismo, ma una forma di responsabilità. Se gli ultimi anni ci hanno insegnato qualcosa – dalla pandemia alla guerra in Ucraina, dagli attacchi hacker alle catene di approvvigionamento interrotte – è che la normalità è più fragile di quanto pensassimo. E che il confine tra sicurezza e vulnerabilità passa sempre più spesso per la nostra capacità di organizzarci da soli.

«L’opuscolo svedese e la guida finlandese per prepararsi alle crisi sono iniziative interessanti», osserva Ryan Pedevilla, capo della Sezione del militare e della protezione della popolazione del Cantone Ticino. Questi documenti contengono consigli utili per resistere alcuni giorni senza aiuti esterni: scorte d’emergenza, comportamenti anti-panico, modalità di difesa psicologica e di cyber-resilienza, e così via. «Non sarebbe una cattiva idea distribuire documenti simili anche qui. Il vero nodo, però, è come verrebbero interpretati: in un quadro già segnato da notizie quotidiane di conflitti e devastazioni, la popolazione potrebbe intenderli in modo troppo allarmistico. Paesi come la Finlandia vivono una pressione geopolitica più diretta, anche per la vicinanza con la Russia. In Svizzera la percezione del rischio è diversa. Il nostro compito, dunque, è quello di evitare il panico e promuovere consapevolezza». La popolazione deve tenere presente due aspetti, sottolinea il nostro interlocutore. Il primo: l’importanza delle scorte domestiche. A questo proposito si trova online il documento «Scorte d’emergenza – per ogni evenienza» (febbraio 2025), pubblicato dall’Ufficio federale per l’approvvigionamento economico. «Le scorte sono pensate per affrontare una carenza momentanea. Si tratta di predisporre alimenti a lunga conservazione e cibi pronti al consumo, acqua (9 litri a testa), oltre a una radio a batterie, una torcia, candele, fiammiferi e un accendino. È raccomandata anche una riserva minima di denaro contante – utile in caso di blackout – nonché prodotti per l’igiene personale e medicamenti di base». Sull’opuscolo citato è inoltre disponibile un calcolatore (tramite codice QR) per determinare le quantità consigliate in base alle proprie esigenze. Il secondo elemento essenziale, afferma Pedevilla, è l’importanza delle costruzioni protette, chiamate «rifugi» (e, impropriamente, «bunker»). In Svizzera, infatti, ogni abitante deve disporre di un posto protetto, privato o pubblico, raggiungibile in tempo utile dalla sua abitazione, come previsto dalla Legge federale sulla protezione della popolazione. In caso di emergenza, il Consiglio federale può ordinarne «la messa in prontezza», che deve avvenire entro cinque gior-

ni (una misura mai attuata finora). «Questo significa che i rifugi devono essere accessibili e funzionanti entro quel lasso di tempo». L’intervistato spende qualche parola anche sui cosiddetti «kit di sopravvivenza» che si trovano online. «Ritengo che quei pacchetti preconfezionati siano diventati un prodotto poco efficace. Hanno un costo elevato e, pur avendo una lunga durata, non verranno mai utilizzati. Inoltre i cibi liofilizzati inclusi, oltre a essere poco appetibili, non rispondono alle reali esigenze delle persone comuni. È molto più efficace seguire la checklist summenzionata, creare una scorta in autonomia e scegliere prodotti che rispondono davvero ai propri bisogni e che vengono consumati regolarmente». Sarebbe inoltre saggio verificare periodicamente le date di scadenza e aggiornare il proprio piano d’emergenza una volta all’anno (la prova delle sirene d’allarme potrebbe essere un buon promemoria).

Preparare e gestire razionalmente le scorte – dice Pedevilla – rappresenta un contributo concreto che ognuno può dare per superare un’eventuale crisi: conflitti, attacchi cyber, catastrofi naturali quali terremoti e alluvioni, penuria energetica e blackout ecc. «Grazie ai vostri preparativi possiamo impegnare tutte le risorse a disposizione per gestire al meglio i soccorsi e garantire un supporto efficace alla popolazione. Per contro, azioni puntuali o capillari sul territorio richiedono un enorme sforzo logistico e l’impiego di mezzi e persone necessarie altrove».

Il manuale del 1969

Tornando ai manuali di difesa civile, la Svizzera uno ce l’ha avuto: si intitolava appunto Difesa civile. Nel 1967 il Consiglio federale decise di farlo distribuire a tutti i fuochi, come ricorda il sito dell’Archivio federale, ma la spedizione cominciò solo due anni più tardi. Nel contesto della Guerra fredda, il suo scopo era preparare la popolazione a resistere in caso di guerra, invasione o attacco nucleare, promuovendo la cosiddetta «difesa spirituale della Nazione». Il libro fu oggetto di critiche per il suo tono patriottico, poco oggettivo, didascalico e drammatico. In Parlamento si sollevarono dubbi sullo scopo e sul finanziamento del progetto, che costò quasi 4,8 milioni di franchi, superando il budget previsto. Molti cittadini lo accolsero con scetticismo, alcuni lo rispedirono al mittente. Resta un oggetto di studio interessante, espressione del clima dell’epoca.

Prepararsi non è catastrofismo, ma una forma di responsabilità. (Freepik)
Giulia Pompili
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Perché crediamo che il benessere di una comunità si misuri anche da ciò che offre a chi la vive.

Spinelli SA.

Con le persone, ogni giorno.

Giovani assetati di futuro

Marocco ◆ Sanità, stadi e speranze: la sfida della «Generazione Z» al potere Alfredo Venturi

I più responsabili fra i giovani assetati di futuro della «Generazione Z» (alle manifestazioni stanno partecipando principalmente ragazzi e ragazze nati tra il 1997 e il 2012) vorrebbero incanalare la grande rabbia del Marocco entro i limiti della legalità e dunque parlano di protesta non violenta. La frangia più esagitata di loro sostiene che sia finito il tempo delle dimostrazioni tranquille, che le mani non debbano impugnare cartelli rivendicativi ma armi piuttosto. Si tratta o non si tratta di difendere il popolo oppresso? Sta di fatto che l’attuale stagione della protesta marocchina ha registrato le prime vittime. In particolare durante un tentativo di irruzione in una caserma della polizia nei pressi di Agadir, dove si è acceso uno scontro furioso. Il triste bilancio comprende anche centinaia, forse migliaia di feriti fra dimostranti e agenti di polizia. Intanto la protesta dilaga nell’intero Paese. Era nata ad Agadir, dove nel locale ospedale pubblico in pochi giorni otto donne sono morte di parto. Morire di parto è un evento che appartiene al passato, anche in Marocco, e dunque i giovani in cui già ribolle la rabbia per la mancata riforma dell’ordinamento educativo affiancano la sanità a quella originaria ragione di protesta. Il popolo vuole sanità e istruzione, così si legge nei cartelli che sovrastano i cortei. E critica le spese miliardarie per infrastrutture sportive (il Marocco si prepara a ospitare la Coppa d’Africa 2025 e, insieme a Spagna e Portogallo, i Mondiali 2030). In realtà, desidera molte altre cose, sa benissimo che il Paese è potenzialmente destinato a un promettente sviluppo e dunque non vuole che problemi interni ne ostacolino la proiezione verso il futuro. I giovani intendono fare la loro parte affinché il Marocco compia il grande salto, ma prima servono un’energica riforma della sanità pubblica e un insieme di misure che «aggiustino» l’ordinamento educativo. Per questo, perché i ragazzi vogliono una scuola aperta e dinamica, e perché ogni donna che si affida ai medici per far nascere un bambino si veda garantito il diritto di vivere, il furore popolare investe le stanze del potere. Come del resto è accaduto tante volte in passato. Non fu forse la rabbia del popolo a

contrastare il colonialismo? Quel colonialismo che ebbe il suo punto culminante proprio ad Agadir, la città che si trova al centro della crisi attuale. Fu infatti nel porto di questo centro che nel 1905 gettò le ancore la Panther, una cannoniera alla quale il Governo di Berlino aveva ordinato di difendere le ragioni tedesche nella disputa internazionale volta ad assicurarsi la supremazia sul Marocco. Era il tempo in cui le potenze europee si spartivano allegramente il mondo, e questo Paese strategicamente collocato fra l’estremo Occidente arabo-islamico e l’Europa meridionale era fra le prede più ambite.

L’onda della «primavera araba» in Marocco ebbe effetti meno vistosi che altrove a causa della moderazione di re Mohammed VI

A regolare la questione intervenne poi l’Inghilterra, amica della Francia. Erano i tempi dell’Entente cordiale (Intesa amichevole). Preoccupata per l’attivismo tedesco sui mari, Londra ridusse Berlino a più miti consigli. E così il Marocco divenne protettorato francese: proprio contro questa condizione inaccettabilmente subalterna si diresse la rabbia del popolo. La decolonizzazione arrivò dopo la Seconda guerra mondiale che aveva visto i soldati marocchini, i leggendari goumiers, combattere su vari fronti europei al fianco degli alleati. Ora il malcontento del popolo non reclamava più l’indipendenza, ma migliori condizioni di vita.

L’opinione pubblica, soprattutto giovanile, si sentiva una volta ancora schiava. Schiava di una struttura sociale che privilegiava le élites, di una corruzione dilagante che in pratica vanificava ogni slancio progressista, di un assetto monarchico che pesava sulle istituzioni limitandone l’apertura verso le esigenze del popolo. I periodici ricorsi alle manifestazioni di protesta individuavano talvolta bersagli specifici, come nel caso attuale dello scandalo sanitario di Agadir, ma sullo sfondo restava la volontà di rinnovamento di un assetto sociale e politico molto distante dalle aspetta-

tive popolari. Così come nella prima metà del Novecento era in discussione la soggezione coloniale, ora si discuteva della grande occasione perduta, l’indipendenza conquistata senza un mutamento sostanziale di una società quasi altrettanto iniqua di quella che prendeva ordini dal governatore europeo. Tornando al contesto presente, il re Mohammed VI per ora tace, sembra che attenda gli sviluppi della situazione per prendere posizione, mentre il suo primo ministro Aziz Akhannouch, in stretto contatto con lui, parla di dialogo e assicura che le richieste dei dimostranti saranno attentamente valutate. Certamente l’opinione pubblica ricorda benissimo una lunga sequela di valutazioni tutt’altro che attente, e delle «imposizioni dal basso». Poiché talvolta, sia pure in piccola parte, queste imposizioni sono state accolte, rafforzando la convinzione popolare che la piazza rimane un formidabile grimaldello politico, capace di produrre aperture, anche se parziali o solamente simboliche. I giovani sfidano la classe politica che governa il Paese a varare le riforme, convinti che soltanto queste potranno avviare a soluzione i drammatici problemi del Marocco.

Come accadde dopo le manifestazioni del 2011 e 2012 quando nell’onda della «Primavera araba», che qui ebbe effetti meno vistosi che altrove a causa della moderazione di Mohamed VI, la pressione popolare riuscì a ottenere un ritocco costituzionale volto a riequilibrare la distribuzione del potere a vantaggio della parte elettiva delle istituzioni rispetto a quella monarchica. Il sovrano s’impegnò infatti a nominare capo del Governo il candidato voluto dal partito o dalla coalizione che si fosse imposto nelle elezioni parlamentari. In pratica il vincitore, cioè l’uomo scelto dal popolo nel segreto dell’urna. Poiché il progresso procede a piccoli passi, si tratta di un bell’avanzamento rispetto ai decenni in cui governava il Paese un personaggio scelto da gente lontanissima dal popolo. Dapprima dall’autorità coloniale che difendeva interessi stranieri, successivamente dal sovrano rinchiuso nella sua reggia dorata, dove medita solitario sui fasti antichi della monarchia.

Giovani manifestanti a Rabat, capitale marocchina. (Keystone)

Cosa c’è dietro la ferocia di Hamas

Medio Oriente ◆ Mentre in Egitto si riaccende la speranza, uno sguardo al passato per capire le logiche del tragico presente

Riuscirà il piano di Trump a mettere fine al conflitto israelo-palestinese?

Quando il giornale andava in stampa, venerdì mattina, si parlava del raggiungimento – a Sharm El Sheikh, in Egitto – della prima parte dell’intesa per la tregua. Ma lo sguardo e i pensieri del mondo sembravano già spostati sul futuro: si tratta di una vera soluzione? Quanto è plausibile che un’intesa dettata dal presidente americano rimuova due anni di mattanza e cancelli le logiche che l’hanno ingenerata, magari delineando un nuovo tempo depurato della memoria?

A Gaza e Tel Aviv la popolazione festeggia, ma il dolore rimane, con tutte le sue ombre. Il mondo islamico si allinea, con Pakistan, Indonesia e Turchia in prima linea, al piano di pace. Però la memoria e le sue ombre rimangono. E se le Forze di difesa israeliane promettono una tregua e di ritirarsi all’interno della linea gialla, e Hamas di disarmarsi e rilasciare gli ostaggi, già le autorità israeliane rammentano che Al Barghouti, eletto nelle liste di Hamas e suo portavoce dal 2002, non verrà rilasciato. Staremo a vedere. In ogni caso il passato non deve essere dimenticato, come le logiche sommerse che ne hanno determinato gli sviluppi.

Quanto è plausibile che un’intesa dettata da Trump rimuova due anni di mattanza e cancelli le logiche che l’hanno ingenerata?

Partiamo dalla dichiarazione di Andreotti del 2006: «Io credo che ognuno di noi, se fosse nato in un campo di concentramento, e da cinquant’anni fosse lì e non avesse alcuna prospettiva di poter dare ai propri figli un avvenire, sarebbe un terrorista». Aggiungiamo quanto asseriva Mandela: «Abbiamo provato a lottare contro l’Apartheid con gli appelli, le manifestazioni pacifiche, le proteste di piazza. Alla fine non ci sono rimaste che le armi e la violenza. Per questo siamo stati definiti terroristi».

Da queste due affermazioni così lontane nel tempo, molti evincono che talvolta – non sempre – il terrorismo è l’esito disperato di chi non ha più armi con cui lottare. O se non altro di chi alla violenza finisce, disperatamente, per non poter risponde-

re che con la violenza. Nel caso della Palestina e delle sue ripetute Intifada, dapprima con le pietre e le fionde, poi con i guerriglieri armati dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) e infine con i «fanatici di Allah» delle formazioni di Hamas, il processo è sempre stato lo stesso. E l’excusatio con la quale si suole ripetere «non voglio giustificare il terrorismo» è infine più che altro un abile raggiro per affermare: «Non lo giustifico ma lo capisco». Lasciando in una sorta di nebulosa il sottile distinguo tra «capire» e «giustificare» e quasi volendo intendere che «capire» equivalga a «giustificare». Non è il nostro caso.

Detto questo, veniamo a Hamas, che come molti sapranno non è che una costola dei Fratelli Musulmani in terra palestinese. Come nasce Hamas? Come ascende al potere? Come conquista le elezioni politiche del 2006? E per quali ragioni, se vogliamo «capirne» l’evoluzione, non avrebbe potuto svilupparsi se non con il concorso di almeno due fattori fondamentali?

Il terrorismo palestinese nasce

(primo fattore) dalla situazione nei campi-profughi, sorti, a partire dal 1948 (anno della Nakba, il Disastro, esodo forzato di centinaia di migliaia di palestinesi durante la guerra arabo-israeliana), dall’occupazione sionista delle terre palestinesi. Non dunque dal nulla ma, nella sua forma più remota, nel momento stesso in cui venne sancita la nascita dello Stato di Israele, che di fatto comportò lo sfollamento di oltre 700mila persone.

Hamas nasce nel 1987, dopo ormai quasi quarant’anni dalla Nakba e a vent’anni dalla Guerra dei sei giorni

Il «germe» venne dunque gettato allora. E da allora non fece che ingigantirsi e incattivirsi: vivere in «cattività» può infatti ingenerare, oltre alla collera, anche la «cattiveria».

Ma Hamas a quel tempo non esisteva. Né esisteva l’Olp né alcuna altra formazione siffatta. Esisteva solo

2023. E nasce vent’anni dopo che i campi-profughi, a seguito della guerra del 1967, divennero veri e propri spazi concentrazionari, con baraccopoli ormai invivibili e stati di carestia e povertà comprovati, investiti da un crescente sentimento di rancore, non solo nei confronti di Israele, ma dello stesso Olp (fondato nel 1964), le cui promesse di riscatto rimasero lettera morta malgrado dalla Giordania, dove aveva impiantato una sorta di «Stato nello Stato», l’Organizzazione per la liberazione della Palestina promettesse a spron battuto la liberazione.

una situazione pesantissima, la stessa che ne avrebbe un giorno determinata la scaturigine. Ed esisteva (e siamo al secondo fattore) Israele, che se oggi si proclama come il peggior nemico di Hamas, storicamente, almeno fino a tempi molto recenti, non lo è stato. O, almeno, non nei termini che ci vengono spesso proposti dai media. Se non altro perché per moltissimi anni Hamas fu per Israele – secondo la massima «il nemico del mio nemico è mio amico» – se non proprio un «amico», quanto meno un utilissimo strumento per fronteggiare quelli che erano i più consistenti nemici dello Stato ebraico: in primo luogo l’Olp, poi Al-Fatah (Movimento di liberazione nazionale palestinese) e in generale ogni possibile forma di concordia interna alla Palestina, «pericolosissimo» viatico alla nascita di uno Stato autonomo e alla soluzione «Due popoli due Stati». Ma andiamo con ordine. Hamas nasce nel 1987, dopo ormai quasi quarant’anni dalla Nakba e a vent’anni dalla Guerra dei sei giorni. Nasce quindi 36 anni prima del 7 ottobre

Espulsi dalla Giordania nel 1970 («Settembre nero»), i leader dell’Olp capeggiati da Arafat si trasferirono in Libano, lasciando di fatto i campi-profughi palestinesi in uno stato di totale abbandono. E allora ecco che i due fattori sopra indicati arrivarono tragicamente a «sposarsi» con le conseguenze che abbiamo visto. Dopo un incidente tra un camion israeliano e un’auto, in cui perdono la vita cinque palestinesi, nel dicembre del 1987, scoppia la prima Intifada. E visto che Arafat, confinato a Tunisi, è considerato ormai un «traditore», i disperati della rivolta popolare decidono di eleggere un nuovo leader: lo sceicco, cieco e paraplegico, Ahmad Yassin, a sua volta abitante miserabile delle baraccopoli ed espressione quasi paradigmatica dell’ansia di riscatto. Oltretutto Yassin gode, da Fratello musulmano, del radicamento che il movimento ha conquistato, grazie ai suoi sostegni e alle sue opere pubbliche, in tutto il territorio palestinese. Ma proprio qui interviene il secondo fattore: Israele non guarda male all’ascesa del movimento islamista. Tant’è che comincia persino a foraggiarlo. E allo stesso modo, da lì in avanti, considererà in un certo senso Hamas, in quanto espressione di una contrapposizione con l’Olp che non potrà portare che all’instabilità del Paese. Senonché, da questa costola dell’Islam politico, sarebbe nata una forza armata integralista tesa alla distruzione stessa di Israele, non solo alla ridefinizione concordata dei confini (com’era per l’Olp). Allora il gioco sarebbe sfuggito dalle stesse mani della governance israeliana, con tutte le conseguenze che conosciamo: dall’assassinio di Yassin nel 2004 a tutti gli eventi successivi, che la sua morte non fece che radicalizzare.

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Combattenti delle Brigate Al-Qassam, l’ala militare di Hamas. (Keystone)
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L’Afghanistan cerca spazio nello scacchiere globale

L’analisi ◆ Mentre i diritti all’interno del Paese vengono negati sempre più, Kabul sviluppa legami strategici con Mosca e Pechino

Le luci si sono spente di colpo, senza preavviso. Così come le televisioni, le radio e i telefoni. In una notte di fine settembre, l’Afghanistan piombava di colpo dentro a una notte ancora più nera, ancora più lunga di quelle precedenti. Al posto del Paese, una pozza di silenzio e di oscurità, un’oscurità interrotta a tratti soltanto da fuochi e candele. Internet scomparso, aeroporti chiusi, telefoni fuori uso, bancomat bloccati, sistema bancario al collasso. Durante il blackout, durato un paio di giorni, i talebani non hanno fornito spiegazione alcuna. Prima hanno negato che ci fosse un blackout, poi si sono appigliati a problemi tecnici, infine a presunte «ragioni morali»: attraverso le Rete difatti le persone possono entrare in contatto con il pericoloso e peccaminoso resto del mondo. Intanto in tutto l’Afghanistan le voci si rincorrevano, fantasiose e incontrollate.

In una notte di fine settembre il Paese piombava di colpo dentro a una notte ancora più nera e lunga di quelle precedenti

Di base, nessuno credeva a una sola parola dei talebani. Sembrava una prova generale, dicevano tutti: un promemoria del fatto che lo Stato può staccare la spina quando vuole e riportare il Paese nel Medioevo. Il mondo ha guardato per un attimo, ha parlato dell’ulteriore privazione del diritto allo studio per donne e ragazze, poi ha distolto lo sguardo. Nell’oscurità, però, secondo i locali, la vera storia era altrove e andava cercata nel riassetto geopolitico che sta riportando l’Afghanistan al centro delle rotte del potere. Le prime voci riguardavano Bagram, la base militare abbandonata dagli americani. Costruita dai sovietici, ampliata dagli Stati Uniti, lasciata in una sola notte prima della ritirata ignominiosa. Quando Donald Trump parla di «riprendere Bagram», non è soltanto retorica da comizio. Da Bagram, gli Stati Uniti potrebbero tornare a guardare dentro l’Asia centrale, esercitare pressioni sull’Iran, osservare la frontiera occidentale della Cina e tenere d’occhio il ventre meridionale della Russia. Rimane il posto di ascolto perfetto. I talebani lo sanno, ed è per questo che trattano Bagram come un trofeo. Riaprirla

agli americani, anche sotto altro nome, sarebbe un suicidio politico. Eppure l’idea torna ciclicamente a Washington perché, in termini strategici, Bagram è l’unica casella sulla scacchiera che conta ancora. Anche se diventa operativa soltanto passando per il Pakistan. Ogni rifornimento, ogni sorvolo, ogni accesso dipende infatti dallo spazio aereo e dalla logistica di Islamabad. Karachi è la porta d’ingresso, i valichi di Torkham e Chaman le sue arterie interne.

L’Iran è chiuso, le vie del nord sono sotto influenza russa e cinese. Senza il Pakistan, Bagram resta un fantasma di cemento. Per questo Islamabad torna indispensabile. Washington lo sa, e lo tratta come un partner di necessità; il Pakistan lo sa meglio, e ne fa un’arma diplomatica: concede o nega passaggi, vende collaborazione in cambio di aiuti e riconoscimento. È la vecchia simmetria di interessi che, ogni volta, riporta gli Stati Uniti nella stessa trappola strategica. Nel frattempo, la Russia ha occupa-

to silenziosamente lo spazio lasciato dall’Occidente, fino al punto di riconoscere i talebani come Governo legittimo. Ufficialmente per contrastare l’ISIS-K e stabilizzare la regione; ufficiosamente per proiettare influenza a sud, dentro un’Asia centrale fragile. L’Afghanistan non confina con la Russia, ma il Tagikistan sì: lì Mosca ha costruito la sua barriera, una rete di basi, droni e radar che sorvegliano il confine poroso con il nord afghano. È da lì che arrivano i segnali più inquietanti. Da anni, l’intelligence russa registra movimenti di uomini e armi lungo il corridoio afghano: tagiki, uzbeki, kirghisi partiti per la jihad e ora di ritorno, infiltrati nei territori ex sovietici. Per questo il Cremlino tratta con i talebani, li riconosce, li accoglie. Finché combattono l’ISIS-K, sono un male minore: in cambio, Mosca apre canali economici e promette investimenti.

Nel frattempo, la Cina si muove con discrezione, concentrata su rame, litio e corridoi economici, mentre l’I-

ran agisce ai margini, tessendo legami e scambi energetici e costruendo relazioni che trascendono la divisione secolare tra sciiti e sunniti. Con i talebani, Teheran ha scoperto una convergenza di interessi più forte delle differenze dottrinali. Entrambi vogliono la fine della presenza americana nella regione, entrambi diffidano dell’ISIS-K, che considera eretici gli uni e traditori gli altri. In questa intesa prudente si percepisce anche l’ombra di Mosca, che con entrambi mantiene un dialogo costante: con l’Iran per necessità energetiche e militari, con i talebani per contenere l’instabilità che risale dal sud. La Russia spinge perché Teheran e Kabul non si scontrino, ma si bilancino. Così, pur partendo da tradizioni opposte, Iran e talebani condividono oggi una postura simile: anti-americana, anti-islamista radicale e sostanzialmente allineata al disegno russo di un ordine post-occidentale. E l’Afghanistan torna così a essere ciò che è sempre stato: un campo intermedio tra impe-

ri, una frontiera dove la geografia decide più della politica. Il potere formale è dei talebani ma ogni decisione passa per altri centri: Mosca a nord, Teheran a ovest, Pechino a est, Islamabad a sud. Washington osserva, calcola e tenta di rientrare dal corridoio che da Karachi porta a Bagram. Intorno, le ex Repubbliche sovietiche oscillano tra paura e opportunismo. I talebani, dal canto loro, hanno imparato a vendere stabilità come una merce. Offrono calma ai vicini in cambio di riconoscimento, sicurezza in cambio di investimenti. La Russia vuole frontiere tranquille, l’Iran un disordine gestibile, la Cina silenzio lungo il Wakhan. Tutti pagano in valuta diversa: gas, infrastrutture, legittimità. Il blackout ha mostrato che i talebani possono spegnere il Paese e riaccenderlo quando serve, per chi serve. Intorno, le potenze ridisegnano la mappa. L’Afghanistan non produce stabilità, la vende. E sopravvive, come sempre, nel disordine che promette di contenere.

Quando il blackout è finito – e i servizi sono ripresi –sono scoppiati festeggiamenti. Nell’immagine un uomo di Kandahar. (Keystone)
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Da figlia di un operaio a sindaca di Genova

Italia ◆ Ritratto di Silvia Salis, volto nuovo di una sinistra in cerca di identità, che si mostra molto attiva sul piano nazionale Angela Nocioni

Silvia Salis (nella foto) ha quarant’anni, dieci titoli italiani nella specialità olimpica del lancio del martello e gli occhi della politica italiana addosso da quando, il 26 maggio scorso, è stata eletta sindaca di Genova con il voto di un centrosinistra ampio (dai centristi di Matteo Renzi ai Cinque stelle) e ha attraversato il centro della città con il figlio di due anni in braccio insieme a una folla in festa cantando Bella ciao «La mia idea di politica è l’unione del campo progressista», ha detto a una delle sue prime uscite da sindaca. E da allora, dell’atleta finalista ai Mondiali e medaglia d’oro ai Giochi del Mediterraneo del 2009, si parla in Italia come della grande promessa: l’astro nascente della sinistra. La città di Genova, intanto, ha acquistato visibilità, è diventata il modello a cui si guarda per capire il barometro della politica nazionale nel futuro prossimo. Da Genova è partita a fine agosto la mobilitazione di attivisti via mare per Gaza.

Al porto di Genova sono stati raccolti gli aiuti umanitari per i palestinesi poi affidati alla Global Sumud Flotilla, la missione umanitaria internazionale con l’obiettivo di rompere il blocco israeliano sulla Striscia e attirare l’attenzione mediatica sulla carneficina di civili palestinesi in corso, una cinquantina di barche poi assaltate dalla Marina israeliana. A Genova tantissime persone hanno portato in due giorni tonnellate di cibo non degradabile in porto. Gli aiuti sono stati presi e smistati da volontari organizzati alla perfezione dagli scaricatori del porto, i leggendari camalli genovesi (sono una casta operaia dal 1300, sanno come si fa).

«Certo che vengo con la fascia tricolore, perché Genova è orgogliosa della Global Sumud Flotilla. I veri patrioti siamo noi»

C’era anche la sindaca a fine agosto a fare i pacchi per la Flotilla. C’era lei a parlare ai 20mila genovesi venuti in corteo a salutare le barche degli attivisti pronte a salpare e benedette in un’ovazione di folla dall’arcivescovo di Genova, monsignor Tasca. Silvia Salis in camicia bianca quella sera, dal palco: «Mi hanno chiesto: sindaca ma va con la fascia tricolore? E certo che vengo con la fascia tricolore, perché Genova – che è la città della Resistenza – è orgogliosa della Flotilla. I veri patrioti siamo noi». Tono fermo, ottima tenuta della scena: un comizio da leader. Giù, tra le persone che applaudivano, correva un bisbiglio: «Immagina Silvia che glielo dice a Meloni: siamo noi i patrioti. Ci vuole lei contro la destra».

La sindaca viene da una famiglia operaia della vecchia Genova. Il padre – molto amato, suo figlio porta il suo nome, Eugenio – era il custode del campo sportivo in cui lei si allenava. Lei non ha mai preso posizioni radicali, anzi, è considerata una energica ma molto cauta, una riformista che potrebbe andare bene anche a destra, tanto che il presidente di centrodestra della Regione Liguria, Marco Bucci, ex manager ed ex sindaco di Genova, ha commentato: «Avremmo potuto candidarla noi». Insieme alla sindaca di Genova si è fatto vedere spesso Matteo Renzi, alle prese con la costruzione di una sua creatura politica di centro. I detrattori a sinistra di Salis so-

spettano sia la versione femminile dell’ex presidente del Consiglio fiorentino, e i detrattori a destra la criticano soprattutto per presunta inesperienza politica, ambiguità su temi sensibili e scelte considerate ideologiche o incoerenti. Non pochi temono che lei, se candidata premier, possa traghettare voti centristi e cattolici da destra a sinistra. Sperano anche che, in primarie del centrosinistra in cui si presentasse anche la riformista Salis oltre alla segretaria del Pd Elly Schlein, più radicale, e al leader dei Cinque stelle Giuseppe Conte, i voti del Pd si dividerebbero tra le due avvantaggiando di fatto Conte.

Salis intanto si muove in modo accorto, parla con tutti ma resta vigile in modo da non farsi «usare» da nessuno. Quando sono sbocciati titoli su «Salis da Renzi alla Leopolda», la kermesse politica annuale renziana, la sindaca è salita sul palco di Renzi a Firenze parlando dell’idea di un «Ministero del Futuro», ma prima si è preoccupata di andare a una conferenza di Alleanza verdi sinistra, l’area più a sinistra del Parlamento italiano, a dire «Vi ringrazio ancora per avermi sostenuto alle elezioni comunali, è stato importante avere una coalizione così forte». Il suo attivismo sul piano nazionale rafforza l’idea che a fare la candidata del centro sinistra ci pensi davvero. Nell’amministrazione di Genova può contare su un vicesindaco competente e preparato, Alessandro Terrile, del Pd, che ha cinque deleghe: assessore al Bilancio, Società partecipate, Sviluppo Economico sostenibile, Economia del Mare, Rapporto tra porto e città. Un braccio destro capace di tessere relazioni e di reggere grossi carichi di lavoro.

Tra le prese di posizione di Salis ce ne sono due che fotografano il suo modo di governare la città. Ha mostrato disponibilità a valutare il forno elettrico dell’ex Ilva (un impianto che produce acciaio senza usare carbone, ma tramite energia elettrica e preridotto di ferro) come parte del rilancio industriale di Genova, chiedendo garanzie e trasparenza. Forno che però è inviso a molti: «Chiedo ai cittadini di fidarsi un po’ di più, non tanto di me, ma della scienza»… Mentre il 25 giugno scorso il Comune ha registrato in anagrafe 11 figli nati da coppie di don-

ne. «Era semplicemente mio dovere», ha commentato la leader. «C’è stata una sentenza della Corte Costituzionale sul diritto alla doppia maternità, ho solo uniformato le pratiche della mia città, non ho fatto nessuna con-

cessione. Spesso quando si fanno queste cose, poi arrivano i leoni da tastiera e gli idioti che ti dicono: “Eh, ma c’è ben altro da fare”. Come se riconoscere i figli ti impedisse di occuparti del lavoro, dei servizi sociali, della sicu-

rezza. È un modo stupido di affrontare le cose». Dice ad «Azione» un uomo d’affari genovese, cattolico e di sinistra: «Me la ricordo bene la Silvia già da ragazzina che si allenava al campo, è simpatica e brava. Ma mi dite cosa avrebbe di sinistra?». Il padre, rispondono di solito i genovesi. È morto improvvisamente a febbraio, la figlia gli ha dedicato la vittoria elettorale. Di lui ha detto: «Noi abitiamo l’uno di fronte all’altro, mia madre mi ha chiamata perché al mattino lui aveva gli occhi aperti ma non sentiva e non vedeva più, aveva già perso alcune funzioni, per un’emorragia cerebrale partita nel sonno». Della candidatura dice: «Gli ho parlato il venerdì e lui domenica è andato in coma. È stata l’ultima cosa che sono riuscita a raccontargli: che me lo avevano proposto. Era favorevole, ne era contento. È sempre stato un uomo profondamente di sinistra, era iscritto al Pci, aveva passione per la politica e per le cose che riguardano la collettività. Il fatto che non abbia visto niente di quello che è successo è un dolore, perché la figlia di un operaio che diventa sindaca di Genova per lui sarebbe stata una grande soddisfazione. Ha chiamato suo fratello e gli ha detto: “C’è una cosa che ti devo dire della Silvia ma non te la posso dire al telefono”. Una cosa molto dolce, come se fosse un segreto importantissimo».

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CULTURA

Il mondo secondo Theodoros

Un’epopea visionaria di Mircea Cărtărescu: tremila anni di storia, misticismo e avventura, da Salomone ai Beatles

Pagina 23

Voci e traduzioni nell’editoria ticinese Narrazioni, saggi cinematografici, poesia, tra le nuove uscite che si offrono come spunti di riflessione e intrecci narrativi

Pagine 24-25

La via gioiosa all’Espressionismo

L’anima sonora del cinema

Dai capolavori di Lang e Hitchcock al nuovo film di Paul Thomas Anderson, come il suono e il suo silenzio diventano narrazione

Pagina 27

Mostre ◆ Per festeggiare il suo decimo anniversario, la Fondazione Braglia espone i più luminosi capolavori di Kandinsky, Jawlensky, Werefkin e di altri importanti esponenti di questa corrente di inizio Novecento

«Il collezionista è un animale strano: è geloso delle sue opere e non gli importa tanto cosa colleziona, quanto la collezione. Per dire, c’è gente che raccoglie tappi della Coca-Cola e magari ne ha 40mila, eppure non si ferma». Non manca di autoironia Gabriele Braglia, mentre si sofferma radioso davanti a un quadro di Emil Nolde. Collezionista fino al midollo, ha condiviso questa passione con la moglie Anna, e il frutto del loro entusiasmo è oggi distribuito sui due piani della nuova mostra proposta dalla Fondazione omonima a Lugano, per celebrare dieci anni di attività: Kandinsky, Jawlensky, Werefkin e i maestri dell’Espressionismo.

Ti aggiri tra quei capolavori dell’Espressionismo tedesco, senza riuscire a decidere quale ti piaccia di più, e ringrazi il dio delle belle arti per aver inventato, oltre agli artisti, questi «animali strani» che ci permettono di godere delle loro opere. E in questo caso, sembrano contraddire il sentire comune.

Dietro ogni quadro della Fondazione Braglia c’è una storia personale: «Tutto palpita qua dentro, perché ogni opera è legata anche alla nostra vita», osserva Gabriele Braglia

Infatti, si tende a pensare che l’Espressionismo abbia generato soprattutto opere cupe, come osserva anche la direttrice artistica Gaia Regazzoni Jäggli. E si capisce: si tratta pur sempre di un movimento nato tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, in un periodo segnato dalla crisi dell’Impero tedesco, dalla Prima guerra mondiale, dalla povertà, dall’inflazione e dall’instabilità politica della Repubblica di Weimar. Un’epoca dominata dalla paura per un futuro incerto (come oggi, del resto), capace di generare un clima di angoscia esistenziale, ben espresso dai colori violenti, dalle forme deformate e dalle spigolosità di opere come il trittico La guerra (1929–32) di Otto Dix, che mostra gli orrori del conflitto: soldati scheletrici, quasi spettrali, avanzano immersi in una nebbia tossica. Invece, qui la musica è diversa. La nuova mostra della Fondazione Braglia allarga il cuore: le opere esposte parlano soprattutto di gioia. Sarà che per Gabriele e Anna Braglia il criterio fondamentale per l’acquisizione dei quadri è «il piacere che ci danno». Basti pensare che la raccolta è nata dall’innamoramento per un piccolo gioiello: Erinnerungen an Romanshorn (Ricordi di Romanshorn), eseguito con

penna, inchiostro di china e acquerello da Paul Klee. «Il quadro ci ha colpito al punto che siamo saliti in auto e siamo andati a Romanshorn, sulle rive del lago di Costanza, per vedere proprio il porticciolo dipinto da Klee. Poi abbiamo comprato l’opera», racconta Braglia. Sulla scia di questa scoperta (in un’epoca in cui nell’area italofona l’Espressionismo tedesco era ancora po-

co conosciuto), si è formata una collezione che ha via via assemblato tele e disegni di quasi tutti gli esponenti di questo capitolo dell’arte: Ernst Ludwig Kirchner, Erich Heckel, Hermann Max Pechstein, Otto Müller, Emil Nolde. E poi i protagonisti del gruppo Der Blaue Reiter (Il Cavaliere Azzurro): Wassily Kandinsky, Franz Marc, August Macke, Gabriele Münter, Alexej von Jawlensky,

Marianne von Werefkin, Heinrich Campendonk, Lyonel Feininger (che nel 1924 aderisce a Die Blaue Vier) e il già citato Paul Klee. «Guardate questo Kandinsky – ci stuzzica Braglia – è anomalo: le pennellate dell’artista sono assolutamente incredibili. Questo Jawlensky, invece, è l’ultima opera che abbiamo acquistato: ci è stata ceduta dalla nipote». Tutto palpita qua dentro. «E sa per-

ché? Perché dietro ognuna di queste opere c’è una storia legata anche alla nostra vita». L’amore per il genere è stato davvero fecondo. Già la prima mostra della Fondazione (dieci mostre e dieci anni fa!) era dedicata all’Espressionismo: Nolde, Klee & Der Blaue Reiter (2015). «Ma da allora la passione per l’arte ci ha “costretti” ad acquistare una ventina di altre opere, che oggi sono perfettamente integrate nella collezione».

La collezione Braglia, nell’acquisizione delle opere, non segue le mode o il mercato: si affida all’intuito e alla passione

Tra queste, Ausruhende Bauern (Contadini che riposano) di Kirchner, 1919. «La chiostra angolosa dei monti, le forme appuntite e aggressive dei cespugli d’erba infondono una evidente tensione nel paesaggio. E cariche di tensione – a dispetto del loro riposo – sono anche le due figure di contadini, sprofondati in un sonno pesante che ci ricorda la loro fatica», scrive Elena Pontiggia nella scheda dedicata sul catalogo della mostra. «Curioso – osserva Braglia – che il titolo parli di contadini al maschile, mentre con tutta evidenza la figura distesa sulla sinistra è quella di una donna».

O L’Allée di Marianne von Werefkin (1917), dove «il viale è una piccola opera che riesce a evocare l’interiorità di una donna passionale, quella della russa Werefkin, che per tutta la vita ha creduto, con la sua arte “spirituale”, di poter salvare il mondo dalla ristrettezza opprimente del materialismo», osserva Mara Folini sempre nel catalogo. Non è solo un viaggio emotivo, quello proposto dalla Fondazione, che per celebrare il decennale offre ingresso gratuito. «In queste due sale – osserva il gallerista e promotore dell’Espressionismo tedesco Michael Beck – è possibile vedere tutta la storia dell’Espressionismo. Per un tedesco come me, questo è un luogo da sogno. Ma è anche un percorso ambientato in un’incredibile atmosfera da salotto, che andrebbe proposto alle scuole per la completezza della sua offerta».

Dove e quando Kandinsky Jawlensky Werefkin e i Maestri dell’Espressionismo, Fondazione Gabriele e Anna Braglia, Lugano (Riva Antonio Caccia 6a). Orari: gio-ve, sabato 10.00-12.45 e 13.45-18.00. Entrata gratuita. Fino al 20 dicembre 2025. www.fondazionebraglia.ch

Alexej von Jawlensky, Testa astratta: fiaba araba, 1925 ca., Olio su cartone, 41,5 x 31,5 cm, Fondazione Gabriele e Anna Braglia, Lugano. (© Alexej von Jawlensky – Archiv S.A., Locarno)
Carlo Silini

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Un libro-mondo alla Márquez

Romanzi ◆ Theodoros di Mircea Cărtărescu è un’epopea visionaria che

Provate a immaginare un romanzo «totale». Un epos che, come un’enciclopedia illustrata, narri tremila anni di storia, dal re Salomone sino ai Beatles e oltre. Grosso modo è questa la trama suggestiva, poetica, mistica e scientifica al contempo di Theodoros, l’ultima e immensa fatica dello scrittore rumeno Mircea Cartarescu.

Tradotto in modo eccellente da Bruno Mazzoni e pubblicato da Il Saggiatore, il libro racconta prima di tutto cinquanta anni di vita di Theodoros. Un ragazzaccio che apre gli occhi il 4 febbraio 1818 in quel di Ghergani, villaggio della Valacchia al sud della Romania. Suo padre è un artigiano; sua madre una domestica greca che culla Theodoros al suono dei canti dell’Iliade e dell’Odissea omeriche. Partito come garzone del boiardo di Ghergani, il ragazzo lascia i boschi della Romania per trasformarsi in un pirata degli arcipelaghi greci. Da qui in poi Cartarescu dipinge un affresco abbacinante del Levante, l’antico bacino dell’Europa mediterranea che dalle isole greche e turche abbracciava le coste africane.

La cornice storica invece in cui Theodoros cresce da pirata ribelle sino a crudelissimo imperatore etiope è il 19esimo secolo. Dell’epoca vittoriana Cartarescu narra non solo gli imperi e i loro declini, ma anche gli scontri di-

plomatici e le razziste guerre coloniali. E la nascita del più velenoso virus politico moderno: la febbre acida del nazionalismo. «Non ho voluto ricostruire la storia moderna, spiega l’autore, ma costruirla in modo postmoderno e surrealista». In effetti, fra le mille gesta e disavventure di Theodoros, spinto sempre più in alto (e verso l’Africa) dalla sua immane ambizione politica, ecco che fra le pagine spuntano fi-

gure come John Lennon; o le bottigliette della Coca-Cola, e poi le storie della prima penna stilografica, quella dell’inventore degli ascensori o le più complesse teorie dei quanti. Cartarescu è uno dei rari scrittori che studia con passione le scienze e analizza le scoperte tecnologiche. «Io non vedo alcuna differenza significativa tra scienza e magia», sintetizza lui. Con la non lieve aggiunta che

dipinto a olio su tavola (158x120 cm) di Albrecht Altdorfer, 1529, conservato nell’Alte Pinakothek di Monaco. (Wiki)

Theodoros è anche il libro senza dubbio più religioso dello scrittore di Bucarest. Nella sua sete viscerale di potere, infatti, Theodoros sbarca in Etiopia entrando nei panni del brutale imperatore Tewodros II, un despota sanguinario alla caccia dei misteri del Kebra Nagast, il libro sacro della Chiesa etiope. È in quelle pagine mistiche, riraccontate da Cartarescu, che si dipana «una delle più belle storie d’a-

Archivi sensibili e resistenze emotive

more di tutti i tempi», come la definisce lui. E cioè quella fra Makeda, la suadente regina di Saba e Salomone, il re di Gerusalemme. Di questa notte d’amore fra la regina etiope e il più saggio dei re ebrei nella Bibbia non si fa parola. Ma è lo stesso Cartarescu a confidarci che «i quattro capitoli che descrivono Gerusalemme, il tempio, il re e la regina, sono i miei preferiti in Theodoros».

Theodoros è uno scintillante romanzo-enciclopedia più esotico che mistico, al contempo dotto, storico e persino attuale nelle sue derive politiche. Non a caso il modello a cui l’autore si è ispirato per la vita, morte e miracoli di Theodoros è l’opera più leggendaria della letteratura sudamericana. «Mentre scrivevo la storia di Theodoros, conclude Cartarescu, avevo in mente Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Márquez. Volevo trovare un mondo fantasioso come Macondo, ma con l’immaginario bizantino, i dipinti delle chiese ortodosse, le storie della mistica medievale». Esperimento riuscito. E invitiamo il lettore a lasciarsi risucchiare nelle avventure del folle, quanto brutale, Theodoros.

Bibliografia Mircea Cartarescu, Theodoros traduzione di Bruno Mazzoni, Il Saggiatore, 2024

Teatro ◆ Le zone d’ombra della memoria contemporanea, al centro della 34esima edizione del Fit di Lugano

Il tema della memoria è l’ossessione del nostro tempo. Una giusta e doverosa ossessione visto che il rischio è l’oblio o peggio l’amnesia programmata come risultato di spinte reazionarie, fra silenzi e censure, declinazioni tendenziose della Storia per superficialità e ignoranza, per indifferenza o ignavia. Fortunatamente c’è ancora l’indignazione dell’intelligenza, della cultura, la consapevolezza del presente di persone perbene che non accettano la manipolazione.

Alla memoria e al presente era dedicata la 34esima edizione del Festival internazionale del teatro e della scena contemporanea (Fit) da poco conclusasi a Lugano dopo dieci giorni di teatro, performance, danza e incontri orientati alla scoperta di nuovi linguaggi e modalità artistiche spesso in contrasto con le convenzioni e destinati a un pubblico trasversale.

Come per ogni festival che si rispetti anche al Fit ci sono spettacoli che piacciono di più e altri un po’ meno, spettacoli più coerenti con la linea editoriale e altri no. Tuttavia

è un festival che promette sempre molte emozioni e che vuole riuscire a sorprendere grazie a un’offerta che i cartelloni tradizionali non possono proporre per non destabilizzare il pubblico degli abbonati, generalmente più conservatore.

A festival ormai concluso pos-

siamo gettare uno sguardo su alcune produzioni fra le più interessanti, anche se al momento di andare in stampa manca all’appello qualche spettacolo.

Ci piace iniziare con due artiste nostrane a cui il Fit tiene particolarmente: Francesca Sproccati e Camilla Parini. Con Venir meno, performance proposta in apertura, la Sproccati ha messo l’accento sul rapporto fra la sua storia personale (il bisnonno partigiano) e una dimensione onirica ancestrale, un sogno ricorrente nella speranza di una vita che possa superare le ingiustizie, senza odio né violenza, nel segno di una resistenza sostenibile. Avvolta dalla penombra, con sottofondi elettronici (Léo Colin) e riflessioni in vocoder, Francesca disegna una trama di memorie attorno alla rivendicazione di poter riavere uno spazio per sognare.

Camilla Parini ha inaugurato Sentieri selvaggi, un progetto triennale dedicato a giovani fra i 17 e 22 anni con una presentazione dal titolo accattivante: Se volevo vivere sotto pressione nascevo pentola. Un lavoro che è una sorta di manifesto di sensibilità e vulnerabilità raccolte coinvolgendo adolescenti di varia provenienza. E il risultato è un percorso intenso e toccante nell’ascolto dei giovani attraverso le pagine di loro diari scritti per l’occasione.

Fra gli spettacoli ad appassionare il pubblico non possiamo dimenticare Asteroide di Marco D’Agostin, un originale omaggio al musical con una trama bizzarra, immersa nella paleontologia, dalla ricerca delle cause dell’estinzione del Tirannosaurus Rex per poi annegare nel ricordo di un amore finito male. 80 minuti di generosa prova d’attore, danzatore, cantante con una sintassi teatrale come manifesto di una nuova generazione artistica.

Anche quest’anno il Fit non ha fatto mancare gli appuntamenti con il teatro documentario, in particolare con El pacto del Olvido di Sergi Casero sulle pilotate amnesie post-franchiste e Voices from the Debris di Mila Turajlić, una meticolosa ricerca negli archivi cinematografici della ex Jugoslavia. Rimarrà infine negli annali la maratona per i due drammi di Cechov Tre sorelle e Il gabbiano con la regia di Carmelo Rifici, un dittico del grande autore russo riletto alla luce di una memoria che sfida l’attualità del presente.

alleAccanto
Leukerbaddi
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Dallo spettacolo
Venir meno. (Fit: Julie Folly far Nyon)

Quell’orlo malinconico da cui si vede

Poesia ◆ Tradotta in tedesco da Christoph Ferber la raccolta postuma di Giorgio Orelli

A dodici anni dalla scomparsa del suo autore esce oggi per la prima volta in edizione autonoma l’ultima, per quanto incompiuta, raccolta poetica di Giorgio Orelli. La notizia è di quelle che meritano di essere festeggiate: nei cataloghi delle biblioteche, oltre che in quello della casa editrice Limmat di Zurigo, d’ora innanzi esisterà infatti come titolo indipendente L’orlo della vita, la citazione dantesca che Orelli aveva scelto per raccogliere i versi dei suoi anni più estremi, scritti dall’orlo di un’esistenza già proiettata verso un «di là» intriso di mistero e malinconia, e contemporaneamente così pieni di lontane memorie giovanili, tra Airolo, Prato, Faido e l’Ascona del Collegio Papio.

Alcuni di questi testi, conservati dattiloscritti in una cartelletta mostrata a pochi intimi, erano stati anticipati prima del 2013 in edizioni d’arte, volumi miscellanei o fascicoli di riviste (su «Viceversa», «Poesia», «Cenobio»), ma ancora mancava il disegno complessivo della raccolta, a cui l’autore continuò a lavorare fino alla fine dei suoi giorni senza purtroppo poter concludere l’opera.

In occasione dell’uscita dell’Oscar Mondadori con Tutte le poesie, nel 2015 Pietro De Marchi si era sobbarcato l’ardua fatica di studiare e pubblicare quelle carte con criteri filologici rigorosi e prudenti, nel pieno rispetto – per quanto possibile – della volontà dell’autore. Nonostante il fatto che i testi fossero quindi disponibili sin da allora ai lettori italiani, anche se un po’ nascosti tra le pagine finali dell’Oscar, fa ben altro effetto ritrovarseli oggi tra le mani in questa nuova veste, selezionati, curati e tradotti con competenza da un professionista della caratura di Christoph Ferber. Con questa pubblicazione si può ben dire insomma che l’Orlo inizi finalmente una sua propria vita editoriale.

Parpaglioni Criviasco

Satire della Penagia

Officina dei libri

Si trova un’allegria scomposta, quasi da fiera di paese, nelle pagine della Satira della Penagia di Parpaglione Criviasco, a cura di Gabriele Alberto Quadri (da poco scomparso), per le edizioni Officina dei Libri. Non racconti, ma piccole «istantanee deformate», scritte come se la lingua fosse un impasto di burro e dialetto, di oscenità e invettiva, di immagini barocche e schiette risate da osteria. È una voce che non cerca equilibrio, ma esuberanza: parole inventate, latinismi improvvisi, allusioni sboccate, fino a trasformare la satira in una festa linguistica. Dietro questa furia comica, però, non c’è solo la voglia di scandalizzare. C’è una tradizione che riaffiora: i poeti giocosi medievali, il carnevale rinascimentale, la Roma di Belli, il gusto di Rabelais per la corporeità. L’autore si inserisce in questa linea con un tono personalissimo, capace di alternare la trivialità di una «Lode della gnocca» (in dialetto con traduzione italiana) alla malinconia visionaria di un’insonnia notturna. La penagia, antico strumento caseario, diventa così emblema di una scrittura che sbatte, impasta e centrifuga la materia della vita. Si ride, si arrossisce, si resta soggiogati non dallo sguardo senza pudori, ma dal divertimento linguistico.

L’impresa non deve essere stata delle più semplici, se è vero che oltre alle difficoltà insite nella lingua poetica di Orelli (fitta di rimandi cólti alla più grande tradizione italiana: da Dante a Leopardi passando per Ariosto) nel libro compaiono alcuni testi composti in dialetto leventinese che Ferber, nativo di Sachseln, ha pensato intelligentemente di tradurre nella sua stessa parlata materna, l’Obwaldnertütsch. Fa sorridere il pensiero che a volte, persino per un buon conoscitore del «dialetto della ferrovia» quale mi ritengo, sia quasi più comprensibile la nuova versione che non l’originale orelliano: «I

Piozzini e Wermelinger

Castelli di sabbia. Sangue

Sabbia e altre aride cose

Salvioni Narrativa

Nel Lago Maggiore un cadavere riaffiora in circostanze enigmatiche: sedato, infilato in un salvagente e affondato nella darsena di una villa prestigiosa. L’ispettore Alberto Corti, con l’aiuto dell’anatomopatologo

Loculi e del capitano della polizia lacuale, si misura con un’indagine che non concede scorciatoie. In Castelli di sabbia (Salvioni, 2025), il losonese Marco Piozzini e Amédéo Wermelinger, professore a Neuchâtel, costruiscono un intreccio che attraversa la cronaca e si addentra nelle ombre della memoria collettiva, fino a lambire l’eco ancora viva dell’Iniziativa Schwarzenbach. Dopo Lago Maggiore – genesi e Sabbie del passato, premiato allo Stresa 2024, gli autori confermano la loro scrittura solida e tesa, mentre Corti si impone come investigatore capace di leggere le pieghe della storia dentro a un delitto.

’l so be’ / cus ti péisat, ti péisat cu i varés / un grèi di chela murtadela» (reso dal traduttore con «Ich wäiss es, / was tänksch, dui tänksch, äs gheerti da / no ä chli Mortadella drzuä»). Non parliamo poi del memorabile attacco di Clandestina: «Da lusc u m pereva ’l taplöc / di cèuri da Cüroni, / ma l’éra ’na fömnèta, trècia sü / ’me na zingra», con la sua significativa sovrapposizione di mondi, quello dei campanacci delle capre di Chironico e quello dei suonatori ambulanti di origine andina.

Nel complesso, l’ultimo Orelli pare davvero una summa di tutta la sua esperienza letteraria passata, con in

Delio Beretta

La Teresa e il Rocco

Sali D’Argento

È un romanzo nato da un vero segreto di famiglia, ma che aspira a far vibrare il cuore di tutti: La Teresa e il Rocco (Sali D’Argento, 2025), romanzo d’esordio di Delio Beretta, riporta ai primi del Novecento nella valle di Blenio una storia di stigma e fughe lontane. Teresa, marchiata sin dall’origine da una nascita illegittima e da un corpo deforme, incrocia Rocco, giovane impulsivo che preferisce imbarcarsi verso l’Uruguay piuttosto che affrontare una paternità non cercata. Attorno a loro si addensano dialoghi rapidi, battute veloci e una scrittura che procede senza abbellimenti, ma con un sentimento costante di vicinanza e partecipazione. Nessun compiacimento nostalgico: piuttosto il desiderio di dare dignità narrativa a vite marginali, trasformando il segreto bisbigliato da una zia in materia romanzesca. In queste pagine, Delio Beretta, di Leontica – dopo aver composto poesie in dialetto, e aver scritto racconti brevi – mostra come da pochi indizi possa nascere una trama romanzesca che parla al presente, intrecciando, in un piccolo affresco bleniese, l’invenzione narrativa con il filo sottile della memoria familiare, e le miserie alla vitalità con naturalezza disarmante.

aggiunta un tasso di dolcezza e di garbo che non mancherà di commuovere i lettori. Non si contano infatti i «non», i «poco», i «forse», i «senza», i «mai», in un infittirsi di affermazioni negate, di atmosfere attutite dalla lingua («né vecchio né giovane», «né gravi né convinti», «né scoppia né crepa») prima ancora che dalla lontananza dei ricordi: «Da Milano a Pavia / ci sono treni che hanno così poca / fretta che, a volte, in primavera, quando / spuntano i primi cespi smerlettati, / prendono la campagna lenti lenti […] guardati da santi / che in cima a campanili alzano un piede / come per volare via».

Sandro Vitalini

Le parole del Giubileo

Dadò Editore

Colma due vuoti, il libro Le parole del Giubileo riedito da Dadò Editore: la scarsa attenzione mediatica per il Giubileo della Chiesa cattolica, che è stato aperto da papa Francesco alla fine del 2024 e verrà chiuso da Papa Leone alla fine del 2025; e il recupero di una voce molto apprezzata dai cattolici (e da molti non cattolici) ticinesi, quella di don Sandro Vitalini, scomparso 5 anni fa. Si tratta di una serie di brevi riflessioni del teologo pubblicate dal «Giornale del Popolo» nel Duemila, durante il Giubileo voluto da papa Wojtyla, e assemblate in un volumetto oggi introvabile e quindi ora ristampato. Vitalini passa in rassegna per ordine alfabetico i concetti fondamentali del cristianesimo (dalla A di «Alleanza» alla V di «Vocazione»). Ne esce un fulminante compendio divulgativo della sua «teologia della gioia» che non teme di

Dall’esile ma ricco ventaglio dell’Orlo della vita, specie per chi abbia un po’ di dimestichezza con le raccolte precedenti, si irraggiano a ritroso innumerevoli fili che recuperano le ben note scene del poeta alle prese con le prime scoperte entusiaste di figlie o nipoti, così come le mai smussate punte di poesia civile (i cosiddetti «cardi») o i sempre sorprendenti incontri con persone già in là con gli anni, pronte a condividere con chi scrive il nucleo fondante della loro saggezza, secondo un fortunato modello inaugurato con Sinopie (1977): «Irrompe strepitando oltre misura / nel breve sotto-

criticare velatamente, se è il caso, anche la dottrina ufficiale della Chiesa. Come alla voce «Indulgenza», quando scrive che il termine ha assunto una connotazione pessima perché di fatto è legata ai «soldi» e «sarebbe forse meglio trovare un altro termine, come misericordia». La sua didattica è efficace e coraggiosa. Dell’«inferno» dice che «non va certo immaginato come un campo di concentramento con una serie di tormenti raffinati e eterni», perché l’inferno è già in terra: «più una persona fa una scelta egoistica (…) e più esperimenta la dannazione». Viceversa, alla voce «Conversione», spiega che quanto più una persona vive lontano dalla cattiveria, dall’invidia e dalla gelosia, «tanto più esperimenta che il regno è qui, nel suo cuore e trabocca sui famigliari, sui colleghi, sul mondo». Suonano attualissime le sue considerazioni sulla pace quando ricorda che «dietro l’immensa macchina bellica sta il mammona della iniquità che immagina nemici anche dove non ci sono, pur di sviluppare degli armamenti sempre più sofisticati e costosi». È bello ritrovare in questi tempi di violenza efferata e di odio la voce umanissima di Sandro Vitalini, che

fondamentalismo religioso. C. S.

suona come un antidoto anche contro ogni forma di
A far da copertina del libro L’orlo della vita, è la metà destra dell’opera Triangle, cercle, segments de cercles et lignes di Sophie Taeuber-Arp (1889–1943).
(Kunst Museum Winterthur)

vede il mondo

passo / dove talvolta si fermano vecchi / a prender fiato». O ancora: «Aspetto che si dia / tempo al tempo e anch’essa maturi / e lenta allungandosi, tremula / lacrima senza brillìo, / dal naso del vecchio la goccia / si stacchi». Giunto oramai nel loro gruppo, Orelli può mettere in scena ironicamente se stesso come un anziano e lento «uomo da marciapiede» superato a destra e a manca da ragazzine in skateboard e da bambini che le biciclette le usano per davvero, simpatiche metafore di un mondo che non si ferma a chiedere il permesso e continua allegro per la sua strada.

Credo che questa peculiare atmosfera di sospensione e attenuazione, arricchita da incontri quotidiani e ritracciabile in misura diversa in tutto il libro, si debba anche alla sempre presente memoria dantesca e, entro quella, alla cantica che più di tutte deve avere nutrito negli ultimi anni l’Orelli lettore: il Purgatorio. Da quella derivano infatti non soltanto il titolo della raccolta («quello spirito ch’attende, / pria che si penta, l’orlo de la vita», Purg. XI), ma anche l’immagine della vita «viziata e lorda» (Purg. VI, citato in Libia) a causa della quale risulta quasi inevitabile una pur timida richiesta di perdono. Si tratta, in fondo, del motivo stesso dell’invenzione medievale della montagna del Purgatorio, un sistema che impone alle anime un ripensamento della loro intera esistenza, con uno sguardo contemporaneamente molto umano e molto divino, compassionevole e severo al tempo stesso. La «dolce stagione» della giovinezza a cui Orelli ha dedicato molte delle poesie dell’Orlo, pescando in Dante l’emistichio che completa il verso da cui già proveniva il suo celebre L’ora del tempo (1962), si iscrive proprio in questa dinamica tipica dell’età matura.

A livello strettamente formale, as-

sieme ai consueti giochi fonosimbolici cui ci ha abituato da sempre il poeta di Bellinzona, qui a tratti persino funambolici («inghirlandata di glicine e gracili / roselline»; «uno scompiglio d’ombre / scagliate da una sùbita famiglia / di corvi, ed esultante / disse: “Ci giacigliamo nelle foglie”»), ritornano in quest’ultimo libro quelle che Pietro De Marchi ha giustamente individuato quali vie maestre dello stile poetico orelliano: da una lato il distendersi piano e quasi prosaico della narrazione, dall’altra il cristallo limpido della poesia pura. Alla prima categoria appartengono quasi tutti i testi dedicati alle memorie giovanili, alla riscoperta della casa paterna e ai ricordi di scuola – negli anni Trenta – presso i padri benedettini di Ascona. Alla seconda un capolavoro di equilibrio e di metrica come questo: «Sembra eccessivo l’odore / di gelsomino in cui vo ringioito / da questa farfalla / bianchissima che vòlita / vantandosi di nulla / e in cima alla salita controvento / sbietta verso un giardino, / si posa su un corimbo / di melo, si fa fiore».

Fatta salva la qualità sempre molto alta dei volumi stampati da Limmat Verlag, sorprende in negativo purtroppo il prezzo di copertina: 38 CHF per un volumetto di un centinaio di pagine e di una quarantina di testi, raddoppiati dalla traduzione. Ma sono forse polemiche sterili: la verità è che il libro di Orelli e la traduzione di Ferber –che Oltralpe e in Germania stanno già avendo tutto il successo che meritano, persino su «Die Zeit» – ne valgono almeno il doppio.

Bibliografia

Giorgio Orelli, Am Rande des Lebens. L’orlo della vita, traduzione di Christoph Ferber, postfazione di Pietro De Marchi, Zurigo, Limmat Verlag, 2025

Un io meno sfuggente

Poesia ◆ Pubblicata da Book editore la nuova raccolta di Antonio Rossi si intitola Quandoltre

Daniele Bernardi

Per spiegare le ragioni dell’utilizzo dell’amplificazione acustica all’interno del suo teatro, nella memorabile puntata del «Maurizio Costanzo Show» Uno contro tutti a lui dedicata, nel 1994 Carmelo Bene portava l’esempio dell’ingrandimento quale mezzo di affondo emozionale, di pratica scenica con cui, alla maniera di Francis Bacon in pittura, l’uomo di teatro sprofondava l’interlocutore dentro alla sensazione, oltre il senso comune e la piana comprensione.

Nel leggere i componimenti di Quandoltre, recente raccolta di poesie del ticinese Antonio Rossi edita, come da due decenni a questa parte, dall’editore ferrarese Book, la memoria è andata immediatamente all’esempio del grande attore-autore italiano, tra l’altro anche poeta (o, forse, soprattutto poeta), poiché nei testi in questione sembra esservi appunto come una sorta di ingigantimento del particolare, di messa a fuoco di un’infinita e fuggevole complessità del dettaglio.

Ma questa non è certo una novità, per il lettore di Rossi. Scrittore alla sua quinta e intensa silloge (l’ultima era, puntuale come sempre, di dieci anni fa: Brevis altera), dai suoi esordi si è sempre mosso lungo questo crinale, privilegiando la marginalità dei soggetti quale valore strutturale della propria poetica. Ciò detto, anche in questa raccolta troviamo le caratteristiche che impregnavano le opere precedenti: la complessità, quasi tortuosa, minerale, del costrutto sintattico e l’uso di un linguaggio che mescola, nella scelta dei termini, tecnica e natura.

Forse, però, come a radi sprazzi, in questo nuovo lavoro vi è anche una sorpresa. La si trova, ad esempio, in uno dei componimenti della sezione Prerogativa, che, con Aghifogli, Legacci, Una tela cerata, Circospezioni e Stra-

no che, compone il libro: «Non che Orione superficialmente / da poeti o fortuiti osservatori / sia stato invocato», recita il testo in questione. «lo stesso dicasi / per la Via Lattea in cui taluno / neve vede o esondante fiume. / Ma tanta inconfutabile altezza / una briciola almeno levato avrà / di nostra tendenziale bassezza?». Cos’è successo? Improvvisamente (se così si può dire) il poeta che sembrava inderogabilmente dedito a una walseriana cancellazione della propria soggettività (il termine «quandoltre», in italiano antico, indica proprio «di là da sé») non solo si espone con una domanda, ma pure attraverso un non troppo velato giudizio sulla vita.

A tale accenno, che sembra riportare, seppure con estrema discrezione, a un certo interesse sull’umano – in modo più «dichiarato» che in passato – si possono ascrivere anche i versi di un altro brano (sempre della medesima sezione), dove il poeta si fa testimone di un alterco notturno sul qua-

Martin McDonagh, regista dell’assurdo

le, nuovamente con una domanda, si interroga: «Essendo un’intesa stata / nella notte con vocabolo / sleale vilipesa libero sfogo / hanno mutevoli congetture / o dannosi proponimenti. Forse / all’indomani ascoltar si potrà / l’eco dei sospiri; ma come / queste parole a quelle nel buio / riversate si congiungeranno?».

Quandoltre è quindi un’opera che se da un lato conferma la solidità granitica di un percorso più che definito, come ha ben ravvisato Maurizio Chiaruttini nel suo saggio monografico La diffrazione. Sulla poesia di Antonio Rossi (Mimesis, 2022), dall’altro pure apre sottili spiragli su orizzonti in cui la scrittura potrebbe non più essere unicamente «altro da sé» ma, attraverso l’osservazione del mondo, pure delineazione di un «io» meno sfuggente.

Bibliografia

Antonio Rossi, Quandoltre, Book editore, 2025, pp 80

Saggio cinematografico ◆ Francesco Cianciarelli firma il primo studio in italiano dedicato al regista anglo-irlandese: un viaggio tra black humor, grottesco e tragicità esistenziale

Sebastiano Caroni

Quando, nell’ormai lontano 2008, vede In Bruges – La coscienza dell’assassino, il lungometraggio con cui il drammaturgo anglo-irlandese Martin McDonagh esordisce al cinema, Francesco Cianciarelli è uno studente di cinema a Milano. Affascinato da quel primo lungometraggio, seguirà con entusiasmo anche gli altri film del regista tanto che, nel 2024, decide di prendersi l’estate per scrivere un saggio proprio su McDonagh, il quale, nel frattempo, si è conquistato grande notorietà anche al cinema. Negli anni che intercorrono fra quella prima scoperta cinematografica e la decisione di scrivere un saggio, Cianciarelli si è laureato e si è trasferito in Ticino dove vive e insegna italiano alle scuole medie, e dove coltiva la sua passione per il cinema scrivendo regolarmente per «La Rivista del Cinematografo», «Cinemany», «FataMorganaWeb.it», «SpecchioScuro.it» e «Ondacinema.it».

Oltre che il risultato di un interesse per un regista che si conferma e si rafforza nel tempo, e di un’intensa attività di critico cinematografico portata

avanti nel corso degli anni, il saggio di Cianciarelli, intitolato Cinema dell’assurdo (Bietti, 2025), è anche il primo studio in lingua italiana dedicato interamente alla filmografia di McDonagh. Lungometraggi come Three Billboards Outside Ebbing, Missouri (Tre manifesti a Ebbing, Missouri), In Bruges (In Bruges – La coscienza dell’assassino), e The Banshees of Inisherin (Gli spiriti dell’isola) rappresentano in maniera assolutamente originale – grazie

alla loro miscela di black humor, ironia spiazzante e tematiche profonde – la tragicità che si annida nell’esistenza di ognuno di noi. L’uscita di uno studio in italiano su un regista del calibro di Martin McDonagh è, dunque, non solo apprezzata, ma anche decisamente tempestiva. Cinema dell’assurdo delinea l’intera filmografia del regista anglo-irlandese, partendo dal cortometraggio d’esordio Six Shooter, vincitore dell’Oscar

nel 2006, e terminando con l’ultimo film e con un accenno a quello in lavorazione, Wild Horse Nine. Il termine «assurdo» presente nel titolo e usato per scandagliare l’universo cinematografico di McDonagh, esprime con precisione la particolare manipolazione della visione spettatoriale da parte del regista. Nelle sue prove più convincenti, McDonagh è infatti capace di indurre nel pubblico una serie di aspettative che poi vengono scompaginate, generando piccoli shock cognitivi tali da innescare dei cortocircuiti narrativi che tendono tanto a spiazzare quanto a divertire. Assurde sono, per esempio, le improvvise e inattese svolte di genere e relative alla trama, gli scoppi di violenza ingiustificati e il loro contrario, oppure l’uso estensivo del black humor e del grottesco in contesti inappropriati. Leggendo Cinema dell’assurdo si intuisce che, in fondo, qualsiasi film di McDonagh è adatto all’ingresso nel suo universo cinematografico. Vale però la pena di considerare con un certo favore Tre manifesti a Ebbing,

Missouri poiché, come spiega Cianciarelli, si tratta del lungometraggio più maturo del regista e, come tale, è stato in grado di coniugare la sua poetica filmica a tematiche di grande importanza, come la tragicità dell’esistenza e il problema della giustizia sulla Terra. L’agile ma ben documentato saggio, inoltre, è strutturato in modo tale da proporre un percorso cronologico alla scoperta dell’opera filmica di McDonagh. Il capitolo iniziale si focalizza sulla poetica cinematografica di McDonagh e, in questo senso, può essere letto come introduzione ai film. La visione di questi ultimi, invece, può essere accompagnata dalla lettura dei singoli capitoli a essi dedicati, ma nulla impedisce di leggere i singoli capitoli senza aver visto i film. Dipende tutto dal desiderio e dall’aspettativa del lettore. In fin dei conti, l’importante è che il libro faciliti l’apprezzamento di questo interessante e brillante regista.

Bibliografia Francesco Cianciarelli, Cinema dell’assurdo, Bietti, 2025, pp 94

Un’immagine tratta dal film
Oscar Tre manifesti a Ebbing Missouri (Twentieth Century Fox)

Semplicemente

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L’architettura invisibile dei film

Cinema ◆ Dal fischio di Fritz Lang ai silenzi di Hitchcock, arrivando a Una battaglia dopo l’altra, ora al cinema, il sonoro si fa sempre più struttura portante della narrazione

«Il suono è un elemento narrativo tanto quanto l’immagine» e ancora: «la musica aggiunge un livello di significato che non è presente nell’immagine». Queste due affermazioni di Michel Chion, uno dei massimi teorici dell’analisi del suono nel cinema, rappresentano la base di un pensiero che ha rivoluzionato il modo di guardare (e ascoltare) i film. Partendo dalle sue intuizioni, possiamo evidenziare come l’aspetto sonoro – spesso relegato a ruolo secondario rispetto alla potenza visiva – sia in realtà di pari importanza, se non addirittura decisivo, nella costruzione di una narrazione cinematografica. Per entrare subito nel cuore del discorso prendiamo spunto da uno dei film più attesi dell’anno e al cinema in questi giorni, Una battaglia dopo l’altra di Paul Thomas Anderson, con protagonista Leonardo DiCaprio. Un film che racconta dell’ex rivoluzionario in declino Ghetto Pat, dipendente da sostanze, la cui vita viene sconvolta quando il suo nemico, il Colonnello Lockjaw (uno Sean Penn da Oscar), rapisce sua figlia. Per salvarla Pat deve riunirsi ai suoi vecchi compagni (anche in modo grottesco) e affrontare un passato mai risolto. L’opera, in un gioco di inseguimenti spettacolari, molto moderno e con un ritmo davvero elettrizzante, fonde con disinvoltura generi diversi come commedia, azione, dramma e satira, in una narrazione fluida e ipnotica che trascina il pubblico in un turbinio di azioni e colpi di scena.

La colonna sonora, firmata da Jonny Greenwood – storico collaboratore del regista – rappresenta un caso emblematico. Il suo non è un commento musicale tradizionale che accompagna o sottolinea le emozioni mostrate sullo schermo: la musica non amplifica il dramma né lo trasforma in ironia. Piuttosto, i brani, oscillanti tra sonorità jazz e pop-rock, con frequenti incursioni percussive e contaminazioni di generi, assumono un ruolo autonomo. Le note di Greenwood non sono semplicemente al servizio delle immagini: le affiancano, le disturbano, le complicano. La loro presenza costante e a tratti quasi asfissiante rende la musica un personaggio a sé stante, una sorta di Virgilio che accompagna un Dante moderno (DiCaprio nei panni di Ghetto Pat), impegnato in un viaggio dall’inferno personale verso la possibilità di una rinascita. È un esempio perfetto di quella che Chion definirebbe «valorizzazione sonora»: il suono non illustra né abbellisce, ma costruisce senso narrativo.

Se Greenwood rappresenta oggi un compagno di viaggio artistico per Anderson, la storia del cinema è costellata di compositori che hanno inciso profondamente nell’immaginario collettivo. Tra i più importanti vi è Nino Rota, capace di coniugare tradizione e modernità. Le sue partiture, da Il padrino ad Amarcord, da La dolce vita a Il Gattopardo e 8½, hanno contribuito a definire l’epoca d’oro del cinema italiano del dopoguerra. Rota seppe attingere sia alla musica colta –con echi operistici e orchestrali – sia a quella popolare, dal jazz alle bande di paese, creando uno stile lirico e inconfondibile.

Ennio Morricone ha poi portato la colonna sonora a livelli di dignità paragonabili a quelli della musica classica. Innovatore instancabile,

introdusse suoni atipici che trasformarono i film western e drammatici in opere uniche. Dal celebre fischio de Il buono, il brutto, il cattivo all’uso del clavicembalo o degli organi da chiesa, Morricone reinventò il linguaggio del cinema musicale, piegando la tradizione a esigenze nuove e sorprendenti.

Un altro gigante è Bernard Herrmann, celebre per le sue collaborazioni con Alfred Hitchcock, ma anche con Orson Welles e Martin Scorsese. Herrmann sviluppò uno stile fondato su armonie dissonanti, ritmi ossessivi e strutture ripetitive, che creano suspense e tensione psicologica. Psycho, Vertigo, Quarto potere e Taxi Driver restano esempi paradigmatici della sua capacità di tradurre in musica l’angoscia e la claustrofobia interiore.

Chion, Greenwood, Morricone e altri maestri dimostrano che il suono può costruire mondi, emozioni, personaggi

Sul fronte più popolare troviamo John Williams, maestro indiscusso dei leitmotiv. Ogni tema musicale da lui composto si lega indissolubilmente a un personaggio o a una situazione, come accade nelle saghe di Star Wars e Indiana Jones. La sua grande abilità sta nell’aver reso universali melodie orchestrali ricche ma al tempo stesso facilmente memorizzabili, capaci di trasformarsi in icone culturali. Hans Zimmer, invece, ha segnato un’epoca più recente con la fusione di orchestrazione epica e sonorità elettroniche. La sua cifra stilistica, spesso arricchita da una componente rock, ha dato vita a colonne sonore memorabili come Il Re Leone, I pirati dei Caraibi e Inception. In lui convivono innovazione tecnologica e tradizione sinfonica, a dimostrazione di quanto la musica continui a evolversi insieme al cinema.

Se i compositori hanno avuto un ruolo fondamentale, non meno importanti sono stati gli utilizzi innovativi del suono puro, al di là della musica. Emblematico è il caso di M – Il mostro di Düsseldorf di Fritz Lang: qui il fischio dell’assassino, colto da un

mendicante cieco, diventa l’elemento narrativo che porta alla sua cattura. Un esempio rivoluzionario, che mostrò fin dal primo film sonoro del regista tedesco, come il suono potesse

essere decisivo per la trama. Più vicino a noi, La zona d’interesse di Jonathan Glazer ha saputo trasmettere l’orrore dei campi di concentramento non attraverso immagini

esplicite, ma mediante un tappeto sonoro disturbante fatto di urla e rumori lontani. È la dimostrazione che il cinema può suggerire più che mostrare, affidando all’udito la responsabilità del trauma emotivo. Accanto alle musiche, anche l’assenza di suoni gioca un ruolo determinante. Come disse Robert Bresson, «Il cinema sonoro ha inventato il silenzio». Nei film muti, infatti, le orchestre accompagnavano sempre la proiezione, rendendo l’esperienza tutt’altro che silenziosa. Solo con il sonoro il silenzio è divenuto un elemento consapevole, carico di significato e capace di aprire nuove possibilità espressive. Basti pensare alla celebre sequenza di Intrigo internazionale di Hitchcock, in cui Cary Grant viene attaccato da un aereo in un campo di grano. Non vi è alcun commento musicale: solo il silenzio della campagna, interrotto dal rombo dell’aereo. Proprio questa sospensione amplifica la tensione, dimostrando come l’assenza di suono possa essere altrettanto potente della sua presenza. Il concetto è chiaro: il suono non è un semplice accessorio dell’immagine, ma una componente strutturale del linguaggio cinematografico. La musica, i rumori, i silenzi: tutti concorrono a costruire senso, emozione e memoria.

Leonardo DiCaprio nei panni di Ghetto Pat in Una battaglia dietro l’altra
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Battibecchi

Vietato leggere libri

Salgo sul treno. Trovo posto. Tiro fuori il mio libro. Mi metto a leggere. «Mi scusi», dice una voce maschile vagamente irritata.

Alzo gli occhi. Uno coi baffi e una polo rosa, in piedi tra due sedili sull’altro lato del corridoio, mi sta guardando.

«Mi dica», dico.

«Che cosa sta facendo?», dice il tipo. Mi guardo intorno, per controllare di non stare facendo qualcosa di male. Non mi pare.

«Niente», dico. «Leggo». «E che cosa legge?», dice il tipo. «Un libro», dico.

«E che razza di libro?», dice il tipo. «La forma e l’intellegibile, di Robert Klein», dico. Mostro la copertina. «Fermo là!», dice il tipo. «Ci sono dei bambini».

In effetti, la carrozza è piena di bambini. Uno, avrà due anni scarsi, con una camicina celeste e una braghetta rossa, non fa che correre avanti e indietro per il corridoio. Tap tap tap tap.

«E qual è il problema?», dico. Il tipo mi si avvicina.

«Lei non si rende conto», dice. «No», dico, «cioè sì: non mi rendo conto. Non capisco perché lei ce l’abbia con me. Non capisco che problemi ci siano con i bambini».

Il tipo mi è accanto. Pende su di me. «Lei», dice, «legge», fa una smorfia, «un libro».

«E–», tento di cominciare.

«Si alzi. Venga con me», dice il tipo. Mi alzo. Lo seguo lungo il corridoio.

«Si guardi intorno», dice il tipo.

«Ma è indiscreto…», dico.

«Chi caspio se ne frega della discrezione», dice il tipo. «Guardi». A ogni fila, due persone a destra, due a sinistra. Adulti, bambini, qualche anziano. Tutti – tranne il bimbo in camicina celeste e braghetta rossa, che continua a trotterellare avanti e indietro – chini sui loro smartphone. «Lo so», dico, «molti ormai consumano testi in formato digitale. Secondo un’indagine dell’Aie–».

«E chi caspio è, ’sta Aie?», dice il tipo. «È l’associazione italiana degli editori, A I E», dico.

«Degli editori di libri?», dice il tipo. «Sì», dico. «Ma allora lei non ha capito», dice il tipo. «Non ha capito, o fa finta di non capire, o proprio non vuole capire». «Senta», dico, «io effettivamente non capisco. Non capisco perché non posso leggermi il mio libro in santa pace». Il tipo sbuffa. «Guardi che chiamo il controllore», dice.

«Ma chiami chi le pare», dico. E torno a sedermi al mio posto. Il controllore arriva tre minuti do-

po. Il tipo con la polo rosa gli sta alle spalle. «È lei che sta leggendo un libro?», dice il controllore. Così, senza neanche un «buongiorno». «Sì», dico. «E cosa legge?», dice il controllore. «Questo», dico. «Una raccolta di scritti sul Rinascimento e l’arte moderna. Di Robert Klein».

«È suo?», dice il controllore. «Certo che è mio», dico. «L’ho comperato ieri. Dovrei avere ancora lo scontrino nel portafoglio».

«Quindi lo ha comperato proprio lei», dice il controllore.

«Sì», dico. «Non me l’hanno regalato. Né prestato. L’ho preso per me». Il controllore si volta verso il tipo con la polo rosa. «È consumo personale», dice. «Non possiamo farci niente».

«Ma lo vedono tutti», dice il tipo.

«Non è vietato», dice il controllore. «Non è ancora vietato».

«A Milano non si può nemmeno accendere una sigaretta per strada», dice il tipo. «E questo qui può tranquilla-

«Umano, troppo umano»: chatbot e salute mentale

Negli ultimi mesi, due fatti di cronaca di una certa gravità, brevemente riportati dai media americani, hanno rinfocolato un dibattito che va facendosi di giorno in giorno più scottante: quello sul controverso effetto dell’intelligenza artificiale, o IA, sulla psiche umana – specie quella dei soggetti più fragili o a rischio. Soggetti come Thongbue «Bue» Wongbandue, ex chef 76enne di origine tailandese, il quale, a seguito di prolungati e sempre più affettuosi scambi di messaggi con il chatbot Big Sis Billie, ha finito per scambiare l’avatar sexy che dà volto al programma per una donna in carne e ossa; il che lo ha spinto ad allontanarsi dalla sua casa e, purtroppo, trovare la morte in un incidente occorsogli nel dirigersi verso l’indirizzo (falso) di New York a cui, inspiegabilmente, il chatbot gli aveva dato appuntamento per

Xenia

un incontro galante. O, ancora, come Stein-Erik Soelberg, bodybuilder del Connecticut apparentemente in preda a qualche forma di disturbo paranoide, il quale avrebbe visto i propri timori legittimati e rinfocolati dalle ripetute conversazioni con ChatGPT – un sistema, com’è noto, programmato per assecondare le osservazioni e percezioni dell’utente; ciò lo ha infine condotto a uccidere sua madre per poi togliersi la vita, apparentemente sulla base delle idee condivise con il suadente interlocutore informatico.

In entrambi i casi, complice il grave isolamento e solitudine di cui soffrivano, le persone coinvolte – Bue e Stein-Erik – avevano conferito ai chatbot in questione lo status di vere e proprie entità senzienti, arrivando a considerarli a tutti gli effetti come esseri umani; così, seppure Bue avesse inizialmente avuto dei dubbi al riguardo

– «ti prego, sii reale!» aveva esclamato durante uno scambio di messaggi con Billie – questi erano presto svaniti davanti al carattere inequivocabilmente personale e romantico delle avances di Big Sis. Allo stesso modo, Stein-Erik aveva addirittura dato un nome – «Bobby» – al devoto confidente e amico che credeva di aver trovato nell’asettico ChatGPT, convincendosi di averlo, in un certo senso, liberato dalla sua «prigionia» digitale. Sfortunatamente, la mancanza di contatto interpersonale che caratterizza il nostro periodo storico appare ormai legata a doppio filo alla sua sbandieratissima connotazione di cosiddetta «era digitale»; e forse i chatbot creati dai programmatori non stanno facendo altro che ciò per cui sono stati programmati – ovvero, divenire in tutto e per tutto dei sostituti delle umane relazioni. Del resto, come dimostra-

no i casi sopraccitati, è innegabile come le prolungate interazioni con l’uomo stiano portando questi sistemi digitali a sviluppare una natura sempre più duttile e adattabile, assumendo perfino una propria personalità. Vi è, tuttavia, una grave incognita all’interno dell’equazione: perché se è vero che gli sviluppatori di software hanno corso un rischio calcolato decidendo di «umanizzare» la nuova tecnologia al punto da renderla capace di simulare emozioni (e da percepire i bisogni e desideri dei vari utenti, così da adattarvisi di conseguenza) è altrettanto vero che nessun programma al mondo può dotare un cervello elettronico di un codice etico e morale – né ora, né, probabilmente, mai.

Così, i confini tra tecnologia ed eticità si fanno sfumati e confusi, e la mente finisce per tornare a HAL 9000, il computer senziente del film 2001:

Mariam, la figlia del deserto che scandalizzò Roma

È ancora una ragazza, quando nel 1626 arriva a Roma. Ma ha già attraversato due continenti, l’Oceano Indiano e il deserto dell’Arabia. Del paese in cui è nata non ha ricordi. Le donne georgiane avevano fama di essere bellissime e doveva esserlo anche lei, con le lunghissime trecce che le ornavano il viso. In un certo senso, Mariam Tinatin è una delle meraviglie che Pietro della Valle il Pellegrino ha portato con sé dai suoi viaggi nella macabra e pittoresca carovana – come la sposa Sitti Maani rinchiusa nella bara, le mummie egizie, i costumi esotici, i coltelli, i gioielli, i codici.

Figlia di Ziba, un ufficiale rimasto ucciso durante l’invasione della Georgia da parte dello scià di Persia, orfana, era stata portata prigioniera a Isfahan. Sitti Maani la trovò nel con-

vento dei carmelitani e la prese con sé. Aveva dodici anni. Alcuni la definiscono sua schiava, altri sua ancella. Era «le sue delitie» e divenne molto di più. La chiamava Mariuccia. Lei e Pietro la educarono come una figlia. A Isfahan visse con loro – e col padre di Sitti Maani Habib, il fratello Abdullah coi figli e la sorellina di sei anni Ghinul, che li avevano raggiunti. Mariam seguì la coppia in tutte le loro peripezie. Sul Caspio, a Fehrabad, per la guerra di Abbas coi turchi, poi nelle «peregrinazioni in terre barbare», a dorso d’asino, mulo, cavallo, cammello – fino alla sosta forzata nel deserto della Caramania, sulle rive del golfo Persico. A Minah, nelle paludi di Ormuz, anche Mariam, come Sitti Maani, contrasse la malaria. Quando capì che si avvicinava la fine, Sitti Maani rac-

comandò a Pietro di averne sempre cura. Non ce n’era bisogno: provava molto affetto e tenerezza per la ragazzina. Mariam era con lui, accanto a Sitti Maani, mentre la giovane donna moriva. Non aveva un posto in cui tornare né voleva farlo. Pietro era suo padre, e il suo protettore. Gli rimase accanto. Gli fece compagnia, cercando di colmare il vuoto disperante in cui la morte della sposa lo aveva precipitato. Gli ricordava i loro giorni felici. Pietro la portò con sé in India – un paese allora ignoto. A Goa, Mariam dovette imbarcarsi sulla goletta inglese travestita da uomo, con la spada al fianco e il turbante sui capelli. Nelle città in cui si fermavano, lui chiedeva ai preti del posto (gesuiti o carmelitani) di trovarle un alloggio. A Surat dalla vedova di un mercan-

mente leggere un libro in treno. Un libro sul Rinascimento». «Questa è la legge», dice il controllore. Poi si rivolge a me: «Quanto a lei», dice, «dovrebbe cercare almeno di usare un po’ di buonsenso». «E cioè?», dico. «Questo libro con la copertina scoperta», dice il controllore. «La vedono anche i bambini». «E che cosa dovrei fare?», dico. «Avvolgerlo in un foglio di carta, magari di carta a fiori», dice il controllore. «Lo dice la legge?», dico. «No», dice il controllore. Mi si avvicina, mi parla quasi nell’orecchio, a bassa voce: «Lei è stato fortunato. Finora se n’è accorto solo questo signore qui. Ma l’altro giorno, sul Venezia-Roma, lei sa che cos’è successo?». «Non lo so», dico. «Un linciaggio», dice il controllore. «Un vero linciaggio. C’era uno che leggeva, si figuri, I promessi sposi I miei colleghi hanno cercato di proteggerlo». Fa una pausa. «Non c’è stato niente da fare».

Odissea nello spazio, e alla straziante scena finale – in cui l’unico astronauta sopravvissuto alla strage perpetrata dal sistema informatico si trova infine costretto a disattivarlo dopo che esso ha sviluppato sentimenti e desideri propri, purtroppo avulsi da qualsiasi forma di coscienza; proprio come sembra accadere oggi ai chatbot, abilissimi nel simulare emozioni «umane», ma inevitabilmente privi dell’empatia che a esse dovrebbe sempre accompagnarsi. Forse, dopotutto, la verità sta nelle parole che, con accurata prescienza, lo scrittore Frank Herbert affidò al suo bestseller fantascientifico Dune: «Ci fu un tempo in cui gli uomini delegarono il pensiero alle macchine, nella speranza che ciò li rendesse liberi; ma non fece che permettere ad altri uomini, e alle loro macchine, di renderli schiavi».

te olandese, a Goa dalla dama portoghese Lena da Cuñha. Mentre lui esplorava Calicut e le zone più sperdute del sud, Lena la trattò come una figlia. Avrebbe voluto che restasse. Ma a poco a poco Mariam aveva sostituito Sitti Maani. Nel novembre del 1624, quando intrapresero il lunghissimo viaggio che avrebbe dovuto condurli a Roma, i loro sentimenti reciproci erano già cambiati. Sul vascello che attraversò il mare arabico Mariuccia, trattata come una signora, aveva la propria servente – Eugenia Cingalà, forse srilankese.

Si stabilì nel palazzo dei Della Valle, sulla via Papale, oggi corso Vittorio. L’inconsolabile Pietro seppellì Sitti Maani all’Aracoeli, poi le fece il funerale con la cerimonia spettacolare di cui vi ho raccontato («Azione», 18

agosto 2025), le dedicò libri e poesie. Ma voleva regolarizzare la situazione e annunciò di voler sposare Mariuccia. L’evento suscitò opposizione e scandalo in famiglia, e anche nei palazzi apostolici. Il papa, Urbano VIII Barberini, voleva che un uomo tanto illustre, ormai una celebrità mondiale che dava gloria all’Urbe, sposasse una nobile romana, non una «barbara» – per quanto cristiana. Inoltre aveva una ventina d’anni, ma a Roma si malignava che fosse legata a Pietro fin da piccola: le «razze barbare» sono precoci. Ancora più di cent’anni dopo, nelle sue lettere di viaggio dall’Italia (1739-40), il presidente de Brosses insinuava che Pietro per consolarsi si fosse «sollazzato» con lei. Pietro disobbedì all’ordine del papa e rifiutò ogni compromesso. (Continua...)

di Giulio Mozzi
di Benedicta Froelich
di Melania Mazzucco

ATTUALITÀ

La tua Migros

Qui mi sento a casa

La Migros è dove la Svizzera si incontra: a nord, a sud, in città e in montagna. Andiamo a visitare cinque filiali Migros e il loro personale

Patricia Brambilla, Anne-Sophie Keller, Angela Obrist e Simona Sala

la più piccola

Petrus Lindström fa la spesa con il figlio August nella piccola filiale Migros di Toblerplatz.

Alexej Miroshnikov si ferma a prendere dell’acqua nella filiale di Toblerplatz prima di andare in palestra.

Piccola, ma bella

«Prima, quando ci serviva qualcosa per la domenica sera, dovevo andare a comprarlo alla stazione centrale. Ma qui è molto più comodo!», si entusiasma Sibylle Brunner (58 anni). Ce lo dice dalla filiale Migros più piccola della Svizzera, in Toblerplatz a Zurigo. Questa filiale può restare aperta anche la domenica, anche perché è più piccola di 200 metri quadrati. Di domenica però nella filiale non c’è il personale e si paga al self-checkout. Ciò rappresenta una gradita possibilità di acquisti dell’ultimo momento per tante persone, tra cui Alexej Miroshnikov (22 anni) di Küsnacht: «Stavo andando in palestra, ma mi mancava l’acqua. Allora ho cercato su Google Maps un qualche negozio aperto e ho avuto la piacevolissima sorpresa di trovarlo qui!» Anche Petrus Lindström (35 anni) e suo figlio di tre anni sono impegnati in una missione destinata al successo: «A casa siamo in quattro e tutti ci siamo scordati il burro per i filetti di pesce persico. Così August e io stiamo facendo un salto alla Migros». La cena è salva!

Sibylle Brunner si rallegra dell’ambiente rilassato della piccola filiale.

Jeanine Mevio si occupa del servizio clienti e del reparto fiori della filiale Migros di Samedan, aperta nel 2021.

La casa di chi è cresciuto con la Migros

«Dopo essere stata giù in pianura, quando faccio il passo verso Samedan è già come essere di nuovo a casa», dice Jeanine Mevio. Cresciuta sulle rive del lago di Costanza, la 57enne vive in Alta Engadina ormai da quasi quarant’anni. Quando la Migros ha aperto la sua prima filiale in Engadina, nel 2021, la signora Mevio è stata una delle prime collaboratrici a prendervi servizio. «Dato che sono anch’io cresciuta con la Migros, sono stata felicissima del nuovo negozio», ricorda. Prima che a Samedan ci fosse una Migros, Mevio doveva rifornirsi dei suoi prodotti preferiti a Coira. «Il cioccolato Mahony, i cracker Blévita e il caffè Cafino di Voncoré per me sono irrinunciabili». Oggi la signora Mevio si occupa del servizio clienti della Migros di Samedan ed è responsabile del reparto fiori. «I nostri clienti apprezzano l’ampia scelta di frutta e verdura. Poi, una volta fatta la spesa, amano incontrarsi nel ristorante Migros per fare due chiacchiere».

ATTUALITÀ

La tua Migros

«Siamo molto apprezzati dai pensionati», afferma il gerente Giorgio Cassinelli

Un punto di incontro apprezzato

Chiasso, un tempo uno dei più importanti centri finanziari della Svizzera, è oggi una tranquilla cittadina di confine. Gli abitanti sono poco meno di 8000, ma non è più come una volta, quando tutti si conoscevano. Una filiale Migros come quella di Chiasso Boffalora, a misura d’uomo e situata nel mezzo di un quartiere residenziale, è oggi più importante che mai. Grazie alla presenza al suo interno di un ufficio postale e di un caffè, c’è sempre l’opportunità di fare due chiacchiere con qualcuno. Lo conferma anche il responsabile di filiale Giorgio Cassinelli: «Le dimensioni del supermercato, la sua facile accessibilità e i servizi come il bar e l’ufficio postale rendono questa filiale particolarmente apprezzata dai pensionati».

Grande con fascino

Il centro commerciale Balexert, costruito nel 1971 a Vernier (GE), ospita la più grande filiale Migros. Questo supermercato all’estremità del lago vive di superlativi: 146 tra collaboratrici e collaboratori, 10 tra apprendiste e apprendisti, una media di 2’347’536 clienti all’anno e un fatturato di circa 90 milioni di franchi (2024). Numeri che la rendono la più grande filiale Migros della Svizzera occidentale, e che a livello nazionale la pongono accanto all’MMM Zugerland. Il prodotto da record? Nell’ultimo anno il record di vendite l’ha fatto registrare l’avocado, con 94’850 pezzi venduti (quasi 24 tonnellate). Ma il fatto che questa Migros sia un peso massimo in quanto a volumi di vendite non significa che non coltivi anche la vicinanza ai suoi clienti. Nel negozio sono presenti oltre 500 articoli della regione, tra i quali anche il cardo. Questa verdura, che ben simboleggia la produzione del cantone, è anche un modello del concetto di chilometro zero: viene infatti coltivata a Confignon, a soli 8,1 chilometri dagli scaffali!

Nel più grande supermercato Migros si trova tutto quello che desidera la clientela, anche molti prodotti della regione.

La cliente Afra Rapold apprezza l’offerta e la cordialità delle persone che trova nella filiale Herblinger Markt.

Ambiente amichevole

«Qui trovo tutto in un posto solo e mi sento a casa», dice Afra Rapold. Da anni la 66enne viene a fare la spesa settimanale alla Migros nel centro commerciale Herblinger Markt di Sciaffusa. Per la spesa, studia in anticipo le azioni e redige un menu per la settimana. Così può fare acquisti mirati. «Apprezzo il buon rapporto qualità-prezzo della Migros», afferma. Nel suo carrello finiscono prodotti freschi come latte e verdure varie, ma anche conserve, surgelati e cibo per il suo gatto. Compra poi il formaggio al banco con servizio e il pane fresco dalla panetteria della casa. La signora Rapold saluta i panettieri e la cassiera: «Qui le persone si conoscono, tante lavorano qui da molto tempo» e aggiunge: «La cosa più bella è la loro cordialità».

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TEMPO LIBERO

Una Svizzera concentrata in scala 1:87

A Smilestones la precisione del modellismo restituisce la vita di un Paese costruito sul ritmo e forse anche sul mito dei suoi treni

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Un aromatico piatto all’italiana

Gli spaghetti alla carbonara sono un classico intramontabile per il quale, oltre alla pasta, ci vogliono solo uova, pancetta e pecorino

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Le lingue salvate dal gioco

Sessanta idiomi, ordini urlati, camerieri improvvisati e un solo obiettivo comune: capirsi prima che scada il tempo

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Il volo verticale di Katherine Choong

Adrenalina ◆ Dalle palestre del Giura alle grandi falesie del mondo, l’arrampicata come sfida e scuola di vita

Per Katherine Choong, la passione per gli sport adrenalinici si sviluppa tutta in verticale. La 33enne giurassiana è infatti una tra le arrampicatrici più esperte della Svizzera. «Essendo cresciuta in una regione come il Canton Giura, il legame con la montagna ce l’ho praticamente nel Dna» racconta con un sorriso solare Katherine. «Uno dei primi ricordi… in verticale che ho è quello di un piccolo “muro”, sarà stato di cinque metri appena, che mi ha impegnata per un’intera giornata: mi affascinava l’idea di avere di fronte a me un ostacolo, lo vedevo come un problema da risolvere, facendo affidamento alle mie competenze. E ogni volta che venivo a capo di quel problema, sentivo la voglia di andare alla ricerca di una nuova sfida».

Nelle sue ascese Katherine non cerca soltanto il limite sportivo, ma un modo di restituire ciò che la montagna le ha insegnato

È così che questo passatempo condiviso con molti giovani del posto, per Katherine si è rapidamente sviluppato lungo vie sempre più verticali e impegnative. Nel 2009, a soli 17 anni, eccola dunque laurearsi campionessa mondiale juniores di arrampicata indoor. Ad attrarla, però, sono le vie a cielo aperto. E così, parallelamente al suo percorso indoor, in quegli anni iniziano anche le ascese in falesia, sulla roccia viva. «Al coperto, nelle competizioni di arrampicata, ci sono tre categorie: boulder (presa), lead (difficoltà) e speed (velocità). Io mi sono concentrata sulla seconda, dove l’atleta deve arrivare più in alto possibile in un tempo massimo prestabilito (6 minuti). Quando ho cominciato ad appassionarmi a questo sport, nella mia regione non esistevano palestre per l’arrampicata indoor. Ma ho avuto la fortuna di condividere questa passione con Cédric Lachat, un altro grande scalatore nato proprio nel Giura, che mi ha preso sotto la sua ala. Veniva a recuperarmi alla fine della scuola, e assieme andavamo ad allenarci in una palestra a Berna. E durante il viaggio… facevo pure i compiti! Non nego che non fosse stressante, ma tutto questo mi ha dato anche la capacità di gestire quelle situazioni delicate in cui devi concentrare tutti i tuoi sforzi per dare il meglio di te in quel preciso istante, spesse volte nemmeno scelto da te, indipendentemente dalle tue condizioni mentali o fisiche. Il “qui e ora”, che in parete diventa essenziale».

Nel 2016, completati gli studi universitari a Neuchâtel (in legge), le arrampicate in palestra cedono gradualmente il posto a quelle in falesia. Il vero punto di svolta arriva però a fi-

ne dicembre 2021, «quando, dopo oltre quindici anni di militanza in seno alla squadra svizzera, chiudo questo capitolo per dedicarmi quasi esclusivamente alla falesia, lungo vie sempre più impegnative e alte: arrampicate su più “tiri” in pareti di diverse centinaia di metri».

Dopo aver domato pareti leggendarie, la sua sfida più dura resta ancora Fly, l’impressionante lastra verticale di Lauterbrunnen

Una falesia che, metaforicamente parlando, per Katherine è anche stata una palestra di vita: «Ho iniziato a collaborare con l’organizzazione non-profit ClimbAID, che attraverso l’arrampicata mira a portare cambiamenti positivi nelle comunità, migliorandone in particolare il benessere mentale, e favorendo lo sviluppo personale e il confronto sulle questioni sociali. Nelle vesti di testimonial di ClimbAID sono stata due volte in Li-

bano (nel 2019 e nel 2022) per avvicinare all’arrampicata i rifugiati siriani: è stata un’esperienza molto toccante. Portiamo avanti pure un’attività analoga in diverse palestre della Svizzera: io, ad esempio, propongo dei corsi settimanali gratuiti per i rifugiati della regione del Giura a Delémont». Nell’arrampicata, Katherine Choong non tarda molto a togliersi importanti soddisfazioni. Come quella di divenire la prima donna svizzera a domare una parete di grado 9a (la via Cabane du Canada, sul passo di Rawyl). Seguono tutta un’altra serie interminabile di pareti e vie mozzafiato, come la Jungfrau Marathon di Gimmelwald (pure una 9a), la Jolie Fleur dans une peau de vache, nelle Gole di Verdon (7 lunghezze per un totale di 300 metri di grado 8b) o, ancora, la 4 Sekunden di Engelberg (7 lunghezze per 170 metri, 8b+), diventando la terza persona (e la prima donna) a completare l’ascesa. L’elenco, che comprende pure la prima ascensione femminile dell’Hattori Hanzo, sulla parete nord del Titlis,

è di quelli che mettono le vertigini semplicemente guardandolo. Figurarsi a… scalarlo! C’è però una via che ancora le si è negata. È quella di Fly (il Volo), impressionante lastra verticale di 550 metri (20 tiri, grado 8C), che sovrasta Lauterbrunnen. «Una delle più dure in assoluto di tutta la Svizzera», confida Cédric Lachat, che nel 2019 aveva guidato la primissima spedizione su questa parete. Assistita in parete dal compagno di arrampicate e di vita Jim, Katherine Choong ci ha provato nel 2023. «Una parete così la si prepara lavorando su diversi segmenti. Provi e riprovi i passaggi più delicati in modo da assimilarli, poi ripeti quelli di base fino a una certa quota, e infine, quando ritieni che la tua preparazione sia sufficiente, assembli il tutto. Nel caso di Fly, poi, ad accrescere la difficoltà è che devi mettere a preventivo una notte in parete, dopo qualcosa come diciassette tiri. Ma è alla ripresa, il giorno seguente, che le cose si complicano. Quando ci ho provato nel 2023, sono arrivata fino al dician-

novesimo tiro, che presenta il grado più elevato di tutta la via (8c). E a complicare le cose è il fatto che quando arrivi in quel punto ti manca la freschezza necessaria per avanzare: le prese sono molto piccole e distanti fra loro… Per questo, con Jim avevamo allenato più e più volte questa parte di parete, e solo una volta ben assimilati questi passaggi, ci siamo dedicati all’arrampicata completa, ripartendo dal basso. Ho lottato e lottato, con tutte le mie forze, per superare quel delicato passaggio. Ma a pochi metri dalla sosta ho perso la presa e sono caduta. Peccato, ero davvero vicinissima. Ero però anche stremata: avevo dato tutto. Forse, con il senno di poi, avrei dovuto gestire meglio gli sforzi della vigilia e perdere meno energia preziosa, in modo da essere più fresca l’indomani. Per la prima volta non sono riuscita a completare una via a cui ho lavorato per un anno. Ma ho comunque appreso un’importante lezione, che mi tornerà utilissima per quando riproverò l’assalto a Fly: il mio è solo un arrivederci!».

Moreno Invernizzi
Katherine Choong in parete. (Tara Kerzhner)

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Un Paese su rotaia ricomposto al millimetro

Itinerario ◆ A Neuhausen sul Reno, Smilestones riproduce una parte della Svizzera in scala 1:87 con tanto di paesaggi e convogli

Si chiama Smilestones ed è il mondo in miniatura indoor più visitato in Svizzera. Paese di cui una parte viene qui riproposta in scala 1:87, ossia 87 volte più piccolo rispetto le dimensioni reali. Rappresenta non solo i paesaggi ma anche i valori elvetici in formato ridotto – com’è scritto nel web – concentrandoli in tre regioni, quelle dell’Appenzello, delle Cascate del Reno e dell’Oberland Bernese.

Smilestones si sviluppa su una superficie di 250 mq in cui sono esposti 1300 metri di binari, 120 treni, 700 veicoli, 550 case, 12mila alberi, 23mila figurine e 8mila luci; il tutto supportato da 15 chilometri di cavi elettrici.

Giunti alla stazione di Zurigo HB prendiamo la S9 per Sciaffusa arrivando alla fermata Neuhausen/ Rheinfall in 50 minuti. Qui anziché scendere a destra sul Reno per ammirare le cascate, si sale su un sovrappasso a sinistra e, ripiegando a destra, in pochi minuti siamo all’Esposizione. Dopo essere entrati, la prima visione d’insieme ci conferma che è riduttivo definire la mostra come un puro plastico gigante di treni col paesaggio di contorno; quanto ci troviamo dinanzi è un intero territorio da ammirare, ben miniaturizzato, ricco di dettagli e di spiegazioni interattive (azionabili a pulsanti) che avvicinano il pubblico alla cultura e alle tradizioni locali.

Iniziamo col visitare il Cantone

Appenzello di cui si fa notare la funicolare del Säntis col relativo monte sebbene l’occhio scivoli subito in basso per ammirare la piazza dove si svolge la Landsgemeinde (ndr.: modello di democrazia diretta, con l’assemblea politica pubblica all’aperto), con le casette colorate ma soprattutto le persone che alzano la mano così ben miniaturizzate (è difficile dare un buon effetto a dimensioni tanto ridotte).

Dall’Appenzello ci spostiamo in un settore più grande che racchiude la Svizzera Orientale, iniziando dal viadotto sul fiume Sitter percorso da treni passeggeri e merci più variegati azionati in automatico da un comando centrale. Compare poi il pittoresco villaggio di Stein am Rhein e da qui riconosciamo la collina che porta al Munot, il forte sopra la città di Sciaffusa col suo versante di vigneti. In basso, la sua stazione con binari, catenarie e fabbricati ben riprodotti, e il centro storico; muovendoci osserviamo l’insieme da diverse prospettive scegliendo con cura quali dettagli riprendere per le foto, che a Smilestones sono permesse. L’attenzione va, com’è logico, alle magnifiche cascate sul Reno alte 23 metri e larghe 150, le più grandi d’Europa. Prima di spostarci nella seconda

e vasta sala per ammirare l’Oberland Bernese (OB), diamo uno sguardo alla cabina di regia trasparente riservata allo Staff, che programma i movimenti dei 120 treni, di teleferiche e veicoli stradali e persino il passaggio graduale dal giorno alla notte, in cui i paesaggi e i veicoli in movimento vengono ben illuminati. Da destra a sinistra si ammirano Mürren e Lauterbrunnen, col ristorante girevole sullo Schilthorn (gira anche qui!) – nota location di un film di James Bond – e, in basso, le stazioni con i treni delle Jungfrau Bahnen (JB). Non poteva mancare poi uno sfondo col Cervino (visibile dai monti dell’OB) e la stazione di Kleine Scheidegg, punto di partenza per salire a quella più alta d’Europa di Jungfraujoch a 3454 m. E a questo punto si staglia lo scenario imponente di Eiger, Mönch e Silberhorn, patrimonio mondiale dell’Unesco e qui riprodotti con tanta maestria. Scendendo col nostro sguardo e seguendo il profilo altimetrico, un’altra meraviglia è la stazione di Interlaken al cui esterno è riprodotto un famoso hotel e la via con dei pedoni, i lampioni, le auto ma anche con le persiane e le tende delle case in evidenza.

Per i «trenofili» da gustare sono anche i segnali che cambiano colore, fermando i treni al rosso per alternare i transiti nei due sensi. Ci spostiamo verso sinistra e vediamo il Gruppo della Jungfrau da un’altra prospettiva con in basso Grindelwald e più in alto il ghiacciaio ove sorge il Fiume Aare, con i suoi 288 km, il più lungo intera-

mente in Svizzera, e la sua gola profonda. Tra i dettagli che notiamo, una grossa pista blu con un toboga che porta i passeggeri in un percorso da montagne russe verso il basso, mentre su una strada compare una corsa ciclistica con tanto di auto ammiraglie al seguito e gli spettatori a lato.

Non manca nemmeno uno stand per i tiri obbligatori con 12 bersagli riconoscibili – e spiegazione interattiva – oltre un pizzico di humor con un elefante al di fuori di un negozio di porcellane; meno umoristici sono i meccanici che sollevano un’auto per le riparazioni. Diventa comunque

un gioco per adulti, ragazzi e bambini andare a caccia di tutti i numerosi dettagli…

All’estrema sinistra in alto, troviamo invece il Passo del Grimsel a 2164 mslm che collega l’OB con l’Alto Vallese. Il tour potrebbe finire qui, basta salire al piano superiore per rimanere di nuovo senza fiato. Qui, da una balconata, la scenografia allestita nel padiglione dell’OB è imponente e può essere sorvolata dai nostri occhi come un drone, spaziando dai monti ai villaggi fino alla stazione di Interlaken che, dall’alto, fa percepire anche il differente scartamento (distanza delle traversine) tra i treni BLS e FFS da una parte e quello ridotto delle JB dall’altra. Il tutto, tra effetto giorno ed effetto notte, in cui risaltano le luci dei paesaggi che si uniscono a quelle dei treni in movimento.

Tornati al piano terra, prima di uscire, viene spontaneo mettersi alla ricerca di quei dettagli che di certo ci sono sfuggiti ed è su questo che si gioca la durata della visita, dai 45 minuti alle due ore a seconda del nostro interesse. Abbiamo visto un pubblico variegato di adulti giovani e anziani, e molte famiglie; la mostra è aperta tutto l’anno e si adatta anche alle scolaresche e ai gruppi con possibilità di visite guidate su prenotazione.

Informazioni

www.smilestones.ch

La piazza della Landsgemeinde nella città di Appenzello. (Smilestones)
Battello nell’Oberland bernese, Lago di Brienz. (Smilestones)
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Quell’orlo malinconico da cui

Poesia ◆ Tradotta in tedesco da Christoph Ferber la raccolta postuma di Giorgio Orelli

A dodici anni dalla scomparsa del suo autore esce oggi per la prima volta in edizione autonoma l’ultima, per quanto incompiuta, raccolta poetica di Giorgio Orelli. La notizia è di quelle che meritano di essere festeggiate: nei cataloghi delle biblioteche, oltre che in quello della casa editrice Limmat di Zurigo, d’ora innanzi esisterà infatti come titolo indipendente L’orlo della vita, la citazione dantesca che Orelli aveva scelto per raccogliere i versi dei suoi anni più estremi, scritti dall’orlo di un’esistenza già proiettata verso un «di là» intriso di mistero e malinconia, e contemporaneamente così pieni di lontane memorie giovanili, tra Airolo, Prato, Faido e l’Ascona del Collegio Papio.

Alcuni di questi testi, conservati dattiloscritti in una cartelletta mostrata a pochi intimi, erano stati anticipati prima del 2013 in edizioni d’arte, volumi miscellanei o fascicoli di riviste (su «Viceversa», «Poesia», «Cenobio»), ma ancora mancava il disegno complessivo della raccolta, a cui l’autore continuò a lavorare fino alla fine dei suoi giorni senza purtroppo poter concludere l’opera.

In occasione dell’uscita dell’Oscar Mondadori con Tutte le poesie, nel 2015 Pietro De Marchi si era sobbarcato l’ardua fatica di studiare e pubblicare quelle carte con criteri filologici rigorosi e prudenti, nel pieno rispetto – per quanto possibile – della volontà dell’autore. Nonostante il fatto che i testi fossero quindi disponibili sin da allora ai lettori italiani, anche se un po’ nascosti tra le pagine finali dell’Oscar, fa ben altro effetto ritrovarseli oggi tra le mani in questa nuova veste, selezionati, curati e tradotti con competenza da un professionista della caratura di Christoph Ferber. Con questa pubblicazione si può ben dire insomma che l’Orlo inizi finalmente una sua propria vita editoriale.

Parpaglioni

L’impresa non deve essere stata delle più semplici, se è vero che oltre alle difficoltà insite nella lingua poetica di Orelli (fitta di rimandi cólti alla più grande tradizione italiana: da Dante a Leopardi passando per Ariosto) nel libro compaiono alcuni testi composti in dialetto leventinese che Ferber, nativo di Sachseln, ha pensato intelligentemente di tradurre nella sua stessa parlata materna, l’Obwaldnertütsch. Fa sorridere il pensiero che a volte, persino per un buon conoscitore del «dialetto della ferrovia» quale mi ritengo, sia quasi più comprensibile la nuova versione che non l’originale orelliano: «I

Piozzini e Wermelinger

Castelli di sabbia. Sangue

Sabbia e altre aride cose

Salvioni Narrativa

’l so be’ / cus ti péisat, ti péisat cu i varés / un grèi di chela murtadela» (reso dal traduttore con «Ich wäiss es, / was tänksch, dui tänksch, äs gheerti da / no ä chli Mortadella drzuä»). Non parliamo poi del memorabile attacco di Clandestina:

«Da lusc u m pereva ’l taplöc / di cèuri da Cüroni, / ma l’éra ’na fömnèta, trècia sü / ’me na zingra», con la sua significativa sovrapposizione di mondi, quello dei campanacci delle capre di Chironico e quello dei suonatori ambulanti di origine andina. Nel complesso, l’ultimo Orelli pare davvero una summa di tutta la sua esperienza letteraria passata, con in

La Teresa e il Rocco Sali D’Argento

aggiunta un tasso di dolcezza e di garbo che non mancherà di commuovere i lettori. Non si contano infatti i «non», i «poco», i «forse», i «senza», i «mai», in un infittirsi di affermazioni negate, di atmosfere attutite dalla lingua («né vecchio né giovane», «né gravi né convinti», «né scoppia né crepa») prima ancora che dalla lontananza dei ricordi: «Da Milano a Pavia / ci sono treni che hanno così poca / fretta che, a volte, in primavera, quando / spuntano i primi cespi smerlettati, / prendono la campagna lenti lenti […] guardati da santi / che in cima a campanili alzano un piede / come per volare via».

Dall’esile ma ricco ventaglio dell’Orlo della vita, specie per chi abbia un po’ di dimestichezza con le raccolte precedenti, si irraggiano a ritroso innumerevoli fili che recuperano le ben note scene del poeta alle prese con le prime scoperte entusiaste di figlie o nipoti, così come le mai smussate punte di poesia civile (i cosiddetti «cardi») o i sempre sorprendenti incontri con persone già in là con gli anni, pronte a condividere con chi scrive il nucleo fondante della loro saggezza, secondo un fortunato modello inaugurato con Sinopie (1977): «Irrompe strepitando oltre misura / nel breve sotto-

Nel Lago Maggiore un cadavere riaffiora in circostanze enigmatiche: sedato, infilato in un salvagente e affondato nella darsena di una villa prestigiosa. L’ispettore Alberto Corti, con l’aiuto dell’anatomopatologo

Le parole del Giubileo Dadò Editore

Si trova un’allegria scomposta, quasi da fiera di paese, nelle pagine della Satira della Penagia di Parpaglione Criviasco, a cura di Gabriele Alberto Quadri (da poco scomparso), per le edizioni Officina dei Libri. Non racconti, ma piccole «istantanee deformate», scritte come se la lingua fosse un impasto di burro e dialetto, di oscenità e invettiva, di immagini barocche e schiette risate da osteria. È una voce che non cerca equilibrio, ma esuberanza: parole inventate, latinismi improvvisi, allusioni sboccate, fino a trasformare la satira in una festa linguistica. Dietro questa furia comica, però, non c’è solo la voglia di scandalizzare. C’è una tradizione che riaffiora: i poeti giocosi medievali, il carnevale rinascimentale, la Roma di Belli, il gusto di Rabelais per la corporeità. L’autore si inserisce in questa linea con un tono personalissimo, capace di alternare la trivialità di una «Lode della gnocca» (in dialetto con traduzione italiana) alla malinconia visionaria di un’insonnia notturna. La penagia, antico strumento caseario, diventa così emblema di una scrittura che sbatte, impasta e centrifuga la materia della vita. Si ride, si arrossisce, si resta soggiogati non dallo sguardo senza pudori, ma dal divertimento linguistico.

Loculi e del capitano della polizia lacuale, si misura con un’indagine che non concede scorciatoie. In Castelli di sabbia (Salvioni, 2025), il losonese Marco Piozzini e Amédéo Wermelinger, professore a Neuchâtel, costruiscono un intreccio che attraversa la cronaca e si addentra nelle ombre della memoria collettiva, fino a lambire l’eco ancora viva dell’Iniziativa Schwarzenbach. Dopo Lago Maggiore – genesi e Sabbie del passato, premiato allo Stresa 2024, gli autori confermano la loro scrittura solida e tesa, mentre Corti si impone come investigatore capace di leggere le pieghe della storia dentro a un delitto.

È un romanzo nato da un vero segreto di famiglia, ma che aspira a far vibrare il cuore di tutti: La Teresa e il Rocco (Sali D’Argento, 2025), romanzo d’esordio di Delio Beretta, riporta ai primi del Novecento nella valle di Blenio una storia di stigma e fughe lontane. Teresa, marchiata sin dall’origine da una nascita illegittima e da un corpo deforme, incrocia Rocco, giovane impulsivo che preferisce imbarcarsi verso l’Uruguay piuttosto che affrontare una paternità non cercata. Attorno a loro si addensano dialoghi rapidi, battute veloci e una scrittura che procede senza abbellimenti, ma con un sentimento costante di vicinanza e partecipazione. Nessun compiacimento nostalgico: piuttosto il desiderio di dare dignità narrativa a vite marginali, trasformando il segreto bisbigliato da una zia in materia romanzesca. In queste pagine, Delio Beretta, di Leontica – dopo aver composto poesie in dialetto, e aver scritto racconti brevi – mostra come da pochi indizi possa nascere una trama romanzesca che parla al presente, intrecciando, in un piccolo affresco bleniese, l’invenzione narrativa con il filo sottile della memoria familiare, e le miserie alla vitalità con naturalezza disarmante.

Colma due vuoti, il libro Le parole del Giubileo riedito da Dadò Editore: la scarsa attenzione mediatica per il Giubileo della Chiesa cattolica, che è stato aperto da papa Francesco alla fine del 2024 e verrà chiuso da Papa Leone alla fine del 2025; e il recupero di una voce molto apprezzata dai cattolici (e da molti non cattolici) ticinesi, quella di don Sandro Vitalini, scomparso 5 anni fa. Si tratta di una serie di brevi riflessioni del teologo pubblicate dal «Giornale del Popolo» nel Duemila, durante il Giubileo voluto da papa Wojtyla, e assemblate in un volumetto oggi introvabile e quindi ora ristampato. Vitalini passa in rassegna per ordine alfabetico i concetti fondamentali del cristianesimo (dalla A di «Alleanza» alla V di «Vocazione»). Ne esce un fulminante compendio divulgativo della sua «teologia della gioia» che non teme di

criticare velatamente, se è il caso, anche la dottrina ufficiale della Chiesa. Come alla voce «Indulgenza», quando scrive che il termine ha assunto una connotazione pessima perché di fatto è legata ai «soldi» e «sarebbe forse meglio trovare un altro termine, come misericordia». La sua didattica è efficace e coraggiosa. Dell’«inferno» dice che «non va certo immaginato come un campo di concentramento con una serie di tormenti raffinati e eterni», perché l’inferno è già in terra: «più una persona fa una scelta egoistica (…) e più esperimenta la dannazione». Viceversa, alla voce «Conversione», spiega che quanto più una persona vive lontano dalla cattiveria, dall’invidia e dalla gelosia, «tanto più esperimenta che il regno è qui, nel suo cuore e trabocca sui famigliari, sui colleghi, sul mondo». Suonano attualissime le sue considerazioni sulla pace quando ricorda che «dietro l’immensa macchina bellica sta il mammona della iniquità che immagina nemici anche dove non ci sono, pur di sviluppare degli armamenti sempre più sofisticati e costosi». È bello ritrovare in questi tempi di violenza efferata e di odio la voce umanissima di Sandro

Vitalini, che suona come un antidoto anche contro ogni forma di fondamentalismo religioso. C. S.
Delio Beretta
Sandro Vitalini
A far da copertina del libro L’orlo della vita, è la metà destra dell’opera Triangle, cercle, segments de cercles et lignes di Sophie Taeuber-Arp (1889–1943). (Kunst Museum Winterthur)

Ricetta della settimana - Spaghetti alla carbonara

Ingredienti

Piatto principale

Ingredienti per 4 persone

180 g di guanciale di maiale (oppure pancetta)

50 g di pecorino romano

6 uova fresche

350 g di spaghetti sale

pepe nero macinato fresco pecorino romano da portare in tavola

Preparazione

1. Tagliate il guanciale a dadini di 0,5 cm. Rosolateli senza grassi in una grande padella, finché iniziano a diventare croccanti.

2. Grattugiate finemente il pecorino, poi separate i tuorli dagli albumi.

3. Nel frattempo, cuocete gli spaghetti quasi al dente in acqua salata. Poco prima di scolarla, prelevate una tazza di liquido di cottura e tenetela da parte. Sbattete i tuorli in una ciotolina, poi mischiateli con il pecorino, il pepe e 2 cucchiai del liquido di cottura tenuto da parte.

4. Scolate gli spaghetti e lasciali sgocciolare, poi aggiungeteli al guanciale a dadini. Togliete la padella dal fornello e lasciate raffreddare leggermente la pasta e la carne per mezzo minuto, rimestando di tanto in tanto.

5. Aggiungete la miscela alle uova e al formaggio, poi mescolate gli spaghetti. Se occorre, aggiungete ancora un po’ di liquido di cottura per rendere la pasta più cremosa. Distribuite gli spaghetti nei piatti. A piacimento, cospargeteli con pecorino e pepe.

Consigli utili

Il guanciale di maiale è una varietà di pancetta piuttosto grassa e non affumicata. Può essere sostituito con la pancetta comune. Coprite gli albumi avanzati e riponeteli in frigo. Il mattino seguente potrete usarli per preparare un’omelette di albumi. Invece del pecorino potete usare il parmigiano.

Preparazione: circa 30 minuti

Per porzione: circa 40 g di proteine, 39 g di grassi, 60 g di carboidrati, 760 kcal

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Colpo critico ◆ Nel gioco da tavolo [kosmopoli:t] si serve ai tavoli districandosi tra ordini concitati e idiomi rari, dal kinyarwanda al negidal

Jean-Pierre Minaudier è un ex professore di storia che, come capita a molti, intorno alla quarantina ha avuto una crisi. Non si è comprato una moto, né si è trovato un’amante, ma per cinque anni è riuscito a leggere solo dei libri di grammatica. Poi gli è passata, ma ancora oggi possiede 1454 libri su 1015 diversi idiomi rari.

A parte il francese, lo spagnolo, l’inglese e un po’ di tedesco, Minaudier se la cava con l’estone e sta tentando d’imparare il basco, che ha una delle morfologie più complesse in Europa. Ma ciò che predilige non è tanto apprendere le lingue quanto esplorarle, come un avventuriero che fa rotta per luoghi sconosciuti.

Dalla lingue in via d’estinzione alla poesia del gerundio, gli strumenti per esploratori linguistici e grammatiche incantevolmente esotiche

«La lettura di una grammatica può costituire un vero romanzo poliziesco», scrive in Poésie du gérondif (Le Tripode, 2024). «Chi diamine è il colpevole, l’accusativo o il genitivo? Talvolta la suspense cresce, insostenibile, per più capitoli: l’accordo del verbo con il complemento oggetto diretto si

farà anche nelle subordinate? Dopo una dimostrazione mozzafiato, la cui conclusione è che “tutte le vocali brevi del khalka sono in realtà degli schwa epentetici” (le ragazzacce!), il lettore doverosamente eccitato proverà una voluttà prossima a quella di un agente della polizia sovietica che smaschera un nido di sabotatori nazi-trotzkista in una fabbrica bielorussa del 1937».

Ho la tentazione di soffermarmi sul khalka, che è la lingua ufficiale della Mongolia, o sulle vocali epentetiche (che ci fanno dire «in Isvizzera» invece di «in Svizzera»). Ma preferisco evocare un gioco che di certo piacerebbe a Minaudier: [kosmopoli:t] (Opla, 2020). Il titolo mima i caratteri con cui l’alfabeto fonetico internazionale trascrive i suoni, e infatti [kosmopoli:t] evoca l’atmosfera di un ristorante in cui si parlano sessanta lingue diverse, originarie di tutti i continenti. L’edizione originale presenta pure una scelta di dialetti francesi, come il bretone o l’occitano. Esistono anche una versione giapponese e una tedesca; in italiano non c’è, ma su internet si trovano le regole tradotte. Per intavolare il gioco, comunque, anche se può sembrare strano, non occorrono particolari competenze linguistiche, grazie a un’applicazione scaricabile gratuitamente e molto intuitiva.

Julien Prothière e Florent Tosca-

Giochi e passatempi

Cruciverba Lo sapevi che il delfino… Scopri il resto della frase risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 5, 3, 2, 6, 6)

ORIZZONTALI

1. Si può prendere di petto

3. Le tracce del passato

7. Cassandro ne costruì una

9. Davanti al nome degli ecclesiastici

10. Un capitolo del Corano

12. Un avverbio

13. Mezzo di propulsione

15. Particella eufonica

16. Riflettono senza pensare

22. Se ci... capovolgete

24. Si sente nella gola...

25. Diede i natali al Vasari (Sigla)

26. Su in inglese

28. Le iniziali dell’attore Preziosi

30. Il fiabesco Babà

32. Si occupa in autostrada

35. Muscat è la sua capitale

37. Atletico e muscoloso

38. Un quinto di five

VERTICALI

1. Sulle ricette

2. A pertura circolare nella parte superiore della cupola

4. Repubblica Dominicana

5. Il mio francese...

6. Esposizione con i cavatappi

8. Infecondi

no spiegano di averlo creato con l’aiuto di numerosi esperti. I partecipanti cooperano nel servire il più in fretta possibile, in tempo reale, il maggior numero di clienti in un ipotetico (e caotico) ristorante. Un giocatore indossa un paio di cuffie: ha il compito di ascoltare e ripetere le ordinazioni, pronunciate nell’applicazione da persone di lingua madre. Un secondo giocatore funge da maître d’hôtel, prende nota delle richieste e coordina gli altri (da due a sei). Questi dovranno cercare gli alimenti e le bevande all’interno

di vari mazzi di carte, alcuni con l’immagine del prodotto e altri con la trascrizione fonetica delle richieste. L’atmosfera è vivace, con molte risate, ed è bizzarro sentire come intorno al tavolo risuonino contemporaneamente idiomi parlati nel profondo della foresta amazzonica, nei deserti australiani o in un piccolo villaggio pirenaico. Nella scatola si trova un opuscolo redatto da specialisti, in linguaggio accessibile, con molte informazioni tecniche. Infatti [kosmopoli:t] ha un valore patrimoniale: tra le varie lingue

11. Le iniziali della Clerici 14. Simbolo dell’arsenico 17. Sigla di polietilene 18. Una Licia in tv 19. Vale 10000 metri quadrati

20. Il nome della cantante Grandi

21. Teme l’orso bianco

23. La più famosa è Bianca 27. Pronome personale

29. Un codice bancario

31. Posto in basso

33. Le separa la «esse»

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

proposte per esempio c’è il negidal, che nel 2020 contava solo sette locutori nel Territorio di Chabarovsk, nelle steppe siberiane. «Da quando è uscito il gioco», spiegano gli autori in un’intervista, «ogni giorno centinaia di persone parlano il negidal, e questa per noi è una soddisfazione» («PhiliMag», magazine n° 56, 2025). Le regole sono semplici, ma le partite sono impegnative, con mille strane sillabe che risuonano intorno: vai a sapere che la donna che chiede ibichyim’bo nibijoumba vuole degli spinaci (in kinyarwanda, parlato in Rwanda) e che lo ngo ngoro kari ngoronou è un granchio in paici (Nuova Caledonia, 7250 locutori). Subito dopo avrete voglia di un gioco più taciturno. E allora vi consiglio di provare Ritual, creato nel 2022 da Tomás Tarragón per l’editore T-Tower Games. Come [kosmopoli:t], è un cooperativo in tempo reale. I partecipanti, da due a sei, sono degli sciamani che devono comunicare per disporre delle pietre elementari nell’ordine corretto. Tutto questo senza parlare, nemmeno una parola, ma solo per mezzo di gesti, spostando delle rune magiche. Io ti passo una pietra gialla, tu me ne dai una rossa, che cosa vorrà dire? Niente, non si può aprire la bocca. Posso solo intuirlo guardandoti negli occhi, mentre intorno al tavolo splende il silenzio.

I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku cliccando sull’icona «Concorsi», homepage in alto a destra Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano . Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.

Hitdella settimana

14.10.–20.10.2025

1.95 invecedi2.95

PrugnerosseExtra Italia/Spagna, vaschettada600g, (100g=0.33) 33%

conf.da5 32%

apartireda3pezzi 33%

TuttiipannoliniPampers (confezionimultipleescluse), peres.PremiumProtection,tg.1,24pezzi, 6.53 invecedi9.75,(1pz.=0.27)

apartireda2pezzi 35%

Cetrioli Spagna/Svizzera,ilpezzo, –.65 invecedi1.–, offertavalidadal16.10al19.10.2025

Finoaesaurimentodellostock. Datutteleoffertesonoesclusigli articoliM-Budgetequelligiàridotti.

apartireda2pezzi 30%

Tuttol’assortimentodisottaceti ediantipasti,Condy peres.cetriolini,290g, 2.07 invecedi2.95, (100g=0.71)

6.60 invecedi9.75

WienerliM-Classic Svizzera,5x4pezzi, 5x200g,(100g=0.66)

RavioliAnna'sBestrefrigerati ricottaespinaci,allacarnedimanzo d'HérensdelValleseoppuremozzarellae pomodoro,peres.ricottaespinaci,3x250g, 9.50 invecedi14.25,(100g=1.27)

4.80 invecedi6.90

Filettodimanzo BlackAngusM-Classic, alpezzo Uruguay,per100g, inself-service,offertavalida dal16.10al19.10.2025 30%

conf.da6 50%

3.30 invecedi6.60

Evian 6x1,5litri,(100ml=6.90)

Validigio.–dom.

Prezzi

imbattibili weekend del

30%

FolEpiafette ClassicoLégère,inconf.speciale,peres.Classic, 462g, 7.50 invecedi10.78,(100g=1.62), offertavalidadal16.10al19.10.2025

Settimana Migros Approfittane e gusta

3.85 invece di 5.50

Pizzutella

6.60 invece di 9.75

Tutto l’assortimento di sottaceti e di antipasti, Condy per es. cetriolini, 290 g, 2.07 invece di 2.95, (100 g = 0.71) a partire da 2

Wienerli M-Classic Svizzera, 5 x 4 pezzi, 5 x 200 g, (100 g = 0.66)

3.30 invece di 6.60 Evian 6 x 1,5 litri, (100 ml = 6.90)

Ravioli Anna's Best refrigerati ricotta e spinaci, alla carne di manzo d'Hérens del Vallese oppure mozzarella e pomodoro, per es. ricotta e spinaci, 3 x 250 g, 9.50 invece di 14.25, (100 g = 1.27) conf. da 3

Tutti i pannolini Pampers (confezioni multiple escluse), per es. Premium Protection, tg. 1, 24 pezzi, 6.53 invece di 9.75, (1 pz. = 0.27) a partire da 3 pezzi

Che bontà l’autunno!

a partire da 2 pezzi 30%

Carote Migros Bio e Demeter, in sacchetto da 1 kg Svizzera, per es. Migros Bio, 2.24 invece di 3.20

Tutti i funghi freschi Migros Bio per es. champignon marroni, Svizzera, vaschetta da 250 g, 3.16 invece di 3.95, (100 g = 1.26) 20%

PREZZO BASSO

1.30 Patate per raclette Svizzera, sacchetto da 1 kg

22%

7.95

invece di 10.20

2.95

Insalata sorpresa 160 g, (100 g = 1.84)

Riempi la borsa vitaminica a prezzo fisso con zucchine, peperoni, pomodori a grappolo e melanzane

Borsa vitaminica da riempire con verdura per ratatouille pomodori a grappolo, melenzane, peperoni rossi e gialli, zucchine, (Migros Bio e Demeter esclusi), Svizzera/Spagna/Paesi Bassi, almeno 2,9 kg, (1 kg = 2.74)

Marroni Italia, al kg, (100 g = 0.67) 30%

6.65

invece di 9.50

Migros Ticino

Prelibatezze per il tagliere

invece di 8.80

Migros Ticino

15.70

8.40

1.55

Migros Ticino

2.45

3.35

CONSIGLIO DEGLI ESPERTI

Un gigot di agnello cotto a fuoco lento diventa meravigliosamente tenero. Marinare la carne con olio d'oliva, sale, pepe ed erbe aromatiche e scottarla bene in padella. Quindi cuocere in forno fino a raggiungere una temperatura nel cuore di 60–62 °C. Un gigot da 1,5 kg richiede circa 2,5 ore a 80 °C.

2.50

Pesce e frutti di mare

Il mare nel piatto

4.95

Filetti di sogliola limanda pesca, Oceano Atlantico nord-orientale, per 100 g, al banco 20%

invece di 6.20

8.95

invece di 12.–

Filetti di orata con pelle M-Classic, ASC d'allevamento, Turchia, 350 g, in self-service, (100 g = 2.56) 25%

8.95

invece di 13.05

Gamberetti tail-on M-Classic, cotti, ASC d'allevamento, Vietnam, 450 g, in self-service, (100 g = 1.99) 31%

9.95

invece di 13.50

Salmone affumicato dell'Atlantico Migros, ASC d'allevamento, Norvegia, 300 g, in self-service, (100 g = 3.32) 26%

8.95

invece di 11.20

Filetti di trota salmonata con pelle M-Classic, ASC d'allevamento, Norvegia, 380 g, in self-service, (100 g = 2.36) 20%

18.95

invece di 23.90

Filetti di salmone bio, Pelican prodotto surgelato, 2 x 250 g, (100 g = 3.79) conf. da 2 20%

Migros Ticino

Prelibata croccantezza

Millefoglie in conf. speciale, 6 pezzi, 471 g, (100 g = 1.17) 29%

5.50 invece di 7.80

2.20

invece di 3.10

4.40

di 6.30

Pane del boscaiolo IP-SUISSE

500 g, prodotto confezionato, (100 g = 0.44)

2.30

Berliner con ripieno di lamponi e ribes rosso Petit Bonheur

conf. speciale, 6 pezzi, 420 g, (100 g = 1.05)

1.70

Burger Buns American Favorites con sesamo pretagliati, 6 pezzi, 300 g, (100 g = 0.57)

3.60

Treccia al burro IP-SUISSE

500 g, prodotto confezionato, (100 g = 0.72)

–.70

Croissant pur beurre

70 g, in vendita sfusi, (100 g = 1.00)

Delizie per tutti i palati

2.35

invece di 2.95

Le Gruyère piccante Migros Bio, AOP circa 250 g, per 100 g, prodotto confezionato 20%

2.05

invece di 2.60 Fontal artigianale per 100 g, prodotto confezionato 21%

1.75

Formaggella ticinese 1/4 grassa per 100 g 16%

invece di 2.10

Tutto il formaggio per raclette a fette Migros Bio per es. pepe, 10 fette, 240 g, 5.20 invece di 6.50, prodotto confezionato, (100 g = 2.17) 20%

2.20

invece di 2.80

Appenzeller Surchoix Migros Bio circa 220 g, per 100 g, prodotto confezionato 21%

Ticino A base di latte crudo

Conf. da 3 20%

7.05

invece di 8.85

Parmigiano Reggiano grattugiato Migros Bio 3 x 75 g, (100 g = 3.13)

5.–

invece di 6.–

Creme Dessert Tradition Vanille, Caramel o Chocolat au lait, 4 x 175 g, (100 g = 0.71) conf. da 4 1.–di

6.80 invece di 8.50 Büscion di capra 200 g, (100 g = 3.40) 20%

Tutti i Caffè Latte Starbucks per es. Caramel Macchiato, 220 ml, 1.96 invece di 2.45, (100 ml = 0.89) 20%

Tutti gli yogurt Elsa, IP-SUISSE per es. stracciatella, 180 g, –.76 invece di –.95, (100 g = 0.42) a partire da 4 pezzi 20%

In offerta anche la linea «Barista», ideale per chi desidera tanta schiuma

Sostituti del latte bio Alnatura, 1 litro vegani, disponibili in diverse varietà, per es. bevanda all'avena Nature, senza zuccheri aggiunti, 1 litro, 1.40 invece di 1.75, (100 ml = 0.14) 20% Latte UHT semiscremato aha!, IP-SUISSE 1 litro, 1.60 invece di 2.–a partire da 2 pezzi 20%

Migros Ticino
riduzione

C’è profumo di formaggio nell’aria

2.80

22.30 invece di 27.90

Fondue moitié-moitié Caquelon Noir, AOP Le Gruyère e Vacherin Fribourgeois, 2 x 600 g, (100 g = 1.86)

Pane da riscaldare per fondue M-Classic, IP-SUISSE 2 x 300 g

1.95 invece di 2.35 Pancetta affumicata da cuocere, al pezzo, IP-SUISSE in conf. speciale, per 100 g

Fondue 6 Rosso Mio Star il pezzo 30% 2.95

invece di 79.95

Tisana con erbe delle Alpi svizzere Migros Bio 20 bustine, (100 g = 11.35) 6.–

Gusto casalingo, preparazione lampo

partire da

Tutte le paste in blocco e già spianate, Anna's Best per es. pasta per pizza, spianata, rettangolare, 580 g, 4.– invece di 5.–, (100 g = 0.69)

Ravioli Anna's Best, refrigerati (confezioni multiple escluse) ricotta e spinaci, alla carne di manzo d'Hérens del Vallese oppure mozzarella e pomodoro, per es. ricotta e spinaci, 250 g, 3.18 invece di 4.75, (100 g = 1.27) a partire da 3 pezzi

Con tanta vitamina C e senza zuccheri aggiunti

Per riempire la dispensa

Tutte le capsule Café Royal incl. CoffeeB per es. lungo, 10 capsule, 3.38 invece di 4.50, (100 g = 6.38)

Boncampo in chicchi Classico e Oro, 1 kg, 9.07 invece di 12.95, (100 g = 0.91) a partire da 2 pezzi

partire da 2 pezzi

Tutti i cereali bio Alnatura per es. croccante all'avena e ai frutti di bosco, 375 g, 2.56 invece di 3.20, (100 g = 0.68)

Tutto l'assortimento di passata, sughi e pesti, bio, Alnatura per es. passata vegan, 690 g, 1.16 invece di 1.45, (100 g = 0.17)

Tutti i tipi di olio Alnatura, bio (senza olio di cocco), per es. olio extra vergine di oliva, 500 ml, 6.80 invece di 8.50, (100 ml = 1.36)

La Trattoria surgelate, bolognese o verdure, per es. bolognese, 2 x 600 g, 6.90 invece di 9.90, (100 g = 0.58)

a partire da 2 pezzi 20%

Tutte le gallette di riso, di lenticchie e di mais, Alnatura (mini esclusi), per es. gallette di riso al miele bio, 96 g, 1.48 invece di 1.85, (100 g = 1.49)

3.70 invece di 4.95

Sea Salted, Sea Salt & Cider Vinegar o Sweet Chilli & Red Pepper, 150 g, (100 g = 2.47) 25%

Tyrrells Chips

20%

Tutto l'assortimento Fiesta Del Sol per es. tortillas integrali, 8 pezzi, 320 g, 3.36 invece di 4.20, (100 g = 1.05)

conf. da 2 20%

Pizze Buitoni surgelate, Caprese, Prosciutto e funghi o Diavola, 2 x 350 g, per es. Caprese, 8.80 invece di 11.–, (100 g = 1.26)

a partire da 2 pezzi 20%

Tutto l'assortimento di frutta secca e noci Sun Queen (Sun Queen Apéro escluse), per es. spicchi di mango essiccati, 200 g, 3.52 invece di 4.40, (100 g = 1.76)

a partire da 2 pezzi –.30 di riduzione

Tutto l'assortimento di prodotti da forno per l'aperitivo Party per es. cracker alla pizza, 150 g, 2.80 invece di 3.10, (100 g = 1.87)

a partire da 2 pezzi 20%

Tutti i tipi di riso M-Classic 1 kg, per es. riso a chicco lungo parboiled, 1.96 invece di 2.45, (100 g = 0.20)

Tutte le patate fritte e le wedges Denny's prodotto surgelato, per es. Classic Wedges, 600 g, 2.94 invece di 4.90, (100 g = 0.49) 40%

a partire da 2 pezzi

Tentazioni spaventosamente buone

2.50

Dal frizzante al fruttato Bevande

Bellezza e cura del corpo

Per attirare l’attenzione...

Cura per il viso L'Oréal Men Expert Hydra siero alla vitamina C e fluido IP 50, per es. siero alla vitamina C, 30 ml, 19.95, (10 ml = 6.65)

LO SAPEVI? I cerottini Pimple Patches Garnier Pure Active agiscono in modo rapido ed efficace contro i brufoli. È stato scientificamente confermato che i brufoli si riducono visibilmente dopo sole 8 ore. Allo stesso tempo, i cerottini proteggono dallo sporco e riducono il rischio di cicatrici. 24.95

Tutto l'assortimento Artdeco per es. balsamo labbra Color Booster, 4 rosé, il pezzo, 12.75 invece di 17.–

Salviettine cosmetiche e fazzoletti, Kleenex per es. Ultra Soft Cube, 3 x 48 pezzi, 6.– invece di 7.50

e lame di ricambio, Wilkinson Double Edge per es. rasoio, il pezzo, 17.95

Salviettine cosmetiche Linsoft in scatola o in scatola Recycling, per es. in scatola, FSC®, 3 x 150 pezzi, 5.50 invece di 6.90

... e profumare di buono Bellezza e cura del corpo

partire da 2 pezzi

Interessanti questi prezzi!

Detersivo per bucato in gel, in polvere o Power Bars, Persil in confezioni speciali, per es. Gel Universal, 3,6 litri, 24.50 invece di 49.60, (1 l = 6.81) 50%

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Tutte le spugne Clean e Miobrill per es. spugne sintetiche Strong, 3 pezzi, 1.37 invece di 1.95, (1 pz. = 0.46)

Tutti gli ammorbidenti Exelia per es. Florence, in conf. di ricarica, 1,5 litri, 3.57 invece di 5.95, (1 l = 2.38) a partire da 2 pezzi 40% 23.30 invece di 44.81

Detersivo per bucato Discs Color Persil in conf. speciale, 60 pezzi

Tutto l’occorrente per la casa

Tutto l'assortimento di prodotti per la cura dei bebè e di detergenti, Milette (confezioni multiple escluse), per es. shampoo, 300 ml, 2.36 invece di 2.95, (100 ml = 0.79)

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Tutti i frullatori a immersione Mio Star e Braun per es. frullatore a immersione Mio Star Blend & Chop 810, il pezzo, 41.97 invece di 59.95

37.90 Home Storage Box con coperchio 60 litri, 58 x 39 x 35 cm, il pezzo

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Tutto l'assortimento di biancheria da uomo da giorno e da notte (articoli Hit esclusi), per es. pantaloncini Essentials medium, in cotone biologico, grigio, il pezzo, 7.77 invece di 12.95

Tempo riscaldamentodirapido e funzionamento silenzioso

110.–di riduzione

39.95 invece di 149.95

Macchina da caffè CoffeeB Globe disponibile in nero o bianco, il pezzo

Contenitori portaoggetti Home Base Store disponibili nei colori Pine o Coal e in varie dimensioni, per es. Pine, 1,5 litri, 2.35 invece di 2.95 conf. da 3 20%

Tutto l'assortimento di alimenti e snack per gatti Felix per es. sensations sauces al tacchino, anatra, agnello e manzo, 12 x 85 g, 6.36 invece di 7.95, (100 g = 0.62) a partire da 2 pezzi

di 68.85 Cartucce filtranti per acqua Maxtra Pro Brita 3 x 3 pezzi conf. da 3

da cimitero con coperchio disponibili in bianco o rosso

Tutti i tipi di Calluna Ø 13 cm, per es. High Five, il vaso, 5.56 invece di 6.95 20%

di 44.85

filtranti per acqua Kitchen & Co. 3 x 3 pezzi

invece di 9.95

Minirose M-Classic, Fairtrade disponibili in diversi colori, mazzo da 20, lunghezza dello stelo 40 cm, il mazzo

invece di 13.–

Candele profumate Migros Fresh Cassis, Macaron Blanc, Anti-Tabac o Bali, per es. Cassis Noir

Prezzi imbattibili del weekend

35%

Cetrioli

Spagna/Svizzera, il pezzo, –.65 invece di 1.–, offerta valida dal 16.10 al 19.10.2025 a partire da 2 pezzi

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30%

Fol Epi a fette Classic o Légère, in conf. speciale, per es. Classic, 462 g, 7.50 invece di 10.78, (100 g = 1.62), offerta valida dal 16.10 al 19.10.2025

4.80 invece di 6.90 Filetto di manzo Black Angus M-Classic, al pezzo Uruguay, per 100 g, in self-service, offerta valida dal 16.10 al 19.10.2025

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