Assediata - Estratto

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madre. Non rideva spesso, mamma Sabina, anche se Irene non l’aveva mai vista perdere la calma, o gridare, come invece succedeva alle madri delle sue amiche.

Arrivò alla porta di casa sudata e col fiatone. Era un ottobre ancora caldo, il clima impazzito, dicevano, ma doveva essere impazzito da un pezzo, perché lei se li ricordava tutti così i primi mesi di scuola: giubbottino leggero al mattino e, alle 14.00, sfoggio di maniche corte sulla via di casa.

Il venerdì la mamma faceva l’orario corto in ufficio e sapeva di trovarla a casa a cucinare qualcosa di buono.

Irene non doveva riscaldarsi il pranzo o arrangiarsi con una pasta in bianco o un panino al formaggio. Salumi a casa non ce ne erano mai stati, anche se non erano

vegetariane. Sua madre diceva che non facevano bene alla salute. Poco male, Irene era abituata così e, anche fuori casa, davanti a un panino al prosciutto o una fettina di lonza si limitava a dire «no, grazie» e andava oltre.

«Ciao mamma, che si mangia di buono?»

«Pasta alle melanzane».

«Top! Ho una fame! Stamattina la prof di educazione fisica ci ha fatto morire. È andata in fissa con gli addominali».

«E il resto della mattinata com’è andata?»

«Ci hanno portato le verifiche di mate e ho preso nove. Tutto colpa di un errore di calcolo, altrimenti avrei preso dieci come Juanita. Lei ha un computer al posto del cervello. Non sbaglia mai niente».

«Ma tu sei più brava nei temi».

«Per forza, con tutti i libri che ho letto! Me l’hai attaccata tu la malattia…»

«Però ultimamente non ti vedo leggere tanto…»

«Troppo da studiare. E poi tre allenamenti a settimana e la partita non sono uno scherzo».

«Ma sì, non era un rimprovero. Sei bravissima. Leggere deve essere un piacere, non un peso… Piuttosto, lo trovi il tempo oggi pomeriggio per andare a fare un po’ di shopping invernale? Ormai le cose dell’anno scorso ti vanno piccole».

Il corpo di Irene stava subendo una specie di mutazione. In altezza e in larghezza. Non aveva problemi di sovrappeso, ma si era arrotondata sui fianchi e il profilo dei seni premeva sulle magliette. Se ne era accorta con un misto di compiacimento e imbarazzo. Riflessa nello specchio vedeva l’immagine di una donna, mentre lei si sentiva ancora una bambina. Così preferiva nascondere le forme dentro a felpe abbondanti. In effetti quelle che aveva le stavano strette e corte, e addio

effetto nascondi-forme. Quindi, sì, urgeva un cambio di guardaroba. Tanto sarebbe andata a colpo sicuro: per il loro budget limitato c’erano due negozi del centro commerciale dove avrebbero trovato tutto quello che serviva, senza svenarsi.

Dopo aver fatto acquisti, sempre al centro commerciale avevano risolto il problema della cena con un abbondante Happy Hour low cost. Non capitava spesso e in quelle occasioni Irene vedeva la madre avventarsi sul cibo in modo insolito. Lei, che era sempre misurata con le porzioni, si serviva più volte caricando il piatto di un po’ di tutto, come se non mangiasse da giorni.

Anche Irene non era da meno, ma poi subito dopo si pentiva, perché aveva l’impressione di aver preso in un botto due chili, tutti sulle cosce. Per una giocatrice di pallavolo come lei non era l’ideale. Immancabilmente si ripromise che il giorno dopo sarebbe stata a stecchetto, solo frutta e insalata.

Rientrate a casa, Irene e la madre si sedettero sul divano dell’unico locale che fungeva da cucina e soggiorno, facendo zapping davanti alla TV. Irene, con in mano il telecomando, aveva intercettato un tg che mandava in onda il solito servizio sul clima anomalo,

corredato da riprese di spiagge siciliane con bagnanti a mollo. «Temperature record, l’ottobre più caldo dell’ultimo secolo…»: una specie di déjà vu che arrivava puntuale ogni anno, come la corsa per i saldi a gennaio e le code in autostrada in agosto.

Poi, però, le immagini cambiarono bruscamente. Una città ridotta in macerie, file di uomini e donne in coda per l’acqua, barelle su cui giacevano corpi inermi e insanguinati: «Nuovi raid aerei sulla striscia di Gaza. Tra le vittime civili anche decine di bambini. Caduti nel vuoto gli appelli alla pace…».

«Hai visto che succed…». Le parole le morirono in gola, quando, volgendo lo sguardo alla madre, Irene vide il suo volto trasformato in una maschera di dolore.

Rigagnoli neri di lacrime mescolate al trucco scorrevano lenti ai lati del naso. Il petto congelato in un fiato trattenuto, senza un lamento, gli occhi sbarrati fissi sulle immagini del televisore.

«Mamma?»

La madre sembrò scuotersi da quella sorta di torpore dolente e le strappò il telecomando di mano, spegnendo la TV.

«Basta brutte notizie, sono stanca, vado a dormire. Buonanotte, non fare tardi».

Era già successo che reagisse in modo brusco, senza un apparente motivo: si rabbuiava, come assalita da un pensiero tutto suo. Altre volte mollava di botto quello che stava facendo per rintanarsi in camera. Per il resto era una donna quieta e abitudinaria di quarantasei anni.

Irene e la madre vivevano da sole in un quartiere periferico di Milano, senza che niente minacciasse il loro ménage, in cui non mancava nulla se non forse un nonno o una zia con cui trascorrere il Natale o festeggiare i compleanni. Ma era sempre stato così, c’erano solo lei e la mamma. Del suo passato Irene sapeva solo che la mamma prima viveva a Roma, che i nonni erano morti e lei aveva trovato un lavoro a Milano. Il padre non c’era mai stato.

«Sei la mia bambina» le diceva quando era piccola, «il mio tesoro, questa è l’unica cosa che conta. Io non ti lascerò mai».

Se in quegli anni, dopo il padre, fosse apparso un altro uomo nella vita di sua madre, Irene non se ne era mai accorta. Forse – si stava chiedendo, mentre sua madre si era chiusa in bagno a cancellare le tracce di quel momento di crisi – quella sensibilità eccessiva era dovuta proprio al padre fantasma di cui non sapeva nulla.

Forse era un uomo malvagio, che le aveva fatto del male e da cui era fuggita, lasciandole però una ferita che riprendeva a sanguinare quando vedeva qualcun altro soffrire. Da piccola le chiedeva spesso di quel papà che non aveva mai conosciuto e ne riceveva solo risposte vaghe, inconsistenti. Così aveva smesso di chiedere. Ma il pensiero, quello non se ne andava e ora che stava diventando una giovane donna il bisogno di dare un volto, un nome all’uomo di cui portava i geni, stava diventando un’urgenza. Si sentiva incompleta, senza radici. Voleva sapere, voleva capire.

Dei nonni che non aveva mai conosciuto aveva visto solo qualche foto che li ritraeva insieme, con sua madre già grande. La festa del diploma, una gita al mare, un pranzo di Natale… Sabina portava i lunghi capelli biondi, che aveva ereditato anche Irene, sempre raccolti in una coda. Gli occhi verdi, che invece la figlia tanto le invidiava, erano già offuscati da quel velo di tristezza e rassegnazione che la contraddistinguevano anche da adulta. I nonni erano anziani, soprattutto nonno Corrado: i capelli completamente bianchi, un viso mite strizzato di rughe dietro le lenti spesse degli occhiali. Nonna Enrica sembrava un po’ più giovane, con i capelli

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anana a b n a u t ret n f

regi a a ovev . D a amer

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salvavita. Per quello che poteva valere, erano indizi –se non prove – che sua madre non aveva un compagno segreto e nessuna grave malattia. Ma qualcosa che le rodeva dentro sì, quella c’era.

Passò al cassettone e trovò solo magliette, foulard, biancheria intima. Nessun album di fotografie, nessun giocattolo di quando era bambina, nessuna traccia del suo passato.

Sollevò la rete del letto per dare un’occhiata al vano sottostante. Vide solo lenzuola e asciugamani.

Rimaneva l’armadio da perlustrare. Fece scorrere con le dita gli abiti appesi, provando anche a frugare nelle tasche di giacche e cappotti. Poi si concentrò sullo scaffale in cui custodiva le borse, aprendole a una a una. Per esaminare con cura il livello superiore dell’armadio doveva salire sulla scaletta che stava nel ripostiglio. Controllò l’ora. Erano le 16.00, sua mamma sarebbe rientrata alle 18.00, aveva ancora tutto il tempo.

Appesi in alto c’erano gli abiti estivi, mentre l’altro spazio dell’armadio era occupato da due valigie vuote che, per quello che ricordava, sua madre non aveva mai usato. Venivano tirate giù solo quando Irene andava in gita con la scuola, o partiva per i campi estivi al mare

e in montagna, organizzati dal Comune, le sole vacanze che ricordasse.

Con sua madre avevano fatto solo qualche gita di una giornata in località raggiungibili col treno: Torino, Venezia, Bologna, Genova, il lago di Como...

Solo una volta erano rimaste fuori a dormire. Era successo l’estate dopo la prima media, quando la mamma di una compagna aveva tanto insistito perché fossero sue ospiti nella seconda casa a Celle Ligure. Sua madre l’aveva accompagnata, si era fermata due notti, ma si capiva che non era a suo agio e si era inventata una scusa per rientrare a Milano, acconsentendo a lasciarla lì per l’intera settimana e a farla tornare da sola in treno. Come se si sentisse persa a dormire in un altro letto, sotto un altro tetto che non fosse la sua casa, il suo rifugio. Ma in quell’occasione Irene aveva colto solo il bello di stare al mare con l’amica e godersi l’avventura di un viaggio solitario che le aveva tolto di dosso definitivamente quel senso di dipendenza assoluta da sua madre che cominciava a starle stretto.

Le valigie erano impilate l’una sull’altra. Dopo aver aperto la prima e verificato che non nascondeva nulla, la spostò per aprire quella che stava sotto.

Proprio in quel momento si accorse che dietro alle due valigie, addossato al fondo dell’armadio, c’era qualcosa. Si sporse in avanti, in bilico sulla scaletta, per recuperarlo, mentre il corpo mandava segnali di allarme: palmi delle mani sudate, accelerazione del battito cardiaco, volto in fiamme. Tastò l’involucro come a indovinarne il contenuto. Era squadrato, né duro né morbido. Febbrilmente lo liberò dal sacchetto nero che lo avvolgeva e l’oggetto si svelò: un pacchetto di sigarette marca Merit, aperto, a cui mancava una sola sigaretta. E d’improvviso un flash nella mente: lei bambina che osserva la mamma fumare, affacciata alla finestra, e quello stesso pacchetto poggiato sul tavolo. Sua madre fumava, lo aveva dimenticato. Immaginò che a un certo punto avesse deciso di smettere e quel pacchetto ancora pieno e così nascosto poteva essere stata una sfida con sé stessa. L’ultima sigaretta, come quella del brano del libro La coscienza di Zeno, che avevano letto in classe. Ma per mamma era stata davvero l’ultima, ce l’aveva fatta. Rimise il pacchetto dietro alle valigie e scese dalla scaletta, con quella stessa delusione di chi scarta un regalo tanto atteso per trovarci dentro un oggetto brutto e inutile.

In cantina, ecco dove poteva cercare. Erano anni che non ci andava. Lo faceva da bambina, al seguito della mamma, che non voleva lasciarla sola in casa quando scendeva per riporre qualcosa, o per riattivare la corrente che era saltata. Non le piaceva scendere lì sotto, dove faceva sempre freddo, anche in estate, e dove non c’era mai nessuno. La immaginava infestata da topi, di cui le sembrava di sentire i passetti svelti radenti ai muri, oppure da folletti maligni che aspettavano solo il momento di sorprenderla da sola. Per questo rimaneva incollata alla mamma, con gli occhi chiusi, e solo quando si ritrovava nella sua cameretta sentiva che il pericolo era passato. Fino a quando restare sola in casa per pochi minuti le era sembrato molto più rassicurante che scendere laggiù. Ora non era più una bambina e aveva un buon motivo per misurarsi con le sue paure. Prese le chiavi appese vicino alla porta e scese le due rampe di scale sperando di non incrociare uno dei condomini.

Nel sotterraneo del condominio un corridoio stretto si diramava poi in due direzioni, su cui si affacciavano le singole cantine. Che doveva prendere il corridoio di sinistra lo ricordava bene, ma di fronte a quelle porte tutte uguali si rese conto di non avere idea di quale

fosse quella giusta. Non restava che provare la chiave nei lucchetti che fermavano i chiavistelli. La sensazione di essere una ladra amplificava l’ansia di ritrovarsi laggiù per la prima volta da sola. La chiave o non entrava nei lucchetti o girava senza aprirli. Li aveva provati tutti, con gesti sempre più nervosi e la paura che, se avesse forzato troppo, la chiave si sarebbe spezzata.

Lasciò cadere il mazzo di chiavi con un gesto di stizza, soffocando un’imprecazione. Poi fece appello a tutta la sua ragionevolezza, si impose di calmarsi e respirò a lungo, inspirando dal naso e poi buttando fuori l’aria dalla bocca, come aveva imparato durante le sessioni di yoga che la nuova coach aveva affiancato ai soliti allenamenti, per aiutare le atlete a trovare la giusta concentrazione. Sentì il respiro che scioglieva le tensioni nelle spalle per poi andare ad ammorbidire i muscoli delle braccia e a rilassare anche le dita delle mani. Ora poteva riprovare con le serrature, dalla prima all’ultima, sempre cercando di respirare con calma. E alla fine il lucchetto dell’ultima porta, quella subito prima del vano con i contatori elettrici, fece click.

Sfilò il chiavistello, premette l’interruttore e si ritrovò in un locale molto più piccolo di come lo ricordava, dove tutto era riposto ordinatamente negli scatoloni,

con le scritte in pennarello rosso. C’erano i suoi abiti da neonata, libri illustrati, scarpe vecchie, attrezzi vari…

Le scatole erano chiuse con il nastro adesivo, se le avesse aperte difficilmente la madre non se ne sarebbe accorta. Le passò in rassegna tutte, leggendo le etichette e spostandole e rimettendole poi come le aveva trovate. Fino a quando, sull’ultima mensola di una scaffalatura, dietro a uno scatolone con i suoi disegni della scuola materna, trovò un borsone di pelle, consunto, fuori moda, che non aveva mai visto. Era chiuso da una cerniera che fece resistenza prima di cedere: dentro c’era solo un libro sottile con la copertina nera. Lo tolse dal borsone e quando lo ebbe tra le mani si accorse che non era un libro, ma un quaderno di quelli piccoli, che a scuola non si usavano più. Scorse velocemente le pagine, fitte di una grafia in corsivo molto aggraziata, su cui ogni tanto compariva un disegno in bianco e nero, schizzi veloci, volti, paesaggi. Non era il quaderno di un bambino e neppure un quaderno scolastico, perché non c’erano correzioni o voti. Cosa ci fosse scritto, però, non poteva capirlo, perché non era in lingua italiana e neppure in una delle lingue che più o meno conosceva. Dopo la prima pagina, la seconda iniziava con una data: «5. aprila 1992. godine».

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Indice

1. Una reazione esagerata pag. 5

2. Cercatrice di tracce » 14

3. Una parola sparita » 23

4. Lezioni di tedesco » 30

5. La casa disabitata » 35

6. Un tuffo nel passato » 41

7. Uno sparo all’improvviso » 48

8. Insofferenza » 55

9. Nella città assediata » 64

10. Libri in fumo » 72

11. Lezioni di fortuna » 78

12. La signora dei gatti » 89

13. Il freddo aguzza l’ingegno » 94

14. Natale in famiglia » 104

15. E luce fu » 109

16. Un amore tragico » 120

17. Un nuovo dolore » 126

18. Vie di fuga pag. 134

19. Una notte magica » 142

20. La strage » 151

21. Ultimo atto » 157

22. La resa dei conti » 167

23. Colpo di scena » 174

24. Un regalo inaspettato » 183

25. Sarajevo, trenta anni dopo » 188 Nota dell’Autrice » 201

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