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Gioacchino Saltagrillo Gambatesa
a cura di Chiara Moro
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Cloud #4 olio su tela, 50 x 50cm
Gioacchino Saltagrillo Gambatesa mi chiama dalla Scozia, ultimo rifugio del suo peregrinare. La voce ferma svela appena un’età avanzata e una diffidenza innata che mi spingono a entrare nel suo mondo in punta di piedi, timorosa e riverente. Nel suo percorso artistico, da lui definito semplice rappresentazione del reale, rimarremo stupiti da grandi nuvole, carichi involucri di magma, espressione dell’eternità del momento, costante mutevole, e dalle intense campiture di colore, sintetica rappresentazione della scoperta.

Return olio su tela, 64 x 80 cm

Cloud #3 Olio su tela, 50 x 50 cm

Cloud #2 olio su tela, 120 x 80 cm
Qual è la sua storia? Cosa direbbe di lei per presentarsi a chi non la conosce?
Viaggio, osservo, mi fermo, ricomincio a viaggiare. Sono cresciuto in una famiglia di industriali dalla quale presto mi sono distaccato, ho trasformato il mondo nella mia casa, continuo a viaggiare.
Come è nato il suo percorso espressivo? È stato difficile incanalare in un mezzo l’istanza di espressione che ha sentito?
A tredici anni ho sentito forte la mia estraneità al mondo in cui vivevo e, come fosse una viscerale esigenza adolescenziale, ho avuto la necessità di trasformare in quadri questo processo di crescita. Fin dalle prime pennellate mi sono reso conto che non mi bastava la riproduzione della realtà; da qui, mi sono allontanato dal mondo che mi era fino a quel giorno conosciuto e, vista l’esigenza per la scoperta, ho iniziato a imprimere la mia memoria in una sintesi di luce e colore. Certo, oggi tutto il mondo è già stato scoperto, non sono io un moderno Magellano, ma credo l’esplorazione possa essere un fatto privato: se per la prima volta nella storia della tua stessa umanità visiti quel posto, ecco, quella è scoperta.
Come definirebbe il suo lavoro e come racconterebbe il suo approccio progettuale?
Non credo di avere un approccio progettuale. Il mio progetto è il viaggio, armato di tela e colori, aperto alla possibilità dell’incontro. Non mi sono mai interessato alle dinamiche del mondo dell’arte, conservo una sorta di ecologia artistica in cui semplicemente esprimere il mio diletto.
È possibile arredare con l’arte? L’arte e il design possono convivere, unirsi, trasformarsi a vicenda?
Le ho già detto che la mia famiglia appartiene all’industria? Costruiscono sedie, panche, sedute in generale. Da giovane la mia famiglia non mi ha concesso la creazione d’arte poiché troppo focalizzati nella produzione di quello che voi definite design: complementi per l’arredo funzionali. L’arte per loro era uno sfizio, un gioco, una suppellettile inutile. Io, invece, ho fatto dell’arte la mia strada, riconoscendole un innamoramento, un valore come di feticcio, riempiendo ogni angolo delle case che ho abitato con colori e forme.
In questo periodo sono cambiate molte cose; secondo lei è cambiata anche la nostra immaginazione?
Questi mesi hanno cambiato drasticamente le mie abitudini. Negatami la possibilità di viaggiare, anche la mia libertà di espressione ne ha risentito costringendomi a lunghi silenzi interiori in cui la luce non è trapelata.
Boundaries
Sahara – Ottobre 1987 “Ho sempre odiato il giallo, è un colore complicato da utilizzare: copre poco o non copre affatto. La percezione del colore è comunque un fatto personale, intimo. Ma, come sai, i nemici vanno conosciuti meglio degli amici e perciò ti parlerò di deserto. Non ti parlerò del caldo, della sabbia e dei cammelli, ti parlerò di quanto è labile il confine dell’abbandono. Così, alla fine, la mia ricerca mi ha portato nel Sahara. Assieme alla mia guida ho raggiunto il margine del deserto, in sella al mio cammello con al fianco i miei fedeli arnesi da pittura. Nel nostro lento procedere la guida con un cenno mi fece capire che doveva controllare la zampa dell’animale, così, annuendo, adagio proseguii concentrandomi sull’orizzonte. Mi bastò qualche minuto di pigro andamento per perdere di vista la guida dietro ad una duna e ritrovarmi completamente solo. Istantaneamente mi resi conto dell’irrealtà del luogo, una sensazione mai sperimentata. Vedi, il perdersi è un occasione che si incontra lungo il cammino. Mi trovavo di fronte a questo confine senza sapere che fare. Da un lato la paura dell’oblio, dall’altro la curiosità di proseguire. È come quando da bambini si è desiderosi di guardare oltre, rischiando laddove l’adulto non si spingerebbe. La scelta, in sostanza, sta nel varcare il confine: il confine tra l’infinito e la civiltà, tra il conosciuto e lo sconosciuto dove il proprio dominio non ha potere. Pervaso da questa epifania, velocemente scesi dal cammello, afferrai il cavalletto, posizionai la tela e con il colore immortalai la dualità del giallo.”

Boundaries Olio su tela 65 x 80 cm
C’è il rischio di perdere la vera essenza dell’arte davanti ad uno schermo?
Non sono solito usare schermi. Mi hanno creato una e-mail affinché le mie lettere potessero non venir perse, ma questo è l’unico utilizzo che faccio di un dispositivo mobile che per lo più dorme nelle mie tasche. Sarà l’età, sarà una propensione personale, ma per me il digitale si raffigura come uno svilimento della realtà, qualcosa che ci distoglie dalle cose vere.
Cosa non ha più senso, nel mondo dell’arte?
Non glielo so dire, l’unica cosa importante è che abbia senso per me.
Un’immagine per rappresentare la sua quotidianità?
Il cammino, il camminare. L’atto quotidiano che svolgo per poter ritrovare me stesso.
Cloud #7 Olio su tela, 130 x90 cm
