Pizza e Pasta Italiana - Ottobre 2025

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LA NOSTRA PINSA È UNICA GRAZIE A ROMA

Da sempre lavorata rigorosamente a mano, secondo tradizione, a Roma

I nostri Fori

Inventata a Roma da Corrado Di Marco, la Pinsa Romana è oggi ufficialmente un Prodotto Agroalimentare Tradizionale del Lazio.

Pinsa Romana - Prodotto Agroalimentare Tradizionale (di cui al DM 350/99) inserito nell’elenco della Regione Lazio.

Afinox p. 21

Ab Mauri p. 99

Latteria Sorrentina p. 89

Avanzini Bruciatori p. 107

Cerutti Inox p. 9

Cuppone p. 13

Demetra p. 47

Di Marco Corrado p. 2

Dr. Zanolli p. 61

Beer & Food Attraction p. 12

Host Milano p. 109

Cosenza Fiere - Salone Degusto p. 113

Galbani p. 116

Gimetal p. 29

Hrc Industries p. 101

La Torrente p. 114

Le 5 Stagioni p. 7

Scuola Italiana Pizzaioli p. 63

Lesaffre p. 23

Lilly Codroipo p. 105

Latteria Montanari p. 35

Mam p. 115

Millberg p. 91

Molino Bruno p. 85

Molino Dallagiovanna p. 43

Molino Pasini p. 3

Rinaldi Superforni p. 49

Sacar p. 69

Sanfelici Franco p.53

Sirman p. 67

Sitta p. 59

Industria Alimentare Tanagrina p. 41

Valledoro p. 83

Velma p. 55

Waico - Effedue - Vitella p. 39

— Sommario —

56

storie di pasta Due cuochi

di Noemi Caracciolo

64

Campi Flegrei

Vini e cibi

tra mare e vulcani

di Giulia Cannada Bartoli

70

olio Dalla farmacia all’orto.

Matilde Misuraca

di Massimiliano Bruno Gallo

74

la lezione di rorato È possibile fare "grandi numeri" mantenendo

alta la qualità?

di Giampiero Rorato

gluten free Si possono fare grandi numeri in locali esclusivamente senza glutine?

di Alfonso Del Forno

86 salute Pizza e cibo proteico per la “cultura” del fitness: i nostri consigli

di Marisa Cammarano

92 birra Le grandi birre internazionali

78

nei cash and carry: un tesoro per i ristoratori

di Alfonso Dal Forno

96

prodotti Funghi come scegliere i migliori sulla pizza

di Caterina Vianello

102

prodotti Latticini: a ciascuno la sua pizza

di Caterina Vianello

110

La recensione del mese di N.C.

112

un libro al mese Questa non è una pizza a cura di A. P.

aziende informano

Osservatorio Host

Dalla Giovannai

Bruno

COLOPHON

Editoriale

L'Italia è la patria del gusto, dove pizza e pasta incarnano un alfabeto sensoriale unico. Immaginate un viaggio attraverso sapori, ingredienti e tradizioni: è quello che proviamo a compiere in questo numero della nostra rivista, in cui ogni lettera del nostro alfabeto evoca un elemento essenziale, collegando i nostri sensi alla storia (gastronomica e non solo) della Penisola. Partiamo dalla A di “attrezzature”, indispensabili (anche) per gestire i grandi numeri e chiudiamo con la V di “vulcani”, facendo un giro nei Campi Flegrei, passando per la B di “birra”, la L di “latticini”, la M di “matematica” e la T di “tecnologia”, solo per citarne alcune.

Va detto, però, che l'alfabeto gustativo si compone di cinque lettere primarie: dolce, salato, acido, amaro e – ovviamente – il sempre più ricercato umami. Nella pizza napoletana, ad esempio, questo quintetto si manifesta in perfetta armonia: la dolcezza naturale del pomodoro San Marzano, la sapidità della mozzarella di bufala, l'acidità equilibrata della salsa, le note amare del basilico fresco e l'umami profondo che emerge dalla cottura ad alta temperatura nel forno a legna. Ogni morso racconta una storia sensoriale complessa.

La pasta, con le sue infinite declinazioni regionali, offre una tela ancora più vasta su cui disegnare questo alfabeto: dai bucatini all'amatriciana, dove il guanciale porta sapidità e dolcezza grassa, al pesto genovese con il suo equilibrio tra l'amaro del basilico e la rotondità dei pinoli.

L'alfabeto del gusto non si limita, però, ai sapori ma comprende texture, temperature, aromi e, in un mondo che corre veloce, ci fa riscoprire la bellezza della nostra cucina, ricordandoci che il vero lusso è in quell’insieme dei sapori che contribuiscono a creare la grande cultura tricolore. Vi accorgerete, come abbiamo fatto noi scrivendo queste pagine, che la pizza e la pasta incarnano anche la grammatica della cucina italiana: pochi ingredienti di qualità eccellente, combinati con sapienza millenaria. Una margherita o una carbonara seguono regole precise, come quelle di una lingua antica, dove ogni elemento ha il suo posto e la sua funzione insostituibile.

Questo alfabeto del gusto è, dunque, un patrimonio da custodire e tramandare, un linguaggio che attraversa generazioni e travalica i confini nazionali, rendendo la cucina italiana una lingua universale che parla a tutti e aiuta a costruire un concetto ormai dimenticato: la “soddisfazione”.

PIZZA E PASTA ITALIANA

Mensile di Pizza, Pasta, Enogastronomia e Cultura

Edito da PIZZA NEW S.p.A.

Autorizzazione Tribunale di Venezia n.1019 del 02/04/1990

Anno XXXVI - n.9 ottobre 2025 - Repertorio ROC n. 5768

DIRETTORE EDITORIALE DIRETTORE ONORARIO

Massimo Puggina Giampiero Rorato

DIRETTORE RESPONSABILE

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PUBBLICITÀ

Caterina Orlandi

REDAZIONE

Via Sansonessa, 49 - 30021 CAORLE (VE) Tel. 0421/ 212348 - Fax 0421/81007 - E-mail: redazione@pizzaepastaitaliana.it www.pizzaepastaitaliana.it

PROGETTO GRAFICO

Manuel Rigo, Paola Dus, Elena Cazzuffi

— Mediagraf lab

DIGITAL PUBLISHING

Maura Trolese

— Mediagraf lab

IN COPERTINA illustrazione di Chiara Palandri

STAMPA MEDIAGRAF S.p.A.

Noventa Padovana (Pd)

COMITATO TECNICO E REDAZIONALE

Marisa Cammarano, Gianandrea Rorato, Caterina Vianello, Alfonso Del Forno, Luciano Cescon.

AFFILIAZIONI INTERNAZIONALI

Pete La Chapelle (N.A.P.O. - Pizza Today, U.S.A.), P.M.Q. Steve Green (U.S.A.).

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TEL 0421.83148 — FAX 0421.81007

NATURA AD ALTA PRESTAZIONE

IL GUSTO AUTENTICO DEL GRANO. le5stagioni.it

Farine rustiche, di tipo 1 e integrali da macinazione gentile e a bassa temperatura per garantire l’estrazione di farina dai profumi e sapori più intensi. Gusto e performance per pizze dal carattere unico.

a cura della redazione

LE NOVITÀ IN CASA CERUTTI: LINEA “10”, E-COMMERCE E AREA RISERVATA PER DISTRIBUTORI

In linea con la nostra filosofia aziendale, abbiamo progettato una nuova serie pensando alle esigenze dei pizzaioli moderni. A supportarci in questo nuovo progetto è il nostro brand ambassador Diego Vitagliano – “il maestro degli impasti” – che da tempo utilizza le nostre pale professionali nei suoi prestigiosi locali. La nuova pala per pizza 10 racchiude il meglio delle precedenti serie, come Tulip e Ardesia, richiamando anche un forte simbolo di Napoli, patria della pizza.

Cerutti Inox annuncia inoltre il prossimo lancio della piattaforma e-commerce, dove sarà possibile acquistare tutta la gamma professionale: pale, accessori, setacci, teglie e molto altro. Sarà inoltre attivo uno spazio dedicato ai distributori, per ordini semplici ed efficienti. Chi opera nel settore e desidera entrare a far parte della rete distributiva potrà richiedere l’accesso tramite modulo dedicato.

MOLINO

DALLAGIOVANNA INCORONA IL CAMPANO

ANTONIO COSTAGLIOLA PASTRY AMBASSADOR 2026 ALLA FESTA

DEI GRANAI

Si è conclusa con una serata ricca di emozioni e grande partecipazione la finale della seconda edizione della Pastry Bit Competition, tenutasi presso la sede di Molino Dallagiovanna a Gragnano Trebbiense, in occasione della tradizionale Festa dei Granai. A conquistare il titolo di Dallagiovanna Pastry Ambassador 2026–2027 è stato Antonio Costagliola, giovane pasticcere di Bacoli (Napoli), che ha trionfato nella sfida sul panettone con impasto al cioccolato, da realizzare con lievito madre vivo e senza creme siringate. Una sfida che ha messo alla prova sensibilità tecnica, rigore e capacità interpretativa dei nove finalisti provenienti da tutta Italia, selezionati nel corso di un lungo percorso iniziato mesi fa con le tappe regionali e culminato nella finalissima.

Padiglione 6

Gli eventi del mese

venerdì 17 ottobre

ARTE BIANCA

E NUOVE TECNOLOGIE

Ore 11:30

Tra uomo e macchina non sempre è una sfida ma, talvolta, può nascere anche un’alleanza. Mettiamo a confronto l’impasto fatto a mano e quello realizzato dalle macchine, ascoltando le voci dei maestri dell’arte bianca. In collaborazione con “Fimar”, che presenta in anteprima a Host 2025 la sua nuova impastatrice.

FATTELA TU!

Ore 12:30

In pizzeria ognuno ha i suoi gusti. Dal tempo in cui si chiedeva una pizza con gli ingredienti a nostro piacimento a quello in cui i menù sono diventati “intoccabili”, di mezzo è passata la rivoluzione della pizza. Ma è davvero così facile creare un abbinamento?

Scopriamo insieme le regole perfette per una pizza “equilibrata” nel gusto e nella presentazione. In collaborazione con “Demetra”.

PROVE

DI COTTURA

Ore 14:00

Esiste il forno perfetto per tutte le pizze? La napoletana si cuoce solo in quello a legna? Qual è la differenza tra il gas e l’elettrico? È necessario cambiare la nostra ricetta per l’impasto in base al forno che abbiamo a disposizione?

A tutte queste domande, proveremo a dare risposte chiare e strade percorribili. In collaborazione con “Velma”.

SPECIALE HOST

A Host, a Milano, Pizza e Pasta Italiana porta il Campionato europeo della Pizza, giunto alla 21a edizione. Per l’occasione, realizzeremo 5 giorni di appuntamenti intensi. Ecco il calendario.

sabato 18

ottobre

DELIVERY

E QUALITÀ: LE NUOVE

FRONTIERE DELLA PIZZA

Ore 15:30

Il servizio di delivery è diventato uno strumento cruciale per le pizzerie di tutto il mondo. Nonostante la sua diffusione, persiste un'idea comune: la pizza a domicilio è sempre meno buona di quella consumata in loco. Ma è davvero così? In questo incontro, Gi.Metal dimostrerà come la tecnologia e l'innovazione, rappresentate da un prodotto all'avanguardia come I-Redbox, stiano ridisegnando il mondo del delivery. Scopriremo come sia possibile superare le sfide logistiche per mantenere l'eccellenza in ogni fase, garantendo una pizza sempre perfetta, ovunque.

PIZZA E…

COCKTAIL

Ore 16:30

Abbinamento sempre più in voga, pizza e cocktail celebrano il proprio connubio ormai in tanti locali, anche in Italia. A Host andiamo all’origine di questo percorso, incontrando Edris Al Malat, bartender di Dry, il primo locale milanese che ha abbinato la pizza di qualità a cocktail creati da professionisti di straordinaria bravura.

PIZZA (RE)CONNECTION

Ore 11:30

Il “sistema pizza” raccontato da una delle sue narratrici d’eccezione, Giusy Ferraina. Autrice del podcast “Capricciosa”, redattrice di “Pizza e Pasta Italiana” e collaboratrice di “Identità Golose” e “Gambero Rosso”, Ferraina presenta in anteprima nazionale a Host il libro “Pizza (re)connection” di cui è autrice. Ne dialoga con Antonio Puzzi, direttore responsabile Pizza e Pasta Italiana e con pizzaiole e pizzaioli ospiti a Host.

LA PIZZA DEL CAMBIAMENTO

Ore 13:00

Cambiare si può, cambiare si deve. Il progetto del “Pizzaiolo del Cambiamento” è una delle storie più belle dell’Italia della pizza contemporanea. Non solo impasti, non solo condimenti, non solo brand identity ma un progetto che racconta la necessaria visione circolare del mondo, una strada da percorrere insieme a una comunità che si sente responsabile della realizzazione del più importante prodotto del “made in Italy” agroalimentare. In collaborazione con “Le 5 Stagioni”.

GRISSINI E FOCACCE: QUALE

Ore 15:00

Dire “pane” vuol dire parlare con il mondo, raccontare la storia della civiltà ad ogni angolo del globo. Quali e quante sono le forme di pane che conosciamo? Come possono i ristoranti tradizionali e quelli di cucina “fusion” contribuire a raccontare la bellezza del pane? Il panettiere è davvero una figura che è stata sostituita dal bakery chef? Ne parliamo con i professionisti del settore, in un incontro in collaborazione con “Valledoro”.

LABORATORI SOCIALMENTE UTILI

Ore 16:30

La ristorazione non è solo il luogo in cui trovano dimora gli influencer e dove l’estetica (del piatto e di chi lo prepara) viene prima di tutto. Esiste, infatti, anche un’altra ristorazione, fatta di impegno civile e politico, di attivismo sociale, di storie che meriterebbero ogni giorno le prime pagine dei giornali. Tra un assaggio e quattro chiacchiere, Lorenzo Econimo racconta la sua storia di cuoco errante che prova a rendere il mondo “migliore” rispetto a come l’ha trovato.

domenica 19

ottobre

AGROMONTE:

IL CILIEGINO CHE

FA LA DIFFERENZA

E INCONTRA

IL FORNO

Ore 11:30

Non è solo un modo di dire ma è la testimonianza di una “necessità”, quella di eleggere il pomodoro signore supremo dei sapori del Sud. Ne parliamo e ne assaggiamo di belle e di buone con “Agromonte”, il pomodoro siciliano.

È SEMPRE TEMPO DI MOZZARELLA

Ore 13:00

La mozzarella di bufala, eccellenza lattiero-casearia campana raccontata da uno dei più grandi “ambasciatori” del prodotto: il gruppo Ciro Amodio. In degustazione, le pizze di Graziano Bertuzzo

VERSO

IL CAMPIONATO

EUROPEO DELLA PIZZA

Ore 14:30

Segreti, tecniche e suggerimenti da campioni, in preparazione “atletica” per il Campionato Europeo della Pizza. Partecipano i partner del Campionato, con le pizze dei Campioni delle edizioni precedenti del Campionato mondiale di Parma e di quello europeo di Milano. Intervengono: Luca Di Benedetto, Valentina Laporta, Paolo Moccia, Giorgio Sabbatini e Giulia Vicini, con la partecipazione straordinaria di Graziano Bertuzzo.

SI FA PRESTO A DIRE “FORNO A LEGNA”

Ore 16:00

Il forno a legna è il simbolo della tradizione vera. Per molti, esso rappresenta l’unico modo per cuocere una pizza “a regola d’arte”. Ma è vero che l’aroma del legno contribuisce a costruire il gusto complesso della nostra pizza? Proviamo ad assaggiare e comprendere insieme in questo appuntamento In collaborazione con “Woody” di “Florian Legno”.

TI V… OLIO COSÌ

Ore 16:30

Olio, succo della mediterraneità e linfa vitale della nostra terra. Andiamo alla scoperta di come si degusta un buon olio e quali storie si celano dietro i secolari alberi di olivo, insieme a Massimiliano Bruno Gallo, redattore di Pizza e Pasta Italiana. Un laboratorio sensoriale per scoprire quale olio abbinare alle nostre pizze preferite.

lun 20 e mar 21 ottobre

Per segnalare i tuoi eventi, scrivi a redazione@pizzaepastaitaliana.it

fieramilano 17-21

Il primo forno elettrico a platea rotante

Fieramilano 17-21 Ottobre 2025 PAD. 6, STAND C11 C19 D12 D20

Il più versatile forno elettrico touch screen sovrapponibile

D. Donne.

IN ESCLUSIVA SU RAIPLAY

LA NUOVA STAGIONE

DI “PIZZAGIRLS”

Il regista Carlo Fumo ne parla con Antonio Puzzi

IL MONDO DELLA

PIZZA TORNA IN RAI CON “PIZZAGIRLS”, IL FORMAT IDEATO E

DIRETTO DAL REGISTA

SALERNITANO CARLO

FUMO, ON DEMAND IN ESCLUSIVA SU RAIPLAY,

DAL 19 SETTEMBRE CON QUATTRO PUNTATE DA 45 MINUTI E, DAL 26

SETTEMBRE, CON ALTRE QUATTRO PUNTATE, SEMPRE DELLA STESSA

DURATA.

Carlo, quali sono le novità di questa edizione di “PizzaGirls” e cosa, invece, “non si tocca” delle stagioni precedenti?

Partiamo proprio dalla scelta dell’on demand. Abbiamo scelto questa formula anche per dare maggiore visibilità al programma e per avvicinarci al futuro, alle piattaforme digitali. Posso anticiparti che dal 2026 partirà anche un importante progetto web legato al mondo di “PizzaGirls”, che continua a crescere ed espandersi: siamo arrivati alla quinta stagione, alla 116ª puntata, e abbiamo superato i 30 milioni di ascolti. La missione prosegue a gonfie vele.

Numeri importanti, dunque.

Sì, ecco anche perché il format non è cambiato molto rispetto alla scorsa stagione: il programma resta ambientato nel nostro studio, dove le pizzaiole si raccontano e condividono la propria vita e la propria esperienza professionale. Ogni protagonista interpreta una pizza dedicata a una donna italiana che ha cambiato la storia, proprio come nella passata edizione.

La novità principale di quest’anno riguarda, però, la sezione pizza homemade, che diventa più ricca

STAGIONE

RAYPLAY

e interessante. Le pizzaiole della precedente stagione torneranno a preparare la pizza, stavolta fatta in casa insieme a personaggi famosi, accompagnate dalla conduttrice Barbara Politi. Gli otto ospiti VIP saranno: Paolo Belli, Ludovica Nasti, Claudio Guerrini, Martina Stella, Costanza Caracciolo, il duo comico Gli Arteteca, Beppe Convertini e Guillermo Mariotto. Come sempre, a fine puntata interverrà la nostra nutrizionista, la dottoressa Alessandra Botta, per i consigli nutrizionali.

Chi sono le donne protagoniste di questa stagione?

La nostra conduttrice, Angela Tuccia, incontrerà otto nuove pizzaiole provenienti da tutta Italia, più due coppie speciali (in totale dieci protagoniste su otto puntate). Le due “doppie” sono Entela Mamumanaj e Nelissa Shametaj, una mamma e una figlia, originarie dell’Albania, con una pizzeria a Rocchetta Sant’Antonio (FG). Poi ci sono le sorelle Silvia e Sonia Gabriele (da Torino); Maria Falcone (Padova); Deborah Buglino (San Felice sul Panaro, Modena); Clara Micheli (Massa Carrara); Milena Natale (Caserta); Tiziana Cappiello (Minervino Murge, Puglia); e la più giovane, Vittoria Iemma (Battipaglia).

Queste nuove protagoniste si aggiungono alle pizzaiole della passata stagione, che torneranno nella sezione pizza homemade: Petra Antolini (Verona), Roberta Esposito (Aversa), Federica Mignacca (Torino, di origini campane), Francesca Gerbasio (Padula), Helga Liberto (Battipaglia), Simona Della Valle (Caserta), Jessica Sorrentino (Gragnano) e Francesca Calvi (Firenze).

Sempre più donne che aprono pizzerie in Italia: e nel resto del mondo come va?

Sì, in Italia le donne che aprono pizzerie sono cresciute sempre di più, e noi siamo davvero felici di questo. Quando abbiamo iniziato il progetto “PizzaGirls” nell’ormai lontano 2020, le pizzaiole dovevamo andarle letteralmente a cercare. Invece, quest’anno è stato tutto diverso: ai casting hanno partecipato ben sessanta pizzaiole da tutta Italia. In cinque anni siamo passati dal doverle cercare noi a ricevere candidature da ogni regione.

Devo dire però che nel resto del mondo la situazione era già più avanzata. Già dalla seconda edizione di “PizzaGirls” ricevevamo tantissimi contatti da ogni parte del

mondo, soprattutto dall’America e dal Sud America. Negli Stati Uniti, per esempio, esiste da diversi anni un’associazione dedicata alle donne pizzaiole, che promuove la loro presenza e valorizza il loro lavoro. Insomma, a livello internazionale la presenza femminile nel settore della pizza era già più strutturata, mentre in Italia negli ultimi cinque anni si sono fatti davvero passi da gigante. Oggi il cambiamento è evidente e continuo, e credo che questo sia un segnale molto positivo per il futuro del mestiere.

Pizza Girls è apprezzato molto anche fuori dall’Italia: in quali Paesi avete riscontrato maggiore successo? E, poi, ci dai qualche anticipazione?

È vero, “PizzaGirls” è apprezzato molto anche fuori dall’Italia e abbiamo già in programma di sviluppare dei progetti internazionali, probabilmente con versioni in lingua locale. In particolare, stiamo lavorando su un’espansione in Sud America, dove abbiamo già ricevuto una richiesta importante da parte di un’associazione

che promuove il settore della pizza e dove il movimento dei pizzaioli è molto attivo.

Da gennaio, lanceremo un importante progetto web che accompagnerà “PizzaGirls” per tutto l’anno: centinaia di contenuti saranno distribuiti sulle varie piattaforme social e sul canale YouTube dedicato al programma. Sarà una vera e propria estensione digitale del progetto televisivo e ci aprirà ulteriori opportunità di crescita e collaborazioni a livello internazionale. Insomma, Pizza Girls diventerà sempre più globale.

Beh, posso solo dire: “chapeau”! In questi anni, come è cambiato il tuo approccio al mondo della pizza e quanto sono cambiate le pizzaiole?

Il mio approccio è cambiato moltissimo. All’inizio ero semplicemente un amante della pizza, un “assaggiatore”, se così si può dire. Oggi, dopo cinque stagioni e 116 puntate, posso dire di conoscere questo mondo a fondo: preparo anch’io le pizze e ho imparato a riconoscere le storie che ogni impasto può raccontare.

Nel tempo, abbiamo realizzato anche un libro, stiamo sviluppando il franchising e il merchandising legati al brand. Ma la cosa più importante è che ho imparato a conoscere la pizza non solo dal punto di vista gastronomico ma anche da quello etico e culturale. Prima di iniziare il programma, ho studiato molto, partecipato a fiere e conosciuto da vicino gli artigiani del settore.

Scherzo sempre dicendo che “da regista cinematografico sono passato dal Festival di Cannes alle fiere della pizza” ma è la verità: mi sono immerso completamente in questo mondo. Per me è fondamentale conoscere a fondo un argomento prima di raccontarlo. E le pizzaiole mi hanno insegnato tantissimo: la loro passione, la loro professionalità e la loro resilienza mi hanno ispirato e motivato a far crescere il progetto.

Anche loro sono cambiate: molte sono cresciute, professionalmente e personalmente. Cito sempre Francesca Gerbasio, che è stata la prima a partecipare al programma, nel 2020. All’inizio eravamo entrambi alla prima esperienza — lei davanti alla telecamera, noi dietro. Da quella “puntata zero” è partito tutto e oggi Francesca è

una donna completamente diversa, più forte e consapevole.

Non so se “PizzaGirls” abbia cambiato il mondo della pizza per le donne ma so che ha cambiato le donne che ne hanno fatto parte: ha dato loro visibilità, fiducia, forza. E questo per noi è già un grande risultato.

In un momento in cui essere “femministi” è di moda (e spesso, purtroppo, solo a parole), “PizzaGirls” non è un programma trendy ma un programma che racconta la quotidianità professionale di tante donne: può una trasmissione televisiva aiutare a superare una subcultura patriarcale nel mondo della pizza?

Sì, io penso di sì e penso che a “PizzaGirls” bisogna dargli lo spazio che merita. Noi quest’anno siamo su RaiPlay, abbiamo portato avanti il progetto in Rai da due anni, però nel nostro percorso televisivo spesso abbiamo avuto qualche bastone tra le ruote.

Ancora oggi c’è molto poco coraggio e questo poco coraggio spesso si nasconde dietro luoghi comuni o frasi come “è un programma troppo femminile”, come se fosse una cosa negativa o come se parlare di donne fosse una moda. In realtà non è mai stato questo l’intento.

Una volta ci è stato detto che forse usiamo troppo il colore rosa per enfatizzare il fatto che è un programma al femminile ma questo è uno stereotipo. Il rosa non è una bandiera, è solo un colore che rappresenta dolcezza, forza, sensibilità.

“PizzaGirls” non è un programma trendy – è vero – è un programma che racconta la realtà, la vita, la quotidianità di tante donne che lavorano con passione. E credo che sì, una trasmissione televisiva possa davvero aiutare a superare una certa subcultura patriarcale nel mondo della pizza, perché mostra un esempio concreto. È come quando accendi una luce in fondo a una strada buia: all’inizio magari non la vede nessuno ma poi, pian piano, quella luce illumina tutto e la strada si riempie di persone. Ecco, noi abbiamo solo acceso quella luce e adesso tante donne la stanno percorrendo, a testa alta.

“PizzaGirls” è prodotto da Italian Movie Award per Rai Direzione Contenuti Digitali e Transmediali e distribuito da RaiPlay

RISTORAZIONE DOMANI

di Giampiero Rorato

lacucina italiana è sempre stata espressione della cultura e della civiltà del nostro Paese. In questo caso con il termine “cultura” si intende sia la conoscenza e l’uso dei prodotti del territorio e per civiltà si intende quell’insieme di capacità operative in continua evoluzione con il passare del tempo, l’aumento delle conoscenze, la crescita dei rapporti con altre comunità umane. Volendo fissare i tre prodotti che hanno caratterizzato la civiltà occidentale e, quindi, la cucina occidentale, dobbiamo rivolgerci alla Grecia antica che li ha valorizzati, diffusi e fatti conoscere all’Italia, all’Europa, alle Americhe dopo la scoperta di Cristoforo Colombo del 1492. Questi tre prodotti sono il frumento, l’ulivo e la vite come dire il pane, l’olio e il vino che dal primo millennio a.C. caratterizzano la cucina della Grecia, dell’area mediterranea e poi via via dell’intera Europa.

Oggi la cucina italiana

non esisterebbe senza il pane e la pasta e i dolci ottenuti lavorando la farina di frumento;

senza l’olio la cucina userebbe come condimento ancora il grasso animale che caratterizza le cucine meno sviluppate. Il vino poi è la bevanda che accompagna l’umanità occidentale dai “simposi” (banchetti) greci raccontati da Platone e dagli altri storici e filosofi antichi, fino ai nostri giorni. Questa dunque è la base culturale della cucina e, conseguentemente, della ristorazione europea e americana pur con le modifiche e aggiunte date dai prodotti del territorio, dalle tradizioni e dai gusti dei vari popoli.

LA MEZZALUNA FERTILE

I tre prodotti citati sono stati selezionati, valorizzati e impiegati nell’alimentazione fin dai tempi della “mezzaluna fertile”, che è quel territorio che ha come centro le pendici settentrionali del Caucaso, con una punta che prosegue verso la Mesopotamia e la Persia. L’altra punta scende attraverso la Turchia, la Siria, il Libano, la Palestina fino in Egitto. La civiltà occidentale nasce in questo territorio circa diecimila anni fa, come raccontano le scoperte archeologiche e dal primo millennio a.C. da documenti scritti. Fra i più antichi frumenti ancor oggi presenti e coltivati in Italia, qui portati dai coloni greci nell’ottavo-settimo sec. a.C. , ci sono, fra gli altri il Timilia in Sicilia e Khorasan tra Puglia e Basilicata. L’olio d’oliva, inizialmente usato per ungere gli atleti nell’antica Grecia, divenne il condimento fondamentale della cucina romana, esportata dai legionari in tutta Europa, nel Nord-Africa e nel vicino Oriente.

Il vino è attestato sia da recenti scoperte archeologiche in Armenia (la “grotta degli uccelli”, considerata la più antica cantina del mondo dell’ottavo millennio a.C.) e in Israele come racconta la Bibbia in diversi passaggi. Perché ci siamo soffermati su questa triade considerata la base della cultura alimentare occidentale?

Credo tutti capiscano che una tavola imbandita dove manchino il pane e gli altri prodotti a base di farina di frumento, l’olio d’oliva come condimento e il vino come bevanda

caratteristica non sarebbe una cucina né italiana né occidentale.

È pur vero che esiste anche la birra, tanto amata dall’imperatore romano Nerone e da altri patrizi romani; come esistono pani di cereali vari e il grasso animale, tipico delle popolazioni celtiche dell’Europa centre settentrionale, per cuocere e per condire ma la triade di cui sopra garantisce la continuità di una civiltà della tavola che si è imposta in tutto il mondo occidentale.

E IN ORIENTE?

Sappiamo benissimo che la cultura alimentare orientale che ha come base antica la Cina ha sempre privilegiato come cereale primario il riso; come condimento salse vegetali come quella di soia e bevande come il tè, il sakè e il soju. Il turista italiano che oggi va in oriente ritrova questi prodotti che sono poi il simbolo di una storia e di una cultura e che le popolazioni di quei Paesi conservano con geloso amore e offrono ai turisti occidentali come biglietto da visita della loro alimentazione e della loro cultura storica.

DA NON DIMENTICARE

Nel corso dei secoli e dei millenni numerosi altri prodotti sono entrati e, a volte, usciti dall’alimentazione occidentale, dagli animali cacciati, alle erbe spontanee raccolte, ai pesci d’acqua dolce e salata, ma tutti questi ulteriori prodotti alimentari hanno sempre fatto e continuano a fare da contorno alla triade citata, per cui, il turista straniero che arriva in Italia può anche trovare le invenzioni buone e fantasiose di cuochi stellati, come sempre avvenuto nel corso della storia, ma quasi sempre le fantasie hanno vita corta e i prodotti selezionati dalle varie civiltà che si sono succedute nel corso dei secoli continuano ad esistere, ad essere ricercate e godute da quanti amano la cultura, la storia, la bontà, la bellezza dell’occidente.

T - TECNOLOGIA

SIAMO SCHIAVI DEGLI ALGORITMI DELLA DELIVERY?

Un'analisi dell'impatto del food delivery sulla cultura gastonomica italiana

IL NUOVO ADAGIO DEL COMMERCIO MODERNO

Un vecchio adagio del commercio recitava in un tempo che sembra ormai lontanissimo: “Il cliente ha sempre ragione”.

Nell’era della food delivery moderna, questa massima si è trasformata in qualcosa di più sottile e pervasivo: “L’algoritmo sa sempre cosa vuoi mangiare”. In questa metamorfosi paradigmatica, si nasconde una rivoluzione silenziosa che ha ridefinito il rapporto

millenario tra l’uomo e il cibo, trasformando l’atto del nutrirsi da scelta consapevole a risposta algoritmica.

Nella geografia sentimentale della cucina italiana, dove ogni piatto racconta una storia di territorio e tradizioni familiari, si sta consumando una trasformazione che va ben oltre la semplice comodità. Il mercato italiano della consegna a domicilio ha raggiunto nel 2024 un valore di oltre 2,3 miliardi di euro, secondo l’Osservatorio eCommerce B2c Netcomm-Politecnico di Milano mentre, a livello globale, Statista prevede che il settore supererà i 500 miliardi di dollari entro il 2025. Numeri che testimoniano una metamorfosi epocale nel modo in cui concepiamo l’esperienza gastronomica.

di Domenico Maria Jacobone

LA GEOGRAFIA DEL COMFORT DIGITALE

Il cuore pulsante di questa rivoluzione resta ancorato alle radici più profonde della tradizione italiana: la pizza, regina indiscussa del delivery nostrano. Deliveroo conferma che nel 2024, tra i piatti della tradizione italiana, la Margherita è stata il piatto più ordinato, seguita dalla Carbonara e dall’hamburger, un trittico che racconta l’incontro tra capi saldi tradizionali e globalizzazione culinaria.

Just Eat estende questo primato anche alle province minori, dove il delivery ha conosciuto una crescita a doppia cifra nel periodo post-pandemico.

La democratizzazione digitale del gusto ha superato le barriere generazionali: se il 60% degli utenti ha tra i 18 e i 45 anni, la fascia over 55 è in forte crescita, segno che la semplicità delle applicazioni è riuscita a conquistare anche chi

sembrava più distante dalla rivoluzione tecnologica. Ancor di più, generazioni diverse si incontrano negli ordini “familiari” dove convergono cibi che rispecchiano la varietà. Guardando uno scontrino medio, non è più così raro trovare abbinamenti impensabili nella ristorazione tradizionale come: pizza e sushi, hamburger e ramen, pasta e pokè. Questo fenomeno rappresenta una rottura paradigmatica con la concezione tradizionale del pasto come momento di condivisione familiare e sociale.

L’ARTE CULINARIA RISCRITTA DALL’ALGORITMO

Le piattaforme non si limitano a soddisfare un bisogno: lo anticipano, lo stimolano, a volte lo creano dal nulla. La geolocalizzazione rivela le pizzerie o ristoranti etici più vicini, gli algoritmi di ranking favoriscono i locali con migliori recensioni e tempi rapidi, i programmi di “lettura” delle preferenze profetizzano le prossime mode culinarie, il tutto mentre le notifiche push sussurrano che

il nostro piatto preferito è “in offerta solo per oggi”. Non si tratta di schiavitù digitale ma di un’adesione volontaria a un ecosistema che ci facilita l’esistenza in cambio di qualche euro aggiuntivo e di un frammento della nostra privacy.

Questo meccanismo ha trasformato radicalmente il panorama ristorativo italiano. Dove un tempo la reputazione si costruiva attraverso generazioni di clienti fedeli e passaparola di quartiere, oggi sono complessi algoritmi a determinare il successo di una pizzeria. Molti ristoratori, inizialmente diffidenti, hanno dovuto reinventare le proprie ricette e filosofie culinarie per adattarsi alle esigenze del delivery

LE METAMORFOSI

DELLA PIZZA: DALL’ESPERIENZA AL PRODOTTO

Se, all’inizio, molti ristoratori guardavano con sospetto alla consegna a domicilio, oggi assistiamo a una vera e propria rivoluzione nella concezione del piatto. Sempre più pizzerie sviluppano linee di prodotto pensate esclusivamente per il trasporto: dalle pizze parzialmente precotte agli imballaggi ingegnerizzati che mantengono calore e fragranza senza compromettere la consistenza. Startup italiane hanno investito in packaging brevettati capaci di ridurre la condensa e mantenere la pizza “come appena sfornata” e lavorano quotidianamente per migliorare l’esperienza del consumatore e fruitore di questo servizio. La sfida non

è più semplicemente portare a domicilio un piatto caldo ma ricreare l’esperienza sensoriale della sala, trasferendo nell’ambiente domestico quell’atmosfera conviviale che da sempre caratterizza la cultura gastronomica italiana. È una rivoluzione copernicana: il ristorante non è più un luogo fisico ma un concetto che si estende fino alla tavola di casa, lasciando al cliente finale la scelta di come e dove fruire il suo piatto preferito.

L’ESPANSIONE DEL DOMINIO ALGORITMICO: DAL PIATTO ALLA DISPENSA

Accanto alla ristorazione, cresce un altro universo digitale: il delivery della spesa a domicilio. Secondo NielsenIQ, nel 2025 il 23% delle famiglie italiane utilizza regolarmente servizi come Glovo Market, Everli o i canali diretti dei grandi supermercati. Qui la logica rimane invariata: comodità estrema, con il carrello virtuale che diventa un prolungamento tecnologico del frigorifero domestico.

Ma, anche in questo ambito, l’algoritmo indirizza sottilmente le nostre scelte: i prodotti in promozione non sono sempre quelli che avremmo acquistato spontaneamente ma quelli che la piattaforma vuole spingere attraverso accordi commerciali strategici. McKinsey evidenzia che oltre il 40% degli acquisti “d’impulso” sulle piattaforme di spesa online deriva da suggerimenti algoritmici, rivelando quanto profondamente questi sistemi influenzino le nostre decisioni quotidiane.

LE OMBRE

DELL’ECOSISTEMA

DIGITALE

Dietro la patina lucida della comodità si celano le contraddizioni di questo modello: margini ridotti per i ristoratori, commissioni elevate delle piattaforme (tra il 20% e il 35% del valore dell’ordine), e condizioni spesso precarie dei rider Un sistema che, in nome del comfort del cliente, ha trasferito rischi e costi sulle spalle della filiera produttiva. L’AGCM ha avviato ripetute verifiche sulle pratiche commerciali delle principali piattaforme,

senza riuscire a incidere significativamente sul modello dominante.Nonostante queste criticità, un sondaggio DoxaDeliveroo del 2024 rivela che l’86% degli italiani considera la food delivery un servizio che migliora la qualità della vita, mentre solo il 12% lo percepisce come spesa superflua. La comodità si conferma la valuta con cui paghiamo la nostra adesione a un ecosistema che pretende di conoscere i nostri gusti meglio di noi stessi.

VERSO UN FUTURO GASTRONOMICO PREDITTIVO

Le prospettive future si articolano su due direttrici apparentemente contrastanti. Da un lato, l’ulteriore sofisticazione degli algoritmi predittivi: sistemi di intelligenza artificiale che suggeriscono piatti non solo in base alle abitudini consolidate ma al nostro stato emotivo, rilevato da dispositivi indossabili e pattern comportamentali. Alcune piattaforme sperimentano già sistemi capaci di proporre comfort food nei giorni di maltempo o snack proteici dopo sessioni sportive tracciate da smartwatch.

Dall’altro, emerge la questione della sostenibilità ambientale: secondo il WWF, nel 2024 il settore delivery europeo ha prodotto circa 600.000 tonnellate di rifiuti da imballaggi monouso. Le piattaforme dovranno trovare un equilibrio tra velocità ed ecologia, forse attraverso contenitori riutilizzabili o flotte di rider elettrici.

La vera sfida culturale dei prossimi anni sarà preservare quella dimensione creativa, umana e libera che da sempre caratterizza l’atto del cucinare e del condividere il cibo. In un mondo dove un click trasforma la fame in esperienza commerciale, ricordare che la cucina rimane un linguaggio d’amore e creatività diventa un atto di resistenza culturale.

Perché alla fine, mentre gli algoritmi pretendono di nutrire i nostri corpi, tocca ancora a noi decidere cosa nutrire delle nostre anime.

L’EREDITÀ DI UNA

TRASFORMAZIONE CULTURALE

In questa transizione epocale, la domanda centrale rimane aperta: siamo diventati schiavi inconsapevoli degli algoritmi o semplicemente complici consapevoli di un modello che semplifica l’esistenza quotidiana? La risposta probabilmente sta in una zona grigia dove convenienza e dipendenza si mescolano in proporzioni variabili.

Il vero rischio non risiede nella tecnologia in sé ma nella graduale perdita di consapevolezza alimentare. Quando l’algoritmo conosce i nostri desideri meglio di noi stessi, quando le notifiche anticipano la fame e le offerte mirate creano bisogni inesistenti, rischiamo di trasformare l’atto del nutrirsi da scelta culturale consapevole a risposta condizionata.

Il Futuro ha 40 anni di Storia

GRANDI NUMERI

di Giusy Ferraina

Quando pensiamo alla “cucina dei grandi numeri”, la mente corre subito a ristoranti e pizzerie con centinaia di coperti, ai banchetti, i ricevimenti e gli eventi che richiedono di servire un numero di persone ben oltre la media. E quante volte ci siamo detti che, proprio in queste occasioni, la qualità tende a scendere? Quante volte abbiamo evitato di uscire il sabato sera perché temevamo confusione, attese infinite e piatti meno curati, frutto di un servizio veloce e di turni serrati?

Ma questa idea, radicata da nord a sud, è ancora attuale o è un paradigma ormai superato? Oggi è davvero possibile fare grandi numeri in pizzeria senza sacrificare la qualità, o resta ancora un miraggio?

Forse è proprio qui che le nuove tecnologie, i nuovi strumenti e le attrezzature messi a disposizione dalle aziende specializzate diventano davvero salvifici per i pizzaioli. L’idea di applicare la digitalizzazione e le soluzioni hi-tech al mondo della pizza non convince ancora tutti: la tradizione è una pratica consolidata. Certo, l’impasto non si fa più a mano – o almeno non lo fanno tutti, se non si dispone di una squadra di impastatori – ma si avverte ancora una certa reticenza nell’adottare tecnologie che potrebbero alleggerire un lavoro lungo, faticoso e complesso, e che spesso impedisce di affrontare i grandi numeri con serenità.

E per “grandi numeri” non intendiamo solo le pizzerie enormi che ospitano centinaia di persone in una sola volta. Anche più turni serali, che sommati portano a volumi importanti, rientrano nel concetto. Come garantire allora la quantità senza sacrificare la qualità? Il rischio di un calo resta sempre dietro l’angolo? È proprio per rispondere a questa sfida che le grandi aziende produttrici di forni e macchinari – dalle impastatrici alle spezzatrici e arrotondatrici, dai forni rotanti alle soluzioni più avanzate – hanno creato strumenti in grado di aiutare chi non vuole deludere i clienti nei momenti di maggiore affluenza. Queste tecnologie permettono di mantenere standard di produzione costanti, anche quando i numeri crescono: che si tratti di un weekend di pienone, di un’intera settimana di grande lavoro o di eventi speciali come fiere e serate dedicate. Naturalmente, le macchine funzionano al meglio solo con il supporto del professionista: è l’operatore che programma, imposta i parametri, conosce l’impasto e ne sa riconoscere il punto di perfetta lavorazione.

Uomo e macchina, in questo contesto, diventano una coppia vincente: la tecnologia non sostituisce il pizzaiolo, lo affianca. E oggi, dopo l’ok ufficiale dell’AVPN all’uso dei forni rotanti nelle pizzerie di tradizione napoletana, possiamo dire che non ci sono più limiti all’integrazione della tecnologia.

Saper scegliere l’attrezzatura giusta per le proprie esigenze è segno di intelligenza pratica e di visione imprenditoriale. Il compito di un pizzaiolo o di un titolare non è solo fare un prodotto eccellente ma anche costruire un business solido, capace di gestire i numeri.

Dall’impasto alla cottura, fino alla gestione della sala, oggi esistono strumenti che consentono di aumentare la produzione senza abbassare la qualità – e spesso rendendo l’attività più sostenibile. Saper gestire grandi numeri significa infatti anche ridurre sprechi, ottimizzare la conservazione dei prodotti e migliorare l’efficienza complessiva del servizio.

1. Sicuramente un menu snello è un alleato potentissimo nei momenti di caos organizzato e nella sua dimensione ridotta elimina anche gli sprechi e gli errori.

DEI GRANDI NUMERI IN PIZZERIA?

2. L’organizzazione degli spazi in cucina è un altro aspetto fondamentale, creando una postazione per ogni fase dalla preparazione, stesura, forno, topping ecc. in questo modo si riducono i movimenti inutili e si aumenta la velocità d’esecuzione.

3. Il fattore umano non va mai sottovalutato, né sostituito ma supportato con la giusta tecnologia, la preparazione e la versatilità intelligente. Una gestione dello staff interno intelligente, pianificata sulla base dei dati storici è il segreto per una giornata ben orchestrata, così come il cross-training rende la squadra flessibile: chi è preparato può cambiare ruolo, aiutare in fase di picco, mantenere alta la qualità.

4. Tecnologia per la cucina. Sul mercato esistono numerosi brand, come il gruppo Waiko, Rinaldi, Cuppone, Manara, Moretti, Esmach, per citarne alcuni, vere eccellenze industriali per standard qualitativi ed affidabilità, che affiancano i professionisti dell’arte bianca con gli strumenti necessari per gestire al meglio tutte le fasi di lavorazione, facilitando l’efficientamento dell’intero processo produttivo. Aziende che dal progetto alla costruzione realizzano varie “macchine” per la lavorazione di tutti i tipi di impasti e adatte a panifici, pizzerie e pasticcerie. Macchine sempre più intelligenti e performanti, che sono frutto di un processo di ricerca e di ascolto dei reali bisogni e necessità del mercato in costante evoluzione e in grado di supportare il pizzaiolo (ma non solo) durante tutte le fasi di lavoro attraverso input, programmi personalizzati ed app dedicate per la gestione da remoto.

Facciamo qualche esempio pratico. Tra gli strumenti facilitatori della vita in cucina ci sono le Impastatrici a spirale e a braccia tuffanti con programmi automatici che mantengono costanza nella resa anche con grandi quantitativi; le celle di lievitazione controllata che permettono di programmare la maturazione dell’impasto, le spezzatrici e arrotondatrici automatiche per dividere e formare palline di pasta tutte uguali, con un grande risparmio di tempo e di fatica fisica, capace di realizzare fino a 700 palline in un’ora lavorando l’impasto senza stressarlo o scaldarlo. Un’altra macchina che garantisce un’elevata produzione oraria è la Pizzaform, una speciale pressa, brevetto Cuppone, per formatura a caldo di dischi di pasta, che garantisce fino a 400 pizze in un’ora, con la stessa forma e identico spessore senza rinunciare al tradizionale bordo.

Strumento utile nelle pizzerie di tipo industriale o per le dark kitchen. Tutte attrezzature per la pizzeria “moderna” che lavora con grandi numeri con l’obiettivo del raggiungimento dei più alti standard qualitativi (e quantitativi).

Sul versante forni abbiamo i forni elettrici monocamera o bicamera, statici o rotanti, tutti provvisti di programmazione delle cotture, sistema integrato di recupero calore, la sovrapponibilità per aumentare la portata e versione angolare per meglio adattarsi agli spazi, spesso esigui.

La svolta sui forni nello specifico l’abbiamo avuta con i forni rotanti, presentati dal brand Manara riconosciuto a livello internazionale, che danno un plus in più alla cottura tradizionale, permettendo di aumentare la produzione e la velocità di esecuzione.

Tra i suoi modelli c’è anche il Rotoforno SU&GIU, l'unico forno rotante al mondo ad aver ottenuto la certificazione AVPN per la pizza verace napoletana (2023) che lo definisce come "un importante supporto al pizzaiolo, che aiuta a risparmiare tempo e aumentare la produttività con risultati qualitativamente ineccepibili".

Tra i suoi principali punti di forza che andranno ad agevolare il lavoro artigianale del pizzaiolo: la piastra girevole per garantire una cottura omogenea, il sistema di alzata che regola l’altezza della pizza in cottura, il controllo del calore per assicurare un mantenimento costante della temperatura. Inoltre, si aggiungono come peculiarità di eccellenza il risparmio di combustibile, la perfetta cottura anche a temperature più basse, il riscaldamento del piano cottura in pochi secondi con rapidità del servizio e facilità di utilizzo, in quanto si tratta di un forno che permette di cuocere le pizze senza girarle, né sorvegliarle. Assistiamo insomma a un ciclo di lavoro continuo e lineare.

Altra tipologia di forno ad alta efficienza sono i forni a tunnel o a nastro, perfetti per la continuità di cottura, garantiscono uniformità e velocità anche con centinaia di pizze all’ora. Questi forni di ultima generazione permettono di sfornare un prodotto dopo l’altro, rendendo la fase di cottura rapida ma sempre alla giusta temperatura. Basta impostare la temperatura e programmarla, appoggiare il prodotto sul nastro e lasciare che il forno a tunnel cuocia la pizza. Ideale per i ritmi produttivi elevati delle catene di pizzerie e ristorazione, pizza chains e bakery e dove anche il personale non specializzato potrà infornare senza problemi, garantendo sempre lo stesso standard qualitativo. La cosa più importante da sottolineare è che tutto ciò che può sembrare un prodotto che si allontana dalla tradizione è un’eccellenza tecnologica, realizzata in collaborazione con i migliori professionisti del mondo pizza, per soddisfare ogni esigenza di lavorazione e cottura.

L’obiettivo non è solo fare tante pizze, ma mantenerle buone, uniformi e servite senza stress, con un’organizzazione che gira come un ingranaggio perfetto.

5. Tecnologie per la sala. Non dimentichiamo, infine, che anche la tecnologia in sala è fondamentale. Questa ci aiuta a monitorare l’affluenza riducendo gli errori, sincronizzando i flussi e semplificando in primo step la gestione delle ordinazioni. A questo, si aggiunge il monitoraggio real-time degli ingredienti con software di inventario automatico e un alert automatico quando si toccano livelli minimi in dispensa, che ci evita il dramma del formaggio o del pomodoro finiti a metà del servizio. E, alla fine di un servizio così imponente, che si fa? Come sempre, si aggiornano i dati - vendite, performance, preferenze - che vanno analizzati da tutti, per capire cosa ha funzionato, dove si rallenta il flusso e trasformare l’esperienza di oggi in un’operatività più raffinata per domani.

Questa è la differenza essenziale tra la gestione improvvisata e governare con eleganza un impianto che funziona anche sotto pressione. Il concetto chiave che sta alla base di questa carrellata di attrezzature è l’eliminazione dei tempi morti sia in cucina che in sala, la facilitazione dell’attività del pizzaiolo e lo snellimento del lavoro, soprattutto nelle ore di servizio più intenso, così che sia possibile servire i clienti più velocemente con una importante riduzione dei tempi d’attesa. Non sottovalutate poi l’impegno evidente verso la sostenibilità che si traduce in riduzione dei consumi garantendo prestazioni elevate, una riduzione delle emissioni, una gestione oculata delle risorse e un approccio attivo alla promozione del riciclo e del riutilizzo dei materiali.

Come gestire conserve e prodotti per evitare rischi?

Ilperiodo estivo che appena abbiamo lasciato è stato caratterizzato da allerte alimentari, che hanno colpito diverse aree del nostro paese. Hanno fatto molta notizia, infatti, i diversi casi di intossicazione da botulino. Ma di cosa si tratta precisamente? Come possiamo riconoscerlo e come prevenirlo? Il botulismo, malattia a trasmissione alimentare (MTA) è causata dall’ingestione di alimenti contaminati dalla tossina prodotta dal batterio Clostridium botulinum: microrganismo che si sviluppa in assenza di aria, a temperatura ambiente, in alimenti caratterizzati da bassa acidità (pH > 4,4) e da un’alta attività dell’acqua (aw> 0,93) e si può ritrovare nel suolo, nei sedimenti e nella polvere sotto forma di spora (stato di dormienza del batterio resistente al riscaldamento a 100 °C). Seppur si tratti di una malattia rara, il consumo di quantità minime di alimenti contaminati, associata alla difficoltà di diagnosi, può portare ad esiti fatali come paralisi e morte. Ad oggi i casi di botulismo legati al consumo di conserve domestiche sono mediamente pari al 90%, mentre il restante 10% riguarda prodotti industriali.

È quindi importante agire con consapevolezza e coscienza durante la loro preparazione. Una delle più antiche tradizioni culinarie italiane che trova anche oggi un grandissimo impiego per le sue caratteristiche di tipicità territoriale è la preparazione di conserve domestiche: verdure e ortaggi sott’olio, sotto aceto o in salamoia, marmellate con ogni tipologia di frutta, conserve di pesce e salse. Le conserve domestiche non sono preparazioni difficili, possono però diventare “pericolose” o comunque comportare un rischio per la salute del consumatore se non vengono rispettati precisi accorgimenti durante la preparazione. In base alla tipologia di alimento utilizzato ed al tipo di conserva, si possono innescare meccanismi naturali che possono portare allo sviluppo di microrganismi patogeni.

Dunque, le conserve fatte in casa fanno parte della nostra tradizione e, quindi, non smetteremo di farle; semplicemente basta seguire delle linee guida per la preparazione ed un attento controllo prima del consumo. Per prima cosa bisogna pulire bene i vasetti che si andranno ad utilizzare e bollirli per cercare di eliminare più patogeni possibili. Purtroppo il botulino sotto la forma di spora risulta termoresistente. Per ucciderlo in questa forma bisogna raggiungere temperature di almeno 121°, difficilmente lo possiamo fare in ambito domestico, quindi? Zucchero, sale ed aceto vengono in nostro aiuto. Infatti questo batterio non cresce in ambienti con troppo zucchero, troppo sale o troppo acidi. Per questo è bene seguire le indicazioni di quanto zucchero mettere nelle marmellate/confetture o quanto sale aggiungere se si prepara qualche verdura in salamoia.

L’aceto, invece, ci aiuta a rendere l’ambiente dentro il barattolo acido, sono sicure tutte quelle conserve che presentano un valore di pH inferiore a 4,5, realizzate facendo bollire le verdure per pochi minuti in una soluzione fatta al 50% da acqua e 50% da aceto che abbia almeno un’acidità del 5,5%.

Per gestire le conserve ed evitare rischi, è essenziale seguire, quindi, rigorose pratiche igieniche:

lavare mani, attrezzature e materie prime; sterilizzare vasetti e tappi; usare aceto, sale o altri conservanti in dosi corrette; pastorizzare i barattoli riempiti immersi in acqua bollente e controllare sempre la chiusura ermetica dopo il raffreddamento. Controllare l'aspetto e l'odore del prodotto prima del consumo è fondamentale, e dopo l'apertura, le conserve devono essere conservate in frigorifero e consumate velocemente.

Da ricordare

• Lavare bene le mani prima di ma neggiare gli alimenti e ogni volta che cambi tipo di preparazione, per evitare contaminazioni.

• Pulire e disinfettare regolarmente utensili, spugnette e strofinacci.

•Lavare accuratamente frutta e verdu ra per rimuovere terra e pesticidi.

•Sterilizzare i vasetti ed i tappi immer gendoli in acqua fredda e portando a ebollizione, per un tempo sufficiente a sanificarli.

•Se si usa l'aceto, non bisogna diluirlo, anzi, bisogna assicurarsi che sia suffi cientemente acido. Se, invece, si usa il sale o lo zucchero, utilizzarli nelle dosi corrette.

•Lasciare uno "spazio di testa" tra il livello del prodotto e il collo del vasetto, senza riempirli fino all'orlo.

Per la pastorizzazione:

Immergere i barattoli pieni e chiusi in una pentola d'acqua bollente, assicurandoci che siano completamente coperti, per eliminare i microrganismi. Dopo il raffreddamento, controllare i contenitori: i tappi devono apparire leggermente incurvati verso l'interno, e premendoli NON si deve sentire il "click clack". Verificare l'assenza di sversamenti, odori o colori innaturali e la mancanza di bollicine che risalgono dal fondo. Le conserve dopo aperte, devono essere conservate in frigorifero e consumate entro pochi giorni. Se il prodotto presenta segni di alterazione o non si è sicuri della sua sicurezza, non assaggiare e bisogna buttarlo. Spesso, nel consumo e nell’approccio ai prodotti alimentari si contrappongono genuinità, naturalità e tipicità con tecnologia, sicurezza e innovazione, ma solo fondendo intimamente queste caratteristiche è possibile garantire la qualità e la sicurezza.

MOLINO DALLAGIOVANNA

G.R.V SRL

Località Pilastro 2

Gragnano Trebbiense (PC)

Ecommerce: www.shopdallagiovanna.it LE AZIENDE INFORMANO

Le farine Molino Dallagiovanna

per il mondo della pizza

Dalla pizza napoletana alla pizza in teglia, dagli impasti veloci a quelli a lunga maturazione: Molino Dallagiovanna propone un’ampia gamma di farine pensate per soddisfare le diverse esigenze del professionista della pizza.

Oltre alla tradizionale linea Far Pizza in cinque varianti, sia di tipo 00 che 0, Molino Dallagiovanna propone Nobilgrano, con germe di grano: tre farine, di tipo 0 e 1, uniche perché dal chicco, durante la molitura, viene estratto il germe di grano, stabilizzato a freddo e reinserito nella farina madre. Il risultato è una linea perfetta per la pizza al piatto classica e per i prodotti da teglia.

Per gli amanti della vera pizza napoletana, Molino Dallagiovanna propone la linea laNapoletana, testata da grandi nomi dell’arte napoletana e approvata dall’Associazione Verace Pizza Napoletana (AVPN) in 3 varianti: laNapoletana, laNapoletana 2.0 e laNapoletana 2.0 Plus. Quest’ultima è la farina tipo 0 sviluppata per offrire al pizzaiolo la ricetta perfetta per impasti innovativi e ricchi di gusto, in grado di esaltare al massimo le eccellenze della Pizza Napoletana: una pizza dal cornicione ancora più sviluppato e dorato e una pasta più alveolata, morbida ed elastica.

A completare l’offerta c’è Uniqua, la linea di farine multiuso, che nel 2025 celebra 10 anni. Disponibile in 8 varianti, che rispondono a specifiche necessità: la Rossa per impasti integrali, la Verde, Tritordeum per pizze croccanti grazie alle caratteristiche di questo cereale, incrocio naturale tra grano duro e orzo selvatico; Blu, Gialla e Bianca di tipo 1 di forza decrescente. E ancora Magenta e Arancio, entrambe di tipo 2 e la nuova Viola, farina integrale di grano tenero con germe di grano, ottenuta dalla macinazione di grani naturalmente pigmentati e lavati, ideale per pani rustici, focacce e pizze a media lievitazione, dal gusto connotato e deciso e dal colore purpureo e violaceo.

Non mancano le farine leDivine Sofia, Monica e Anna—a forza crescente, realizzate con i migliori grani italiani per impasti che esaltano la tradizione della pizza italiana e le miscele Oltregrano.

Infine la linea di lieviti madre PH4 con Supereasy, il lievito attivo ideale per pane, pizza in teglia e piccoli lievitati e Superise per pizza al piatto.

Vieni a trovarci ad HostMilano - Padiglione 6 Stand E02-D07

www.dallagiovanna.it

LORENZO FORTUNA

L'AMORE PER LA PIZZA

E PER LA CALABRIA

storie di pizza

Lorenzo Fortuna, uno dei maestri pizzaioli storici di Rende (Cosenza) fa parte di quella schiera di professionisti lontana dai riflettori e poco incline a inseguire le mode. Lui è uno che preferisce impastare, anche perché per l’alchimia tra acqua, lievito e farina ha un vero debole.

Una lunga carriera alle spalle iniziata all’età di 13 anni, tra ristorazione, pizzeria e panificazione: Lorenzo Fortuna, figlio d’arte, porta avanti con orgoglio nella sua città l’eredità che il padre gli ha consegnato e la grande passione per la pizza.

Dopo un lungo percorso con Number One, il ristorante di famiglia, celebre in tutta la zona anche per aver portato per primo la pinsa romana in Calabria, Lorenzo decide di attuare un cambio radicale: investe nella formazione specializzata, punta tutto sulla sperimentazione dei lievitati e sull’utilizzo della cucina sulla pizza.

Ma ancora di più si pone come obiettivo quello di costruire sulle sue nuove competenze la sua identità di professionista della pizza e crearne un marchio riconoscibile. Due sono le sue grandi peculiarità: la passione per gli impasti - e la si intuisce subito leggendo il menù dove troviamo dal padellino al tegliuccio alla focaccia al vino, dall’impasto classico a quello multi-cereale passando per gli impasti alternativi al carbone vegetale o alla curcuma - e poi il suo grande amore per la Calabria, anch’essa onnipresente su ogni pizza. E, proprio attraverso questi due punti chiave, si racconta nella nostra chiacchierata.

Ma cos’è veramente la pizza per te?

Questa è una domanda che spesso mi fanno in molti e la mia risposta è sempre la stessa: per me la pizza è convivialità.

Come definiresti la tua pizza?

La mia pizza non è né napoletana, né contemporanea, è semplicemente la mia pizza, non amo dare delle etichette. In tutti questi anni, ho visto passare molteplici mode e tendenze ma ho sempre cercato di trovare la mia strada, di rendere il mio prodotto personale. Per esempio, sono stato tra i primi in Calabria a portare la pinsa e, dopo aver imparato come farla da Di Marco che l’ha “inventata”, ho studiato e sperimentato fino a quando sono riuscito a trovare il mio impasto ideale. E, ovviamente, nella ricerca non mi fermo mai.

Altro elemento che ti contraddistingue è il territorio. Dall’impasto ai topping quanto è importante per te?

Per me parlare di Calabria è prioritario. Posso dire che, dall’impasto al topping, la mia pizza parla calabrese. Da quasi 20 anni ho ridisegnato la mia filosofia sulla valorizzazione del territorio e provo in tutti i modi a raccontare la Calabria e i suoi meravigliosi prodotti. L’obiettivo è offrire e far conoscere ai miei commensali ciò che la nostra terra ci offre e allo stesso tempo creare delle importanti sinergie con i produttori locali e aiutare nello sviluppo dell’economia interna. Poi, sarò di parte, ma in Calabria abbiamo la fortuna di avere una grande materia prima, dobbiamo diventarne più consapevoli, saperla lavorare e promuovere. In menu trovate il padellino con Grano Verna della Sila, la patata della Sila Dop e la Cipolla di Castrovillari oppure il con l’impasto al Magliocco, vitigno autoctono dell’alta Calabria; a queste, si aggiungono pizze come la Silana o la Pollino che già nel nome sono un omaggio alle montagne calabresi e ai suoi prodotti e sapori.

Tra gli ingredienti - sempre stagionalinon mancano mai i funghi porcini dei nostri boschi, la Cipolla di Tropea IGP, i fichi di Cosenza dop, il maialino nero di Calabria, i formaggi dei nostri casari fino alle farine che arrivano da uno dei più grandi e antichi molini calabresi Molino Bruno. Ovviamente, anche birre e vini sono made in Calabria.

Oltre alla pizza, nel tuo locale c’è anche il tuo pane. E, nelle feste comandante, i grandi lievitati. Cosa ti piace degli impasti e quanto sperimentare? È una vita che sperimento, perché non sono mai pienamente soddisfatto del risultato. E gli impasti sono la mia vita, non potevo tralasciare il pane che nel tempo è diventato un altro grande protagonista del mio locale. Inizialmente aveva il suo posto d’onore tra crostoni, bruschette e come accompagnamento agli antipasti; poi, visto che la domanda “si può comprare il tuo pane” era diventata abbastanza frequente, ho deciso di proporlo giornalmente sia da consumare che da vendere in poche quantità. Ovviamente non sono un panettiere ma ho provato a dare un’idea diversa di pane, di creare un impasto speciale, di dare un pane che si trova solo da noi: intrecciato, con più tipologia di gusti, al carbone vegetale, al cacao, con le noci, al caffe, ai cereali, ecc.. da intingere con una selezione di oli calabresi o da mangiare nella versione pan brioche con burro e marmellata come dessert. Stessa voglia di sperimentare arriva nel periodo delle feste comandate con i grandi lievitati a base di lievito madre e sempre con prodotti di territorio. È il momento dell’anno in cui mi diverto di più.

Chi apre nuove strade è destinato

ad essere copiato

Chi apre nuove strade è destinato ad essere copiato

La condivisione delle idee, la conoscenza del mondo HORECA, l’interazione tra rete commerciale, distributori e professionisti della ristorazione rappresentano l’essenza di Demetra.

La condivisione delle idee, la conoscenza del mondo HORECA, l’interazione tra rete commerciale, distributori e professionisti della ristorazione rappresentano l’essenza di Demetra.

Questa visione ci guida verso il futuro e il miglioramento continuo. Essere innovativi è un’attitudine naturale, alimentata da passione, autenticità e coraggio.

Questa visione ci guida verso il futuro e il miglioramento continuo. Essere innovativi è un’attitudine naturale, alimentata da passione, autenticità e coraggio.

Questa è Demetra.

Questa è Demetra.

Sei anche un pizzaiolo che ama la contaminazione con la cucina?

Le mie origini professionali arrivano proprio dalla cucina e il binomio cucinapizza mi ha sempre affascinato, pertanto pensare ricette da mettere sulla pizza per me è stata una cosa naturale e molto prima che diventasse una tendenza diffusa. Creme di vegetali, crema di funghi, pancetta cotta a bassa temperatura e poi passata al cannello, stracotto di manzo, baccalà mantecato, faccio addirittura la porchetta. E, visto che mi piace il confronto, spesso organizzo delle cene a 4 mani con degli chef che creano delle ricette ad hoc per le mie pizze. Una cosa che i clienti apprezzano e aspettano anche con ansia.

Secondo te, in quale direzione

sta andando il panorama pizza in Calabria?

Negli ultimi anni ha fatto tantissimi progressi: oggi trovare un impasto fatto male è difficile. E, poi, noto anche molta creatività. Inoltre, molti, tra le nuove generazioni soprattutto, stanno anche scoprendo e sposando la “calabresità”. Tutto questo mi piace molto e sono ottimista ma alle volte vedo anche molta improvvisazione e poca originalità: c’è bisogno di differenziarsi tra le tipologie di pizze, i topping, i fornitori e prodotti.

Lorenzo, qual è la pizza che più ti rappresenta?

Sicuramente la Number One, una pizza che è in menu da ben 37 anni e che inventò mio padre chiamandola come il suo locale, con funghi porcini trifolati, schiacciata calabrese, mozzarella e pomodoro datterino. Una pizza che, a modo suo, racconta la storia della mia famiglia.

E qual è la pizza preferita dai tuoi clienti?

Sicuramente Eccellenza di Calabria con cipolla di Tropea caramellata, filetti di tonno, mozzarella, olive schiacciate e ‘nduja.

Infine, qual è la pizza che bisogna assaggiare nella tua pizzeria per capire chi sei?

Una pizza che è all’interno del menù degustazione, che serviamo prima del dessert e che si colloca tra il salato e il dolce. Si chiama Non solo Formaggi: cornicione ripieno di ricotta al bergamotto, mozzarella, gorgonzola, cioccolato fondente, noci, miele e pere. Raccomando sempre di condividerla per goderne a pieno.

ERRATA CORRIGE

Nell'articolo pubblicato nel numero di Luglio-Agosto "Napoli vs Tramonti" è stato erroneamente indicato il nome del presidente dell'Associazione Pizza di Tramonti come Vincenzo Savino. Ci scusiamo per l'inesattezza e precisiamo che il nome del presidente neoeletto è Antonio Erra.

“La costruzione di un successo è dovuta al lavoro di squadra”.

Parole di Gigi Vurchio – pizzaiolo “per il cambiamento” e comproprietario di “Virgo, esperienza in purezza” ad Andria – che porta in sé la semplicità di chi ama davvero il proprio lavoro.

Ogni preparazione è per lui un atto di cura, un modo per valorizzare i prodotti della sua terra e restituirne il sapore più vero. Crede che la pizza possa evolvere senza tradire le radici, accompagnando il cambiamento con rispetto e genuinità, fianco a fianco con i suoi collaboratori, con i quali forma una squadra, e anche una famiglia.

Gigi, raccontami di te: chi sei?

Fin da piccolo ho deciso di fare il pizzaiolo. Finite le scuole medie, a 13 anni, ho iniziato a lavorare in una piccola pizzeria di Andria come lavapiatti. Mi piaceva osservare il lavoro degli altri. Dopo due mesi, il pizzaiolo andò via, io provai a fare quello che avevo visto e mi piacque subito. Da allora non ho più smesso. In estate la pizzeria chiudeva due mesi, per me erano troppi. Ma per lavorare, andavo

in salumeria o facevo altri lavori, giusto per riempire il tempo. Sono rimasto ad Andria fino ai 19 anni, lavorando come dipendente. Poi ho aperto un’attività mia, durata cinque anni, che ho chiuso per mancanza di esperienza. Dopo, ho iniziato a “fare le stagioni”, sono stato in diversi posti: Lago di Garda, Trentino, fino all’ultima, in Grecia, nel 2011. Lì, incontrai di nuovo il mio primo titolare, che stava aprendo un bistrot con cucina a vista ad Andria. Ho iniziato con lui. L’idea era di portare ad Andria una pizza diversa da quella classica barese o romana, sottile e stesa col mattarello. Io avevo già partecipato a campionati e vinto qualche premio e così introdussi impasti differenti, con farine e metodi meno scontati. E le persone apprezzarono.

Parliamo di “Virgo” più nel dettaglio, perché “Virgo esperienza in purezza”?

Nel periodo del Covid, da dipendente sono diventato socio insieme al mio titolare e abbiamo creato una bella storia. “Virgo” viene dal latino, significa “vergine”. Raccontiamo i prodotti così come sono. Non li modifichiamo, li serviamo al naturale, per farne assaporare davvero i gusti. Abbiamo anche un piccolo orto biologico che coltivo io stesso. Vogliamo dare qualcosa di sano ma presentato in modo diverso. Con gli chef e i ragazzi in cucina formiamo una squadra affiatata, davvero bella. Credo che il successo sia frutto del lavoro collettivo: noi diamo motivazione e loro ci danno veramente soddisfazione.

In sostanza, di qualunque lavoro si parli, avere qualcuno che ti ispira ti fa lavorare meglio.

Sì, anche perché c’è fiducia reciproca. Abbiamo visto nei ragazzi la voglia di fare e abbiamo lasciato spazio alle loro idee. Ci hanno dato ottimi risultati e continuiamo a dar loro fiducia. E, così, andiamo avanti, con nuove idee e dandoci diverse possibilità. Mi sarebbe piaciuto ricevere questo tipo di disponibilità quando ero agli inizi. Ora che sono io il titolare, sento il dovere e il piacere di offrirla a chi la merita. Quando incontro ragazzi con davvero tanta voglia di imparare, io mi metto a loro disposizione. Sono una persona molto aperta e, mentre tanti colleghi custodiscono gelosamente il proprio lavoro, io credo che condividere la mia esperienza sia un valore. Non lo faccio per interesse ma perché è bello creare armonia di gruppo e costruire amicizie. Alle gare, ripeto sempre la stessa cosa ai ragazzi: “Non andate con l’osses-

sione di vincere”. Se arriva il premio, tanto meglio, è una soddisfazione ma l’obiettivo vero è divertirsi, confrontarsi e crescere. Vedere all’opera un collega, scambiarsi idee, stringere nuove amicizie è la vera esperienza che resta. Per fortuna, i ragazzi hanno capito questo spirito e lo seguono e per me è la soddisfazione più grande.

Con questo spirito, immagino che siano arrivate anche nuove occasioni da cogliere.

Sì. Per esempio, il nostro locale è sempre stato pensato per l’inverno e d’estate chiudevamo due o tre mesi, perché non avendo uno spazio esterno non si lavorava molto. Quest’anno invece abbiamo trovato una struttura di prestigio attorno a una torre storica di Federico II. Ci hanno chiamati e ci hanno detto di andare e per noi è stato un bel riconoscimento perché il lavoro che abbiamo fatto ad Andria è stato apprezzato e premiato dai clienti.

La struttura è grande e divisa in più aree. Al momento, era pronta solo la zona bar, così abbiamo creato una pizza diversa da quella che facciamo nella sede invernale: una pizza in pala tonda, più piccola, adatta a un contesto conviviale come l’apericena. All’inizio, alcuni clienti sono rimasti un po’ spiazzati perché si aspettavano la mia pizza tradizionale ma poi hanno apprezzato e riconosciuto il coraggio del cambiamento.

Quindi, d’estate siete in campagna e d’inverno alla sede principale? Sì.

Avendo un American Bar, immagino proponiate degli abbinamenti particolari…

Normalmente lavoriamo molto con il vino, perché ad Andria ci sono aziende eccellenti. D’estate, con l’American Bar, abbiniamo anche cocktail e pizza. Il nostro barman è molto bravo: riesce a offrire cocktail eccellenti sia nei classici sia nelle creazioni personali.

storie di pizza

A proposito di cambiamenti, tu sei anche un “pizzaiolo del cambiamento”: cosa significa per te?

Per me il mondo pizza è tutto. Mi aiuta anche nei momenti difficili. Con i menù mi piace raccontare la mia terra. I prodotti del nostro orto finiscono sulle pizze, rispettando la natura. Con il mulino “Agugiaro & Figna”, che produce la linea “Le 5 Stagioni” che uso nel mio locale, stiamo portando avanti un progetto proprio sul “pizzaiolo del cambiamento”: significa dare alla gente un approccio diverso, più sano, naturale. Ma non lavoro da solo, ci tengo a parlare sempre anche dei miei collaboratori. Siamo una famiglia. Quando andiamo a eventi o manifestazioni, porto sempre tutta la squadra, mai solo il mio nome.

Torniamo all’impasto: come si è evoluto?

All’inizio, facevo la classica pizza con farina 0 e lievitazione breve. Poi, ho iniziato con farine più grezze e della mia zona, per esempio tipo 1, integrale, Senatore Cappelli, grano arso. Oggi faccio un impasto contemporaneo, con bordo non troppo alto, maturazione 48 ore, idratazione al 65%, blend di farine tipo 1, 0 e integrale.

Come ci sei arrivato?

Ho fatto tante prove, testando farine diverse, finché ho trovato quelle giuste.

Una pizza che racconti la vostra filosofia e la nuova sede?

La “Torre di Maggio”, dal nome della contrada dove ci troviamo con la nuova sede, vicino alla torre di Federico II. La pizza è con pomodorino al forno in salsa, stracciatella, salsiccia affumicata di cavallo tipica della zona, crema di rucola e peperoni, terriccio di olive nere e olio extravergine locale. Proprio in loco si producono l’olio e il vino che utilizziamo, siamo in mezzo alle vigne, è un posto bellissimo.

E se ti chiedessi una pizza che rappresenti te?

Le mie pizze raccontano quello che amo. Oltre alla “Torre di Maggio”, c’è la pizza “Andria”, con carne affumicata, cime di rapa, fiordilatte di Andria e sbriciolata di tarallo. Con questa, ho vinto anche un campionato mondiale nel 2016. La Puglia è ricchissima di prodotti, dai salumi come il capocollo di Martina Franca ai formaggi. Mi piace valorizzare tutto ciò che abbiamo intorno.

Non è complicato inventare sempre qualcosa di nuovo con i prodotti stagionali?

Sì, perché bisogna fare molte prove, cercare gli equilibri giusti. A volte bisogna osare un po’, per sorprendere i clienti.

Come reagisci a una richiesta stravagante di un cliente?

Capita. I camerieri mi chiamano, vado a parlarci e spiego che certi accostamenti non funzionano. A volte capiscono, a volte insistono. In quel caso lo facciamo, ma provo sempre a spiegare.

Un accostamento perfetto tra due prodotti locali?

Cime di rape e burrata, condite con un filo d’olio extravergine da olive Coratina. Per me, il top.

2025 fieramilano 17-21

OTTOBRE

“Cucinare è custodire e, al tempo stesso, raccontare chi siamo.”

Così Luigi e Ion - anime del progetto 2 Cuochi e proprietari dell’omonimo locale a Bologna – hanno trasformato una passione in un cammino condiviso, fatto di amicizia, sacrificio e sogni che prendono forma ogni giorno tra i fornelli.

Le loro mani difendono l’artigianalità come un bene prezioso, intrecciando la memoria della tradizione con le contaminazioni e i viaggi che hanno segnato il loro percorso. Nei loro piatti c’è rispetto per le radici ma anche il coraggio di mettersi in gioco con creatività e autenticità, offrendo un’esperienza che sa di casa e di vita vissuta.

Luigi, raccontami chi sei tu, come è nata la tua passione per la cucina e quale percorso ti ha portato, insieme a Ion, a costruire il progetto “2 Cuochi”.

Sono di origini lucane ma vivo a Bologna da ormai tredici anni. Ho scelto questa città per la sua essenza inclusiva, per l’attenzione all’arte e alla cultura e per la sua

dinamicità. La mia passione per la cucina è nata proprio qui, quando ho potuto apprendere questo mestiere partendo dall’anima vera: la cucina, i fornelli, la passione degli chef e il rigore della gavetta. Ho conosciuto Ion in una famosa trattoria del centro, dove abbiamo avuto l’onore di lavorare insieme. Da allora siamo rimasti molto uniti, anche se professionalmente abbiamo seguito percorsi diversi. La sfida più dura è stata quella della pandemia: ci siamo trovati in una condizione di precarietà ma, proprio da lì, è nato il progetto dei “2 Cuochi”, che ormai portiamo avanti con passione da quasi cinque anni.

Ion, qual è invece la tua storia?

Era il lontano 2004 quando ho mosso i primi passi nel mondo della ristorazione.

Di giorno frequentavo l’università e la sera lavoravo come cameriere. All’inizio, era solo un lavoro per mantenermi agli studi ma, col tempo, è nata una vera passione, cresciuta giorno dopo giorno, servizio dopo servizio. Durante questo percorso, ho incontrato Luigi, un collega che sarebbe poi diventato un grande amico. Con lui è nata un’intesa professionale e personale che ha fatto la differenza nel mio cammino. Il punto di svolta è arrivato in un momento difficile per tutti, durante la pandemia. Proprio in quel periodo così incerto, io e Luigi abbiamo deciso di scommettere sul nostro sogno: aprire un ristorante tutto nostro. Sono passati quattro anni da allora. Quattro anni intensi, fatti di lavoro, dubbi, sfide ma anche di enormi soddisfazioni. Guardando indietro, posso dire che ogni sacrificio è valso la pena. E il meglio, ne sono certo, deve ancora venire.

Il ristorante propone due diversi menu: com’è venuta l’idea di suddividere così i percorsi gastronomici e qual è il filo conduttore che li unisce? In breve, qual è la filosofia de “i 2 Cuochi”?

Luigi: La scelta di proporre due menù nasce dal nostro percorso professionale e dalle nostre radici. Da un lato c’è la cucina tradizionale bolognese ed emiliana, che per noi è imprescindibile in una città come Bologna: rappresenta la storia, la cultura e l’identità del territorio e custodirla significa tramandare un pezzo di patrimonio culturale. Dall’altro lato, c’è invece un menù più personale, che racconta i nostri viaggi, le esperienze vissute e le contaminazioni che abbiamo incontrato. Ogni piatto ha una piccola storia - a volte dedicata a persone che hanno fatto parte del nostro percorso - e questo ci permette di esprimerci come cuochi e come individui. È una vera e propria dicotomia: due

cuochi, due cucine, due menù. Non esiste una divisione rigida dei ruoli, perché lavoriamo entrambi alla costruzione e alla produzione di tutti i piatti. Tutto è frutto di un processo artigianale: la pasta fresca la tiriamo a mano, i ripieni li prepariamo noi, così come le salse di base e il ragù. In un momento storico in cui è più facile affidarsi a produzioni semi-industriali, noi difendiamo con tenacia l’artigianalità, pur con tutte le difficoltà che comporta: costi più alti, molte ore di lavoro, la necessità di garantire condizioni giuste e sostenibili ai nostri collaboratori e allo stesso tempo mantenere prezzi accessibili ai clienti.

La filosofia dei 2 Cuochi è quindi duplice: da una parte custodire e tramandare la tradizione, dall’altra raccontare chi siamo oggi attraverso la creatività e l’innovazione. Per noi cucinare è anche una forma d’arte, un modo di comunicare e di esprimere qualcosa di personale, sempre nel rispetto della qualità e della cultura gastronomica italiana.

storie di pasta

Quanto è complesso armonizzare ogni giorno gusti, scelte e punti di vista diversi?

Luigi: Più che l’armonizzazione di gusti, tendenze e punti di vista, diciamo che è la varietà del menu, quindi un menu che spazia dal tradizionale al rivisitato, dalla possibilità sia per chi non conosce la città e quindi vuole scoprire i sapori autentici della città e quei piatti tipici, sia per chi vive la città e pertanto ha voglia magari di spaziare su qualcosa di differente oppure di classico. Diciamo che, sui due menu,

ad oggi non ce n’è uno che predomina sull’altro: i quantitativi venduti sono praticamente medesimi. La difficoltà oggi è salvaguardare l’artigianalità, quello che ti dicevo essere un patrimonio culturale, perché la cucina italiana rientra nella grande capacità artigianale italiana. I cuochi sono artigiani e questo riconoscimento spesso si fatica a farlo arrivare. Si fa fatica a comunicarlo e si fa fatica anche a valorizzarlo.

Ion: Ci sono attualmente sul mercato possibilità di avere dei costi un po’ più contenuti rifacendosi a produzioni semi-industriali o a laboratori di pasta fresca. L’artigianalità, per ora, necessita di un grande dispendio di risorse: il mercato del lavoro è diventato molto complesso, perché è un lavoro effettivamente molto impegnativo. Noi cerchiamo di dare condizioni favorevoli ai nostri lavoratori. Due giorni e mezzo di riposo, rispetto del budget orario, un buon salario. E, quindi, cerchiamo di tutelarli sia su un principio di tolleranza

lavorativa, sia su un principio di risultato e quindi di riconoscimento. Questo si traduce spesso, però, in dover lavorare sui costi del piatto finale, in un momento storico dove tutti i costi sono costantemente in aumento, a partire dalla materia prima di qualità, che è un altro aspetto importante perché ci sono prodotti e prodotti. Quindi, riuscire a mantenere sempre la scelta della qualità alta, come sarebbe importante riuscire a sottolineare, è una scelta precisa. Perché si potrebbe ovviare ricorrendo a prodotti economicamente molto più convenienti, quasi a parità di risultato e, invece, c’è la scelta convinta e caparbia di continuare a investire sulla qualità dei prodotti, sull’eccellenza delle produzioni italiane, sull’artigianalità. Questa è la grande sfida di oggi, anche perché la competizione rispetto a grandi gruppi e logiche più standardizzate in Italia è diventata molto forte e marcata. Ed ecco che non esiste nessuna forma di tutela di questo artigianato, di questo bene prezioso di cui effettivamente ci rendia-

mo conto di essere custodi. Siamo onorati di aver appreso questa disciplina e di aver introiettato l’enogastronomia italiana e ci sentiamo un po’ come tutori in una delle città italiane che è madre della cucina italiana stessa, una cucina riconosciuta a livello internazionale. La salsa bolognese esiste in tutto il mondo, eppure spesso viene confusa in un equivoco internazionale: i famosi spaghetti alla bolognese, che non esistono. E, quindi, riuscire a dare un prodotto di qualità alle persone, ai turisti, far conoscere la realtà del territorio e della cucina: questa è la vera sfida.

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Vini e cibi tra mare e vulcani Campi Flegrei

Il mio viaggio nei Campi

Flegrei (dal greco φλέγω, “brucio” Campi Ardenti) dura da quarant’anni. A nord ovest di Napoli il paesaggio si accende di rosso, verde e azzurro mare. Acqua e fuoco si amalgamano tra vestigia d’antiche civiltà. È un legame indissolubile, quello tra i vulcani e i “campi ardenti”, qui acque termali e movimenti tellurici accompagnano il territorio da millenni. Il visitatore si perde tra vigneti a picco sul Golfo e vini che profumano di mare e storia antica. “La regione più meravigliosa al mondo, “sotto il cielo più puro e il terreno più infido”, così nel 1787, Goethe nel Viaggio in Italia”.

Il vino e i Campi Flegrei

La viticoltura dei Campi Flegrei è senza dubbio eroica: terrazzamenti “scolpiti” a suon di braccia e zappa. I viticoltori difendono il territorio dal dissesto idrogeologico e dalla cementificazione. I vignaioli qui sono straordinarie

sentinelle di Bellezza: gran parte del patrimonio viticolo insiste su siti d’interesse storico e archeologico. La natura sabbiosa e vulcanica dei terreni ha salvato le viti dalla Fillossera che distrusse il vigneto Europa da metà ‘800. Il risultato è l’originalità genetica di antiche viti e la coltivazione a “piede franco”, senza innesto. Piccole, grandi vigne quelle flegree, un “sorso” di poco più di 150 ettari. I terreni odorano di zolfo e di mare, ricchi in potassio, con ceneri, tufo, lapilli e pomici che favoriscono una grande diversificazione produttiva.

La DOC Campi Flegrei nasce nel 1994 Resilienza pura, di una terra di mare e vulcani che esprime la Falanghina bianca come l’acqua e il Piedirosso, rosso come il fuoco. L’origine del nome Falanghina: i greci allevavano la vite strisciante al suolo. Nel sud dell’Italia questo sistema faceva ammuffire l’uva. Fu così che i primi coloni intuirono che alzando la vite su pali di legno, in latino phalangae, la Botrite non faceva danni.

di Giulia Cannada Bartoli
Falanghina Campi Flegrei Vendemmia 2025.

Da questi sostegni, nacque il Vinum Album Phalanginum. La falanghina flegrea è il vitigno a bacca bianca più diffuso della provincia di Napoli.

Le analisi molecolari evidenziano una differenza genetica tra il biotipo “flegreo” e quello “beneventano”. Il vitigno è abbastanza vigoroso, rese nella media e vendemmia da inizio settembre a ottobre inoltrato. I vini che ne risultano sono straordinariamente sapidi e di avvolgente mineralità.

Il Piedirosso è il vitigno a bacca rossa più diffuso in Campania dopo l’aglianico. Citato da Plinio il Vecchio nel Naturalis Historiae come Uva Colombina. Tra i primi riferimenti, Nicola Columella Onorati (1804): “Il piede palombo, uva ancora nera, ma alquanto rada negli acini, i piccoli de’ quali rosseggiano come i piedi de Colombi”. Detto anche Per’e palummo, perché a maturazione presenta il raspo di colore rosso, simile alla zampa di piccione. Il vitigno è di media vigoria e rese più basse. Gestione ostica in campo e in cantina. Si vendemmia da metà settembre a ottobre inoltrato. Il vino di grande trasparenza e corredo tannico leggero, regala toni freschi, piacevolmente fruttati con note minerali e salmastre.

Gli itinerari flegrei non sono solo “divini” e dunque mi sono fermata a studiare le eccellenze agricole e del mare flegreo.

Il Pomodoro Cannellino è uno dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali della Regione Campania (Pat). È un’eccellenza dei Campi Flegrei, qui la “gemma” rossa si coltiva già dall’800. La sua sopravvivenza tra Bacoli e Monte di Procida si deve a Vincenzo (1930) e Gelsomina Schiano (1935), contadini e allevatori da generazioni. La coppia lo seminava in abbondanza sul ciglio dei vigneti terrazzati, già dagli anni ’50. Con gli anni, si è passati al sistema del canneto. La famiglia Schiano conserva i semi originali da oltre 80 anni. Il nome deriva dalla forma oblunga e dal tradizionale uso di canne e spago per sostenere le piante. Seminate tra febbraio e marzo, le piantine sono disposte in alti filari, il raccolto va da metà luglio a fine agosto. La buccia molto sottile e non richiede di essere pelata. Polpa, spessa e soda di colore rosso intenso. Il gusto è un giusto equilibrio di dolcezza, acidità e sapidità. Il Cannellino è disponibile presso aziende, botteghe di Napoli e provincia, ed è presente nei menu di pizzerie e ristoranti flegrei e non solo.

Oltre che alla famiglia Schiano, la sua diffusione si deve a lungimiranti iniziative di partenariato pubblico–privato, finanziate dall’Unione Europea, tra Monterusciello e il Parco Archeologico di Cuma, ideate da imprenditori locali, che ne hanno fatto un elemento d’innovazione, volano di sviluppo sostenibile (Monteruscello Agrocity) con oltre 50 ettari di produzione.

A luglio 2025 si è costituito

il Comitato

Promotore della

DOP Cannellino Flegreo.

La Cicerchia dei Campi

Flegrei Legume antico. Nasce tra i filari di falanghina e piedirosso. La cicerchia era conosciuta dagli antichi romani come Cicercula ed è stata sostegno fondamentale dei contadini flegrei fino agli anni ‘60. Con l’industrializzazione e l’abbandono delle campagne, la coltura stava scomparendo. La produzione è stata recuperata da un gruppo di contadini che ne conservano i semi antichi e si concentra tra Bacoli e Monte di Procida. La locale condotta Slow Food sta mettendo in rete tutti gli

Pomodoro Cannellino.

attori della filiera, sostenendo la produzione e la tutela della tradizione contadina. Il legume, con valori nutrizionali interessanti, è tondo, bordi irregolari e schiacciati con sfumature dal grigio al marrone chiaro. Al gusto, la polpa è granulosa, sapore deciso che regala al palato la sensazione della terra vulcanica. Sembra erba infestante, in realtà, il seme è messo a dimora tra gennaio e febbraio. Si raccoglie a fine luglio, quando il cespuglio è estirpato, essiccato e “battuto” con il vivillo, antico strumento dei contadini flegrei. La ricetta è quella delle nonne: una gustosa zuppa con crostini di pane.

Il Pisello Santa Croce si coltiva tra Pozzuoli, Bacoli, Quarto e Marano di Napoli. Un tempo questi piselli erano ricercatissimi per la forma ultra fine e l’ineguagliabile dolcezza. Questi figli della terra flegrea, fino agli anni ’60, erano richiesti e presenti nei mercati di tutt’Italia. Davano ai contadini tanta ricchezza, da essere considerati “oro verde”. Oggi la coltivazione è minima e si usa seminare in autunno tra i filari per accrescere il nutrimento a disposizione delle viti.

La Fava di Miliscola (Pat) La Fava dei Campi Flegrei, se più grande, “vittulana”, se più piccola, “quarantina”. E’ tra i prodotti più coltivati della zona. Conosciuta da Greci e Romani, era uno dei cibi onnipresenti sulle tavole povere. Ricca di proteine, vitamine e ferro, la fava si semina in autunno e si raccoglie a marzo. Il suo impianto è essenziale per le coltivazioni agricole e viticole: si pianta tra i filari per arricchire i terreni di azoto.

Il Mandarino dei Campi

Flegrei Si produce tra Napoli, Pozzuoli, Bacoli, Monte di Procida, Procida e Ischia. Profumo intenso e caratteristico. La polpa è molto succosa, aromatica e dolce. Matura da gennaio a marzo. Si coltiva in piccoli agrumeti spesso, annessi a case di campagna e vecchie masserie. Si trova sul mercato locale, al massimo, regionale.

L’oro nero dei Campi Flegrei.

La cozza di Bacoli Tra Capo Miseno, Baia e il Lago Fusaro, si alleva da secoli una risorsa preziosa, il Mytilus gallo provincialis o cozza mediterranea

Siamo nella caldera del vulcano flegreo che tanto influenza le caratteristiche del mare. Le acque flegree sono mosse da correnti costanti e arricchite da sali minerali provenienti dal fondale vulcanico. Quest’equilibrio di fattori crea l’ambiente ideale per la crescita di una cozza piena, carnosa e spiccatamente sapida. Le origini della mitilicoltura nei Campi Flegrei risalgono all’VIII Secolo a.C. E’ poi con la Magna Grecia, che la cozza diventa un simbolo riconosciuto. La storia comincia da una moneta coniata nel V secolo a.C. dai coloni greci fondatori di Cuma, che mostra sul dritto una testa femminile, mentre, sul retro compaiono un mitile e un chicco di grano. Il legame tra il mollusco e questa terra continua nei secoli. In epoca romana, la cozza compare in vari testi di cucina e letteratura e, in età borbonica, Ferdinando IV ne fa un piatto ufficiale di corte: la zuppa di cozze che diventerà tradizione del Giovedì Santo, ancora oggi in voga. A settembre 2025 la Mitilicoltura di Bacoli è stata riconosciuta Patrimonio Culturale della Regione Campania.

Fava Flegrea in vigneto. Famiglia Iovino.
Piedirosso Vendemmia 2025.

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Le ricette e le specialità dei

Campi Flegrei

La tradizione della cucina flegrea è fatta di piatti contadini e di recupero che oggi sono patrimonio della tradizione orale di mamme e nonne e dell’impegno d’illuminate comunità del cibo.

“O’ Tatiello” una sorta di pasticcio al forno di pasta mista o spaghetti spezzati, sugna, semola, uova, formaggio Auricchio, prosciutto cotto, salame, pecorino e parmigiano grattugiati, pepe.

“A’ Ciarella”, una zuppa a base di uova e cipolla, acqua, sale, sedano, pomodorini e peperoncino. Piatto povero, per sfamare la famiglia con pochi soldi. La zuppa si accompagna con pane raffermo, per non sprecare mai il cibo.

“A’ Liatìa” un’antica e laboriosa gelatina preparata con gli scarti del maiale, sugna, sale, pepe, aceto, alloro, uva passa e pinoli.

La Pizza di Farinella di Bacoli (Pat) è una pizza nata come piatto di recupero con farina di granoturco, pasta di semola

di grano duro, formaggi, salumi, uva passa e pinoli.

Le Cozze “’mbuttunate” di Bacoli, una ricetta di cozze farcite con battuto di uova, pan grattato, prezzemolo, sale e pepe. I mitili vengono poi legati e cotti in salsa di pomodoro con aglio e olio extra vergine di oliva.

Il Migliaccio dolce di Bacoli, si tratta del tradizionale dolce di Carnevale con un diverso ingrediente base, i capellini (spaghetti più sottili), uova, bacca di vaniglia, buccia di limone non trattato, buccia e succo d’arancia non trattata, zucchero, burro e liquore Strega. A Pozzuoli invece si utilizza il semolino.

Il Casatiello Dolce di Monte Di Procida si fregia della De.Co. (Denominazione di Origine Comunale) con uno specifico Disciplinare di Produzione. La ricetta è patrimonio delle famiglie montesi ed è diversa di famiglia in famiglia. Nel 2022 la Regione Campania ha riconosciuto la tradizione della preparazione del casatiello dolce pasquale come Patrimonio Culturale Immateriale (Convenzione Unesco 2003). Il nome non deve trarre in inganno, non si tratta del “Casatiello Salato”, citato da Giovan Battista Basile nel 1500. Il casatiello dolce è un derivato del pane, conosciuto come pigna in tutta la Campania. Le caratteristiche che accomunano i diversi tipi di pigna sono il criscito, il lievito di riporto associato alla Pasqua, per i presunti poteri taumaturgici, la lunga e laboriosa procedura di lievitazione e lavorazione, in diversi giorni, in tre rinfreschi del criscito, con riferimento alla Resurrezione del Signore.

Cozza di Bacoli.

A distinguere il casatiello montese, è l’inderogabile assenza di latte, che non ne consente la lunga conservazione, l’uso esclusivo della sugna come grasso e l’assenza di aromi e canditi vari. La preparazione è un rito, intriso di cura e devozione. La ricetta “tipo”: 500 g. di farina, 4 uova, 250 g. zucchero, 125 g. sugna, 100 g. criscito (pasta madre), 1 arancia di giardino premuta, 1 buccia di limone grattugiata, un bicchierino liquore Strega, cannella, chiodi di garofano. Per la decorazione, gli immancabili confettini colorati, i “diavulilli” e i “cannellini”, confetti di forma allungata con un piccolo filamento di cannella. Il Comune di Monte di Procida organizza un Festival - Concorso annuale, “Re Casatiello”.

La ristorazione dei Campi Flegrei è punta d’eccellenza dell’intero territorio, ma questa è un’altra storia…

Forno con alimentazione elettrica, dalle dimensioni contenute, concepito per la cottura di 1 o 2 pizze da 33 cm

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In conclusione del mio viaggio in terra flegrea sono sempre più convinta che il vino, come il cibo, sia territorio, comunità, socialità, radici, connessione profonda, appartenenza, identità. Tutte parole chiave per la felicità. p p pinse.

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Dalla farmacia all’orto.

Matilde Misuraca

di Massimiliano Bruno Gallo

Matilde, sei passata dall’essere una farmacista a diventare una produttrice di olio extravergine di qualità: perché questa scelta?

In realtà è una decisione nata per caso. Possedevo dei terreni di famiglia, in una zona che si chiama Casanova di Carinola, in provincia di Caserta (dove poi è nata la mia azienda), con degli oliveti di cui si prendeva cura mio padre, producendo un olio che consumavamo in famiglia. In un momento particolare della mia vita, dopo la scomparsa di mio padre a causa di una malattia, avevo deciso di vendere questi terreni. Durante la valutazione, ho avuto un flashback, rivedendo tutti i momenti trascorsi con lui proprio in quegli oliveti: le immagini di lui che si prendeva cura degli ulivi e i nostri momenti felici di condivisione. In quel preciso istante, ho deciso di non vendere più. Ho detto a mio marito che volevo aprire un’azienda agricola e, dopo averne parlato con i miei figli, abbiamo deciso insieme di intraprendere questo percorso. Le decisioni importanti le prendiamo sempre in famiglia.

Pensi che tuo padre sarebbe felice di questa scelta?

Penso proprio di sì.

Quali similitudini trovi tra il tuo precedente lavoro e quello attuale?

Quando lavoravo come farmacista, dovevo conoscere a fondo le materie prime, i principi attivi e le molecole e capire come potessero interagire per creare farmaci efficaci. Una conoscenza approfondita era indispensabile. Anche come produttrice di olio, la conoscenza è una prerogativa fondamentale per fare bene il proprio lavoro. Bisogna studiare le caratteristiche delle diverse cultivar, i metodi di coltivazione, le tecniche di estrazione e, soprattutto, avere

le competenze sensoriali per riconoscere sia le qualità del proprio olio sia eventuali difetti. Proprio come da farmacista, il mio obiettivo è garantire un prodotto genuino che faccia bene alla salute e al benessere dei miei consumatori.

L’olio extravergine d’oliva ha tantissime proprietà benefiche. Possiamo considerarlo, con le dovute cautele, un farmaco?

Secondo me, sì. L’olio extravergine d’oliva è ricco di polifenoli, potenti antiossidanti con un effetto antinfiammatorio che

ci proteggono dalle malattie cardiovascolari. Inoltre, grazie alla vitamina E e agli acidi grassi monoinsaturi, protegge le membrane cellulari del nostro cervello, inibisce la secrezione gastrica proteggendo le pareti intestinali dalle ulcere, abbassa la curva glicemica e ha effetti positivi anche sulla pelle. Possiamo considerarlo un vero e proprio farmaco naturale.

Se dovessi descriverti con tre aggettivi, quali sceglieresti?

Caparbia, testarda e determinata.

Il tuo olio si chiama “L’oro di NAMU”. Da dove deriva questo nome?

È una dedica alla mia famiglia, che per me è un dono prezioso. “Oro” perché considero il mio olio un liquido pregiato, e “NAMU” è l’acronimo dei nomi dei miei figli - Nicolò, Aurora e Massimiliano - e di mio marito Ugo.

La tua azienda è molto giovane, ha poco più di due anni ma sta già ottenendo ottimi riscontri. Qual è il tuo segreto?

Non so se si possa chiamare segreto. Credo che gli ottimi riscontri che sto avendo siano legati alla coerenza e all’onestà con cui svolgo questo lavoro. Ho sempre affrontato questa attività in modo serio, puntan-

do solo alla qualità per raggiungere l’eccellenza. La mia è una produzione di nicchia, esclusiva, a cui dedico la massima cura. Inoltre, da quest’anno, l’azienda otterrà la certificazione biologica.

Perché un consumatore dovrebbe scegliere il tuo olio?

Innanzitutto, è fondamentale che i consumatori scelgano l’olio extravergine d’oliva italiano

di qualità, favorendo le produzioni locali. Li invito a scegliere il mio olio sia per le sue caratteristiche sensoriali, che sono espressione delle cultivar locali e del nostro territorio, sia per la passione e l’attenzione con cui seguo ogni singola fase della produzione. Posso garantire che ogni passaggio è curato nei minimi dettagli. In ogni bottiglia, c’è un lavoro attento: la mia faccia e la mia firma sono poste a garanzia della qualità.

Quali sono le difficoltà maggiori che incontri nella tua attività di imprenditrice?

Le difficoltà che incontro come imprenditrice sono diverse. Sicuramente le variazioni climatiche, come la siccità, il caldo intenso e gli eccessi di pioggia che rovinano i raccolti. Inoltre, ci sono le pressioni speculative sui prezzi della grande distribuzione. Noi piccoli produttori dobbiamo spesso affrontare la concorrenza di oli extra-UE venduti a prezzi bassissimi e dovremmo essere maggiormente tutelati da questo punto di vista.

Secondo te, la “cultura dell’olio” sta aumentando?

Assolutamente sì, soprattutto negli ultimi tempi. C’è ancora tantissimo lavoro da fare ma finalmente iniziamo a parlare della necessità di avere oli di qualità nelle nostre cucine, nei ristoranti e nelle pizzerie. Sono sicura che diventerà un elemento imprescindibile in tutti i discorsi gastronomici. Non a caso, riviste importanti come la vostra dedicano all’olio extravergine una sezione specifica.

Dove vedi la tua azienda tra cinque anni e quali sono i tuoi obiettivi?

I miei obiettivi sono molti. In primis, aumentare la qualità del mio prodotto. Lo studio è continuo e la tecnologia fa passi da gigante; quindi, bisogna restare sempre aggiornati sulle innovazioni per incidere positivamente sulla qualità. Un altro obiettivo costante è valorizzare sempre di più il mio territorio, aumentando proprio quella “cultura dell’olio” di cui parlavamo prima. Non intendo concentrarmi sull’aumento della produzione ma su come migliorare la qualità, anno dopo anno, mantenendo l’azienda sostenibile dal punto di vista ambientale.

Chiudiamo in bellezza: raccontaci il tuo olio, le sue caratteristiche olfattive e gustative.

Dal punto di vista chimico, l’acidità dell’olio di quest’anno è bassissima: circa 0,20 g di acido oleico ogni 100 g di prodotto, segno di olive sane, di grande attenzione durante la coltivazione e la raccolta. Dal punto di vista sensoriale, il mio olio è un fruttato verde medio-alto con note delicate di frutta, come la mela e di pomodoro appena invaiato, accompagnate da sentori più verdi di mandorla acerba e carciofo. Al palato, l’amaro è articolato e in equilibrio con il piccante, che è fresco e ricorda il peperoncino, lasciando la bocca pulita.

di Giampiero Rorato

come sanno i maestri pizzaioli, per realizzare una pizza di qualità servono diversi ingredienti, a cominciare dalla materia prima impiegata. poi, serve avere un forno funzionale ad una buona cottura omogenea, senza bruciature nella parte inferiore. quanto sopra lo si può trovare in un gran numero di pizzerie, anche se non sempre i risultati sono positivi.

L’elemento principale per ottenere una buona pizza è la professionalità e l’impegno del pizzaiolo ed è proprio per questo che ogni pizza che si può gustare nelle pizzerie italiane (o anche portare a casa) è un’opera unica.

Preso atto di queste premesse, va subito detto che la pizza è ormai presente in tutti i Continenti e che le tecniche di realizzazione sono le più diverse e molto lontane fra di loro. C’è, innanzitutto, la pizza artigianale realizzata da bravi pizzaioli sia in Italia che all’estero; c’è la pizza risultato di un lavoro tecnologico come avviene in certe grandi catene, dove il lavoro è svolto

da appositi macchinari di ultima generazione; c’è la pizza surgelata che si acquista nei supermercati e, solo nel primo caso, il consumatore può assistere a tutto il processo produttivo, informandosi anche delle tipologie di prodotti impiegati (farina, salsa di pomodoro, mozzarella, altri ingredienti). Negli altri due casi, conosce solo il prodotto finale e ben difficilmente la tipologia e la qualità dei prodotti impiegati, anche se quelle pizze rispettano in tutto i dettami di leggi e normative del Paese.

I PIZZAIOLI

Protagonista vero per la realizzazione delle pizze è il pizzaiolo, dal momento che le pizze che escono dalle sue mani e dal suo forno possono raccontare anche la sua cultura alimentare, la sua preparazione professionale, il suo amore per la pizza e il suo impegno lavorativo. Questi elementi, se al massimo livello, producono pizze di alta qualità, come sempre vorremmo trovare nelle pizzerie. Si può comunque affermare che nelle pizzerie italiane, ben radicate nella storia e nella cultura della pizza, le pizze sono generalmente di alta qualità pur nella diversità di fattura, presentazione, gusto.

A parità di materie prime impiegate, tecnologie applicate e caratteristiche dei forni, si possono ottenere sia pizze di alta qualità che di minor qualità se si verificano le seguenti situazioni.

Conosco e frequento una pizzeria che serve in una sera diverse centinaia di pizze - anche 800 - senza far attendere i clienti e lasciandoli pienamente soddisfatti. In questo caso, il capo pizzaiolo dirige una squadra di collaboratori molto qualificati attraverso corsi professionali ed esperienze multiple; fornisce loro materie prime di assoluta qualità e ha in funzione i forni necessari per servire con sufficiente immediatezza i numerosi clienti, con personale adeguato. Questo dimostra che è possibile fare grandi numeri mantenendo sempre alta la qualità.

Conosco anche dei pizzaioli che hanno pochi clienti quindi preparano poche pizze e ciò succede soprattutto in locali dove la ristorazione tradizionale è più importante della pizzeria. Ho visto che non

sempre le pizze servite in questi luoghi sono di buona qualità e le cause possono essere le più diverse: un pizzaiolo poco professionale, materie prime acquistate risparmiando, forno non sempre attivo, vista la poca richiesta. Succede, dunque, che pur facendo poche pizze si ha anche una qualità piuttosto scarsa.

In conclusione, non è il numero di pizze prodotte in una pizzeria al giorno che può essere preso a indice di qualità ma, come prima illustrato, è la qualità dei singoli elementi - materie prime, attrezzatura, tecnologia, professionalità, servizio - che garantisce la qualità delle pizze prodotte a prescindere dal loro numero.

LE GRANDI CATENE

È molto difficile poter determinare, al di là dell’aspetto formale e del gusto, la qualità delle pizze prodotte dalle grandi catene, tipiche del mondo nordamericano ma non in Italia. A tal proposito va ricordato che le leggi e le normative - sia igienico sanitarie che quelle relative ai prodotti impiegati - in Italia sono le più severe del mondo mentre in altri Paesi sono molto più permissive. Su questo tema, abbiamo recentemente sentito molte discussioni relative all’importazione in Europa di prodotti agroalimentari statunitensi il cui uso è proibito in Europa e soprattutto in Italia. Quindi, le pizze prodotte dalle grandi catene possono apparire di alta qualità, tutte uguali per forma, ingredienti, cottura, presentazione ma resta sempre qualche dubbio su presenze chimiche, ormonali o altro vietate in Italia.

Possiamo dunque noi Italiani essere orgogliosi delle nostre pizze e per più motivi. Innanzitutto, c’è una cultura e una tradizione della pizza che affondano le radici proprio nel nostro Paese. Poi, c’è da diversi decenni una diffusa presenza di Scuole di Pizza che insegnano a scegliere i prodotti più adatti e come lavorarli. Non va trascurato l’interscambio di conoscenze, visto che un gran numero di pizzaioli prima di aprire una propria pizzeria ha girato anche in altri continenti, accumulando tecniche e saperi che gli hanno permesso di crescere professionalmente. C’è ancora il Campionato mondiale della pizza, ini-

ziato con questa rivista oltre trent’anni fa e che ha poi visto diverse imitazioni sia in Italia che all’estero diffondendo saperi, conoscenze, tecnologie, capacità di selezionare le materie prime, contribuendo ad elevare la professionalità dei pizzaioli.

Dunque, non il numero di pizze prodotte in un giorno indica la loro qualità ma la serietà e professionalità dei pizzaioli che sanno anche organizzarsi in modo adeguato a rispondere in maniera ottimale alle richieste dei clienti. Anche per questo il consumo della pizza in Italia è in continua crescita.

Si possono fare grandi numeri in locali esclusivamente senza glutine?

LA DOMANDA DA CUI PARTIRE È

SEMPLICE: ESISTE UN MERCATO

ABBASTANZA AMPIO DA SOSTENERE

UN LOCALE SOLO SENZA GLUTINE

CON NUMERI IMPORTANTI E

COSTANTI? OSSERVANDO I DATI

DISPONIBILI LA RISPOSTA È SÌ, SE IL PROGETTO VIENE IMPOSTATO CON METODO.

In Italia i celiaci diagnosticati al 31 dicembre 2023 sono 265.102 secondo l’ultima Relazione annuale al Parlamento (pubblicata a marzo 2025); la stessa cornice statistica ricorda che la prevalenza attesa è intorno all’1% e che i non diagnosticati potrebbero essere diverse centinaia di migliaia. Ma il punto cruciale, per chi fa impresa, è che la domanda supera il perimetro clinico: il Rapporto Italia 2025 di Eurispes indica che il 18% degli italiani acquista prodotti senza glutine almeno occasionalmente.

CIÒ NON EQUIVALE A

UNA DIETA RIGIDAMENTE

GLUTEN FREE PER UNO SU CINQUE, MA FOTOGRAFA UN COMPORTAMENTO

D’ACQUISTO E DI CONSUMO “ALLARGATO” FATTO DI SALUTISMO, CURIOSITÀ

GASTRONOMICA E, SOPRATTUTTO, SCELTE DI GRUPPO QUANDO SI ESCE A MANGIARE.

In altre parole, il bacino potenziale di un locale esclusivamente senza glutine è molte volte più ampio del solo 0,5% di celiaci diagnosticati, con effetti diretti su occupazione dei coperti, frequenza di ritorno e passaparola.

Tradotto in strategia, il locale che mira ai grandi numeri deve spostare l’asse dal “senza” al “con”: con gusto, con identità, con affidabilità.

Il menù non dovrebbe inseguire la copia carbone di ogni alimento glutinecentrico, ma articolare un repertorio naturalmente senza glutine che convinca tutti: pesce e carne, ortaggi e legumi in ricette contemporanee, cereali naturalmente gluten free (riso, mais, grano saraceno, miglio, sorgo) in chiave territoriale o creativa, fermentati e brasati, griglia e cotture a fuoco vivo. In pasticceria, progettare dolci intorno a farine alternative e strutture “pensate così” evita di rincorrere repliche fragili. Questa impostazione riduce la dipendenza dai sostitutivi industriali, accorcia le liste ingredienti, semplifica la linea e migliora la marginalità: meno componenti speciali, meno scarti, più costanza sotto stress.

Le paste e i prodotti da forno senza glutine rimangono importanti, ma vanno trattati come “capitoli tecnici” con protocolli chiari (blend, idratazioni, tempi, cotture, abbattimento), per preservare resa e qualità anche nei picchi.

La scalabilità, vero discrimine tra nicchia e “grandi numeri”, nasce dall’operatività. Un ambiente interamente gluten free semplifica la comunicazione del rischio e riduce la complessità della contaminazione crociata, ma pretende routine da industria alimentare: capitolati e fornitori selezionati, tracciabilità, piani di sanificazione, formazione continua, audit interni, checklist di servizio, etichettatura e rotazione merci rigorosi. Nella pratica, questo si traduce in una mise en place essenziale, preparazioni mirate per le fasce orarie e ricette consolidate a bassa variabilità.

SUL PIANO COMMERCIALE,

LA PROGRAMMAZIONE DEI SERVIZI È DECISIVA:

A PRANZO PROPOSTA

SNELLA, ROTANTE E AD ALTO TURNOVER (PIATTO BASE + COMBO SMART CON CONTORNO E BEVANDA), A CENA NARRAZIONE COMPLETA E MAGGIORE PROFONDITÀ

DI CARTA, NEL DELIVERY RICETTE E PACKAGING PROGETTATI PER REGGERE STRUTTURA E TEMPERATURA (NIENTE COMPROMESSI: POCHE REFERENZE, MA ZERO DECADIMENTO).

IL MOLTIPLICATORE

SOCIALE DEL CLIENTE

CELIACO “LEADER DI

SCELTA” FA IL RESTO:

QUANDO TROVA UN POSTO

SICURO E BUONO, LO

PROPONE AL GRUPPO; SE

L’ESPERIENZA È SOLIDA, IL GRUPPO TORNA.

Il menù è anche uno strumento finanziario. Per sostenere i volumi, la carta deve bilanciare piatti che attirano e raccontano l’identità con ad alta marginalità, che finanziano il sistema. La carta dei dolci, spesso trascurata, è un booster di reputazione e margini: dolci concepiti gluten free, come gran parte della pasticceria moderna, meglio di repliche dichiarate “adattate”.

La fiducia è parte del piatto. Chi deve evitare il glutine non cerca eroismi, ma chiarezza: processi visibili, risposte precise in sala, coerenza tra menù e pratica. Raccontare cosa si fa (non solo cosa “non” si fa) fa la differenza: cucina a vista o note dello chef sulle procedure chiave, QR con i capitoli essenziali di qualità, aggiornamento puntuale delle informazioni.

NELLA RELAZIONE DIGITALE,

AUTOREVOLEZZA BATTE

ALLARMISMO: CONTENUTI

EDUCATIVI, DIETRO LE QUINTE, GESTIONE ATTENTA

DELLE RECENSIONI E INVITI

A MOMENTI DI ABBINAMENTO (BIRRE ARTIGIANALI, VINI, FERMENTATI) COSTRUISCONO

COMUNITÀ E APPIANANO LA

STAGIONALITÀ.

PRIVILEGIARE MATERIE

PRIME NATURALMENTE

PRIVE DI GLUTINE

RIDUCE ANCHE LA COMPLESSITÀ LOGISTICA; I SOSTITUTIVI DEDICATI, QUANDO SERVONO, VANNO STANDARDIZZATI PER MARCA E SPECIFICA, COSÌ DA EVITARE SORPRESE IN LINEA.

Resta la questione più importante: identità. Un locale esclusivamente senza glutine fa grandi numeri quando smette di proporsi come “alternativa” e diventa una destinazione. La promessa non è “ti farò dimenticare il glutine”, ma “ti farò mangiare bene, in tempi ragionevoli, con prezzi in linea e senza pensieri”. Il mercato oggi lo consente: base clinica piccola ma stabile e in crescita per diagnosi, domanda allargata reale e tracciabile nei comportamenti d’acquisto, sensibilità collettiva al tema della sicurezza. La ricetta per trasformare l’opportunità in risultati è chiara: identità gastronomica naturalmente gluten free, processi solidi e misurabili, menù ingegnerizzato per margini e volumi, comunicazione che costruisce fiducia. Il “senza glutine” è un requisito tecnico; ciò che riempie la sala, ogni giorno, è la combinazione di gusto, efficienza e coerenza.

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Satiné
Tradizionali

LE AZIENDE INFORMANO

Tradizione

calabrese e nuove

sfide: la linea pizza di Molino Bruno

MOLINO BRUNO

Via dell'Industria, 6, Montalto Uffugo (CS)

Tel 0984 937533

info@molinobruno.it

Da sinistra: Espedito Ammirata, Samuele Spadafora, Alessio Maggi, Giovanni Gencarelli, Pierfrancesco d’Andrea, Sabrina Bianco, Lorenzo Fortuna, Quintino Bruno di Molino Bruno e Francesco Viceconte.

www.molinobruno.it

Con un nuova linea produttiva dedicata alla pizza, Molino Bruno rafforza il suo impegno al fianco dei pizzaioli

Da 120 anni, Molino Bruno è una presenza autentica nel panora ma molitorio del Sud Italia. Una realtà familiare che ha fatto della fiducia il suo ingrediente principale: un legame costruito con i panificatori e oggi rivolto anche ai pizzaioli che ogni giorno scelgo no farine naturali e affidabili.

“Stiamo vivendo un profondo cambiamento in azienda. Abbiamo una nuova generazione di manager, nuovo approccio e nuovi mercati. La Calabria ha grandi potenzialità e voglia di farsi conoscere, anche noi sentiamo questa spinta, pur mantenendo le radici ben salde.” Quintino Bruno Export Manager Molino Bruno

regionali.

L’impianto in provincia di Cosenza è il più tecnologicamente avanzato della Calabria, completamente alimentato ad energia fotovoltaica, garantisce efficienza, sicurezza e qualità costante.

“Affidabilità, trasparenza, passione e ottimi grani macinati naturalmente sono i valori che hanno scritto la nostra storia. Oggiprosegue Quintino l’innovazione di prodotto e guardiamo al futuro insieme ai pizzaioli, nuovi compagni di viaggio del Molino.”

Pizza e cibo proteico per la “cultura” del fitness: i nostri consigli

a cura della Dott.ssa

Dai

social alle confezioni alimentari, tutti ci spingono a mangiare più proteine. La dieta proteica è un’impostazione nutrizionale alternativa alla “classica” dieta bilanciata. In uno schema proteico, infatti, la quota di proteine è più elevata, mentre i carboidrati sono, di solito, il macronutriente meno rappresentato. L’obiettivo principale della dieta proteica è l’eliminazione del grasso in eccesso, pur consentendo la conservazione ottimale della massa muscolare. Le proteine, insieme ai lipidi ed ai carboidrati, si classificano come macronutrienti. Questi, nel complesso, vengono introdotti con l’alimentazione e consentono di coprire il fabbisogno energetico giornaliero. Un grammo di proteine, nello specifico, fornisce 4 kcal. All’interno del nostro corpo, le proteine sono anche utilizzate nella costruzione e nel rinnovamento dei tessuti, così come nelle funzioni di regolazione, trasporto nonché nella difesa immunitaria.

Ma cosa dice la scienza riguardo le diete proteiche/iperproteiche? Barrette proteiche per colazione, shake a merenda, pasta arricchita per pranzo, pizza proteica con gli amici. E poi consigli su Instagram per ingozzarsi di polveri miracolose e non in ultimo influencer che predicano regimi alimentari da body builder. Se dovessimo dar retta al trend del momento, dovremmo trasformare ogni pasto in un bombardamento di proteine. Ma è utile?  La mania delle proteine non sembra destinata, purtroppo, a finire presto, I social sono pieni di messaggi che ci esortano a mangiare più proteine, anche attraverso integratori come i frullati proteici. Anche le aziende alimentari hanno iniziato ad evidenziare il contenuto proteico sulle confezioni per promuovere le vendite. La domanda centrale rimane: tutto questo surplus proteico ci porta qualche beneficio? Le proteine sono indispensabili, questo è fuor di dubbio. Servono per costruire i tessuti muscolari, gli enzimi e gli ormoni, hanno un ruolo nella funzione immunitaria e possono fornire energia. Le linee guida, intanto, quelle scientificamente valide e riconosciute dall’OMS, per un'alimentazione sana raccomandano di ricavare dal 15% al 25% del nostro fabbisogno energetico giornaliero dalle proteine.

L'assunzione giornaliera raccomandata di proteine per gli adulti è di 0,84 grammi per chilogrammo di peso corporeo per gli uomini e 0,75 grammi per chilogrammo di peso corporeo per le donne, ovvero facendo un esempio: circa 71 grammi al giorno per un uomo di 85 chili o 49 grammi al giorno per una donna di 65 chili. Un po' più nel caso degli sportivi. Ma il punto è che la maggior parte degli adulti sta, già, mangiando abbastanza proteine. Eppure molte persone continuano a sforzarsi di aggiungere ancora più proteine alla loro dieta. Per chi vuole aumentare la massa muscolare attraverso l'allenamento di resistenza, come il sollevamento pesi, un'assunzione proteica fino a 1,6 grammi per chilogrammo di peso corporeo al giorno può aiutare ad aumentare la forza e le dimensioni muscolari.

Ma la ricerca mostra che non c'è alcun beneficio aggiuntivo per la crescita muscolare dal mangiare più di quella quantità. La maggior parte di noi non ha alcun beneficio nel consumare proteine sopra il livello raccomandato.

Anzi, troppe proteine possono causare problemi. Il primo equivoco da sfatare riguarda l'eliminazione, ovvero, le proteine in eccesso non vengono semplicemente espulse attraverso urina o feci, rimangono nel corpo ed hanno vari effetti. Le proteine sono una fonte di energia, quindi mangiare più proteine significa assumere più energia. Quando assumiamo più energia di quanta ne abbiamo bisogno, il nostro corpo converte l'eccesso in tessuto adiposo per l'immagazzinamento. Quindi proteine di troppo si traducono in grasso di troppo.

Esistono, poi, condizioni di salute specifiche in cui l'eccesso di proteine deve essere evitato. Per esempio, chi soffre di malattie renali croniche dovrebbe monitorare attentamente la loro assunzione, sotto la supervisione di un nutrizionista, per evitare danni ai reni. C'è persino una condizione, oggi rarissima, chiamata avvelenamento da proteine. Comunemente chiamato "morbo del caribù" ovvero, una forma acuta di malnutrizione causata da un eccessivo consumo di carne magra (ad esempio, coniglio o petto di pollo) accoppiata ad una mancanza di altre fonti di sostanze nutritive, in particolare di grassi e carboidrati, il che lascia lo stomaco pieno ma il corpo denutrito, infatti, un eccesso di proteine può sovraccaricare il fegato ed i reni, portando ad un eccesso di ammoniaca, urea e amminoacidi nel sangue.

È una condizione seria che può avere effetti letali. I soggetti affetti dal morbo dopo un periodo variabile di dieta ricca in proteine e povera di carboidrati e grassi manifestano nausea e cefalea, diarrea, stanchezza ed affaticabilità, ipotensione arteriosa, tendenza a riduzione della frequenza cardiaca e un malessere aspecifico associato ad un senso di fame che può essere soddisfatto solo dal consumo di grassi o carboidrati.

È stato osservato che il fegato umano non è in grado di metabolizzare un quantitativo superiore a 200-300 g di proteine al giorno. Allo stesso modo, i reni umani sono altrettanto limitati nella loro capacità di rimuovere alcuni tipi di scorie dal flusso sanguigno, e in particolare l'urea  che è un sottoprodotto del catabolismo proteico. È simile all'iponatriemia "avvelenamento da acqua", in cui le persone possono effettivamente bere fino a morire con l'acqua. Ma l'acqua stessa non è il problema, è la mancanza di sali/elettroliti per bilanciare la chimica del corpo. Si rende necessario, anche, sottolineare che non tutte le proteine sono uguali.

Le possiamo ottenere da fonti vegetali come fagioli, lenticchie e cereali integrali, oppure da fonti animali come uova, latticini, carne o pesce. Un'elevata assunzione di proteine da fonti animali è stata associata ad un aumento del rischio di morte prematura tra i più anziani (soprattutto morte per cancro).

Le fonti vegetali di proteine sono spesso anche fonti di fibra alimentare, di cui la maggior parte di noi non ne assume abbastanza. Assumere più fibra alimentare aiuta a ridurre il rischio di malattie croniche come le malattie cardiache e supporta la salute intestinale. Il primo passo consiste nel trovare un equilibrio tra fonti animali e vegetali, più che limitarsi semplicemente ad aggiungere più proteine alla propria dieta. E poi mai dimenticare che proteine, grassi e carboidrati lavorano tutti insieme per mantenere sano il corpo e far funzionare il motore senza intoppi. Abbiamo bisogno di tutti questi macronutrienti, insieme a vitamine e minerali, nelle giuste proporzioni per supportare la nostra salute.

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LA BIRRA

Le grandi birre internazionali

nei cash and carry: un tesoro per i ristoratori

egli ultimi anni, la birra artigianale italiana ha conquistato un posto d’onore nelle carte dei ristoranti. Sempre più chef e pizzaioli la scelgono come alleata per valorizzare i propri piatti, costruendo percorsi di gusto che vanno ben oltre il semplice accompagnamento. Le birre artigianali locali permettono di raccontare storie di territorio, di piccole produzioni e di passione, in linea con la tendenza generale alla ricerca di autenticità e qualità.

di Alfonso Del Forno

Tuttavia, non sempre il ristoratore ha la possibilità di reperirle facilmente. Le dinamiche distributive, i quantitativi ridotti e le complessità logistiche possono rendere difficile garantire continuità nell’offerta. E qui entrano in gioco i cash and carry: canali rapidi, capillari, che permettono di approvvigionarsi con facilità. Quando la disponibilità di birre artigianali italiane è limitata, affidarsi a etichette

Non si tratta di ripieghi, ma di autentici pilastri della cultura brassicola europea. Birre che hanno attraversato i secoli, spesso nate in abbazie o birrerie storiche, e che ancora oggi rappresentano modelli di riferimento per interi stili. Portarle in carta significa offrire al cliente la possibilità di viaggiare con il bicchiere, scoprendo sapori e storie che fanno parte del patrimonio culturale di paesi come

Illustrazioni di Giulia Serafin

Lager bavaresi:

la sicurezza di HB e Augustiner

La Baviera è la patria delle Lager, e due marchi storici rappresentano il meglio di questa tradizione: e Augustiner

La Hofbräu come birrificio reale voluto dal Duca Gu glielmo V. Oggi è una delle birrerie simbo lo della città, legata anche all’Oktoberfest. Le sue birre chiare sono caratterizzate da un profilo pulito e maltato, con un amaro equilibrato che non stanca mai.

L’Augustiner agostiniani, è la più antica birreria di Mo naco ancora in attività. Considerata dai tedeschi stessi una delle migliori, offre birre limpide, morbide e incredibilmente bevibili. La loro forza sta nella semplicità e nella qualità costante. In cucina si ab binano con tutto: dai primi piatti leggeri alle carni bianche, fino alla pizza. Per un ristoratore sono una garanzia: regalano al cliente la sensazione della birra “classica”, quella che mette tutti d’accordo.

Non solo alternativa, ma valore aggiunto

Per un ristoratore, inserire queste birre internazionali in carta non significa rinunciare al legame con il territorio, ma arricchire la proposta con riferimenti storici e culturali che parlano al cliente.

offrono la rassicurante

eleganza delle Lager bavaresi, la Blanche de regala freschezza e versatilità sui sorprende all’aperitivo Chimay accompagna con naturalezza ogni momento della cucina, dalla carne al formaggio fino al dessert. Sono birre che non tradiscono mai, che assicurano qualità costante e che, soprattutto, hanno una narrazione da raccontare. Portarle in tavola significa arricchire l’esperienza del cliente, dando valore all’identità del locale e offrendo l’occasione di vivere un piccolo viaggio nella

Funghi come scegliere i migliori sulla pizza

L’arrivo dei mesi autunnali segna l’entrata in scena, in pizzeria, di una famiglia di ingredienti a lungo tempo poco valorizzata, quella dei funghi. Non a caso, abbiamo parlato al plurale perché solo da relativamente poco tempo si è usciti da una visione ristretta che vedeva i funghi ridotti ai soli champignon da affiancare a prosciutto, carciofini o olive in grandi classici come 4 stagioni o Capricciosa.

La versatilità dell’universo di questi doni del bosco è tale da consentire non solo una scelta tra diversi esemplari ma anche tra diverse modalità di cottura. Come per molti altri ingredienti, il prodotto fresco e di stagione sarebbe da preferire a quello coltivato, e non solo per una questione di sapore.

Inoltre, anche se – soprattutto per alcune varietà – la coltivazione garantisce standard qualitativi e continuità, la raccolta regala soddisfazioni impagabili: l’avvertenza è ovviamente quella di procedere solo se si ha preparazione e competenza, rivolgendosi in caso di dubbio, ad esperti. Una volta raccolti o acquistati ci sono regole generali che valgono trasversalmente: appuratane la freschezza (i funghi freschi sono sodi e poco cedevoli al tatto), vanno puliti molto delicatamente e accuratamente con un panno umido o una spazzolina a setole morbide per eliminare tutti i residui di terra. Non vanno “lavati” né messi a bagno perché rischierebbero di assorbire troppa acqua: se sono molto sporchi vanno passati molto velocemente sotto un filo d’acqua corrente, per poi essere asciugati perfettamente. Scegliere il tipo di fungo da aggiungere agli altri ingredienti è una questione solo apparentemente banale, così come la scelta se procedere ad una cottura in padella (con un po’ di olio d’oliva e uno spicchio d’aglio tritato) seguita poi da quella - sulla pizza - in forno, o se aggiungere il prodotto, a crudo, tagliato a fettine. Molto dipende dal ruolo che si vuole assegnare al fungo, se quello di protagonista assoluto o di valido comprimario.

Vale la pena allora approfondire le caratteristiche delle varietà più utilizzate, la cui versatilità le rende accostabili sia a pizze a base rossa che a base bianca. Indiscusso re del bosco, il porcino è certamente “il” fungo per eccellenza. Il nome è l’esatta traduzione del latino suillus, suino, appellativo assegnatogli in epoca romana. Foreste e boschi di latifoglie e conifere rappresentano l’habitat del boletus, questo il nome scientifico; querce, faggi, castagni, pini e abeti stabiliscono con il fungo un rapporto di prossimità e simbiosi: i funghi si collegano alle radici dell’albero tramite le ife, scambiando vicendevolmente con esso sali minerali e sostanze organiche. Il fungo decompone queste sostanze e rilascia sali minerali assorbiti dall’albero, creando quindi un rapporto di equilibrio. La raccolta dei porcini inizia da fine agosto e si protrae fino ad ottobre, a seconda delle aree geografiche: dai boschi alpini a quelli appenninici, il boleto infatti attraversa estate e autunno, prediligendo quindi temperature non troppo rigide e ambienti in cui si raggiunge un equilibrio tra umidità del terreno, calore atmosferico, piovosità e caratteristiche della foresta stessa, che non deve essere troppo fitta, in modo tale da lasciar filtrare sole e aria.

Inconfondibile e riconoscibile, il porcino si caratterizza per un cappello che varia dai 5 ai 25 cm, circolare e convesso, di color nocciola più o meno intenso, bruno-fulvo o bruno grigiastro, a volte anche biancastro a seconda della varietà, con una cuticola leggermente rugosa. La parte inferiore del cappello è generalmente di colore bianco tendente al giallo opaco nel fungo porcino giovane, tendente al verde col trascorrere del tempo. Il gambo (le cui dimensioni possono variare dai 6 ai 15 cm di altezza, e dai 4 agli 8 cm di spessore, ovoidale e panciuto negli esemplari giovani, poi cilindrico in quelli più adulti), massiccio e pieno, ha colore biancastro o nocciola. La consistenza è soda e tenace negli esemplari freschi e giovani, diventando più morbida e cedevole in quelli adulti e non cambia colore al taglio. Le specie sono parecchie ma quattro sono quelle più note e frequenti: il boletus edulis, il boletus aereus, il boletus pinophilus e il boletus aestivalis. Il primo è certamente il più conosciuto e apprezzato. Ha cuticola rugosa e umida, cappello dal colore variabile (dal biancastro al “terra di Siena”). La carne è soda e abbondante, più dura negli esemplari d’alta montagna, bianca e immutabile. Ama le stagioni temperate e cresce dall’estate fino all’autunno inoltrato o fino alla comparsa dei primi freddi.

L’aereus, il più pregiato e gustoso tra i porcini, ha cappello bruno o nerastro, mai viscido e gambo dal colore che va dal crema-ocraceo al bruno. La carne è candida, immutabile, molto soda, colorata di bruno solo a immediato contatto della cuticola. Predilige castagni e querce ed è tipico della tarda estate e dell’autunno. Il boletus aestivalis ha cuticola secca e cappello color nocciola e gambo che vira dal biancastro a bruno chiaro. È la specie con le carni meno sode e compatte. Il pinophilus, infine, predilige conifere e sottobosco di mirtillo; ha cuticola viscosa, cappello bruno-rosso, aspetto massiccio; ha sapore marcato e notevole profumo. La grande personalità del porcino guida nella scelta del condimento e consente di uscire dalla banalità della preventiva cottura in padella.

Tagliati a fette, i porcini possono essere aggiunti crudi in uscita dal forno: il calore della pizza consentirà agli aromi terrosi ed erbacei di sprigionarsi con intensità. Fritti, possono ugualmente arricchire la farcia, che dovrà tenere conto della cottura “impegnativa”. Ridotti in vellutata, possono costituire un’ottima base cremosa per pizze in cui si colga tutta l’essenza dell’autunno, magari con salsiccia, pancetta o guanciale croccante e un formaggio affumicato, dalla ricotta alle paste filate. Aggiunti a fine cottura, dopo essere stati conservati sott’aceto e sott’olio o cotti a bassa temperatura e sottovuoto, sono infine in grado di dare una spinta ulteriore in termini di sapore e consistenza, al resto della farcitura.

Appartenenti alla Famiglia

Agaricaceae, gli champignon sono popolarissimi tra i condimenti per la pizza. La loro coltivazione era già nota e praticata nel I secolo d.C., all’interno di caverne ma diventa professionale a Parigi intorno al 1650. Le specie più note e consumate sono l’agaricus campestris (prataiolo minore), il più diffuso, l’arvensis (prataiolo maggiore), con colore tendente al giallino e gambo più largo alla base, il bisporus, il vero e proprio champignon, con cappello bruno, fibrilloso e ricoperto di scaglie con gambo ingrossato alla base e il bitorquis, con due anelli separati nel gambo. Ognuno di questi tipi ha anche un diverso colore di cappello che va dal bianco al bruno. Possono essere consumati sia cotti che crudi: il sapore è dolce e delicato, con un retrogusto leggermente nocciolato.

In particolare, gli esemplari scuri tendono ad avere un sapore leggermente più robusto. La consistenza e soda e carnosa e la polpa è compatta e si mantiene ben strutturata anche dopo la cottura. Dal sapore meno intenso rispetto ai porcini, son perfetti in abbinamento con altri ingredienti, giocando sulla delicatezza complessiva, magari in abbinamento con ricotta o zucca, o a contrasto, con gusti più forti.

Gallinaccio, galluccio, gallastruzzo, gaitello, giallino, galletto, fìnferlo, margherita, gallinella, garitola, cardarella: il Cantharellus cibarius è tra i funghi più apprezzati: in Europa la sua popolarità e il suo apprezzamento lo rende preferibile anche al più blasonato porcino. Cresce in boschi freschi di latifoglie e aghifoglie, ben ombreggiati, con suolo ricco di humus e costantemente umido, con temperature moderate, comprese fra i 15 e i 24 °C, tasso di umidità elevato e piogge ben distribuite. È un fungo tenace, che può anche interrompere temporaneamente la crescita per poi riprenderla dopo una pioggia. Cresce in genere in famiglie numerose, che colorano il sottobosco assomigliando a piccole pepite.

Tratti inconfondibili sono, appunto, la colorazione giallo-dorata, spesso brillante e la forma a imbuto, con un cappello che è convesso negli esemplari giovani a espanso e quasi arricciato in quelli adulti.

La superficie sotto al cappello non ha lamelle vere e proprie ma pieghe spesse e ramificate che corrono lungo il gambo, fondendosi con esso. Il profumo è inconfondibile: fruttato e quasi di nocciola.

La carne è sodissima, elastica, di colore chiaro-giallognolo: resiste bene alla cottura, mantenendo consistenza e aroma. Il sapore marcato ma elegante lo rende perfetto in abbinamento ad altri funghi, esaltandone il sapore: pensando quindi ad una pizza “monotematica”, il finferlo è perfetto, previa cottura ovviamente.

Altra validissima tipologia è quella dei Pleurotus, chiamati anche “orecchie d'elefante” o “orecchioni”. Ne esistono tre varietà. La più nota è il Pleurotus Eryngii o cardoncello. Ha cappello carnoso, convesso, leggermente incavato al centro, margine involuto e leggermente vellutato. Il colore è biancastro-brunastro, cambiando in base al clima. Ha lamelle che corrono sul gambo (ma non fino alla fine), che si presenta bello sodo, così come la consistenza complessiva, bella consistente. Il sapore è dolce e gradevole e per questo è apprezzato: la sua versatilità e la capacità di mantenere intatta la sua consistenza anche dopo la cottura lo rendono particolarmente adatto a pizze in cui si voglia giocare con eleganza e “masticabilità”, perfetto con carni e formaggi.

Il Pleurotus Ostreatus, più diffuso e più facile da coltivare, conosciuto anche con il nome oyster mushroom (corrispondente al nostro “fungo ostrica”), ha color ardesia o grigio cielo, profumo erbaceo che richiama il mallo della noce. Il sapore è dolciastro e molto gradevole. Le sue dimensioni consentono di trattarlo proprio come la carne: grigliato o fritto e aggiunto al resto del condimento, dà il meglio di sé, oltre ad essere molto scenografico. L’ultima tipologia della famiglia è il Pleurotus Cornucopiae. Il nome è esplicativo: Il cappello è carnoso e liscio e può raggiungere un diametro di 10 cm circa e convesso all’inizio, tende a diventare più dritto e quindi a imbuto. Ha colore giallo, carne tenera e dolce. 13-17 OCTOBER 2023

Latticini a ciascuno la sua pizza

Quanti di noi, di fronte alla domanda “cos’è un latticino”, saprebbero rispondere con sicurezza e completezza? Il primo pensiero è infatti quello di includere tutti i prodotti alimentari ricavati dal latte (e quindi panna, burro,

In realtà, un’analisi più approfondita fa emergere un uso restrittivo del termine, che finisce quindi per ricomprendere i derivati del latte che non hanno subito la coagulazione della caseina e, quindi, i formaggi. La

Se infatti il latte trova una precisa accezione come “il prodotto ottenuto dalla mungitura regolare, ininterrotta e completa di animali in buono stato di salute e nutrizione”, il latticino non è definito dalla legge italiana. Il suo significato non è quindi univoco e, come tale, può prestarsi a diverse interpretazioni, aumentando la confusione. Ecco, allora, che nella categoria finiscono i prodotti freschi come la ricotta, il burro, la panna ma anche la mozzarella, lo stracchino, la crescenza ed il primo sale che, pur essendo formaggi freschi, si ottengono attraverso un processo di coagulazione delle caseine, così come avviene per i formaggi. Oltre ai prodotti freschi però, c’è un’altra grande famiglia di derivati del latte che - in una interpretazione un po’ meno restrittiva della precedenteallarga la famiglia al mondo affascinante e complesso dei fermentati.

Secondo il “Codex Alimentarius” (istituito negli anni ’60 grazie alla cooperazione tra la FAO e l’OMS con l’obiettivo di guidare e promuovere l’elaborazione e l’applicazione di definizioni e requisiti per gli alimenti, definendo una serie di standard di sicurezza di carattere generale e specifico) “il latte fermentato è un prodotto lattiero-caseario ottenuto mediante fermentazione del latte, il quale può essere stato fabbricato da prodotti ottenuti dal latte con o senza modificazioni compositive mediante l'azione di microrganismi idonei e con conseguente riduzione del pH (aumento dell’acidità)”, e poi continua: “Questi microrganismi iniziali devono essere vitali, attivi e abbondanti nel prodotto fino alla data di conservazione minima”. Ed ecco, allora, yogurt, gioddu, kefir. Prima di parlare di come il mondo della pizza guarda a questi ingredienti e li utilizza, ecco una veloce carrellata su ognuno di essi.

Panna

Si ottiene dalla parte grassa del latte, per affioramento spontaneo in seguito a decantazione lenta (in vasche o bacinelle di acciaio) oppure tramite centrifugazione (a 6500-7000 giri al minuto). Secondo le direttive europee (regolamento CE n. 1308/2013) la panna deve contenere un minimo di grassi lattieri del 10%.

Burro

Secondo la legge, la denominazione ‘burro’ “è riservata al prodotto ottenuto dalla crema ricavata dal latte di vacca ed al prodotto ottenuto dal siero di latte di vacca, nonché dalla miscela dei due”. Il tenore di grassi lattieri deve essere almeno dell'80% ed inferiore al 90%, il tenore massimo di acqua del 16% e il tenore massimo dell’estratto secco lattiero non grasso del 2%. Di fatto, può essere considerato un concentrato della frazione lipidica del latte, che avviene in due fasi: l’estrazione della crema dal latte e la trasformazione della crema in burro (fase detta burrificazione). Il prodotto ottenuto da centrifuga è qualitativamente e organoletticamente migliore: in Italia, tuttavia, è molto più diffuso il burro da affioramento poiché sua produzione è strettamente associata a quella del Grana Padano e del Parmigiano Reggiano, derivandone quindi come prodotto “di risulta”.

Ricotta

Ottenuta dalle proteine del siero del latte (la parte liquida che si separa dalla cagliata durante la caseificazione), viene ottenuta attraverso la loro coagulazione con riscaldamento del siero. La ricotta si produce dal siero residuo della caseificazione. Prodotta da latte vaccino, ovino, caprino, di bufala o misto, ha il marchio DOP per quella romana (ovina) e per quella di Bufala Campana.

Yogurt

Derivato dalla fermentazione del latte, si ottiene attraverso una coltura da batteri appartenenti al genere Lactobacillus e Streptococcus. Questo processo trasforma il lattosio in acido lattico, conferendo allo yogurt una consistenza densa e un gusto leggermente acidulo.

Kefir

È il più noto della grande famiglia dei latti fermentati, di origine millenaria. Si ottiene inoculando nel latte particolari ceppi microbici, ne che modificano caratteristiche organolettiche e composizione chimica. Non tutti i latticini elencati trovano uso in pizzeria, non in modo evidente almeno. Tuttavia, per alcuni di essi l’impiego può dare ampie soddisfazioni. Il primo pensiero corre ovviamente alla ricotta: nella versione fresca, la sua cremosità e la sua dolcezza sono un valore aggiunto in termini di gioco di consistenze e sapori.

Ecco allora abbinamenti con verdure (pomodori, melanzane, zucchine, carciofi, spinaci, cipolle, asparagi), crostacei (l’accompagnamento con i gamberi ne esalta la delicatezza), salumi (in questo caso anche in contrasto, per esempio accostata allo speck), insaccati (salsiccia), frutta secca (noci, valorizzandone la croccantezza), e persino frutta (basti pensare ai fichi, per una proposta elegantissima e raffinata). In versione affumicata è perfetta in scaglie, in accostamento, per affinità, con formaggi e pesci affumicati, per esempio scamorza o provola, e salmone. Da non dimenticare infine il potenziale cromatico: il suo colore bianco – esattamente come accade per la mozzarella – è in grado di dare vita ad una vera e propria tavolozza di colori. Non intuitivo è l’impiego della panna, che tuttavia può riservare grandi sorprese: liquida, fatta leggermente scaldare con l’aggiunta di parmigiano e aggiunta al prosciutto cotto, può rappresentare la versione “pizza” del primo piatto “panna e prosciutto”, che vede protagonista pasta o tortellini.

Inoltre, è ancora il salmone, per un classico accostamento che ci riporta indietro agli anni ’80, a poter dare buone soddisfazioni al palato. Gli amanti delle ricorrenze, infine, potranno cimentarsi con la preparazione della pizza “Mimosa”, pensata per la festa della donna e che vede, oltre alla panna, l’impiego di mais e prosciutto.

Infine, la sorpresa arriva proprio dagli ultimi due latticini riportati nel nostro elenco: se pensare ad una pizza condita con yogurt o kefir è difficile, il cambio di passo che è in grado di rappresentare una vera svolta è aggiungere questi ingredienti nell’impasto della pizza. Sono, infatti, in grado di svolgere un’ottima azione di starter conferendo agli impasti morbidezza, eleganza e ariosità.

PANE E PIZZA: DALL’ALIMENTO

ALL’ESPERIENZA

Non più solo prodotti da forno, ma veri e propri scenari di consumo che raccontano identità, innovazione e convivialità. Pane e pizza sono linguaggi per i nuovi stili di vita, creatori di nuove occasioni di consumo: oltre alla cena, protagonisti anche della colazione, dell’aperitivo, perfino della pausa di metà mattina.

“Il trend più significativo è l’evoluzione del panificio da semplice punto vendita a luogo di esperienza”, sottolinea Matteo Cunsolo, Presidente dell’Associazione Panificatori di Milano e Provincia e Segretario di Richemont Club Italia, associazione partner di Host 2025 per Bakery Square, la nuova arena dedicata agli eventi del settore. “Caffetteria, colazioni, brunch veloci e momenti di socialità ruotano attorno al pane, avvicinando nuovi pubblici e ridando valore al mestiere”. È questa la doppia direzione che caratterizza l’Arte Bianca contemporanea: da un lato la riscoperta dell’artigianalità, dall’altro la spinta dell’innovazione tecnologica che migliora organizzazione e qualità produttiva.

Non sorprende allora che la domanda premi la qualità: farine selezionate, grani antichi, lievitazioni naturali e lavorazioni attente alla digeribilità guidano la nuova percezione di un pane non solo buono, ma sano e sostenibile.

OTTOBRE 2025 fieramilano 17-21

A raccogliere e interpretare queste traiettorie sarà Host 2025, la manifestazione leader del settore hospitality organizzata da Fiera Milano che si svolgerà dal 17 al 21 ottobre prossimi. Qui il cuore pulsante dell’Arte Bianca batterà nel rinnovato MIPPP – Milano Pane Pizza Pasta, potenziato dalla partnership con il Consorzio SIPAN. MIPPP non sarà solo una vetrina di tecnologie sostenibili e attrezzature intelligenti per impasti, cottura e lievitazione, ma un vero hub di contaminazioni culturali e professionali, con dimostrazioni live, talk, sfide internazionali.

“La nostra partnership con MIPPP si estenderà a una serie di eventi e iniziative che mirano a dare una rappresentazione completa di come si sta evolvendo il settore dell’Arte Bianca”, conclude Andrea Gaibazzi, Presidente SIPAN. “Abbiamo coinvolto grandi maestri panificatori, associazioni e aziende per esplorare anche dal vivo i trend, come il concetto di micro bakery, per il quale presenteremo un esempio concreto con un food truck”.

L’APPUNTAMENTO CON HOST 2025 È A FIERA MILANO DAL 17 AL 21 OTTOBRE.

La recensione del mese

Per segnalazioni, potete scrivere all’indirizzo redazione@pizzaepastaitaliana.it

La recensione

“Cibo ottimo, in una location instagrammabile. Meravigliosa in pieno centro. Cibo di ottima qualità e carta dei vini molto varia. Personale attento e professionale. Tutto veramente perfetto”.

Recensione lasciata su Tripadvisor per un locale di Siena nel mese di maggio 2025

Il commento

“Cibo ottimo in location instagrammabile.”

Così si apre una recensione scritta da un cliente soddisfatto. Ma se il cibo non fosse stato buono? Non è stato tanto il giudizio sulla cucina ad attirare la mia attenzione, quanto piuttosto l’aggettivo scelto: instagrammabile. Una parola che racchiude un mondo intero, fatto di abitudini, scelte e dinamiche sociali che hanno trasformato il modo di vivere e l’esperienza del mangiare fuori. Viviamo un’epoca in cui la scelta di un ristorante non passa più soltanto dal menù ma dall’impatto visivo. Non è raro imbattersi in persone che scelgono un locale non perché abbiano sentito parlare bene dello chef o delle sue specialità ma perché hanno visto una bella foto sui social, un panorama mozzafiato, magari. Tutto è diventato contenuto, filtrato dalla fotocamera prima che dal palato. E spesso il vero obiettivo non è tanto gustare un buon piatto, quanto avere una bella foto da condividere online.

“Se non lo mostri, non è successo”. Questa è la logica. L’esperienza viene vissuta meno per se stessa e più per il racconto che se ne potrà fare, quasi come se ogni istante avesse valore solo in relazione a quanto possa piacere agli altri. Questo fenomeno non riguarda solo Instagram , ovviamente. Un video o una storia possono determinare il successo improvviso di un locale molto più di una guida gastronomica o di una recensione “normale”. Gli influencer hanno contribuito ad alimentare questa dinamica, raccontando esperienze culinarie in modo patinato, parlando di sapori unici e indimenticabili. Ma quanto c’è di vero? Tante volte sono stati smentiti.

E questo non riguarda solo chi vive di like e visualizzazioni. Anche i comuni avventori si lasciano spesso tentare dall’idea di un luogo bello da fotografare. Quante volte capita di prenotare un tavolo spinti da una foto o un reel? Di fronte a tutto questo, anche i ristoratori si trovano a fare delle scelte. Alcuni investono sempre più nell’allestimento degli spazi, nei dettagli pensati per essere fotografati, che diventano strumenti di marketing.

In questa prospettiva, il rischio è che la qualità gastronomica finisca in secondo piano, sacrificata sull’altare dell’estetica e della visibilità. Ma se il locale è bello e il piatto mediocre, siamo davvero soddisfatti? Per alcuni, la bellezza del contesto basta, per altri resta una delusione. Ma non lo si dice.

La parola instagrammabile non è quindi un dettaglio linguistico ma il simbolo di un cambiamento culturale, iniziato da tempo. Oggi non si sceglie un locale solo per mangiare bene ma per vivere un’esperienza da raccontare. Si rischia di smarrire la sostanza, dimenticando che, oltre l’immagine, ci dovrebbero essere anche un sapore e un momento davvero vissuto.

Forse, la vera sfida per il futuro sarà ritrovare l’equilibrio: godersi la bellezza di un luogo senza rinunciare al gusto della cucina, saper scattare una foto senza che quella foto diventi l’unica ragione per cui ci sediamo a tavola. E, soprattutto, ricordare che per molti ristoratori la scintilla iniziale era il desiderio di proporre un piatto gustoso ed essere apprezzati per quello. Alcuni, invece, oggi sembrano volere puntare maggiormente sull’instagrammabilità del locale a scapito della qualità.

UN LIBRO AL MESE

Edizioni: Ideas edizioni

Anno di edizione: 2025

di Maria Scarinzi Questa non è una pizza

a cura di A.P.

Si dice a Benevento che “femmene e pizze hanna esse massizze”, ovvero che le donne e le pizze debbano essere “grosse”, potremmo dire – con un pizzico di bodyshaming inverso – “in carne” ma che soprattutto, oltre a riempire la vista, debbano appagare totalmente l’appetito. Ecco perché, in un contesto come quello attuale, in cui le pizze diventano tanto più buone quanto più se ne esalta la loro “leggerezza” e la facile digeribilità, quella tradizionale sembra essere una “non-pizza”, al pari di un “non-luogo” come ci ha insegnato l’antropologo Marc Augè.

Nell’ambito del progetto “riTRATTI di Donne - saperi e sapori magici”, Maria Scarinzi, beneventana di Ponte, ha dato alle stampe per i tipi della cooperativa sociale “Ideas” il libro “Questa non è la pizza”.

Maria Scarinzi è laureata in Conservazione dei Beni culturali con una tesi in Antropologia ed è responsabile della sezione “kids” di “Janua – Museo delle streghe” di Benevento.

“Questa non è la pizza” è un albo illustrato che parte – nello spirito dello storytelling alimentare destinato ai più piccoli – da una fiaba (o da un mito eziologico): “… fu in quel momento che ricordai la storia di Petizzo senza pizza, quella che mi raccontavano da piccola. La pizza di Petizzo non era sempre la stessa. Ma dove trovare tante ricette? Ormai tutti parlavano solo di lei: “Verace”, una pizza che si dava le arie perché viveva nella città di Partenope”. La storia delle origini di questa ‘bandiera alimentare’ può fregiarsi di una nutrita bibliografia e non rientra tra le finalità di questo lavoro. Al centro del discorso vi sono, invece, le domande: “E le altre pizze? Avevano un nome? Dove vivevano e perché erano nate?”.

A questi quesiti, intende rispondere l’autrice, lungi dal volere ridimensionare la fama della pizza napoletana ma nella piena volontà di raccontare le tante versioni di questo prodotto, tanto vario quanto affascinante. Le ricette e le storie, sebbene narrate sotto forma di favole, sono frutto di interviste effettuate sul territorio grazie al progetto di “riTRATTI di Donne: Saperi e Sapori magici”, finanziato dalla Regione Campania. Le immagini presenti nel volume sono elaborate con l’ausilio dell’intelligenza artificiale generativa.

Un libro bello, pensato per i bambini ma validissimo anche per tutti coloro che intendono riflettere su quanto spesso uccidiamo la biodiversità - che è ricchezza - in nome della volontà di replicare qualcosa di successo.

“Gli tisti della pizza”

Tante idee da assaporare ogni mese con i nostri dodici “Artisti della pizza”. Ottobre è stato dedicato al nostro caro pizzaiolo Gabriele Passarelli, che esalta il gusto dei nostri filetti con basilico, con la sua “Filetto 2.0” che si presenta come un piccolo capolavoro di eleganza e gusto. La base è sottile ma soffice, leggermente dorata ai bordi, pronta ad accogliere la dolcezza del filetto di pomodoro e la cremosità dei bocconcini di bufala che in cottura diventano filanti e vellutati. Dopo la cottura, si completa con gocce di pesto fresco, una ciliegina di bufala al centro e croccanti cialde di parmigiano. Un equilibrio unico di colori, profumi e consistenze.

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17-21

OTTOBRE 2025 fieramilano

COTTO SCELTO

Gusto deciso, fetta compatta e buona affettabilità

Ottima performance a caldo

Resiste alle alte temperature senza bruciare

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