La storia del
MILAN MILAN

CON UN’INTERVISTA A










BILLY COSTACURTA









ILLUSTRAZIONI DI
MASSIMILIANO AURELIO E GIORDANO POLONI

















Paolo Condò
Giuseppe Pastore
La storia del Milan in 50 ritratti illustrazioni di Massimiliano Aurelio e Giordano Poloni
Publisher
Balthazar Pagani – BesideBooks
Fact checking
Massimo Perrone
Editing della nuova edizione e fact checking
Fabia Brustia
Graphic design PEPE nymi
ISBN 979-12-221-1065-3
Nuova edizione aggiornata agosto 2025 ristampa 9876543210
anno 2029 2028 2027 2026 2025
© 2025 Carlo Gallucci editore srl - Roma
Stampato per conto di Carlo Gallucci editore srl presso BALTO print, Utenos g. 41B, Vilnius LT-08217, Lituania nel mese di luglio 2025
Gallucci è un marchio registrato
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C107574
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PAOLO CONDÒ GIUSEPPE PASTORE MILAN MILAN La storia del
CON UN’INTERVISTA A
BILLY COSTACUR TA

ILLUSTRAZIONI DI
MASSIMILIANO AURELIO E GIORDANO POLONI




Ringrazio Paolo Condò per l’idea, per la fiducia, per la generosità.
Ringrazio i ragazzi di ComunqueMilan, a cominciare da Paolo Madeddu, per la persistenza di questi tredici anni.
E poi naturalmente ringrazio Marco van Basten, Paolo Maldini, George Weah e Ricardo Izecson dos Santos Leite.
SOMMARIO




I RITRATTI

DEMETRIO ALBERTINI
23 agosto 1971 (Besana in Brianza, Italia)
L’infanzia di un capo: mentre Mark Hateley sta sovrastando Fulvio Collovati in un radioso pomeriggio di metà autunno, il piccolo Demetrio Albertini è accovacciato in divisa rossonera accanto alla lettera C del cartellone pubblicitario Campari a bordo campo, pronto a intercettare e rimandare in campo ogni pallone vagante dalle sue parti. Esistono poche parabole così edificanti per spiegare la fedeltà ai colori di un bambino, poi ragazzo, poi uomo, cresciuto per anni attraverso rigorose linee rette: treno fino a Porta Garibaldi, metro rossa fino a San Babila, autobus 73 fino a Linate, allenamento, stessa strada al contrario. Seconda scena: Demetrio adolescente a Milanello, nell’ultima rifinitura prima di Milan-Real Madrid 5-0, che azzoppa involontariamente Chicco Evani facendo mettere le mani tra i capelli (licenza poetica) ad Arrigo Sacchi. La voglia di mettersi in mostra, l’impegno che un senatore della prima squadra chiede ai ragazzini della Primavera. Terza scena: Albertini direttore d’orchestra degli Invincibili, un ventenne a cui Capello ha affidato la bacchetta che era di Ancelotti, vincendo la sua proverbiale ritrosia verso i giovani. Il sale in zucca gli fa scalare velocissimo le gerarchie e gli fa guadagnare presto il posto al tavolo in fondo al pullman, il Gran Consiglio degli Anziani Milanisti. Gioca a testa alta, razionalizza la manovra e calcia fendenti verso le ragnatele di tutta Europa, come nella semifinale di Champions 1994 contro il Monaco, un’immagine esaltata dalla profondità di campo alla Orson Welles della regia televisiva: la camera segue la palla viaggiare velocissima verso l’incrocio e poi ce lo mostra esultare, paonazzo di gioia. Quarta scena: Demetrio più vecchio e imbolsito, traboccante di classe e orgoglio, che si congeda in una sfida tra western e sala giochi con l’Extraterrestre Rivaldo, un irreale gioco di tiri dalla distanza nel primo tempo di un Milan-Barcellona di Champions. Finisce pari: due reti a testa, i suoi ultimi gol milanisti. San Siro piange e ride. In rotta con Galliani, lascia nel 2002, pedina di un mega-affare con l’Atlético Madrid che serve a portare Nesta al Milan. E la storia può ripartire.

JOSÉ ALTAFINI
24 luglio 1938 (Piracicaba, Brasile)
Altafini viaggia in solitaria verso Costa Pereira, il portiere del Benfica che non sa se uscire o no, e come succede in questi casi rimane sulla via di mezzo che disorienta per primo proprio l’attaccante. Tanti metri da percorrere, tanto tempo per pensare… Sono quelle situazioni in cui José Altafini non sbaglia mai. È un ottimista sognatore, che ha sempre preferito la fantasia ai piedi per terra: è stato uno dei primi calciatori a dotarsi di un agente, lo zio Angelo Mascheroni, ma i primi stipendi italiani li ha ingenuamente chiesti in cruzeiros, non immaginandone la svalutazione. La sua allegria si sposa bene con la ruvidità di facciata di Nereo Rocco, che incassa con stile atroci scherzi da spogliatoio, ma fa a cazzotti con il pragmatismo del direttore Gipo Viani che lo detesta cordialmente. Prima o poi pensa che cambierà aria e andrà al Sud, magari a Napoli, dove troverà un allenatore, Bruno Pesaola, che tutte le volte si raccomanderà: «Non rientrare prima delle tre di notte». Intanto adesso è lì, tredici gol in otto partite e mezzo di coppa Campioni, con un leggero accenno di crampi per l’erba troppo morbida di Wembley, e pensa. Pensa di dribblare il portiere a sinistra, poi no, decide di tirare subito. Apre il destro, e sbaglia.
José Altafini, l’uomo chiamato Mazzola per la somiglianza con il grande Valentino, in quel momento ha segnato oltre 120 gol con la maglia del Milan in cinque anni, eppure c’è ancora chi non ne sopporta le lune, chi lo accusa di non pensare alla squadra, chi gli dà del coniglio: soprannome che fa sorridere, di fronte a certe sue foto anni Settanta con i calzettoni abbassati e gli stinchi nudi. Lui non capisce. Non ha la malizia velenosa di un maledetto argentino alla Sívori: è un entusiasta che si accende al pensiero del più bel mestiere del mondo, fare gol. Era uno dei pochi convinti persino di battere il Benfica di Eusébio. Ha già segnato l’1-1 e la fortuna sorride a chi sorride: la respinta di Costa Pereira gli torna addosso ancora sul destro e gli regala la seconda chance, sporca e invitante. Questa volta è gol, Milano in cima all’Europa, il più importante dei 150 segnati in rossonero. Il più bello? Il 14 febbraio 1965, in spettacolare rovesciata al Comunale proprio contro il Torino, per onorare il soprannome di Mazzola nel giorno di San Valentino.

CARLO ANCELOTTI
10 giugno 1959 (Reggiolo, Italia)
Come aveva intuito D’Annunzio, non c’è posto migliore della campagna per assistere allo spettacolo della pioggia. Carlo Ancelotti, uomo di campagna, ha un rapporto speciale con Giove Pluvio, che lo ha degnato della sua attenzione nelle due notti più belle della carriera milanista. Due semifinali di coppa Campioni, a San Siro, in primavera: il 5-0 al Real Madrid aperto da una sua saetta che incenerì Buyo e atterrò nella rete gonfia di pioggia, rovesciando sul terreno litri d’acqua, e il 3-0 al Manchester United del 2 maggio 2007, la partita perfetta per almeno due generazioni rossonere. Il romanzo milanista dell’emiliano Ancelotti, carico di un’epica contadina alla Bernardo Bertolucci («Da bambino il giorno più bello era quando si ammazzava il maiale»), culmina in due tremendi acquazzoni. La furia degli elementi opposta alla sua calma sfacciata, unica in un calcio sempre più isterico, porta allo scoperto una tempesta interiore che i picchi vertiginosi del suo sopracciglio sinistro fanno solo intuire. Altri sintomi di stress: il nodo della cravatta allentato, la sigaretta (che Gattuso quasi gli fa ingoiare per eccesso di esultanza dopo il 3-2 all’Ajax nel 2003). Al Milan Ancelotti è invecchiato splendidamente da calciatore e altrettanto splendidamente è maturato da tecnico, abbandonando i quaderni sacchiani per fidarsi delle persone. La mostruosa intelligenza relazionale, arte imparata da Liedholm, è il cemento dei suoi sette anni e mezzo da allenatore, iniziati con un’inversione a U sulla statale verso Parma per rispondere alla telefonata fatidica di Galliani. Quante schegge: i test di velocità con Sacchi in cui lui e Virdis erano regolarmente ultimi, il gol al Torino di testa dopo essersela rotta nel primo tempo contro una recinzione in cemento, l’albero di Natale, Kaká schierato attaccante «ma solo i primi cinque minuti, così Berlusconi crede che giochiamo con due punte». Tante tensioni sotterranee con il presidente, che tante volte gli aveva mandato le cornacchie a volteggiare sopra la panchina. Tutto per arrivare a quelle due notti con il Real e con il Manchester, piene di una pioggia – parafrasando un altro grande emiliano, Lucio Dalla – «così dolce che si potrebbe bere, da passare in centomila in uno stadio…».

FRANCO BARESI
8 maggio 1960 (Travagliato, Italia)
Uno dice: fedele alla linea. Ma a quante linee diverse si può essere fedeli nello stesso momento? Una linea dinastica che fa di te l’anello di congiunzione tra Rivera e Maldini. Una linea morale che non prevede fughe o scappatoie, dal Romagnoli di Campobasso al Camp Nou di Barcellona. Una linea retta, protesa in avanti, in percussione centrale al momento giusto, epico e solenne come il rullo di un t amburo militare. Una linea filosofica confinante con l’utopia, quella della difesa di Sacchi che lo obbliga a rimparare a difendere e a camminare sul filo da equilibrista, dieci centimetri più in qua o in là e sei fritto. Fedele alla linea, fedele a se stesso. Franco Baresi è la linea. La linea che poi evolve in un tondo e disegna un numero 6 che è mitologia sportiva come Michael Jordan e il suo 23. Ventitré come i giorni tra l’operazione al menisco e il ritorno da migliore in campo nella fornace di Pasadena, finale mondiale 1994; ventitré come le volte che la difesa guidata da Baresi mandò in fuorigioco il Real Madrid al Bernabéu, a casa sua, la sera del 1° novembre 1989. Tempra, tempismo, nessun accenno di compassionevole misericordia nel furore lucido e geometrico con cui organizzava i reparti, serrava i ranghi, chiudeva, «scappava», ricostruiva. Franchino da Travagliato, come da nome all’anagrafe, rappresenta il distillato del Capitano, puro spirito. Di quel ruolo possedeva la chiave più segreta e incomprensibile, che non si può spiegare a parole e nemmeno con un gesto convenzionale. «Nemmeno il braccio alzato?» ironizzerà chi lo metteva in discussione, perché d’altra parte si può mettere in discussione tutto, soprattutto la religione. Un unico tratto di penna; una linea. Baresi non è neanche l’esempio, perché nessuno si è mai nemmeno sognato di imitare Baresi. Quando ha smesso, nel 1997, il Milan è rimasto a lungo sbalestrato, ha tentato la via della difesa a tre ed è tornato in ordine solo quando è arrivato Nesta. Ma Baresi non ha lasciato eredi, solo monumenti. In altre epoche l’avrebbero raffigurato a cavallo.





CON GLI ULTIMI AGGIORNAMENTI
IL MILANISTA È PER COSTITUZIONE ROMANTICO E OTTIMISTA, PIANGE LACRIME CALDE SE LE COSE VANNO MALE
MA NON PERDE MAI LA FIDUCIA. IL MILANISTA RIESCE
A FARSI VANTO ANCHE DEI GIORNI PIÙ NERI, GLORIFICA
TUTTI GLI EROI, COLTIVA LA PASSIONE PER QUELLA COSA
ORMAI FASTIDIOSA E FUORI MODA CHE SI CHIAMA STORIA.
Non una semplice galleria di fenomeni, ma 50 uomini, tra tecnici e giocatori, che del Milan rappresentano la voglia di perseguire il risultato e la vittoria. Un volume che racconta l’epica, i trionfi da leggenda e le dolorose, a volte be arde battute d’arresto della squadra rossonera nell’arco di oltre un secolo.







PAOLO CONDÒ è nato a Trieste nel 1958. Giornalista sportivo, dopo aver lavorato per oltre trent’anni alla “Gazzetta dello Sport”, nel 2020 è passato a “la Repubblica” e nel 2025 è approdato al “Corriere della Sera”. Dal 2010 è il giornalista italiano designato per la votazione del Pallone d’oro e dal 2015 appare anche come opinionista televisivo per Sky Sport. Ha seguito molte edizioni dei Mondiali e degli Europei di calcio, diversi Giri d’Italia e le Olimpiadi estive. È coautore con Francesco Totti di Un capitano (2018). Ha scritto anche La storia della Juve in 50 ritratti, La storia dell’Inter in 50 ritratti, La storia del calcio in 50 ritratti, tutti pubblicati in queste edizioni.
GIUSEPPE PASTORE (Mola di Bari, 1985) è un giornalista professionista e collabora con “Cronache di spogliatoio”, “Il Foglio” e “Rivista Undici”. È autore di La squadra che sogna (2020) sulla Nazionale di volley Anni Novanta di Julio Velasco, Il Milan col sole in tasca (2022) sul Milan di Sacchi e Capello, Ma che Coppa abbiamo noi. La maledizione europea della Juventus (2023) e Kolossal Milan (2024) sul Milan di Ancelotti.