la Repubblica
R CULT
DOMENICA 8 DICEMBRE 2013
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STRA PAR LANDO
GLI INIZI
CON GIANGIACOMO
Figlia di ebrei tedeschi immigrati dalla Spagna, diventa presto fotografa e nel 1952 va a New York. Celebri i suoi scatti, tra gli altri, a Hemingway Garbo, Kazan, Ginsberg, Grass, Picasso e Chagall
Nel luglio 1958 Inge incontra Giangiacomo Feltrinelli, fondatore nel 1954 dell’omonima casa editrice. I due si sposano nel 1960 dando vita a una delle coppie più influenti nella storia dell’editoria
I ricordi e le passioni della donna che ha cambiato l’editoria italiana
FELTRINELLI INGE
“Da Hemingway a Grass, ecco il mio Novecento Però non mi sono mai ritenuta un’intellettuale” ANTONIO GNOLI
M LA BIOGRAFIA Inge Schönthal Feltrinelli (Essen, 24 novembre 1930) è un’editrice e fotografa italiana di origine tedesca. Dopo la morte di Giangiacomo, ha diretto a lungo l’omonima casa editrice
entre sono sul treno veloce che mi riporta a Roma, e che avrà ahimè un ritardo di tre ore e mezza, mi consolo sfogliando il grande libro che Inge Feltrinelli ha dedicato al suo lavoro di fotoreporter. È un’edizione tedesca. Me ne ha fatto dono dopo il lungo incontro che abbiamo avuto nella sua casa milanese. In copertina c’è lei, poco più che ventenne, aggrappata a un esemplare di marlin. Accanto, Ernest Hemingway che alla pesca dedicò forse più passione che ai romanzi. Entrambi sembrano aderire alla circostanza dei rispettivi ruoli. Ernest forse vorrebbe ridere ma non ce la fa. E Inge, che invece ride, forse vorrebbe essere seria. Perché dopotutto quel grande pesce è lì a rappresentare la propria fine e il trionfo altrui: la striatura di sangue, l’occhio vitreo, la rigidità simile a quella di un metallo, convergono in un punto irreale, in cui anche l’odore del mare sembra sospendersi. «Quando feci quella foto con l’autoscatto Ernest era già sull’orlo di un cambiamento psichico e fisico», commenta Inge, che allora si firmava Schönthal, il nome del padre: un ebreo tedesco che dalla Germania fuggì a New York. Cosa ricorda di quegli anni? «A quali si riferisce?». A lei bambina. I nazisti al potere. Suo padre e sua madre... «I miei divorziarono. Mio padre riparò in America e mia madre sposò un ufficiale di cavalleria. Come mezza ebrea non potevo accedere al liceo. A 14 anni si stava aprendo uno spaventoso baratro davanti ai miei piedi. Ma fui fortunata. Il mio patrigno mi protesse. Cambiai il nome da Schönthal in Heberling; ripresi la scuola, a Gottinga, una specie di Oxford tedesca. Sì, gli anni della guerra non furono per me così duri. Almeno non quanto quelli dell’immediato dopoguerra». Cosa accadde? «Il disastro. La Germania era un cumulo di rovine: distruzione, fame, disoccupazione e disperazione. Il patrigno morì nel 1950, lasciando mia madre con due figli piccoli e me. Capii che avrei dovuto guadagnare soldi. Gottinga non offriva opportunità, mi trasferii ad Amburgo al seguito di una fotografa che mi propose di fare l’assistente. Fu così che nacque il mio rapporto con la fotografia. Due anni di gavetta, una collaborazione alla rivista Constanze e poi l’incredibile fortuna di incontrare Ernest Hemingway. Ma prima...». Prima? «Ci fu quell’incredibile foto che scattai a Greta Garbo, mentre ferma a un semaforo sulla Madison Avenue, probabilmente raffreddata, stava per soffiarsi il naso. Vendetti quello scatto, la mia prima foto, alla rivista Life, per 50 dollari. Era il 1952. Poi arrivò Hemingway». Come si realizzò il vostro incontro? «Grazie all’editore Ernst Rowohlt, che aveva pubblicato tutti i suoi libri. In quel periodo Hemingway viveva a Cuba. Giunsi all’Avana e aspettai un po’ prima che il «papa» mi ricevesse. Mi restavano pochissimi soldi e quando in una tarda mattinata mi telefonò, avevo quasi persa del tutto la speranza di incontrarlo. Mi disse che avrebbe mandato una macchina a prendermi. Gli risposi che preferivo arrivare con un autobus. Il viaggio durò un paio d’ore. C’era caldo. Eppure, mi sembrava di stare in una cella frigorifera». Era emozionata? «Ero nervosa e in totale subbuglio. Lui invece mi sembrò di pessimo umore. Credo che avesse fatto un’uscita con una barca ma che non si fosse divertito. Mi invitò al bar. Andava sempre al Foridita. Arrivammo in pieno pomeriggio. Si sedette al bancone e ordinò un daiquiri. A un certo punto fecero il loro ingresso dei ragazzi, malmessi e senza scarpe. Ernest tirò fuori delle monete e le lasciò cadere sul pavimento. Erano per loro. Trovai la scena umiliante e glielo dissi. Mi sembrava il gesto frutto del peggior colonialismo». E lui? «Mi ignorò, continuando a bere. Solo la sera tardi, rivolgendosi mi pare alla moglie Mary, commentò l’accaduto. Disse che la gio-
Giangiacomo? Ad un certo punto si sentì assediato dalle forze del male vane tedesca era un po’ troppo nazista per i suoi gusti. Decisi che al mattino seguente me ne sarei andata. Alle sei, era già sveglio, seduto nel soggiorno. Lo salutai. Mi guardò e disse: “Stalin is dead”. È morto? Feci io. Sì, e ora cambierà il mondo, aggiunse. Era il 5 marzo 1953. Per due ore tentò di farmi una lezione di politica sull’importanza di quel vecchio dittatore. Fu così che le tensioni svanirono e restai con lui per due settimane, scattando foto che avrebbero fatto il giro del mondo». Che grado di familiarità si stabilì fra voi? «Mi sta chiedendo se abbiamo fatto del sesso?». Beh, lei molto bella, lui grande scrittore. «Ero lì per lavoro. E mi sentivo la classica brava ragazza tedesca. Poi mi piaceva Mary, sua moglie, che aveva finito col sacrificare la professione di giornalista, dedicandosi a quest’uomo pieno di problemi e spesso ubriaco». Quanto spesso? «Quasi sempre. L’alcol serviva a tenere lontani i fantasmi della sua depressione. Cosa la generasse non lo so. Si era accorto che il suo mondo era finito. Aveva partecipato alla prima guerra mondiale e al conflitto spagnolo. Aveva scritto romanzi e racconti memorabili. Era celebre. Ma tutto ciò non era servito a metterlo in pace con la sua mente. Era una creatura complessa, distorta, fragile. Averla incontrata ha, però, cambiato la mia vita». Quelle foto furono il successo. «Fu un passaporto per tutte le celebrità successive che conobbi. A cominciare da Picasso, che fotografai nella sua villa non lontana da Cannes, e poi Chagall, in Costa Azzurra; Gerard Philippe, con il quale viaggiammo nella mia Volkswagen; Leonor Fini che viveva in una bellissima casa parigina, lei lesbica, con due gay; e sempre a Parigi andai a trovare Simone de Beauvoir. Mi intrattenne con i suoi meravigliosi discorsi sulla Cina da cui era appena tornata; e poi Ivy Nicholson, che era stata una modella bellissima, adorata da Andy Warhol. Viveva a Roma. La incontrai in via Margutta. Non sapevo allora che si sarebbe persa e che la bellezza da sola non ti difende». E la sua bellezza le è servita? «Aiuta, eccome. Ma senza determinazione, intelligenza, rigore, ti trasforma solo in un oggetto del desiderio». Come avvenne che conobbe Giangiacomo Feltrinelli? «Fu Rowohlt, sempre lui, a invitarmi a una festa. Ero appena tornata dall’Africa. Mi telefonò: domani faremo un cocktail per l’editore che ha pubblicato Il dottor Zivago. Chi sarebbe? Chiesi. Un ita-