Thema 17|25

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RIVISTA DEI BENI CULTURALI ECCLESIASTICI

THEMA

RIVISTA DEI BENI CULTURALI ECCLESIASTICI

THEMA 17|25 2025

periodico semestrale

Pubblicazione registrata presso il Tribunale di Pescara, con autorizzazione del 15/6/2011, registro di stampa 10/2011

ISSN 2384-8413

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Centro Studi Architettura e Liturgia via della Liberazione 1, Montesilvano (Pe)

Direttore Responsabile

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Redazione via della Liberazione 1, Montesilvano (Pe)

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Progetto grafico e impaginazione

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Hanno collaborato

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1. Editoriale Sergio Massironi

3. La teologia della luce e gli spazi del sacro Bruno Forte

36. La luce come architettura

Raffaele Giannantonio

Sentinella, quanto resta della notte?

Sentinella, quanto resta della notte?

Editoriale Editoriale

L’impatto con Thema 17 è dirompente come il contrasto fra luce e tenebra, quando si è da tempo nella tenebra. Allora anche un filo di luce, da un piccolo foro, viene a tagliare il buio in cui troppo a lungo i giorni scorrono. Sembra acciecarci, ma ci risolleva. Come dall’interno di un sepolcro siamo così risvegliati dalle pagine che stiamo forse iniziando a scorrere. Esse indagano il rapporto con la luce che negli ultimi decenni non ha smesso di modellare il costruire dei cristiani. Per ciò stesso, il piccolo foro è una croce, quasi a suggerirci attenzione sul nesso tra vita e morte che il mistero della luce ha in sé. Tale nesso non starebbe altrimenti al cuore dell’esperienza artistica, che appartiene all’umana lotta per la vita. Siamo cercatori di luce, perché dalla nascita veniamo alla luce, ma nel pericolo di smarrirla. Le sue smentite, la sua mancanza, la nostalgia di un raggio che dia al seme di germogliare e al gelo di dissolversi ci rendono santamente inquieti. «Apparteniamo al giorno», scrisse Paolo di Tarso alla comunità di Tessalonica nella prima delle sue lettere1 , opponendo la perdita di sensibilità che facciamo coincidere con la notte – il dormire, l’ubriacarsi – a una sobrietà che invece rende lucidi e pronti. Noi non amiamo la guerra, che fino a oggi spegne ogni luce e precipita nel gelo il corpo e spirito, ma sappiamo di dovere combattere perché non prevalgano le tenebre. Più che mai, la coscienza di chi è nutrito dal tesoro di beni culturali che alimentano intelligenza e cuore deve resistere a ciò che nega la vita e i suoi colori, a ciò che omologa e addormenta i desideri. «Questa economia uccide»2. La spiritualità cui rinviano le immagini, le parole e per loro tramite i luoghi qui raccolti non ha rigidi confini confessionali, ma dalla croce si lascia nuovamente annunciare che non c’è abisso in cui non poter essere raggiunti. Sì, spirituale è solo l’aperto, quel possibile ‘ancora’ in cui niente quaggiù può pretendersi definitivo, niente è chiuso, niente è finito. Le chiese, che vorremmo aperte – non solo ad alcuni, ma a tutti, sempre, gratuitamente – possono ancora rappresentare nel paesaggio urbano e persino nella natura più incontaminata un’interruzione benedetta: feritoia sul buio che ci avvolge e non di rado ci prende, promemoria dell’altro che è da accogliere ancora. Il Novecento non ci ha deluso, in questo. Ha semmai trascritto nel cemento, nel legno, nel vetro e nella pietra – in ogni materia prima – i suoi radicali contrasti, che sono poi i nostri, quelli di cui siamo eredi, ancora destabilizzati dall’eredità di un secolo che ci fa chiedere, come la sentinella dell’oracolo post-esilico su Duma:

«Sentinella, quanto resta della notte?

Sentinella, quanto resta della notte?».

La sentinella risponde:

«Viene il mattino, poi anche la notte;

se volete domandare, domandate, convertitevi, venite!»3

1 Il riferimento è qui a 1Tessalonicesi 5, 4-8

2 Francesco, Evangelii gaudium, n. 53

3 Isaia 2, 11-12

LA TEOLOGIA DELLA LUCE E GLI SPAZI DEL SACRO

1. Orientale lumen: una “metafisica” della luce

L’Oriente cristiano è caratterizzato dalla nostalgia struggente delle cose ultime, anticipate e promesse nella rivelazione del Dio crocifisso: in questo senso si può dire che è la luce “taborica” a guidare la contemplazione teologica della grande tradizione cristiana orientale, quella luce che risplende dal Tabor della trasfigurazione, dove l’oscurità del cammino del tempo è rischiarata dagli splendori della bellezza che irradia dall’alto ed è riconoscibile solo per l’occhio della fede.1 In questo tipo di conoscenza teologica la contemplazione precede e nutre la via speculativa, l’esperienza mistica è fondamento dell’attività intellettuale, la dossologia pervade e plasma l’esercizio del “logos”: «Non è la conoscenza che illumina il mistero, è il mistero che illumina la conoscenza. Noi possiamo conoscere solo grazie alle cose che non conosceremo mai»2. La tenebra luminosa, caratteristica del mistero rivelato, bacia della sua luce tutte le cose: in essa ci è dato raggiungere la profondità nascosta di tutto ciò che esiste. La luce, che si irradia dal profondo della creazione originaria e sempre in atto e risplende in pienezza nella redenzione, unifica l’inizio e il compimento, come la trama nascosta che custodisce nell’essere tutto ciò che esiste.

Emergono così le linee di una “metafisica della luce”, in cui tutto acquista il suo posto originario e destinale: «Il primo giorno della creazione... non è il primo, ma l’uno, l’unico, fuori serie. È l’alfa che già porta e chiama il suo omega, l’ottavo giorno dell’accordo finale, il Pleroma. Questo primo giorno è il canto gioioso del Cantico dei Cantici di Dio stesso, lo sprizzare folgorante del “sia la Luce!” ... La Luce iniziale, “all’inizio” nel senso assoluto, in-principio, è la rivelazione più sconvolgente del Volto di Dio. “Sia la Luce” significa per il mondo in potenza: sia la Rivelazione e dunque il Rivelatore, venga lo Spirito Santo! Il Padre pronuncia la sua Parola e lo Spirito la manifesta, egli è la Luce della Parola»3. La luce dell’inizio e dell’ottavo giorno non è altro che la partecipazione alla vita della Trinità divina, grembo e custodia di tutto ciò che esiste: tutto è creato dal Padre nello spazio della generazione eterna della Sua Parola, il Figlio, e di questa Parola lo Spirito è la manifestazione, la luce cioè che risplende dal Verbo ed in cui si rischiara ognuna delle creature chiamate all’essere in Lui.

La Trinità pervade di sé tutte le cose: tutto è creato in Dio, tutto riposa nella Sua luce, tutto è immerso nelle relazioni d’amore dei Tre, che creano e sostengono ogni esistente nell’essere. La verità delle creature altro non è che il loro risplendere della luce originaria, la bellezza che irradia dall’intimo del loro venire dalla Trinità divina e del dimorare in essa: «Essere nella luce è essere in una comunione illuminante che rivela le icone degli esseri e delle cose, coglie i loro logoi contenuti nel pensiero divino e inizia così alla loro integrità perfetta, in altre parole alla loro bellezza voluta da Dio»4. Non è dunque la conoscenza a creare la luce o a “vederla”, ma è la luce veniente dall’alto a consentire la visione della verità e della bellezza originarie, fornendo all’essere umano la partecipazione allo sguardo dell’occhio divino: «La luce taborica non è soltanto l’oggetto della visione, ma ne è anche la

1 Cf. P. Evdokimov, La conoscenza di Dio secondo la tradizione orientale, Paoline, Roma 1969.

2 Id., La donna e la salvezza del mondo, Jaca Book, Milano 1980, 13.

3 Id., La teologia della bellezza. Il senso della bellezza e l’icona, Paoline, Roma 1971, 17.

4 Ib., 18.

Alejandro Beautell, cappella di San Giovanni Battista (2013), El Hierro, Spagna - courtesy Beautell arquitectos
Luigi Figini e Gino Pollini, chiesa dei SS. Giovanni e Paolo (1964-68), Milano - foto di Carlo Pozzi

condizione... È la trasformazione dell’uomo in luce, e la visione attraverso l’occhio divino alla quale tutto l’uomo è associato, quando Dio si guarda in noi»5

Questa “metafisica” trinitaria della luce non è un arbitrario sviluppo che l’Oriente ha compiuto della rivelazione biblica: secondo Evdokimov essa è al contrario fondata nella più caratteristica identità della tradizione ebraico-cristiana. «Si dice abitualmente che nell’ellenismo la vista predomina sull’ascolto, mentre tra gli Ebrei l’ascolto è prima: Israele è il popolo della parola e dell’ascolto. Ma... nei testi messianici l’“Ascolta, Israele” fa posto all’invito “Alza gli occhi, e vedi”: l’audizione cede alla visione... Nella Bibbia, la parola e l’immagine dialogano, si chiamano l’una l’altra, esprimono gli aspetti complementari della medesima ed unica Rivelazione»6. Da che Dio è entrato nella storia - fino al supremo compimento kenotico di questo ingresso, che è l’incarnazione del Figlio e il Suo mistero pasquale - il visibile ha ospitato l’invisibile, pur senza catturarlo, in maniera almeno analoga a come le parole degli uomini sono state abitate dalla Parola di Dio e dal Suo Silenzio: «L’invisibile si rivela nel visibile: “Chi vede me, vede il Padre”. Dunque, l’immagine fa parte dell’essenza del cristianesimo allo stesso titolo della parola»7.

Nella dialettica della rivelazione, tuttavia, in cui l’invisibile si è al tempo stesso esibito e velato, l’“Orientale lumen” ha privilegiato l’aspetto della manifestazione a quello del nascondimento di Dio: ma in questo, non ha fatto altro che accentuare una delle possibilità contenute nella forma stessa dell’auto-comunicazione divina. «L’Occidente misticamente gravita intorno alla Croce... L’Oriente... gravita intorno alla gloria di Dio, che trionfa della sofferenza e della morte»8. In tutte le sue espressioni, l’Oriente si presenta come il geloso custode e il testimone tenace della luce veniente dall’alto. Ne è segno altissimo ed eloquente l’iconografia: «Il tema della luce... attraversa come un lampo l’iconografia orientale, si pone nel suo elemento e fa di essa una grandiosa “mistica solare”»9. Per la contemplazione dell’Oriente è solo dalla luce divina che tutto è veramente illuminato, ed è perciò solo in essa che tutto acquista il suo vero posto e il suo senso pieno: la vocazione e la missione dell’uomo, l’incontro col Dio che salva, l’anticipazione taborica offerta dall’icona, non sono che aspetti e momenti di questa totalizzante visione della luce che viene dall’alto, che è il dono dello Spirito Santo, il dono della Trinità. Così la luce diviene oggetto di invocazione e di desiderio struggente: «Vieni, Luce verace, vieni, Vita eterna, vieni, mistero nascosto, vieni, o Indicibile, vieni, Inconoscibile, vieni, gioia incessante! Vieni, Luce senza tramonto… vieni verso di noi, giacenti nelle tenebre»10

2. L’Occidente e le agonie della luce vittoriosa

Il tema della luce in chiave biblico-teologica non è meno presente della riflessione dell’Occidente cristiano. Esso muove in particolare da quella che sembra la negazione per antonomasia della luce: la notte. Sin dal primo mattino del mondo, la notte e la luce si sono scontrate in un duello fecondo: «Dio disse: Sia la luce! E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e Dio separò la luce dalle tenebre. Dio chiamò la luce giorno, mentre chiamò le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: giorno primo» (Gen 1,3-5). Il duello è così radicale e drammatico che, per assicurare la separazione fra la luce e la notte, l’Eterno crea il firmamento del cielo, l’opera del secondo giorno,

5 Ib., 269s.

6 Ib., 46s.

7 Ib., 47s.

8 Ib., 203.

9 Ib., 341.

10 San Simeone il Nuovo Teologo, Divinorum amorum liber, PG 120,507.

Peter Zumthor, cappella di S. Benedetto (1985-88), Sumvitg, Svizzera - foto di Carlo Pozzi

l’unica che non riceve la qualifica data alle altre di “tov”, di essere cioè buona e bella. Il perché di questa assenza è spiegato dalla tradizione rabbinica col fatto che la separazione rompe l’unità originaria e non può perciò essere buona e bella. La notte è, insomma, l’antagonista radicale della luce e questa riporterà vittoria su di essa in ogni nuovo mattino del mondo. Lo svolgersi del tempo non sarà che l’estendersi di questa lotta originaria, dall’alba della creazione a quella della Gerusalemme celeste, una lotta in cui i figli della luce trionferanno sui figli delle tenebre e lo splendore di Dio vincerà infine ogni notte che a lui si opponga. Il rapporto fra la luce e la notte si mostra dunque decisivo per cogliere in tutta la sua ricchezza la teologia ebraico-cristiana della luce e comprendere il senso della salvezza operata dal Signore a favore delle sue creature, lui che è la luce vera, venuta in questo mondo per illuminare ogni uomo (cf. Gv 1, 4-5. 7-9).

L’essere umano, peraltro, quale si esprime nei Salmi, viene dalla luce dell’Eterno ed è pellegrino verso la luce, assetato di essa. Perciò grida: «Svegliati, mio cuore, svegliati arpa, cetra, voglio svegliare l’aurora» (Sal 57,9). Chi sveglia l’aurora aspetta con impazienza l’avvento del giorno, andandovi incontro con la forza del desiderio, proteso verso il momento in cui passi l’oscurità e spunti la stella del mattino. In questa condizione di attesa vigile ritorna spontanea la domanda radicale: quanto manca all’aurora? dove siamo nella notte? A questa domanda può dare risposta solo la sentinella che veglia nell’oscurità, la Parola di Dio, lampada ai nostri passi, che apre il nostro cuore a comprendere dove siamo, chi siamo. Ad essa domandiamo: «Sentinella, quanto resta della notte?» (Is 21,11). Come il “servus lampadarius”, il servo che portava la fiaccola per illuminare la via, così la Parola ci aiuta a comprendere i volti della notte, su cui verificarci per discernere in noi stessi quanto manca all’aurora e quale via percorrere per andarle incontro: «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino» (Sal 119,105).

La notte è il tempo della prova, della lotta, dell’agonia: è nella notte che Giacobbe lotta con Dio: «Durante quella notte Giacobbe si alzò ... e passò il guado dello Jabbok ... Rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora» (Gen 32,23. 25). Al sorgere del giorno terminerà la prova, perché è la notte il tempo della lotta: «Lasciami andare - dirà l’assalitore notturno - perché è spuntata l’aurora» (Gen 32,27). Terribile è Colui che irrompe nella notte e ne invade il silenzio: «Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo corso, la tua parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale, guerriero implacabile, si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio, portando, come spada affilata, il tuo ordine inesorabile. Fermatasi, riempì tutto di morte; toccava il cielo e camminava sulla terra. Allora improvvisi fantasmi di sogni terribili li atterrivano; timori impensabili piombarono su di loro» (Sap 18,14-17). Lottare con Dio nella prova notturna è conoscerne il bacio mortale, ma proprio così è vivere: che senso dare dunque a questa lotta? Quali energie dedicare ad essa perché spunti vittoriosa la luce del mattino?

La promessa confidata all’eletto è che il Salvatore verrà nella notte: «Verso la fine della notte egli venne verso di loro camminando sul mare. I discepoli, a vederlo camminare sul mare, furono turbati e dissero: “È un fantasma” e si misero a gridare dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro: “Coraggio, sono io, non abbiate paura”» (Mt 14,25-27). «Veniva nel mondo la luce vera, che illumina ogni uomo» (Gv 1,9). La notte sarà il tempo

Kenzo Tange, cattedrale di S. Maria (1964-68), Tokyo, Giappone - foto 1-3 di Carlo Pozzi, foto 2-4 di Valter Fabietti

privilegiato delle rivelazioni divine: così fu per Abramo (cf. Gen 15,17); così per Giacobbe a Betel quando sognò la scala fra il cielo e la terra (cf. Gen 28,11ss); così per Elia all’Oreb (cf. 1 Re 19,9); così per Daniele e le sue visioni notturne (cf. Dn 7,2). Chi crede andrà verso la luce avanzando nella notte: «La nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino» (Rm 13,11ss). È nella notte che va accolto il Dio che viene, luce del mondo e d’ogni cuore. Chi crede vive nella speranza del tempo in cui non ci sarà più notte: «La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello. Le nazioni cammineranno alla sua luce e i re della terra a lei porteranno la loro magnificenza. Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno, poiché non vi sarà più notte» (Ap 21,23-25). Vivere il tempo della notte per “svegliare l’aurora”, accogliere il Dio vivente, che viene nella notte, e attraversarla con Lui perché ci conduca alla pienezza della Sua Luce, è la vita, la lotta e la vittoria della fede. La creatura umana si troverà a vivere, allora, la tensione continua fra le tenebre e la luce, fra la notte ambigua della prova e del peccato e lo splendore della grazia che viene dall’alto. Sarà solo l’avvento del Messia promesso a renderla vittoriosa, restituendole la luce delle origini a un livello ancora più alto e più bello dell’inizio. È quanto mostra la scena della trasfigurazione: «Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce» (Mt 17,1-2). Entrerà nella luce del Messia chi ascolterà la sua Parola: «Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo”» (v. 5). Diventa, allora, fondamentale riservare all’accoglienza della luce la massima attenzione, impegnandosi a essere pronti ad aprirsi alla luce divina.

Di questa lotta fra la luce e le tenebre, che culmini nella finale vittoria della luce che viene dall’alto, è testimone la spiritualità dell’Occidente latino, anche nella costruzione dello spazio sacro. La liturgia rende presente e attuale la lotta vissuta dal Verbo venuto nella carne per renderci capaci di vincere la notte e di accogliere la luce per poi irradiarla, come chiede Gesù: «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli» (Mt 5,16). La trasfigurazione del Figlio incarnato è anticipo e promessa di quanto deve compiersi nel discepolo perché divenga con la sua vita intera sfolgorio della bellezza dell’Amato: dove la carità si irradia, lì s’affaccia la luce che salva, lì è resa lode al Padre celeste, lì cresce l’unità dei discepoli dell’Amato, uniti a Lui come discepoli del Suo amore crocifisso e risorto. Nella liturgia si compie la trasgressione suprema dell’Eterno verso la nostra storia e di questa verso il Mistero eterno, quella trasgressione che si è realizzata una volta per sempre quando il Figlio è venuto nella carne e ha fatto sua la nostra morte: la bellezza crocifissa dell’Amato rinvia alla bellezza vittoriosa di Pasqua. Oltre le molte vicende del tempo sta e resta la divina bellezza, anticipata nella luce del Tabor. Accogliere questa luce è lasciarsene trasfigurare per divenire testimoni di essa, luce da luce nell’umiltà della notte del tempo, anticipo della bellezza promessa che non avrà mai fine.

Studio K2S Architects, cappella Kamppi (2012), Helsinki, Finlandia - foto di Carlo Pozzi

3. L’architettura sacra come scrittura della luce

Nella prospettiva dell’apporto delle due grandi anime cristiane, l’orientale e l’occidentale, a una teologia della luce, si comprende come chi è chiamato a progettare ed edificare uno spazio destinato al sacro debba avere attenzione estrema nel rendere le masse capaci di accogliere e far irradiare la luce. Un esempio recente di tale attenzione può essere indicato nella Chiesa di San Rocco a Sambuceto, nell’Arcidiocesi di Chieti-Vasto, progettata e realizzata dall’Archistar Mario Botta, particolarmente consapevole del fatto che costruire un edificio sacro è creare un ponte fra la terra e il cielo, quasi imitando nel frammento il gesto archetipico creatore del tutto: anche per questo le sue architetture sacre risultano connaturali a chi desideri l’incontro con l’Altissimo e voglia dare espressione alla profonda nostalgia di luce che abita il cuore dei pellegrini del tempo. È perciò che - come ha affermato Botta presentando questa sua opera- «in una società fragile, luoghi come questo hanno una carica simbolica molto più forte della loro azione tecnica e funzionale… Essi possono diventare dei nuovi cardini per riorganizzare una parte del tessuto che hanno intorno». La chiesa si presenta all’esterno come una volumetria compatta, slanciata nella forma di una tenda tesa verso il cielo, con in alto un’ampia apertura a croce, da cui piove la luce nello spazio interno.

Il risultato di questa forma architettonica si offre come un appello ad alzare lo sguardo verso la fonte della luce, richiamo di quella “nostalgia del Totalmente Altro”, che - secondo Max Horkheimer e Theodor W. Adorno - pervade nel più profondo l’anima del nostro tempo, ferito dalle immani tragedie del “secolo breve” (Eric Hobsbawm), il Novecento da poco concluso, e da quante sono ad esse seguite. Non meno carico di simbolismi è l’interno di questa singolare “scrittura dello spazio”, che Mario Botta ha saputo esprimere nella Chiesa di San Rocco: la forma di grembo accogliente, sovrastata dalla tenda, culmina nella triplice cavità dell’abside. L’idea dell’attendamento di Dio (la “shekinah”) è familiare al mondo biblico: dalla “tenda del convegno” costruita da Mosè durante il cammino di 40 anni del popolo ebraico nel deserto, narrato nel Libro dell’Esodo (cf. Es 40,1ss), all’attendarsi del Signore nel Tempio di Gerusalemme, divino “contrarsi” (“tzimtzum”) in un luogo per amore del Suo popolo, alle varie epifanie divine, fino al “mettere le sue tende in mezzo a noi” del Figlio eterno (Gv 1,14). Il messaggio veicolato è suggestivo: la luce dell’Eterno è entrata nel tempo affinché nessuno dei figli di Adamo debba più sentirsi solo e la compagnia divina sia di conforto, sostegno e difesa al popolo pellegrino verso la luce che non avrà tramonto.

L’ambiente interno della Chiesa di Sambuceto, corrispondente alla forma slanciata della tenda, è quello di un grembo accogliente: anche qui la lettura teologica si radica nella tradizione biblica. In ebraico il termine per indicare la misericordia è “rachamim”, espressione che designa propriamente le “viscere” materne, il grembo oscuro in cui ha inizio ogni vita che venga alla luce. Sul piano delle relazioni che ci fanno umani l’immagine richiama il legame originario fra chi dà vita e chi la riceve, sentimento di tenerezza profonda («Come è tenero un padre verso i figli, così il Signore è tenero verso quelli che lo temono»: Sal 103,13; cf. Ger 31,20 e Gen 43,30). L’idea è quella di una custodia primordiale che accoglie, nutre e protegge, di un’oscurità ospitale in cui la creatura concepita vive in simbiosi con la Fonte divina della vita e ne riceve alimento, impulso e custodia.

Davide Pacanowski, chiesa di S. Antonio da Padova (1966-79), Foggia - foto di Gaia Vicentelli

Nella Chiesa di San Rocco a Sambuceto Mario Botta ha reso in maniera originale questo messaggio, situando l’assemblea liturgica in una forma spaziale ariosa e insieme avvolgente, grembo di luce che viene dall’alto a pervadere il popolo celebrante e ogni singolo fedele.

Lo spazio sacro interno a quest’opera di Botta culmina nella triplice abside, più vasta quella centrale, di dimensioni minori, fra loro identiche e corrispondenti, quelle laterali: la simbolica trinitaria è qui evidente. Al centro il Padre, fonte e principio della vita divina, ai due lati “le mani del Padre” (Sant’Ireneo di Lione), il Figlio e lo Spirito Santo, rappresentati dalle due cavità minori alla destra e alla sinistra della cavità maggiore. Il senso è alto e profondo: la Trinità divina, mistero dell’Amante, dell’Amato e dell’Amore, uniti nell’unità essenziale dell’Amore eterno, è la fonte della vita e della luce ed insieme la meta di tutto perché di tutto è custodia. A ricordarlo è la parete absidale, in cui è rappresentato un cielo stellato, dove le stelle di diversa grandezza stanno a significare i credenti più o meno luminosi a seconda della loro vicinanza al Sole invitto, che è Cristo. Nello spazio absidale si situa poi l’altare, il luogo sacro in cui si compie il sacrificio dell’Amato, richiamato dal Crocifisso ligneo sospeso in alto, e le relazioni delle Persone divine irrompono ad abbracciare l’umanità pellegrina nel tempo per introdurla nella luce della patria, dove per sempre potremo vivere la domenica senza tramonto dell’amore vittorioso. Un messaggio di vita e di speranza, che la forma spaziale della Chiesa di San Rocco ben rende, e che proprio così educa il popolo fedele a riconoscersi amato, custodito e destinato alla bellezza che non avrà fine. Nella sua architettura, splendida “scrittura della luce”, Mario Botta sa dirci tutto questo…

Non abbiate mai paura dell'ombra.

É lì a significare che vicino, da qualche parte, c'è la luce che illumina.
Rush E. Renkel
Gio Ponti, concattedrale Gran Madre di Dio (1964-70), Taranto - foto di Carlo Pozzi
Fritz Wotruba, chiesa della Santissima Trinità (1974-76), Vienna, Austria - foto di Massimo Angrilli
Felix Candela, Enrique de la Mora y Palomar, Fernando López Carmona, cappella di S. Vincenzo de’ Paoli (1959-60), Coyoacàn, Messico - foto di Carlo Pozzi
Alejandro Beautell, cappella Stella Maris (2016), Tacoronte, Spagna - courtesy Beautell arquitectos
Alejandro Beautell, cappella di San Giovanni Battista (2013), El Hierro, Spagna - courtesy Beautell arquitectos
Cino Zucchi, chiesa della Resurrezione di Gesù (2008-10), Sesto San Giovanni

Ecco l’unica cosa che mi piacerebbe veramente

tenere in pugno, il suono dell’ombra.

Arrigo Arrighetti, chiesa di S. Giovanni Bono (1964-68), Milano - foto di Giulia Zoia - courtesy Itinerario delle chiese contemporanee - Vicariato per la Cultura dell’Arcidiocesi di Milano
Giò Ponti, chiesa di S. Barbara (1963), San Donato Milanese (MI) - courtesy Itinerario delle chiese contemporanee - Vicariato per la Cultura dell’Arcidiocesi di Milano
Studio Quattroassociati, chiesa di S. Gianna Beretta Molla (2006-14), Trezzano sul Naviglio (MI) - foto 1 di Marta Minuzzo, foto 2-3 courtesy Itinerario delle chiese contemporanee - Vicariato per la Cultura dell’Arcidiocesi di Milano
Roberto Gabetti, Aimaro Isola, chiesa di S. Maria in Zivido (1998-08), San Giuliano Milanese (MI) - courtesy Itinerario delle chiese contemporaneeVicariato per la Cultura dell’Arcidiocesi di Milano
Ignazio Gardella, chiesa di S. Nicolao della Flue (1968-70), Milano – foto di Marta Minuzzo
Antonio Guacci, santuario mariano di Monte Grisa (1963-66), Trieste - courtesy padre Luigi Moro

Tutta la varietà, tutta la delizia, tutta la bellezza della vita é

composta d’ombra e di luce.
Lev Tolstoj
Massimiliano e Doriana Fuksas, chiesa di S. Paolo Apostolo (2001-09), Foligno (PG) - foto di Moreno Maggi, courtesy Studio Fuksas
Peter Zumthor, cappella St. Niklaus von Flüe (2001-07), Mechernich, Germania - foto di Carlo Capponi
Oscar Niemeyer, Cattedrale Nostra Signora Aparecida (1958-70), Brasilia, Brasile - foto di Enzo Santeusanio
Carlos Alberto Naves, Santuario di Don Bosco (1963), Brasilia, Brasile - foto di Enzo Santeusanio
Vincenzo Monaco, chiesa della Madonna della Neve (1965-69), Roccaraso (AQ) - foto di Enzo Santeusanio

LA LUCE COME ARCHITETTURA

La divinità intrinseca nella luce ha da tempi immemori caratterizzato l’architettura sacra, come dimostra in tutta la sua potenza a Roma la ricostruzione adrianea del Pantheon (118-128 d.C.), eseguita sulle spoglie dell’edificio originale realizzato da Marco Vipsanio Agrippa in età augustea (27 a.C.). Nella grande rotonda, l’unica fonte di luce era il grande oculus aperto in sommità della cupola (Ø 9 m) attraverso il quale si congiungevano cielo e terra, esprimendo il senso del passaggio tra ordine umano e divino. In tale sistema di cose, in coincidenza con il mezzogiorno del Natale di Roma (21 aprile attuale) il sole entrava nell’oculus con un fascio di luce diagonale centrato sul portale d’ingresso. A quella stessa ora, l’Imperatore varcava la soglia del tempio, interamente immerso nella luce1

Nell’architettura bizantina la luce, pur mantenendo lo stesso ruolo di significante, assumeva un’interpretazione drammatica ai fini della creazione di un’immagine mistica. Il caso più celebre è quello della ricostruzione giustinianea della Ἁγία Σοφία (“Santa Sofia”) di Costantinopoli (532-37 e 558-62), in cui nel tamburo della cupola sono inserite 40 finestre che inondano di luce la chiesa in ogni ora del giorno creando un costante effetto di controluce il cui particolare effetto emozionale veniva rafforzato dall’abbondante profusione d’incenso e da altri espedienti impiegati nel corso delle cerimonie religiose. La tradizione vuole che un ambasciatore straniero chiedesse a un dignitario locale se fosse vero che alle cerimonie sacre partecipassero anche gli angeli, sentendosi rispondere, seriamente, di sì.

In età medievale, nella chiesa romanica le condizioni di luce determinate dalle ridotte aperture determinano forti contrasti chiaroscurali nel vano in penombra, con tagli di luce radenti che sottolineano il rilievo plastico dei piedritti, conferendo alla massa muraria qualità cromatiche attraverso la gradazione della densità atmosferica e della profondità spaziale. Nella basilica di S. Ambrogio a Milano, ricostruita dopo il 1080, la potenza delle membrature che scandiscono con ritmo costante la successione delle campate risalta nella luce radente che penetra nell’interno grazie all’originale soluzione della facciata con arconi “a canne d’organo” da cui l’effluvio luminoso contrasta l’ombra diffusa nelle navate minori e nelle gallerie.

Nell’architettura gotica l’impiego della luce cambia radicalmente, in quelli che verranno popolarmente definiti i “grattacieli di Dio”, opposti alle “fortezze di Dio” dell’età romanica.

Il perfezionamento della tecnica costruttiva consente di aumentare l’altezza della navata maggiore evitando la realizzazione di matronei sulle navate laterali, dando luogo a una ripartizione interna a tre livelli (arcate, triforio e finestre) di grandi dimensioni, così come quelle delle grandi vetrate legate a stagno che esprimono la presenza del Divino nel verticalismo che impiega la luce quale significante dell’ascesa verso l’empireo, come nella cattedrale di Chartres, ricostruita dopo l’incendio del 1194. Il livello estremo di questo percorso della luce viene raggiunto nella S.te Chapelle a Parigi, probabilmente progettata da Pierre de Montreuil e consacrata nel 1248. Per ospitare la Corona di spine e le reliquie della Crocifissione fu realizzata una sorta di gigantesco scrigno di luce, in cui straordinarie sono le dimensioni delle vetrate, che sviluppano una superficie totale di 618 metri quadrati. Con l’avvento del Rinascimento l’architettura perde generalmente l’allusione emotiva, essa stessa ricondotta

1 Natale di Roma: al Pantheon la luce è un effetto speciale, in “MiC”, 21 aprile 2021, consultabile in https://cultura.gov.it/comunicato/20438, visitato il 14 agosto 2025.

Nicolás Campodonico, cappella di S. Bernardo, Córdoba, Argentina
Eero Saarinen, Mit chapel (1955-56), Cambridge, MA, Stati Uniti d’America - foto di Enzo Santeusanio

all’interno di una concettualità razionale in cui l’uomo era misura dell’universo.

In tal senso, rispetto all’età medievale, la luce negli organismi sacri non sembra più svolgere il ruolo di significante del Divino che, specie nel Gotico, essa esprimeva. Nonostante ciò, nel S. Andrea a Mantova Leon Battista Alberti adotta dal 1472 una raffinata soluzione per illuminare l’interno coperto da una maestosa volta a botte cassettonata sostenuta principalmente dalle cappelle laterali aperte e chiuse. Tale sistema di involucri spaziali determina particolari esigenze di illuminazione, risolta alternando ampie finestre termali in corrispondenza delle cappelle aperte ad ampi fornici arcuati sulle cappelle chiuse, creando così una sorta di camere di luce.

All’impianto della chiesa dell’Alberti s’ispira circa un secolo dopo quella romana del Gesù, in cui Vignola operò dal 1568 al 15832. Nonostante ciò, l’incrocio del transetto è sormontato dalla possente cupola di Giacomo Della Porta (subentrato al Vignola), che spezza l’unità umbratile dell’interno con una drammatica pioggia di luce evidentemente finalizzata a esaltare la porzione dedicata al Santissimo attraverso un cambio di registro luministico.

Ben più interessanti rispetto a quelle del Gesù romano appaiono le soluzioni luministiche adottate dal Palladio nelle sue chiese veneziane di S. Giorgio (inizata nel 1566) e del Redentore (progettata nel 1577)3 entrambe caratterizzate dal ruolo da protagonista affidato all’altare maggiore, con la retrostante cortina di colonne aperta verso il coro fortemente illuminato. Nonostante l’ispirazione di tale apparato sia classica, il sistema d’illuminazione in chiave di sottolineatura emozionale è del tutto estraneo al mondo antico, a meno che Palladio non abbia fatto riferimento alla luce “guidata” proveniente dall’oculo del Pantheon.

Nel secolo seguente, la «forma-luce, materia e forma-colore»4 diviene uno dei temi emblematici della nuova cultura del Barocco. Già in Pietro da Cortona la luce assume il ruolo di protagonista, come testimonia la chiesa romana dei SS. Luca e Martina (1634) in cui la materia architettonica viene «resa illusionisticamente illimitata» per mezzo del «chiaroscuro mosso e differenziato» prodotto dalla «luce incidente che penetra da finestre appena percepibili l’involucro spaziale» su tutte «le strutture parietali (…) dipinte unitariamente in bianco»5

Secondo la propria caratteristica declinazione spirituale, Francesco Borromini nelle sue chiese impiega la luce non come strumento scenografico quanto piuttosto come «luce guidata», rivolta all’esaltazione delle capacità percettive dell’organismo architettonico6. Molteplici sono i dispositivi attraverso cui il ticinese ottiene i suoi straordinari e sofferti risultati, quali la «luce radente», il «traguardo ottico», la «linea luminosa», lo «sfumato» e in particolar modo la «camera di luce», che nella trasformazione del S. Giovanni in Laterano (1650) assumono carattere sia espressivo che funzionale, allentando e modulando il flusso luministico nelle navate laterali. In S. Ivo alla Sapienza (1643), simboli allusivi della claritas riferita alla Sapienza Divina e il motivo stellare relativo all’a-

2 R. De Fusco, Mille anni d’architettura in Europa, Laterza, Roma-Bari, 1993, p. 304.

3 Ivi, pp. 157-158.

4 P. Portoghesi, Roma barocca. Storia di una civiltà architettonica, C. Bestetti edizioni d’arte, Roma 1966, nuova edizione riveduta e ampliata: Editori internazionali riuniti, Roma 2011, pp. 100-102.

5 K. Noehles, La chiesa dei santi Luca e Martina: dal prebarocco al barocco maturo, in M. Fagiolo, P. Portoghesi (a cura di), Roma Barocca. Bernini, Borromini, Pietro da Cortona, catalogo della mostra, Roma, Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo, Electa, Milano 2006, p. 220.

6 P. Portoghesi, Francesco Borromini, Electa, Milano 1989, pp. 394-396.

Ludovico Quaroni, chiesa di S. Franco (1948-49), Francavilla al Mare (CH) - foto di Sergio Camplone

raldica chigiana di Alessandro VII contribuiscono poi al gioco chiaroscurale7

L’architetto e artista che impiegò la luce naturale secondo scopi metaforici ed espressivi fu, però, Gianlorenzo Bernini, cui è stata attribuita la cosiddetta “luce alla Bernina”, riferita a una fonte luminosa nascosta che modella in modo radente il rilievo plastico alludendo alla presenza divina.

La “luce alla Bernina” si esprime in forma compiuta nell’Estasi di Santa Teresa al centro della cappella Cornaro in S. Maria della Vittoria (1647-51), in cui la statua della santa è illuminata da una “camera” nascosta, collocata in alto sulla parete esterna; il fiotto di luce che discende dalla cupoletta, filtrato da una vetrata decorata, è reso plasticamente per la prima volta attraverso raggi materializzati in stecche lignee dorate8

Ancor più spettacolare è l’uso della luce nella Cattedra di San Pietro (1656), a proposito della quale Marcello Fagiolo annota come al centro si trovi «luce ineffabile della sapienza divina, e intorno cerchi di nuvole fulminate da violenti raggi solari”9

Nella collegiata dell’Assunta ad Ariccia (1662-64) un cannocchiale prospettico si apre ad ovest lasciando penetrare la luce radente del sole al tramonto, simbolo mistico della luce divina10. In tal modo nel microcosmo luminoso dominato dal colore bianco, la Grazia celeste scende dal lanternino della cupola attraverso i costoloni/ raggi e i pilastri per raggiungere il livello del pavimento, avvolgendo i fedeli nella luce della salvezza.

L’illuminazione “alla Bernina” è presente anche in S. Andrea al Quirinale (1658), considerato l’opera di architettura sacra più importante dell’autore11. Nella macchina dell’altare maggiore «tutte le linee architettoniche culminano e convergono» sulla statua in stucco12 che “uscendo” dal dipinto raffigurante il martirio del Santo, assorbe totalmente l’attenzione dello spettatore. In effetti l’effetto illusionistico dell’«evento drammatico» non si sarebbe compiuto se Bernini non avesse illuminato il complesso “sintetico” di architettura, pittura e scultura della nicchia centrale da una fonte di luce nascosta, secondo un espediente mutuato dalla scenografia teatrale già impiegato, in particolare, nella cappella Cornaro.

L’adozione nel XVII secolo di un nuovo sistema d’illuminazione basato sulle “camere di luce” viene studiato e sperimentato a Parigi nei progetti di Guarino Guarini per la Sainte-Anne-la-Royale e di Louis Le Vau per il Collège des Quatre Nations (entrambi 1662) ma un passo decisivo verso la definizione di tale congegno si riscontra nella soluzione non realizzata di François Mansart per il mausoleo dei Bourbons nell’abbazia di Saint-Denis (1665). Uno dei disegni di progetto raffigura, infatti, un prototipo basato su una sequenza di aperture nella calotta superiore allo scopo di illuminare il cupolino attraverso una fonte di illuminazione nascosta13. Nonostante la partenza

7 F. Petrucci, Forme, spazio, colore: come la Luce plasma il mondo barocco, 27 Settembre 2020, consultabile in https://www.palazzochigiariccia.it/forme-spaziocolore-come-la-luce-plasma-il-mondo-barocco/, visitato il 1° agosto 2025.

8 I. Lavin, Bernini & l’unità delle arti visive, Edizioni dell’Elefante, Roma 1980, pp. 35-38, 113-116.

9 M. Fagiolo, Il gran teatro della Roma barocca, in Id., P. Portoghesi (a cura di), Roma Barocca, cit., p. 64.

10 F. Petrucci, Santa Maria Assunta collegiata insigne ed altre chiese minori in Ariccia, Comunità Parrocchiale S. Maria Assunta in Cielo, Ariccia 1987, pp. 65-81.

11 C. Norberg Schultz, Architettura barocca, Electa, Milano 1979, p. 72.

12 R. Wittkower, Art and Architecture in Italy 1600 to 1750, Penguin Books, Harmondsworth 1958, p. 120.

13 G. Nuccio, Dalle cupole sovrapposte alle camere di luce: evoluzione e prima diffusione internazionale di un’idea progettuale nelle opere di Guarino Guarini e Christopher Wren, in M. Cannella, G. Nuccio, D. Sutera (a cura di), «La nuova idea di cupola». Teatri sacri e profani nell’Europa d’età barocca tra storia e rappresentazione,

Angelo Mangiarotti, Bruno Morassutti, Aldo Favini, chiesa di Nostra Signora della Misericordia (1956-58), Baranzate (MI) - foto di Marco Introini

di Bernini e di Guarini nonché la morte della regina madre Anna d’Austria e di François Mansart14, questa grande stagione dette vita a nuovi filoni di ricerca, come dimostrano le successive opere di Guarini stesso15 Dopo essersi stabilito a Torino nel 1667, nella cappella del Sacra Sindone questi impone un sistema “a camera di luce” composto da una calotta conica traforata a livello dell’imposta da dodici aperture ovali invisibili dal basso che, producendo un effetto di sospensione della stella lapidea con al centro lo Spirito Santo, funge da fondale alla fuga prospettica dell’intreccio di archi sovrapposti16. Tuttavia, nella produzione dell’architetto teatino il progetto considerato come maggiormente connesso con le ricerche francesi è quello, non realizzato, per la chiesa di San Gaetano a Vicenza17. Qui nella parte più alta Guarini concepì una monumentale “camera di luce” articolata in una prima calotta a sezione semisferica tronca che rendeva visibile una seconda cupola, generata secondo una geometria parabolica18

Sull’esperienza di Guarini s’imposta la produzione di Bernardo Vittone che, pur perdendo la drammaticità tipica del monaco modenese, si spinge a comporre l’edificio attraverso l’uso della luce, proponendo un dinamismo strutturale che reinterpreta la retorica spaziale borrominiana. Un sistema di “camere di luce” viene in alcuni casi dissimulato dall’articolato intreccio di archi e pennacchi e in altri direttamente affacciato sulle vele delle volte policentriche che coprono lo schema a pianta centrale.

Nella cappella della Visitazione a Vallinotto presso Carignano (1738), l’inserimento di “camere di luce” nelle absidi perimetrali crea un suggestivo effetto di controluce, replicato dalle aperture del livello superiore sul perimetro del catino della cupola retta da sei archi intrecciati memori della lezione del S. Lorenzo guariniano. L’effetto generale di un organismo architettonico “sorretto” dalla luce, capace anche di attenuare i nodi strutturali più complessi, trova ulteriore vigore nelle opere seguenti del Vittone, come la chiesa dei SS. Bernardino e Rocco a Chieri (1740-42). Le sue opere più mature, come la S. Chiara a Torino (1742-45) e a Vercelli (1754-56), nonché la cappella di S. Maria Assunta a Grignasco (1750-70), mostrano audaci strutture laterizie e archi a sesto pieno sottoposti a torsioni e inflessioni secondo due direttrici, capaci di conferire all’architettura un carattere più intimistico caratterizzato da un uso spigliato della luce. Diversamente da Bernini e Guarini, in Vittone la luce non è chiamata a evidenziare un elemento plastico o un luogo della chiesa ma viene usata per alleggerire e quasi a sostenere le membrature architettoniche che sembrano ricercare la natura indefinibile del Trascendente. In età moderna la luce resta un elemento fondamentale nella progettazione delle chiese, pur risentendo delle elaborazioni delle nuove teorie nel campo filosofico e artistico.

Edizioni Caracol, Palermo 2023, pp. 43-44.

14 A. Roca De Amicis, Notizie su Guarino Guarini nell’Archivio Generale dei Teatini, in “Regnum dei”, n. 120 (gennaio-dicembre 1994), p. 80.

15 S. Klaiber, I disegni di Guarini per le cupole, in G. Dardanello, R. Tamborrino (a cura di), Guarini, Juvarra e Antonelli. Segni e simboli per Torino, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2008, p. 121.

16 Giuseppe Dardanello, Costruire l’esperienza di una visione di infinito. Le ragioni della luce per una dimostrazione in opera del pensiero di Guarini, in La cappella della Sindone tra Storia e Restauro. Atti del Convegno Internazionale di Studi, Sagep, Genova 2022, pp.76-77.

17 Dissegni d’architettura civile et ecclesiastica, inventati e delineati dal padre D. Guarino Guarini modenese de Chierici Regolari Theatini matematico dell’Altezza Reale di Savoia, per gli Eredi Gianelli, Torino 1686, tavv. 26-27.

18 Klaiber, I disegni, cit., p. 121.

Heinz Tesar, chiesa di Cristo Speranza del mondo (1956-57), Vienna, Austria - foto di Massimo Angrilli

Carattere prevalentemente estetico assume l’illuminazione nella chiesa di S. Leopoldo, sita nel punto più alto del manicomio dello Steinhof a Vienna (1904-07) di Otto Wagner, il cui interno riceve copiosa luce proveniente dalle vetrate policrome realizzate da Kolo Moser19 oppure funzionale nello Unity Temple ad Oak Park di Frank Lloyd Wright (Chicago, 1906) ove vetrate artistiche filtrano la luce attraverso le opere in calcestruzzo, determinando un’atmosfera spirituale, pur nella «durezza profana» che caratterizza l’invaso20

Al contrario in Europa già nella cultura tedesca di inizio secolo la luce del cristallo assume un ruolo di “trasparenza” etica e morale, come nel celebre Glaspavillon Bruno Taut nell’Esposizione di Colonia del Deutscher Werkbund (1914), in cui un distico di Paul Scheerbart recita: «Il vetro colorato distrugge l’odio»21

Le propaggini dell’Espressionismo raggiungono anche il Bauhaus. Nel Manifesto della leggendaria scuola campeggia, infatti, la xilografia La cattedrale di Lyonel Feininger (1919), nella quale dei raggi s’incrociano sul campanile a simboleggiano le arti maggiori insegnate a Weimar.

Nella cultura dell’Espressionismo spicca il progetto di Sternkirche di Otto Bartning, redatto nel 1922 ma mai realizzato, dalla pianta stellare a sette punte. Il particolare sistema d’illuminazione è ricavato da fasce finestrate che seguono l’andamento degli archi a sesto acuto montanti, determinando un effetto di controluce fortemente emotivo22.

All’inizio degli anni Trenta inflessioni «romantiche» mostra la St. Adalbert-Kirche a Berlino di Clemens Holzmeister (1932-33), in cui le strette finestre semicircolari su tre piani degli altari laterali e le cinque luminose finestre semicircolari del coro creano all’interno un’illuminazione mistica. Influssi «nordici» denuncia la St. Engelbert-Kirche a Colonia-Riehl di Dominikus Böhm (1930). Dal punto di vista luministico la sala della comunità, a pianta circolare, è illuminata da una mistica luce colorata proveniente da 8 oculi circolari collocati sotto archi parabolici mentre la cellula presbiteriale prende luce da un’alta apertura23

Superato il periodo delle due Guerre mondiali, l’esule volontario Ludwig Mies van der Rohe realizza la Robert F. Carr Memorial Chapel of St. Savior nell’Illinois Institute of Technology di Chicago (1949-52). L’edificio sacro presenta un’architettura estremamente semplice e lineare, tanto che ancor oggi gli studenti la chiamano «la scatola di Dio» (“The God Box”). L’illuminazione naturale è affidata alla sola vetrata di facciata, in cui il disegno dei serramenti a vetri apribili mostra il segno della croce, quasi a mostrare il simbolo cristiano quale unica fonte di riferimento spirituale24

Sempre negli USA, una piccola opera, estremamente significativa, è la Wayfarers Chapel realizzata nella

19 Cfr. E. Koller-Glück, Otto Wagners Kirche am Steinhof, Tusch, Wien 1984.

20 M. Biraghi, Storia dell’architettura contemporanea, I, 1750-1945, Einaudi, Torino 2008, p. 138

21 Ivi, p. 59.

22 S. Wagner-Conzelmann, Die Modelle der Sternkirche von Otto Bartning, in O. Elser, P. Cachola Schmal (a cura di), Das Architekturmodell. Werkzeug, Fetisch, kleine Utopie, Deutsches Architektur Museum, Frankfurt am Main 2012, pp. 38-44.

23 M. Schiavone, La costruzione dello spazio sacro nel Novecento. Dominikus Böhm, Chiesa di St. Engelbert, Colonia-Riehl, 1930-32, Università degli Studi di Salerno, Dipartimento di Ingegneria Civile LM4-C.U. (06601), Laurea Magistrale Ingegneria Edile-Architettura, Corso di Architettura e Composizione architettonica III, Docenti: Prof. Arch. Enrico Sicignano, Arch. Felice De Silva, A.A. 2020-2021, pp. 8, 14, 17.

24 R. Giannantonio, Il Sacro e le religioni. Le esperienze dei maestri dell’architettura, in Id. (a cura di), The God box Architettura per ogni preghiera, Di Felice Edizioni, Martinsicuro 2017, p. 14.

Giangiacomo d’Ardia, Ariella Zattera, chiesa di San Romano e Sant’Ambrogio ad Urbem (1989-99), Milano - foto di Carlo Pozzi

penisola di Rancho Palos Verde (Los Angeles, 1949-51) da Lloyd Wright, figlio maggiore di Frank, con pareti interamente vetrate tanto da essere nota come la “Glass Church”. Costruita sulla cima di uno dei promontori, il prezioso edificio dovrà essere a breve smantellato a causa dell’accelerazione del movimento sismico iniziato nel 195625.

Tuttavia, l’episodio più celebre in campo di architettura sacra del secondo dopoguerra, nonostante le critiche e i pareri discordi, è senz’altro la cappella di Notre-Dame du Haut a Ronchamp di Le Corbusier (1950-53)26

Fondamentale nell’opera di Le Corbusier è il ruolo della luce, con il giro del sole e della luce da nord, e dei materiali in rapporto alla luce stessa, quali la calce granulata bianca resa vibrante dall’illuminazione sia naturale che artificiale, il calcestruzzo a vista del guscio del soffitto a luce radente e i vetri trasparenti e colorati27. In effetti, gli strumenti che impiega Le Corbusier per ottenere gli effetti luministici trascendenti sono diversi e straordinari contribuendo a conferire una religiosità primordiale all’interno mistico, la cui oscurità è penetrata dagli «alvéoles» con i «vitrages» colorati che trafiggono il «mur de lumière» e dall’asola continua che distacca la copertura dalle pareti rifinite a calce bianca granulata. In particolare, nei «vitrages» a sud appaiono gli elementi-simbolo del linguaggio corbusieriano: il corvo, la colomba, gli elementi cosmici (il sole e la stella del mattino) ma anche fiori, mare e nuvole, nonché una frase inneggiante alla Vergine («Marie brillante comme le soleil») che diviene il simbolo mistico della propria madre (Marie-Charlotte-Amélie Perret). Un contributo determinante all’illuminazione che caratterizza questa suggestiva parte dell’edificio è offerto dai «canons à lumière», le tre torri diversamente orientate, dedotte dalla Villa Adriana a Tivoli visitata nel 1911, che dirigono la luce verso gli altari minori delle cappelle attraverso feritoie lunghe e strette. In tal senso, la luce ha un ruolo principale nel suggestionare il fedele, così come il colore, secondo le «chiave del percorso». In sostanza, la luce stessa diviene uno di quelle «matières brutes» con i quali l’architettura stabilisce «rapports émouvants»28.

Nella Germania del Dopoguerra, in macerie fisiche e morali, nella chiesa di Sant’Anna a Duren (1951-56)

Rudolf Schwarz sceglie per la pianta un trapezio irregolare formato sul lato lungo dalla navata principale e una sorta di braccio di transetto anch’esso trapezio, ortogonale al precedente. Il fedele entra nell’atrio basso in penombra, in cui la luce è attenuata per ricordare l’oscurità primordiale dell’umanità, per poi passare nei due spazi alti, ampi e profondi delle due navate, immergendosi nella copiosa luce proveniente dalle grandi vetrate collocate tra i sei pilastri in c.a.29

Nello stesso periodo in Italia il cardinal Montini (futuro papa Paolo VI) consacra a Milano, nel cuore del

25 Lucia Brandoli, La Wayfarers Chapel di Lloyd Wright sarà smantellata e ricostruita a causa del rischio di frane, in “domusweb.it”, 27 maggio 2024, consultabile in https://www.domusweb.it/it/notizie/gallery/2024/05/26/la-wayfarers-chapel-di-lloyd-wright-sar-smantellata-e-ricostruita-a-causa-del-rischio-di-frane.html, visitato il 4 agosto 2025.

26 Sull’argomento, nell’oceanica bibliografia cfr. il recente M.A. Crippa, F. Caussé, Le Corbusier. Ronchamp. La Cappella di Notre-Dame du Haut, Jaca book, Milano 2014.

27 G. Ottolini, La luce nelle chiese moderne della Diocesi di Milano, in D. Forconi (a cura di), Luce nelle chiese. Atti dei Convegni AIDI Milano Roma Venezia, Ediplan Editrice, Milano 2010, Edizione digitale Simplicissimus Book Farm srl., febbraio 2014.

28 Le Corbusier, Vers une architecture, G. Cres, Paris 1923.

29 Ottolini, La luce, cit.

enia architectes, Mauro Galantino, chiesa di Notre-Dame-du-Rosaire (2009), Les Lilas, Francia - foto di Carlo Pozzi

quartiere operaio di Baggio, la Madonna dei Poveri (1952-1956), progettata da Luigi Figini e Gino Pollini con impianto a tre navate senza transetto, secondo la tradizione basilicale milanese30. Al contrario del corpo longitudinale in penombra, la zona presbiteriale è immersa nella copiosa luce che piove dai cassettoni vetrati dell’alto tiburio, illuminando la croce di metallo e vetri policromi realizzata da Costantino Ruggeri. Secondo i progettisti, in questa chiesa «la qualità inconfondibile di una luce, della quale l’occhio non percepisce più l’origine, tende a determinare una sensazione di calma, di silenzio spirituale, introducendo già sensibilmente l’animo all’atmosfera sacra della casa di Dio»31.

In quegli stessi anni Alvar Aalto realizza la chiesa delle Tre Croci (1955-58) a Vuoksenniska, presso Imatra, in un bosco di betulle di cui la massa bianca dell’edificio risulta parte viva32. Come a Ronchamp, però, è l’interno ad esprimere compiutamente l’idea, ancora grazie alle capacità espressive del calcestruzzo, caratterizzato dalle tre grandi vetrate nonché dalla forma convessa delle aperture del lucernario. Anche qui è il colore ad assumere un ruolo primario; il bianco delle curve del solaio di copertura e delle travi flessuose conferisce un’idea di spiritualità tipicamente nordica. La luce naturale penetra e ammorbidisce ogni residua rigidezza stereometrica, smaterializzando definitivamente lo spazio, determinando un’architettura estremamente sensuale, plasticamente modellata in una forma il cui mistero Aalto esplora nel profondo. Una sorta di replica della chiesa di Vuoksenniska può essere considerata la chiesa di S. Maria Assunta a Riola di Vergato (prog. 1966, real. 1977-78), vicino Bologna, di cui fu artefice il già citato cardinale Giacomo Lercaro, protagonista del Concilio Vaticano II33. L’interno, a navata unica asimmetrica, è caratterizzato da strutture arcuate in c.a. morbidamente flesse a sostenere la copertura, articolata da shed di tipo industriale che illuminano lo spazio con suggestivi fasci di luce. In realtà, la chiesa di Riola è un esempio di come gli architetti moderni possano impiegare la luce in modo inconsapevole, come se la chiesa fosse un edificio industriale34. Sull’appennino bolognese Alvar Aalto, nella sua unica opera italiana, sembra infatti di non aver valutato la differenza tra la situazione luministica italiana e quella finnica, con i suoi affascinanti boschi bianchi di betulle.

Da un disegno dello scultore austriaco Fritz Wotruba, l’architetto Fritz Gerhardt Mayr costruì a Vienna, nel quartiere periferico di Liesing, la chiesa della SS. Trinità (1974-76), composta da 152 parallelepipedi in calcestruzzo di varie dimensioni35. Se l’immagine esterna è quella di un assemblaggio “brutalista” di volumi esibiti con cruda franchezza in violenti contrasti tra pareti ed ombre, l’interno si fa spazio in mezzo alle grandi strutture grazie alla luce naturale che penetra generosamente. L’aula unica, piana e tersa con bianche superfici e ordina-

30 R. Giannantonio, Echi di Le Corbusier in Abruzzo Vincenzo Monaco e la chiesa della Madonna della Neve a Roccaraso, Gangemi, Roma 2014, pp. 115-116.

31 Ottolini, La luce, cit.

32 R. Giannantonio, Quattro chiese in Europa e l’architettura sacra oggi in Abruzzo, in “Oggi e domani”, A. XXVII, n. 1/2, gennaio-febbraio 1999, n. 288 della serie, pp. 27-28.

33 C. Pozzi, Santa Maria Assunta a Riola, Bologna, Alvar Aalto, in “Themaprogetto.it”, 7 giugno 2019, consultabile in https://themaprogetto.it/s-maria-assunta-a-riolabologna-alvar-aalto, visitato il 4 agosto 2025.

34 M. Vio, La luce nelle architetture di chiese contemporanee, in Forconi (a cura di), Luce nelle chiese, cit.

35 C. Pozzi, Chiesa della Santissima Trinità – Fritz Wotruba – Vienna, in “themaprogetto.it”, 23 marzo 2020, consultabile in https://themaprogetto.it/chiesa-dellasantissima-trinita-fritz-wotruba-vienna/, visitato il 5 agosto 2025.

Carlo Scarpa, Edoardo Gellner, chiesa di Nostra Signora del Cadore (1956-60), Borca di Cadore (BL) - foto di Oscar Ferrari

mento asimmetrico, si propone come un ambiente scomposto ma unitario, in cui negli iati tra le pareti in cemento armato sono ospitate lunghe e taglienti finestrature trasparenti, dalle quali la luce penetra per contribuire al tono di generale atarassìa. I riferimenti formali della “Wotruba Kirche” vanno ai rifugi anti-atomici ai “non-luoghi” successivi alle esplosioni, nei quali è la luce l’unico appiglio a una realtà trascendente capace di superare l’orrore contemporaneo36.

Per il telepredicatore Robert H. Schuller, Philip Johnson realizza a Garden Grove (Los Angeles) la Crystal Cathedral, il più grande edificio di vetro del mondo (1977-80), che non “impiega” la luce, in quanto esso stesso “è” luce. La costruzione della Cattedrale di cristallo si basava esplicitamente sull’interpretazione da parte di Johnson delle opere espressioniste dell’espressionista tedesco Hermann Finsterlin37. Johnson aveva concepito una specie di teatro religioso, con le funzioni di studio televisivo e di palcoscenico. La gigantesca struttura di vetro occupava una superficie di quasi 8.000 mq, cui andava aggiunta l’area esterna, potendo accogliere fino a 12.000 fedeli38. Nel gennaio 2011, a seguito del fallimento dichiarato da Robert Anthony, figlio di Robert Schuller, la Diocesi di Orange acquista l’edificio, con l’intenzione di trasformarlo nella nuova cattedrale. L’edificio fu rinnovato per ospitare la liturgia cattolica romana, pur mantenendo le proprie caratteristiche architettoniche. Al termine dei lavori, il 17 luglio 2019 l’edificio è stato consacrato e ribattezzato formalmente “Cattedrale di Cristo”, pur mantenendo il proprio carattere di architettura di luce39

Il tema della luce è centrale anche nell’opera di Tadao Andō, che vive in una terra, come il Giappone, «profondamente intrisa di spiritualità, dallo shintoismo al buddismo, con presenze minoritarie ma significative di cristianesimo»40.

A tal proposito va ricordata la cappella sul monte Rokko a Kobe (1985-86)41, situata verso la sommità del rilievo più alto dell’area metropolitana di Osaka, in cui l’aula liturgica è caratterizzata dal dialogo tra luce e ombra che spinge lo sguardo del visitatore sull’altare e sulla croce appesa sul muro di fondo, staccato dalla copertura mediante una fessura luminosa. Inoltre, la parete di sinistra assume l’aspetto spirituale di una grande apertura vetrata aperta sul paesaggio collinare, interpretando il tema della croce42

La “Cappella sull’acqua” di Tomamu, nella Prefettura di Hokkaido (1988) è insediata su un altopiano dell’isola fredda e montuosa a nord del Giappone43. L’impianto del complesso prevede la sovrapposizione di due quadrati che sono posti in rapporto diretto con l’ambiente naturale, frequentemente innevato, di un laghetto

36 Giannantonio, Quattro chiese, cit., p. 29.

37 Da Monsta, in “The Glass House”, consultabile in https://theglasshouse.org/explore/da-monsta/, visitato il 5 agosto 2025.

38 Jaime Septién, La Chiesa cattolica ha già la sua cattedrale di vetro, in “Aleteia”, 25 luglio 2019, consultabile in https://it.aleteia.org/2019/07/25/cattedrale-cattolicadi-vetro/, visitato il 5 agosto 2025.

39 Ibidem

40 C. Pozzi, Sacro Andō - Ascesi nell’opera architettonica di Tadao Andō, in “themaprogetto.it”, 23 settembre 2019, consultabile in https://themaprogetto.it/sacroando-ascesi-nellopera-architettonica-di-tadao-ando/, visitato il 5 agosto 2025.

41 Chapel on Mount Rokko, in “Archweb”, consultabile in https://www.archweb.com/architetture/chapel-on-mount-rokko/, visitato il 5 agosto 2025.

42 C. Pozzi, Sacro Andō, cit.

43 Ibidem

INOUTarchitettura, LADO architetti, LABER + LAMBER, chiesa del Buon Ladrone (2019), San Lazzaro di Savena (Bo) - foto di Simone Bossi

artificiale, sul quale si affaccia con vetrate continue, che riempiono completamente di luce l’interno dello spazio liturgico. All’architetto di Osaka non interessa di fare dialogare l’architettura con la natura, quanto di comporne le loro differenze. Secondo Andō è infatti preferibile che l’architettura «si mantenga silenziosa consentendo alla natura, attraverso manifestazioni quali il vento o la luce del sole, di parlare in sua vece»44

Nella chiesa della Luce a Ibaraki, ubicata nel quartiere residenziale di Ibaraki, sobborgo di Osaka (1989) 45 , lo spazio liturgico si presenta come una nuda scatola in c.a. illuminata da un muro che lo attraversa secondo un’inclinazione di 15 gradi, restando separato dalla copertura da una lama di luce di 18 cm e dal taglio in forma di croce sulla parete di fondo, dietro l’altare .La suggestiva croce di luce ha costituito l’immagine iconica della chiesa di Ibaraki, nella quale la luce stessa gioca un ruolo fondamentale; proiettandosi sulle pareti in modo variabile secondo il corso del sole, genera infatti sensazioni che rendono lo spazio vibrante e pieno di tensione sottesa.

Volendo terminare il nostro percorso cronologico con alcune tra le più recenti opere realizzate in Italia, citiamo la chiesa parrocchiale di S. Paolo Apostolo a Foligno, progettata da Massimiliano Fuksas e Doriana Mandrelli Fuksas nel 200946. L’edificio è stato realizzato in c.a. attraverso la composizione di due parallelepipedi, uno esterno, in cui si aprono finestre di forme irregolari, e l’altro interno, sollevato a 3 m dal pavimento e dalle pareti esterne. A riguardo del tema della luce nella loro composizione i Fuksas hanno dichiarato a “Thema” che «Per l’interno di questo prisma di essenziale purezza, abbiamo voluto porre in evidenza il senso dell’incontro con la sacralità. Per questo abbiamo pensato a un secondo volume interiore, che non poggia a terra ma resta sollevato: quasi trattenuto in alto dalla forza della luce. Si genera infatti l’incontro paradossale, tra la dimensione delle pareti in cemento a vista che con la loro gravità dovrebbero poggiare al suolo, e i canali di luce che, con la loro levità le collegano col cielo e la natura all’esterno». In sostanza «questo grande parallelepipedo (…) è solido come una roccia, ma allo stesso tempo anelante al cielo e permeato di luce»47

Per suo conto, Mons. Enrico Mazza scrive che la chiesa di Foligno «è un’architettura in cui la luce è protagonista. Al sordo, opaco volume esterno, lo spazio cultuale, nell’intento dei progettisti, è uno spazio trascendente in cui la luce svolge un ruolo primario»48

A fronte della pur sintetica analisi finora svolta, sembrano emergere alcune tipologie di luce che, sperimentate in alcuni degli esempi “storici” citati, trovano riscontro in opere di architettura sacra contemporanea.

Potremmo iniziare il nostro percorso dalle chiese a unica fonte luminosa dall’alto, che ha il suo precedente più celebre e “assoluto” nel Pantheon di Adriano che, lo ricordiamo, all’inizio del VII secolo fu convertito da papa

44 La cit. è in E. Giacomello, Dalla Materia alla Forma: il calcestruzzo armato in Tadao Ando, Dipartimento di Culture del Progetto, Università IUAV di Venezia, Corso di Laurea Triennale in Architettura Costruzione Conservazione, Laboratorio di Progetto, Insegnamento di Sistemi Costruttivi, A.A. 2019-2020, consultabile in https:// issuu.com/eleonora-sartoretto/docs/andooooooo_-_copia, visitato il 5 agosto 2025.

45 C. Pozzi, Sacro Andō, cit.

46 A. Faresin, Architettura in calcestruzzo. Soluzioni innovative e sostenibilità, UTET Scienze Tecniche, Torino 2012, p. 264.

47 M. Fuksas, D. Fuksas, Un segno ben chiaro nel paesaggio, in “themaprogetto.it”, 4 ottobre 2013, consultabile in https://themaprogetto.it/un-segno-ben-chiaro-nelpaesaggio/, visitato il 5 agosto 2025.

48 M. E. Mazza, La luce per le chiese, in Forconi (a cura di), Luce nelle chiese, cit.

Nicolás Campodonico, cappella di S. Bernardo (2010-15), Córdoba, Argentina - foto di Nicolás Campodonico

Bonifacio IV nella basilica cristiana denominata S. Maria della Rotonda o S. Maria ad Martyres49. Il monumento era stato originariamente eretto da Marco Vipsanio Agrippa in corrispondenza della palus caprae, da dove, secondo la tradizione classica, Romolo era asceso al cielo. La religione cristiana recepisce questa potenzialità scenografica nella Festa della Pentecoste con un pioggia di petali di rosa. Va peraltro ricordato come alla “luce guidata” del Pantheon/S. Maria ad Martyres dovettero fare riferimento Palladio e Borromini, secondo quanto visto in precedenza e, forse, anche Rudolf Schwartz nella teoria di oculi sul lungo spazio d’ingresso alla chiesa di S. Anna a Duren.

Fra le opere di architettura moderna e contemporanea nel campo del sacro ricordiamo l’oculo luminoso sovrastante l’altare della cappella del MIT a Cambridge (Eero Saarinen, 1955). Grande valore emotivo hanno, poi, il “taglio” nella copertura della cappella votiva di St. Niklaus von Flue (“Brüder Klaus”) a Mechernich (Peter Zumthor, 2015) e la pioggia di luce che investe il breve presbiterio scavato nella parete di fondo del S. Giovanni Battista a El Hierro (Tenerife, Alejandro Beautell, concl. 2013), marcando uno spazio allungato dalle pareti scabre.

Un’elaborazione del precedente tipo a fonte unica dall'alto è nelle chiese in cui la fonte stessa è nascosta scenograficamente. È questo il caso, in età barocca, della chiesa romana di S. Andrea al Quirinale in cui nella nicchia frontale all’ingresso Gianlorenzo Bernini dà esempio straordinario della “sintesi delle arti” fondendo architettura, pittura e scultura animate da una “camera di luce” che allude alla presenza divina. Analogo sistema d’illuminazione è impiegato in Piemonte da Guarino Guarini e Bernardo Vittone.

Un recente esempio dell’impiego drammatico della luce possiamo considerare la camera di luce che scende all’interno della chiesa di S. Maria Goretti a Mormanno, in provincia di Cosenza (Mario Cucinella, 2021), in cui la fonte nascosta e l’andamento flessuoso (che ribadisce lo schema in pianta) rimandano direttamente alle migliori esperienze del Barocco romano.

In maniera più intellettuale il meccanismo viene impiegato nella chiesa del monastero di Nostra Signora a Nový Dvůr (Repubblica Ceca, John Pawson, 1999-2004), in cui la fonte luminosa è costantemente indiretta, specie nella navata, come se fosse lontana eco del progetto (non realizzato) di Guarino Guarini per S. Maria Ettinga a Praga (1679). Più emotivo e primigenio è invece il sistema d’illuminazione della cappella di S. Bernardo a La Playosa (Cordoba, Argentina, Nicolas Campodonico 2012-15), in cui la fonte, non visibile dallo spazio liturgico, può essere percepita solo attraverso la sua proiezione lungo le pareti curvilinee.

All’illuminazione affidata prevalentemente ad un solaio vetrato che esalta parte dello spazio liturgico si affidarono nell’anteguerra Frank Lloyd Wright nella realizzazione dello Unity Temple ad Oak Park (Chicago) e Luigi Figini e Gino Pollini in quella della chiesa della Madonna dei Poveri a Baggio (Milano) in cui la pioggia di luce definisce e rimarca il volume cubico incentrato sull’altare maggiore.

Gli stessi Figini e Pollini, nella chiesa dei SS. Giovanni e Paolo costruita sempre a Milano per l’arcivescovo Montini (iniziata nel 1964, conclusa nel 1968 e consacrata nel 1977) concludono il corpo longitudinale con un

49 G.A. Guattani, Roma descritta ed illustrata, vol. 1, Stamperia Pagliarini, Roma 1805, p. 98.

Giovanni Michelucci, chiesa di S. Maria (1956-58), Larderello (PI) - foto Fondazione Giovanni Michelucci - AF1220066 - AF1220022 - AF1220019

interessante lucernaio formato dall’intersezione di una croce con un quadrata, creando ancora, come a Baggio una cesura tra il momento dell’aula e quello del Santissimo. Nella chiesa della Resurrezione di Gesù a Sesto San Giovanni (Cino Zucchi, 2008-2010) la luce proviene dal finestrone dietro l’altare ma anche dai lucernari geometrici disposti casualmente nel solaio di copertura dell’aula a intervallare gli elementi portanti.

Una tipologia affine al luminismo di tipo drammatico nella parte superiore dell’edificio può derivare dal prototipo del S. Ivo alla Sapienza in cui, nella cupola che prosegue il movimento ondulatorio dello schema di pianta, Borromini allude alla Sapienza Divina attraverso vibranti motivi chiaroscurali.

Estremamente accattivante è, nella chiesa di S. Barbara a San Donato Milanese (Giò Ponti, compl. 1954), la frattura fra lo spazio umbratile della navata e quello carico di luce della porzione presbiteriale, rischiarato da un corpo vetrato a due falde che sostituisce la struttura di copertura rivelandosi solo in vicinanza. Spettacolare risulta poi, nel S. Nicolao della Flue a Milano (Ignazio Gardella, 1968-1970), l’incontro/scontro tra le sinuose coperture interne e la luce che piove dalla striscia luminosa posta in sommità delle pareti della navata centrale. Ancor più fluido è il movimento dei solai di copertura nella cappella del collegio Villa Maria a Las Condes (Santiago del Cile, Enrique Browne, 1992) in cui tagli luminosi creano un effetto artistico che allude quasi alle opere di Lucio Fontana. Agli effetti della luce che proviene dall’alto sembrano appellarsi anche i canali di luce della chiesa di S. Paolo Apostolo a Foligno (Massimiliano e Doriana Fuksas, 2009), edificio bloccato all’esterno da una geometria rigida ma all’interno «permeato di luce».

Nela cappella di Ronchamp Le Corbusier interpreta in senso luminoso il rapporto tra copertura e pareti, partendo dalla sensazione di quel guscio di granchio che, calpestata sulla spiaggia di Long Island, gli aveva rivelato le capacità elastiche e strutturali. In Notre-Dame du Haut solleva dalle murature perimetrali quella sorta di guscio cavo che copre lo spazio interno, interpretando l’asola risultante come un’ininterrotta e sottile fascia luminosa.

Valide citazioni contemporanee del prototipo lecorbusieriano possono essere considerate la chiesa di S. Antonio da Padova a Foggia (Davide Pacanowski, in. 1979) e la cappella Kamppi a Helsinki (Studio K2S Architects, completata nel 2012).

Nel già citato Tempio Unitariano nei sobborghi di Chicago Frank Lloyd Wright aveva concepito una sconnessione tra copertura e pareti apparentemente simile, conferendole però un significato prevalentemente funzionale di fascia luminosa vetrata.

Nella chiesa di Larderello in Pomarance (Pistoia, Giovanni Michelucci, 1956-58) la lunga striscia orizzontale posta in contiguità con il solaio di copertura consente, invece, una lettura verticale, nel momento in cui le specchiature vengono visivamente scomposte e ricomposte come apice di una sequenza ininterrotta che svuota le pareti della navata centrale. Lo stesso rapporto tra fascia luminosa e solaio di copertura è presente nella cappella di S. Benedetto a Sumvitg (Svizzera, Peter Zumthor, 1988), nella quale la fascia luminosa, sorta di moderno claristorio, è chiamata a separare senza mediazioni la copertura dalle murature perimetrali, analogamente a quanto accade nel complesso parrocchiale di S. Romano al Gallaratese (Milano, Giangiacomo D’Ardia,

Giovanni Michelucci, chiesa del Sacro Cuore Immacolato di Maria (1959-61), Pistoia - foto Fondazione Giovanni Michelucci - AF1380054 - AF1380063

1997). In maniera ancor più brillante il motivo della sequenza luminosa viene riproposto nella Bishop Edward King Chapel Cuddesdon (Oxfordshire, Niall McLaughlin, 2013) in cui le finestre sono intervallate dai pilatri che proseguono creando una specie di net vault rievocando, come in tutto l’organismo, la tradizione gotica inglese. All’opposto troviamo il sistema d’illuminazione della chiesa del Divino Salvador Church a Freamunde (Portogallo, Vitor Leal Barros, 2019) che, in tono con il generale razionalismo dell’edificio, si propone come una funzionale fascia luminosa vetrata.

Un’interpretazione della parete come fonte di luce troviamo in alcuni esempi molto celebri prima e dopo la Seconda guerra mondiale.

Negli anni Trenta a Berlino Clemens Holzmeister rompe la continuità delle murature della St. Adalbert Kirche introducendo una sorta di teoria luminosa che, attraverso finestre semicircolari in corrispondenza degli altari laterali e del coro, determina un effetto di romantica misticità.

Fortemente espressivo delle tragiche motivazioni della fondazione è la chiesa di S. Maria Immacolata a Longarone (Belluno, Giovanni Michelucci, 1975-83), paese che fu completamente raso al suolo la notte del 9 ottobre 1963 dal disastro della diga del Vajont. Qui le finestre formano una sequenza che, nel plastico di progetto, seguivano la pendenza della rampa esterna che conduceva al “teatro” posto in sommità. Il movimento a spirale è tuttora conservato ma in finestre dalla fonte nascosta mentre dall’interno radi episodi illuminano le sedute ancora disposte su gradoni curvi continui.

Un sistema ibrido è presente nella chiesa di S. Maria de Marco de Canevezes, (Portogallo, Álvaro Siza, 1990-97) dove una lunga finestra a nastro aperta lungo la parte bassa di una parete laterale e finestre asintattiche arretrate in alto rispetto al filo murario contribuiscono a conferire all’interno un tono di astratta purezza.

In effetti, nel tema della luce si registrano nel secondo Dopoguerra esperienze drammatiche, a partire da quella già citata di Ronchamp in cui viene frantumata la compatetezza, non più tetragonale (in senso dantesco), della muratura portante attraverso il mur de lumière, una parete in cemento armato traforata dagli alvéoles, aperture strombate in cui alloggiano piccole vetrate colorate. Le Corbusier determina un’inversione semantica delle tradizionali componenti della costruzione: l’unico sostegno all’involucro della vita umana non è più, infatti, la materia ma a luce divina, ciò che invece smaterializza la natura tettonica dell’architettura.

Un esplicito rimando mur de lumière di Ronchamp è la parete d’ingresso a sviluppo triangolare in altezza della chiesa di S. Giovanni Bono a Milano (Arrigo Arrighetti, 1966), completamente traforata di alvéoles con vetri colorati, così come alla Notre-Dame du Haut si ispira la chiesa della Madonna della Neve a Roccaraso (L’Aquila, Vincenzo Monaco, 1969), anche nei già citati alvéoles ricavati, però, in pareti ad andamento curvilineo, più fedeli al prototipo. Abbastanza ortodossa è l’interpretazione del mur de lumière nella parete di destra della chiesa di Notre-Dame du Rosaire a Parigi (Mauro Galantino, 2014) mentre una variante quasi pop mostra la chiesa di Cristo Speranza del Mondo nel quartiere di Donaucity a Vienna (Heinz Tesar, 1988), in cui ad essere traforate da aperture circolari di diverse dimensioni tamponate da vetri trasparenti sono tutte le pareti, producendo quindi un effetto estremamente originale e coinvolgente. Alla tradizione lavorazione del laterizio sembra invece richiamarsi

Giovanni Michelucci, chiesa dell’Immacolata Concezione della Vergine (1966-78), Longarone (BL) - foto Fondazione Giovanni Michelucci - AF1660125 - AF1660026

la S. Maria in Zivido a San Giuliano Milanese (Roberto Gabetti e Aimaro Oreglia d’Isola, 1999-2008) in cui la parete di fondo in mattoni disposti a treillage risulta una variante intelligentemente localistica del muro di luce lecorbusieriano.

Un’altra variante estremamente raffinata del mur de lumière tocca un altro interesse di Le Corbusier, quello per la musica, ereditato dalla madre insegnante di pianoforte e condiviso con il fratello musicista. Se nella facciata verso valle del convento de La Tourette i pans de verre ondulatoires progettati dall’ingegnere-musicista Ianni Xenakis, sono un esempio concreto del passaggio del ritmo, dalle scale musicali all’architettura, nella chiesa della SS. Trinità a Gödöllő (Ungheria, Tamás Nagy, Tamás Levai, Ildikó Bujdoso, Anna Meditz prog. 2000) le 63 vetrate colorate poste nella parete absidale curva dietro l’altare sono il risultato della ricerca musicale di Alexander Scriabin (di cui Gabriele d’Annunzio scriveva nel Notturno: «Questa sera Scriàbine danza,/ con la forza d’un arciere del principe Igor,/ sul suo cuore immortale/ che canta la melodia duplice/ del desiderio e del dolore») il quale, studiando il rapporto tra toni musicali e colori, aveva creato una matrice in cui ad ogni tono corrisponde un colore. In tal modo, applicando il codice colore/nota Tamás Nagy ha composto la melodia gregoriana del Kyrie eleison negli alvéoles della parete absidale.

Un altro dei presupposti della cappella di Ronchamp di Le Corbusier è l’idea dell’attendamento di Dio (shekinah) che compare anche tra i motivi preprogettuali del S. Giovanni Bono milanese di Arrighetti. La luce che ne deriva deve esprimere la precarietà dell’”involucro” del corpo umano rispetto al suo “contenuto” immortale, come si vede chiaramente nelle due opere sacre realizzate da Giovanni Michelucci in Toscana attorno al 1960: la chiesa del Sacro Cuore Immacolato di Maria in località Villaggio Belvedere (Pistoia, 1959-61) e soprattutto la celeberrima S. Giovanni Battista a Campi Bisenzio, nota come “chiesa dell’Autostrada” (1961-64), dove la luce piove nell’interno attraverso le strutture ad albero che sembrano sostegni della grande tenda della copertura, anch’essa in cemento armato.

Altrettanto drammatico è il senso della luce concepito da Wotruba e Mayr nella chiesa della SS Trinità a Vienna che penetra nell’ordinaria follia dell’algido interno attraverso le sconnessioni tra i solidi stereometrici che compongono lo spazio.

Le drammatiche tensioni della “Wotrubakirche” si trasformano in segni ben precisi come gli spettacolari tagli luminosi in facciata e nella parete di fondo della cattedrale di S. Maria a Tokyo (Kenzo Tange, 1964) o le raffinate sconnessioni nelle pareti all’esterno e all’interno della cappella Stella Maris a El Pris (Tacoronte, Isola di Tenerife, Alejandro Beautell, 2016) o infine la linea di frattura che corre dalla copertura per tutta la parete di fondo della chiesa del Buon Ladrone a San Lazzaro di Savena (Bologna, INOUT Architettura, LADO Architetti e Lamber+Lamber, in. 2019), inquadrando ed esaltando con la propria luce la statua sospesa del Crocefisso.

In maniera molto più lirica e organica la luce penetra dalle bianche e ondulate superfici della già citata chiesa delle Tre Croci a Vuoksenniska, di cui una replica vagamente straniata risulta la S. Maria Assunta a Riola.

Neppure la facciata sfugge a questa poetica di tagli luminosi e di sfondati, partendo dal S. Ambrogio milanese in cui il prospetto con le finestrature a canne d’organo inonda di luce l’umbratile interno romanico. In tempi

Giovanni Michelucci, chiesa di S. Giovanni Battista (1960-64), Campi Bisenzio (FI) - foto di Filippo Poli

moderni è Gio Ponti a creare gli episodi più interessanti, con la chiesa parrocchiale di S. Francesco d’Assisi al Fopponino (Milano, 1958-64) e, ancor di più, con la Concattedrale della Gran Madre di Dio a Taranto (1970). Qui la facciata è composta da due parti: una anteriore, formata da un telaio totalmente trasparente nei due livelli superiori, e l’altra posteriore, arretrata di 50 metri rispetto alla prima e costituita da un doppio muro traforato alto 40 metri a sostituire la cupola tradizionale.

In celebri edifici sacri moderni e contemporanei la parete tende a essere sostituita da una grande vetrata che conferisce un particolare effetto luminoso di “rivelazione” all’interno.

Nella chiesa di St. Leopold a Vienna di Otto Wagner le ampie vetrate in forma di serliana realizzate da Kolo Moser contribuiscono a creare nell’interno una sensazione di preziosa liricità, pausa e rifugio dall’assordante dolore dell’ambiente esterno, occupato da quella sorta di «città del dolore» costituita dal manicomio dello Steinhof. Ludwig Mies van der Rohe all’interno del campus dell’IIT di Chicago svuota completamente la facciata della piccola cappella del St. Saviour sostituendola con una vetrata retta dalle caratteristiche strutture lineari metalliche. Su di una base in muratura si elevano due pareti finestrate a L che donano luce allo spazio liturgico della chiesa di S. Anna a Duren di Rudolf Schwartz, fasciata lateralmente dal lungo nartece umbratile. Totalmente diverse ma ancor più affascinanti sono le pareti vetrate che Tadao Andō adotta in due spazi sacri, a partire dalla chiesa di Kobe, in cui la parete sinistra del volume stereometrico a sviluppo longitudinale è svuotata e sostituita da lastre vetrate trasparenti sostenute da una sottile struttura in cemento armato in forma di croce. Stesso sistema strutturale è impiegato dal Maestro giapponese nell’intera facciata della “Cappella sull’acqua” che, prospiciente su uno specchio d’acqua, ribadisce la necessità del colloquio tra architettura e natura attraverso la luce.

Analoga smaterializzazione della parete con vetrate (anche se parziale) troviamo nella fantastica cappella di San Vincenzo de’ Paoli a Coyoacàn (Ciudad de México, Felix Candela, 1959), nel geometrico Tempio Nazionale a Maria Madre e Regina a Trieste (santuario Mariano di Monte Grisa, Antonio Guacci, 1963-65), nella celebre chiesa di Dio Padre Misericordioso a Tor Tre Teste (Roma, Richard Meier, 1998-2003) e nella solitaria capilla del Retiro in Valle de los Andes (Cile, Undurraga Deves Arquitectos, 2008-09).

Nella chiesa di S. Maria Josefa del Cuore di Gesù a Ponte di Nona (Roma, Francesco Garofalo, cons. 2001) la luce che proviene dalla controfacciata quasi completamente vetrata va ad aggiungersi a un caratteristico canon à lumière aggettante dalla parete laterale, anch’esso d’inequivocabile matrice lecorbusieriana.

Uno dei punti più alti che il nostro percorso raggiunge è quello riguardante il simbolo della croce fenomenizzato attraverso la luce. Troviamo ancora in Tadao Andō un episodio estremamente interessante. Nella chiesa della luce a Ibaraki il muro del fondo dello spazio solitamente stereometrico e allungato viene infatti squarciato da un segno cruciforme attraverso cui la luce rende morbidamente sensuale un interno concepito in origine come un rigido invaso definito da pareti a calcestruzzo a faccia vista.

Analoga presenza luminosa è la suggestiva croce (inclinata) generata dal taglio nella parete di fondo della chiesa del SS. Redentore a Las Chumberas (Isola di Tenerife, Fernando Menis, 2005-19) e l’altra ricavata nello stesso punto nella St. Charbel Church a Zakrit (Libano, Blankpage Architects, compl. nel 2018) in forma più

Alvar Aalto, chiesa di S. Maria Assunta (1966-80), Vergato (BO) - foto di Antonio Biagiotti, courtesy don Augusto Modena

ortodossa ma forse meno emozionante.

Un recente esempio non “localistico” ma universale è la grande apertura cruciforme che rende permeabile la chiesa di S. Rocco a Sambuceto di Mario Botta (in. 2024), dal possente interno a matrice geometrica con pareti a calcestruzzo a faccia vista. L’illuminazione è da leggere in senso scambievole, in quanto la luce della “croce” si offre di notte, attraverso l’illuminazione artificiale, ai passeggeri degli aerei in volo dal vicino aeroporto di Pescara.

Analogamente, il simbolo della croce compare nella copertura dell’interno nel S. Franco a Francavilla al Mare (Chieti, Ludovico Quaroni, 1957), nella Iglesia de Iesu a San Sebastian (Spagna, Rafael Moneo, in. 2011), nel S. Tommaso Apostolo nel quartiere Infernetto di Roma (Marco Petreschi, 2010-13); diviene matrice geometrica del volume che discende dall’alto ad illuminare i fedeli raccolti nell’aula della chiesa di S. Gianna Beretta Molla a Trezzano sul Naviglio (Milano, Quattroassociati, 2014); si fa segno mistico nell’esterno della già citata S. Maria Goretti a Mormanno di Cucinella.

Un’ultima tipologia, per certi versi la più affascinante dell’intero percorso, è quella di chiese interamente vetrate, a meno delle parti strutturali.

Il precedente “storico” più celebre è senz’altro la S.te Chapelle parigina, scrigno vetrato talmente diafano nelle proprie vetrate policrome da costringere Pierre de Montreuil ad adottare una serie di raffinati accorgimenti strutturali. Una sorta di erede del prezioso edificio medievale è la Wayfarers Chapel a Rancho Palos Verde di Lloyd Wright, talmente trasparente da essere nota come la “Glass Church”

Erede della S.te Chapelle con un linguaggio pseudo-industriale adeguato al tempo del secondo Dopoguerra è la chiesa di Nostra Signora della Misericordia a Baranzate (Milano, Angelo Mangiarotti, Bruno Morasutti e Aldo Favini, 1958), dalle pareti vetrate ma opache. A Brasilia analoga volontà di smaterializzazione mostra il santuario di don Bosco (Carlos Alberto Naves, in. 1970), con pareti costituite per intero da vetrate policrome intervallate da montanti in calcestruzzo armato conclusi da archi a sesto acuto mentre la cattedrale di Nossa Senhora Aparecida (Oscar Niemeyer, 1958-70) è una corona di montanti curvi in calcestruzzo armato a definire una forma vetrata policroma iperbolica continua, confermando quella volontà di condividere architettura e natura testimoniata dalla precedente igreja de São Francisco de Assis a Pampulha (in. 1943).

Una sfida al passato va considerata invece la già citata “Crystal Cathedral” progettata da Philip Johnson per la Reformed Church in America (1977-80) e poi trasformata in chiesa cristiana, pur restando un’architettura che è essa stessa luce.

Alla fine del nostro percorso, ricordiamo come, nella conversazione svoltasi il 7 agosto scorso in occasione della consegna del premio “Pescara Visioni d’Arte”, Mario Botta, a precisa domanda di chi scrive, ha risposto che «senza luce non vi è spazio, in quanto la luce è la vera generatrice dello spazio». A ciò aggiungiamo come la divinità intrinseca nella luce abbia da tempi immemori caratterizzato l’architettura sacra. Per questo concludiamo con una testimonianza che proviene da un importante protagonista dell’architettura contemporanea quale Daniel Libeskind, che in Breaking Ground descrive la sua percezione esperienziale dei

Tadao Andō, chiesa della Luce (1989), Ibaraki, Giappone - courtesy Archivio Premio Internazionale di Architettura Sacra, Fondazione Frate Sole

templi di Poseidonia-Pæstum al sorgere del sole:

«Quando eravamo ventenni, Nina e io visitammo l’Italia con un amico alla ricerca di antichi templi. Ci eravamo persi da qualche parte a sud di Napoli. Era tardissimo, eravamo esausti e senza un soldo, così quando trovammo delle sedie lungo il marciapiede, davanti a un bar chiuso, ci lasciammo cadere sopra e crollammo addormentati. La prima luce del mattino mi svegliò qualche ora dopo, e quando riuscii a mettere a fuoco lo sguardo assonnato, ecco che di fronte a me si ergevano i templi di Paestum, il grandioso Tempio di Poseidone e la Basilica, illuminati d’oro rosso dall’aurora. Erosi dal tempo, si ergevano nella luce sfidando la forza di gravità, visione di incomparabile bellezza, quasi paralizzante. Mi resi conto che stavo guardando i templi dal medesimo punto di vista che l’incisore veneziano Giovanni Battista Piranesi, uno dei più abili disegnatori di architettura mai esistiti, aveva scelto per le sue stampe circa due secoli prima. La stessa prospettiva era stata impiegata qualche tempo dopo da un altro dei miei idoli, l’architetto e studioso John Soane. (…) Sebbene dei templi non restassero che maestose rovine, riuscivo tuttavia a immaginare che cosa vi avessero visto Piranesi e Soane e ancor più ciò che le genti di Paestum vi trovassero più di duemila anni prima. Compresi allora qualcosa che non avevo mai capito prima: che i templi non erano solo architettura, ma erano venerati come simboli di pietra della divinità: incendiati dalla luce sembravano vivi, animati da pensieri e ideali. La luce è divina»50

50 D. Libeskind, Breaking Ground. Un’avventura tra architettura e vita, Mendel Media Group LLC, New York 2004, ed. it Sperling & Kupfer Editori, Milano 2005, pp. 52-53. Il presente contributo è stato redatto con la collaborazione di Stefania Antonella di Gabriele.

Tieni il viso rivolto sempre verso il sole e le ombre cadranno dietro di te.

Mario Cucinella, chiesa di S. Maria Goretti (2021), Mormanno (CS) - courtesy Archivio Premio Internazionale di Architettura Sacra, Fondazione Frate Sole
Rafael Moneo, chiesa di Iesu (2011), San Sebastián, Spagna - courtesy Archivio Premio Internazionale di Architettura Sacra, Fondazione Frate Sole
Fernando Menis, chiesa del Santissimo Redentore (2005-19), Tenerife, Spagna - courtesy Archivio Premio Internazionale di Architettura Sacra, Fondazione Frate Sole
Álvaro Siza Vieira, chiesa di S. Maria a Marco de Canevezes (1990-96), Porto, Portogallo - courtesy Archivio Premio Internazionale di Architettura Sacra, Fondazione Frate Sole
Richard Meier, chiesa di Dio Padre misericordioso (1996-03), Roma - courtesy Archivio Premio Internazionale di Architettura Sacra, Fondazione Frate Sole
John Pawson, chiesa del monastero di Nový Dvùr (1995-04), Teplá, Repubblica Ceca - courtesy
Archivio Premio Internazionale di Architettura Sacra, Fondazione Frate Sole
Undurraga Devés Arquitectos, cappella del Retiro (2008-09), Auco, Cile - courtesy Archivio Premio Internazionale di Architettura Sacra, Fondazione Frate Sole

Voi siete la luce del mondo.

Vangelo, Matteo
Blankpage Architects, chiesa di Saint-Charbel (2017), Zekrite, Libano - courtesy Archivio Premio Internazionale di Architettura Sacra, Fondazione Frate Sole
Niall McLaughlin, Bishop Edward King Chapel (2013), Cuddesdon, Regno Unito - courtesy Archivio Premio Internazionale di Architettura Sacra, Fondazione Frate Sole
Vitor Leal Barros, chiesa del Divino Salvador (2019), Paços de Ferreira, Portogallo - courtesy Archivio Premio Internazionale di Architettura Sacra, Fondazione Frate Sole
Tamás Nagy, Tamás Lévai, Ildikó Bujdosó, Anna Meditz, chiesa della Santissima Trinità (2007), Gödöllő, Ungheria - foto di József Hajdú
Francesco Garofalo, Sharon Miura, chiesa di Santa Maria Josefa del Cuore di Gesù (1997-01), Roma - foto di Piero De Grossi
Rafael Moneo, cattedrale di Nostra Signora degli Angeli (1998-02), Los Angeles, CA, Stati Uniti d’America - foto di Carlo Pozzi
Devi trovare ciò che accende una luce in te così che tu, a tuo modo,possa illuminare il mondo.
Oprah Winfey
Boris Podrecca, Marco Castelletti, chiesa della Pentecoste (2001-16), Milano - foto di Cecilia Castelletti
Mauro Galantino, chiesa di S. Ireneo (1989-00), Milano - foto di Alberto Muciaccia
Mauro Galantino, chiesa del Gesù Redentore (2005-08), Modena - foto di Alberto Muciaccia
Mario Botta, chiesa di S. Giovanni Battista (1986-96), Mogno, Svizzera – foto 1-2 di Enrico Cano, foto 3 di Pino Musi
Mario Botta, chiesa del Santo Volto (2001-2006), Torino - foto di Enrico Cano
Mario Botta, chiesa Papa Giovanni XXII (1994-04), Seriate (BG) - foto di Enrico Cano
Mario Botta, chiesa del Beato Odorico (1987-02), Pordenone (PN) - foto di Pino Musi
Mario Botta, chiesa di S. Rocco (2006-24), San Giovanni Teatino (CH) - foto di Enrico Cano

THEMA 17

HANNO SCRITTO PER THEMA 17|25

Sergio Massironi, direttore della ricerca internazionale

DoingTheology from the Existential Peripheries, è docente di teologia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore e la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, cappellano universitario al Politecnico di Milano e collaboratore della Segreteria di Stato vaticana.

Bruno Forte. Arcivescovo metropolita di Chieti-Vasto è stato professore ordinario di Teologia dogmatica alla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia meridionale a Napoli. È stato membro della Commissione Teologica Internazionale e del Consiglio del Sinodo dei Vescovi. Ha ricevuto diversi dottorati “honoris causa”. Tra le sue pubblicazioni: la Simbolica ecclesiale (8 voll.; 1981-2000); i 4 voll. della Dialogica (2002-2025): I. Sui sentieri dell’Uno. Metafisica e teologia - II. In ascolto dell'Altro: filosofia e rivelazione; III. La porta della Bellezza. Per un’estetica teologica - IV. L’Uno per l’Altro. Per un’etica della trascendenza. Numerosi libri di spiritualità e al servizio della pastorale.

Raffaele Giannantonio. Professore Ordinario di Storia dell’Architettura nel Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi “G. d’Annunzio” di Chieti Pescara. Sue opere sono state tradotte e pubblicate all’estero, in particolare in Svezia, Romania e negli Stati Uniti. In campo scientifico le sue ricerche hanno ottenuto riconoscimenti di carattere nazionale e internazionale, con premi riscossi in Svizzera, Inghilterra, Scozia e Romania. È direttore della collana L’ACAb –L’Architettura Contemporanea in Abruzzo. Fa parte del Comitato scientifico della rivista “Palladio”, del comitato di redazione della rivista “Opus”, del comitato editoriale della collana Architettura e Territorio. Nell’aprile 2024 è stato Chairman e Final discussant nel Congresso “People, Books and Models” svoltosi nell’Università di Malta sull’architettura dei Cavalieri.

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M’illumino d’immenso.

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