SchioMese 966

Page 1


SchioMese

Periodico di informazione dell’Alto Vicentino anno XIV n. 133 - maggio 2025

Una famiglia tra i poveri del Perù - p.8 ◆ Un altro Sacrofest tutto da vivere - p.20

Parolin e Dalla Costa, i due “scledensi” quasi Papi

Questa volta è stato il card. Pietro Parolin, già diacono e sacerdote a SS.Trinità di Schio dal 1979 al 1982, a entrare in conclave da favorito per l’elezione a Papa. Nel 1939 era stato il card. Elia Dalla Costa, già a lungo parroco in città, a essere vicino al soglio pontificio.

Prove tecniche di monumento

rchiviata la faccenda della piazza riaperta alle auto (come la pensiamo in merito lo abbiamo già detto), vale la pena spendere qualche parola sull’altra “partita” ancora in corso da quelle parti: il monumento da installare al centro della fontana, come da progetto iniziale. Sfumata fortunatamente l’ipotesi di trasferire lì la statua di Alessandro Rossi che sta nel giardino Jacquard (la cui aria dimessa, unita alla modestia degli edifici d’intorno e alle auto in sosta, avrebbe prodotto un mix in grado di ammosciare anche il più inguaribile ottimista), rimane sul tappeto un altro possibile trasferimento illustre, anzi il più illustre di tutti, quello della sta-

Supplemento

Direttore

Stefano Tomasoni

Redazione

Elia Cucovaz

Mirella Dal Zotto

Camilla Mantella

Grafica e impaginazione

Alessandro Berno

Per inviare testi e foto: schiothienemese@gmail.com

Per le inserzioni pubblicitarie

Pubblistudio tel. 0445 575688

tua del Tessitore. Lo spostamento dell’Omo da piazza Rossi a piazza Statuto è stato preso in considerazione da Palazzo Garbin, ma l’idea deve ancora ricevere il placet da parte della Sovrintendenza, senza il quale non si può procedere. Al riguardo, in città le opinioni sono le più diverse: c’è chi è a favore del trasferimento, nella convinzione che si darebbe maggiore visibilità alla statua simbolo della città, e c’è chi è contrario, ritenendo che decenni di presenza della statua in piazza Rossi abbiano ormai incardinato l’Omo sotto il Duomo. Non per motivi di rima, ma di rispetto dell’immaginario collettivo.

Per quanto ci riguarda, l’Omo in piazza Statuto non ci sembra un tabù: le città evolvono, non possono restare sempre uguali a se stesse e serve il coraggio di metterci mano e modificarne spazi e funzioni (infatti eravamo contrari a riaprire la piazza alle auto). Ci sono però luci e ombre da considerare. Da un lato il monumento del Monteverde una volta in Statuto avrebbe intorno a sé

spazio sufficiente per “respirare” meglio, anziché essere sovrastato dall’incombente “muro” della chiesa e ignorato dal traffico. Dall’altro lato avrebbe un motivo in più per tenere lo sguardo basso sulla navetta che tiene in mano, dal momento che si troverebbe piazzato davanti a un parcheggio, di cui con quel cappello fuori moda in testa sembrerebbe il custode.

Dunque, che fare? In attesa del parere della Sovrintendenza, non è sbagliato pensare a qualche eventuale alternativa. Un cittadino propositivo, ad esempio, ci ha fatto arrivare una sua idea che proponiamo qui nel rendering da lui prodotto. Si tratta anche in questo caso del trasferimento di un’opera già esistente, ossia del monumento ai fratelli Pasini che sta in piazzetta IV Novembre. Togliendo i due primi basamenti di pietra del manufatto – quello largo che poggia sul selciato e quello grigioscuro che gli sta sopra - ne uscirebbe una soluzione dalla circonferenza inscrivibile nella piastra squadrata al centro della fontana, abbastanza simile a quella che si vede nella foto qui sopra. A favore di questa soluzione c’è il fatto che il monumento ai Pasini presenta un più elaborato “gioco” di volumi e di materiali rispetto all’Omo, assicurando un impatto visivo maggiore, che non guasta considerata la destinazione all’interno di uno spazio vasto e dispersivo come piazza Statuto.

Da parte nostra, visto che la tendenza sembra quella di trasferire un monumento già esistente e non di realizzarne uno nuovo, mettiamo in campo anche un’altra candidatura, quella del monumento “Dinamico 2005” dedicato al primo volo del dirigibile di Almerico da Schio, oggi in-

SchioMese
Periodico di informazione dell’Alto Vicentino
Il rendering di come risulterebbe piazza Statuto con il monumento ai fratelli Pasini al centro della fontana

stallato nella rotonda alla confluenza di via dei Boldù e via dei Nogarola a SS.Trinità. A ben guardare, quell’installazione ha delle potenzialità artistiche, ora inespresse per il fatto di essere confinata in una rotonda anonima e appartata (luogo peraltro motivato dall’essere nei pressi della partenza del dirigibile del conte), mentre in piazza Statuto potrebbe contribuire a dare slancio e dinamicità (appunto) all’intero rettangolone.

A monte di qualsiasi scelta, comunque, c’è un piccolo particolare tecnico di cui va tenuto conto, che ha a che fare con la geometria. La piastra al centro della fontana presenta quella che, da profani, ci sembra un’anomalia: non ha una base esattamente quadrata (formato ideale per ospitare monumenti, che siano a base rotonda, quadrata, esagonale o altro), ma leggermente rettangolare. Lo si vede a occhio nudo e lo confermano le misure prese da un volenteroso e accurato lettore: misura 2 metri e 85 per 3 metri e 25. Perciò qualsiasi monumento si sceglierà dovrà avere una base necessariamente non superiore al lato corto del rettangolo, cioè 285 centimetri, e dunque non risulterà perfettamente inscritto nella superficie della piastra, andando a creare un effetto

di leggera asimmetria. Ma soprattutto sia il basamenti dell’Omo che quello “roseo” dei fratelli Pasini si aggirano sui 3 metri di lato, e dunque a voler inserire uno dei due nella piastra si tratterebbe di ragionare veramente sui centimetri, se non sui millimetri. Forse se si fosse prevista una base un po’ più ampia ci sarebbe stato un maggiore margine di manovra.

In tutti i casi, arrivati a questo punto non si può non essere curiosi di vedere quale monumento arriverà, alla fine, in piazza Statuto. L’importante, ci vien da dire, è non avere fretta e prendersi il tempo necessario per fare la scelta giusta, perché poi sarà difficile che si possa tornare indietro. Mica si sposta un monumento a ogni piè sospinto. ◆

Lo Schiocco

Park Sant’Antonio

Avevamo già segnalato, tempo fa, il brutto spettacolo offerto dal piazzaletto davanti alla chiesa di Sant’Antonio trasformato in parcheggio in occasione delle funzioni religiose. La domenica, in particolare, l’ingolfamento di auto rimane praticamente per l’intera giornata. La proprietà di quello spazio è della parrocchia, quindi il Comune non può intervenire a mettere multe, occorrerebbe convincere i fedeli ad andare a parcheggiare altrove e a fare due passi per arrivare in chiesa. È una questione di rispetto dell’edificio religioso, ma anche di salvaguardia dell’estetica urbana. Il fatto è che non basta più arrivare con

l’auto dentro bar e negozi, adesso si vuole arrivare direttamente in auto anche in chiesa. Di questo passo, fra un po’ si pretenderà di assistere alle funzioni restando in macchina e mangiando pop corn tra una preghiera e l’altra. La messa drive-in. [S.T.]

Copertina

tavolta, più ancora che nel 1939 con il cardinale Elia Dalla Costa (si veda l’articolo che segue), si è andati davvero a un passo dall’avere un Papa amico di Schio. Già in tanti avevano fatto un pensiero a “Papa Parolin”, immaginando che avrebbe scelto come nome Giovanni XIV. È andata diversamente ed è stato eletto un Papa americano.

Niente Papa “scledense”, dunque. Le virgolette sono d’obbligo, perché si sa che il cardinale Pietro Parolin è originario di Schiavon, però l’aver fatto la sua prima e unica esperienza pastorale a Schio, prima come diacono e poi come sacerdote e viceparroco a SS.Trinità tra il 1979 e il 1982, è stato più che sufficiente per farlo sentire scledense a tutti gli effetti. Dunque c’era legittima e comprensibile attesa, in città, per sapere se “don Piero” sarebbe uscito dal balcone centrale di San Pietro, dopo la fumata bianca, per benedire i fedeli in piazza. Un’attesa tranquilla, però, che teneva conto del detto “chi entra in conclave Papa esce cardinale”, e un po’ anche del fatto che era noto che l’interessato non ambisse alla carica. Chi lo conosce bene fin da quando era un giovane diacono a SS.Trinità, assicura che “don Piero” non ci teneva proprio a diventare Papa. Che tutto desiderava tranne l’ultimo scatto in avanti di una “carriera” ecclesiastica che di soddisfazioni gliene aveva già date a sufficienza, fino a gestire la “politica estera” vaticana da Segretario di Stato attraverso le sue fini doti diplomatiche. Ma il passaggio da numero due a “numero uno” della Chiesa cattolica comporta un’esposizione mediatica e un grado di responsabilità morale planetaria che può piegare anche le spalle più temprate. Papa Luciani docet. “Il papato non era tra le sue aspirazioni, lui si sente più un operaio nella vigna del Signore”, assicura chi conosce bene Parolin.

Papa o non Papa, la figura di Pietro Parolin rimane indissolubilmente legata a Schio. Tre anni possono essere pochi o tanti, dipende da come li si guarda. Tre anni è il periodo trascorso da “don Piero” Parolin nella parrocchia di SS.Trinità, a Schio, dal 1979 al 1982. La sua prima e unica esperienza pastorale. Tre anni possono essere pochi se si considera la durata media della presenza di un sacerdote in una comunità, soprattutto una volta quando il numero dei sacerdoti era ben maggiore di oggi. Ma in questo ca-

Il card. Pietro Parolin all’uscita dalla messa celebrata in Duomo in occasione dell’ultima sua visita a Schio, due anni fa, per l’inaugurazione del monumento a Bakhita

Quasi Papa

Il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano con Papa Bergoglio e forse anche con Papa Prevost, è entrato nel recente conclave come favorito per l’elezione a nuovo Pontefice. Poi la scelta è ricaduta su Leone XIV, ma Schio per la seconda volta (dopo Elia Dalla Costa) è andata vicina dal vedere eleggere Papa un sacerdote con un passato “scledense”.

so tre anni sono anche tanti, se si considera che già all’epoca c’era chi avrebbe voluto inviare subito il giovane e promettente don Parolin a Roma, una volta terminato il seminario, a studiare per puntare a obiettivi diversi da quelli di diventare parroco e di proseguire sulla via della presenza sul territorio.

Quei tre anni a Schio, invece, si sarebbero rivelati una benedizione sia per la comunità di SS.Trinità, sia per lo stesso “don Piero”, che in quella parrocchia giovane e in pieno sviluppo avrebbe avuto modo di crescere, formarsi come sacerdote e gettare le basi di

quella predisposizione allo stare tra la gente e al mettersi alla pari di tutti che sarebbe poi diventata una sua cifra espressiva.

A SS.Trinità in un quartiere in crescita

Gli anni Tutto cominciò nel ‘79, appunto, con l’arrivo a SS.Trinità per svolgere il periodo di diaconato, una specie di “praticantato” che prepara ai voti sacerdotali. Accolto da don Angelo Lancerin, il parroco che stava guidando la crescita di quella parrocchia giovane nata nel 1970 in un quartiere che andava popolandosi di famiglie giova-

ni, il giovane Pietro si trovò quasi subito a lavorare a fianco di don Beppe Gobbo, altra giovane promessa del mondo sacerdotale vicentino, che poi si sarebbe dedicato per tutta la vita alle comunità di accoglienza di adolescenti e giovani in difficoltà.

All’epoca il quartiere era in piena crescita demografica e mancava ancora di una vera chiesa, che sarebbe arrivata nell’84. Così a fare da chiesa era uno stanzone rettangolare sopra la canonica, in quella che prima era stata una fattoria.

“La parrocchia era un fermento di attività e di famiglie giovani – ricorda Mario Ruzzante -. È arrivato questo giovane diacono di 23 anni e io mi sono dato subito da fare per aiutarlo, farlo conoscere nelle famiglie. Ha cominciato a lavorare con i giovani, a insegnare catechismo nelle scuole medie. Poi quando è diventato prete si è dato da fare con carica ben diversa di prima e subito ha incontrato l’amore e l’accoglienza da parte di tante famiglie, che ancora oggi lo ricordano”.

“Partecipava alle riunioni dei capi scout e poi alla sera noi ragazzi ci fermavamo a fare due chiacchiere nel piazzale e vedevamo la luce accesa in camera sua fino a dopo mezzanotte: rimaneva alzato fino a tardi per studiare – ricorda Mario Ruaro, ex dirigente comunale -. Nei campi scout chiedeva sempre se c’era bisogno di qualcosa, se si diceva di no andava a studiare, lo faceva in continuazione”.

“Aveva la grande capacità di aggregare i lupetti, bambini di 8-10 anni – ricorda Beppe Bevilacqua, che di Parolin è amico da allora -. Ai campi scout io, lui e mia moglie lavoravamo alla cucina. Un giorno a Malga Lora, sopra Valdagno, stavo preparando da mangiare e lui era lì che studiava, allora gli ho detto: Piero, sempre con quei libri, stùdito da Papa? Dame na man coe patate”. Allora ha messo giù i libri e mi ha dato una mano a pelare le patate”.

Non è un periodo facile, per il paese, quello in cui il giovane Parolin inizia il suo cammino da sacerdote. Quando, il 27 aprile del 1980 viene ordinato prete in Cattedrale a Vicenza dal vescovo Arnoldo Onisto, sono trascorsi soltanto due mesi e mezzo dall’assassinio, all’università di Roma, di Vittorio Bachelet, vicepresidente del Csm, da parte di un commando delle Brigate rosse, e appena un mese dall’assassinio, all’università di Milano, del giudice Guido Galli da parte dei terroristi di Prima Linea. E poco più avanti, a fine maggio, sarà il vicedirettore del Corriere della Sera Walter Tobagi a cadere sotto casa ucciso da un altro commando terroristico. Sono i colpi di coda degli anni di piombo, un’atmosfera grigia che sarà appesantita ulteriormente, a fine giugno, dalla strage di Ustica, e soprattutto, il 2 agosto, dalla strage di Bologna. In questo 1980 per molti versi da tregenda si inserisce dunque questo piccolo fatto che fa notizia soltanto nella parrocchia di SS.Trinità di Schio: comincia la missione pastorale di questo venticinquenne dallo sguardo dolce e dal carattere pacato.

La prima messa celebrata dal futuro cardinale è quella di domenica 11 maggio. Un evento, per la vita della comunità di SS.Trinità, una messa che non fatica a riempire lo spazio dello stanzone provvisorio adibito a chiesa.

A Roma e nel mondo

Ma il giovane don Parolin non poteva fermarsi a Schio. Già in seminario qualcuno in alto, a cominciare dal vescovo Onisto, si era accorto del suo potenziale. Così, nell’82 arriva la chiamata a Roma, destinazione Pontificia università gregoriana, dove la giovane promessa si laurea in diritto canonico.

Nell’86 viene avviato al servizio diplomatico e da lì iniziano gli incarichi all’estero, nelle rappresentanze pontificie in Nigeria e in Messico. Dal 2002 al 2009 è Sottosegretario per i rapporti con gli Stati, di fatto un incarico da “numero tre” della gerarchia

Copertina

vaticana. È in quel periodo che Parolin ha modo di conoscere Jorge Bergoglio e di farsi apprezzare: a un certo punto, infatti, viene mandato a Buenos Aires per supportare il futuro Papa nei rapporti non facili con il potere centrale argentino. Il 12 settembre 2009 Parolin è nominato arcivescovo da Benedetto XVI e gli viene affidata la nunziatura apostolica in Venezuela. C’è chi tuttora considera questo passaggio una sorta di “promoveatur ut amoveatur”, ovvero una promozione che l’allora segretario di Stato Bertone avrebbe favorito per allontanare Parolin dal Vaticano. L’incarico a Caracas in effetti è di quelli tosti, in anni nei quali il paese era governato da uno come Hugo Chavez.

“Quando è andato in Venezuela il suo rammarico è stato quello di aver dovuto lasciare il lavoro avviato con la Cina, i cui frutti si sono visti poi con il dialogo intrapreso da papa Bergoglio – sottolinea Beppe Bevilacqua -. Parolin è stato fondamentale in questo già prima di diventare segretario di Stato. È uno che lavora con la massima discrezione e abilità diplomatica, la sua caratteristica è quella”.

Ne convenne anche Jorge Bergoglio, il quale, diventato Papa, si ricorda del vescovo vicentino chiamandolo alla segreteria di Stato, con sorpresa di Parolin che non si aspettava un di ricevere un incarico del genere. L’assunzione del nuovo ruolo, il 15 ottobre 2013, precede di pochi mesi la nomina a cardinale, datata febbraio ’14. Da quel 27 aprile 1980 a oggi, dunque, sono trascorsi 45 anni esatti. Da quello stanzone rettangolare adibito a chiesa dove ha celebrato la sua prima messa, don Piero è passato alle stanze del Vaticano e alla basilica più importante della cristianità. Perché ci aveva visto lontano, il vescovo Onisto, quando prelevò il giovane Parolin dalla parrocchia di SS.Trinità per mandarlo a formarsi a Roma. Quel “don Piero” era una risorsa da non perdere di vista. Una risorsa arrivata a un passo dal soglio pontificio. ◆

Foto di gruppo, con Parolin al centro, davanti al monumento a Bakhita
Un giovane Parolin a un campo scout a Malga Lora pela le patate insieme all’amico Gianni Bevilacqua

CCopertina

i eravamo arrivati vicini: il cardinale Parolin sembrava proprio potesse essere il nuovo Papa. Era già successo, in realtà, che un cardinale con un forte legame con Schio fosse sul punto di diventare Papa. Nel 1939, in un difficile conclave alle porte della seconda guerra mondiale, Elia Dalla Costa era stato tra i papabili più quotati ai primi scrutini. Nato il 14 maggio 1872 a Villaverla, sin da giovane aveva mostrato una vocazione profonda che lo aveva portato al sacerdozio nel 1895, dopo gli studi nel seminario di Vicenza.

Secondo le testimonianze dell’epoca, Dalla Costa era un uomo austero, riservato ma profondamente umano: aveva iniziato il proprio ministero prima come vicario e poi come parroco, ricoprendo anche il ruolo di insegnante. A Schio, dove fu arciprete per diversi anni, arrivò nel 1910 e vi rimase fino 1923: estremamente attento ai bisogni dei più poveri, conduceva una vita frugale e in breve tempo si guadagnò il rispetto e l’affetto degli scledensi.

In quegli anni servì come cappellano militare sul fronte dell’altopiano di Asiago durante il primo conflitto mondiale. L’esperienza della guerra lo segnò profondamente: il contatto quotidiano con la sofferenza umana e la precarietà della vita lo rafforzarono nella sua fede e nel desiderio di essere un pastore vicino ai più fragili. Anche dopo la guerra, il suo legame con Schio rimase vivo. La città lo considerò sempre come una guida spirituale e fu lui per primo a mantenere forti relazioni con la comunità e con molti fedeli.

Nel 1923 fu nominato vescovo di Padova da Papa Pio XI e nel 1931 lo stesso Papa lo promosse arcivescovo di Firenze. L’anno successivo fu nominato cardinale.

A Firenze Dalla Costa si distinse per il rigore evangelico, l’opposizione silenziosa ma ferma al fascismo e l’impegno per il rinnovamento spirituale del clero e dei laici. Rifiutò ogni compromesso con il potere, mantenendo sempre un profilo sobrio e corretto.

Fu proprio questo profilo, insieme alla sua statura morale, a far emergere il suo nome tra i possibili candidati al soglio pontificio nel conclave del 1939, convocato dopo la morte di Pio XI. Quel conclave si svolgeva in un momento molto critico per l’Europa: la Germania nazista sembrava imbattibile, l’Italia era stretta nella morsa del fascismo

Nel ’39 fu la volta di Elia Dalla Costa

Pietro Parolin è il secondo alto prelato vissuto e cresciuto ecclesiasticamente a Schio a essere andato molto vicino a diventare Papa. L’altro precedente è quello del 1939, quando il card. Elia Dalla Costa fu poi superato dal card. Pacelli.

e il mondo si avviava verso un nuovo conflitto mondiale. Un contesto ben differente da quello odierno, ma con alcuni elementi di continuità – l’affermazione dei sovranismi, il crescente disprezzo per le democrazie liberali, il timore per il diverso – che rendono singolare la coincidenza che due cardinali così legati a Schio si siano trovati ad essere votati in conclave in epoche così lontane ma al tempo stesso così vicine. Allora i cardinali cercavano un pontefice capace di guidare la Chiesa con fermezza e saggezza politica e il nome di Elia Dalla Costa emerse con forza nei primi scrutini. Tuttavia la sua scarsa esperienza diplomatica e la sua estraneità agli ambienti vaticani frenarono i consensi. Alla fine venne eletto il cardinale Eugenio Pacelli, Segretario di Stato, che assunse il nome di Pio XII. Dopo l’esperienza del conclave, durante la Seconda guerra mondiale Dalla Costa coor-

Ladri di fiori

Certo, i fiori per il decoro urbano sono proprio belli. Però è il caso di non sradicarli dalle aiuole pubbliche, e nemmeno dai vasi posti lungo il ponte sul Leogra. Questa appropriazione indebita è chiaramente visibile proprio nei vasi posti sulle ringhiere del ponte. Possibile che non si abbiano quattro palanche per i pansé? Cari ladri di fiori, apprezziamo il vostro animo gentile, sappiate però che state commettendo un furto, ve lo dice a chiare lettere anche il Comune. [M.D.Z.]

dinò una rete di conventi, parrocchie e case private che offrirono rifugio agli ebrei perseguitati, in collaborazione con personalità come Giorgio La Pira. Non esitò a firmare lettere false di identità, a usare la Curia come centro operativo e a mettere a rischio la propria vita. Per queste azioni, nel 2012 è stato riconosciuto “Giusto tra le Nazioni” dallo Yad Vashem di Gerusalemme. Morì a Firenze il 22 dicembre 1961. La sua causa di beatificazione è stata aperta nel 1981 e nel 2017 papa Francesco lo ha proclamato “Venerabile”, riconoscendo l’eroicità delle sue virtù. Oggi il suo ricordo a Schio è ancora molto vivo, grazie soprattutto all’operato del Centro di Cultura che porta il suo nome. Dalla Costa, pur non diventando papa, ha lasciato un’impronta duratura: quella di un cristiano autentico, capace di incarnare il Vangelo con coraggio e passione. ◆

Attualità

na missione… di famiglia, nella terra del nuovo papa Leone XIV. Quanti, almeno tra le giovani coppie, non hanno mai sentito il desiderio, una volta nella vita, di mollare tutto e prendersi una lunga vacanza, con il proprio partner, dall’altra parte del mondo? Il viaggio di cui raccontiamo oggi, però, non è dedicato al relax, o alla “ricerca di sé stessi”, ma al lavoro, al sacrificio volontario e al servizio del prossimo in un’area tra le più povere e disagiate del pianeta.

In questi tempi di individualismo e valori effimeri questo sarebbe già abbastanza per apprezzare la scelta coraggiosa di Francesco Rigon ed Elisabetta Salin, sposi trentenni, residenti a Magrè, volontari per Operazione Mato Grosso. Ma farlo con tre bambine - Cristina, Lucia e Anita, rispettivamente di 8, 4 e 2 anni - la rende più unica che rara. Abbiamo chiesto loro di parlarcene poco prima della loro partenza per Totora, nel sud del Perù, dove è previsto si trovino già mentre questo giornale va in stampa.

Una scelta di vita

«Siamo entrambi attivi nell’OMG, mia moglie dall’età di 17 anni e io dai 22 - racconta Francesco - e si può dire che la scelta di donare il nostro tempo, il nostro impegno e una parte della nostra vita per gli altri sia una scelta che facciamo ogni giorno». Una scelta di vita che li aveva già portati in passato a trascorrere un anno in missione in Sudamerica, non lontani dalla località dove faranno base nei prossimi mesi. «È stata un’esperienza che ci aveva arricchito e fatto crescere come famiglia e avevamo sempre considerato la possibilità di ripeterla».

L’occasione è arrivata tramite la conoscenza con padre Andrea Dentelli, missionario di origine trevigiane, anch’egli cresciuto tra le fila dell’OMG, la cui scelta di vita è stata quella di vivere la sua vocazione dedicandosi anima e corpo agli “ulti-

La famiglia Rigon-Salin al completo. Sotto, il tragitto dalla capitale del Perù al paese dove si trova la famiglia scledense

Una famiglia tra i poveri del Perù

Francesco Rigon ed Elisabetta Salin, sposi trentenni residenti a Magrè e volontari per Operazione Mato Grosso, sono partiti in questi giorni – con le tre piccole figlie di 8, 4 e 2 anni – per vivere un’esperienza di missione tra popolazioni povere del Perù dedite ancora a un’agricoltura di sussistenza.

mi” del mondo. «Conoscendo don Andrea e sostenendo da qui la sua attività, con altri nostri amici volontari che sono partiti per aiutarlo, si è creato fra noi un legame. E quando ci ha detto che nei prossimi mesi si sarebbe trovato a corto di persone per portare avanti tutte le sue attività, abbiamo capito che era arrivato il momento di ripartire».

Il primo pensiero corre alle tre piccole di casa, che si troveranno catapultate in una realtà completamente diversa da quella cui sono abituate, non priva di qualche rischio. «Naturalmente ci abbiamo riflettuto. Sapere che il primo ospedale si trova a 12 ore di distanza può far paura, ma… conosciamo la realtà in cui opereremo e riteniamo che il bene che questa esperienza può fare loro giustifichi la nostra scelta. Da quando sono diventato papà ho capito che un genitore ha pochi anni per trasmettere certi insegnamenti e seminare certi valori, inoltre il vedere con i propri occhi quelle realtà di povertà e semplicità è un’esperienza che può dare molto alla crescita di una persona».

Le bambine, ciascuna secondo la propria età, sono tutte e tre coinvolte ed entusiaste di quella che si stanno preparando a vivere come una grande avventura.

Fuori dallo spazio e dal tempo

La méta del viaggio di Francesco ed Elisabetta, che sarà casa loro per i prossimi sei mesi, è il villaggio di Totora, situato a un’altitudine di 3500 metri circa, nella regione dell’Apurimac. Un luogo perduto nello spazio e nel tempo: per raggiungerlo sono necessarie dodici ore di jeep dalla città di Cuzco, per lo più lungo strade sterrate che si snodano tra le vette andine. Lì gli abitanti, discendenti degli Inca, parlano ancora la loro lingua nativa, il Quechua, e sono dediti a un’agricoltura di sussistenza con tecniche non molto diverse da quelle dei loro antenati.

Le condizioni geografiche e climatiche, la frammentazione e l’isolamento degli insediamenti, l’assenza di infrastrutture e di possibilità di lavoro, rendono questa una delle aree più povere del Perù, dove la malnutrizione e le malattie dovute all’assenza di mezzi e di assistenza sanitaria sono una realtà diffusa. Le prime vittime sono le fasce più deboli della popolazione: i bambini, gli anziani e gli ammalati, che quando non hanno nessun familiare o vicino a prendersi cura di loro rimangono isolati e privi di sussistenza.

→ segue a pag. 10

Attualità

Don Andrea Dentelli è parroco di Totora dal 2005, dove ha realizzato e gestisce con l’aiuto di volontari italiani e collaboratori locali (e con l’insostituibile aiuto dell’Operazione Mato Grosso) strutture formative e assistenziali. C’è un oratorio dove i ragazzini possono giocare e socializzare, una casa per orfani o per i bambini che non trovano nelle loro famiglie sufficiente sostentamento, un ambulatorio, che rappresenta l’unico presidio sanitario del territorio, una scuola professionale e una cooperativa di lavoro. Vengono inoltre distribuiti viveri raccolti in Italia e offerti aiuti materiali di ogni tipo.

«Noi vivremo nella casa parrocchiale con don Andrea - spiega Francesco - e proveremo a inserire le nostre bambine nelle scuole del posto. Mia moglie è infermiera e si occuperà di coloro che arrivano, magari dopo aver affrontato un cammino di ore e ore a piedi, per ottenere assistenza sanitaria, oppure seguirà il parroco nelle sue visite domiciliari agli anziani e ai malati. Io invece, che lavoro in una ditta come ingegnere meccanico, seguirò la scuola professionale e aiuterò nella cooperativa di lavoro. Inoltre entrambi presteremo servizio il sabato e la domenica in oratorio».

L’oratorio dove i bambini dopo la messa possono giocare e socializzare è uno dei tratti caratteristici dei presìdi dell’OMG.

«Non a caso il fondatore dell’associazione era un salesiano», sottolinea Francesco. Tuttavia fra quei passi andini oggi spira anche un’aria… petrina. Il vescovo della diocesi presso la quale è incardinato don Andrea, infatti, è stato molto vicino all’allora cardinale Prevost - oggi Leone XIVdurante i suoi lunghi anni di missione in Perù e anche il parroco veneto aveva avuto modo di conoscerne la figura ben prima che fosse chiamato al soglio pontificio.

Dedicarsi al prossimo

L’Operazione Mato Grosso è un movimento di volontariato gratuito di ispirazione cattolica nato nel 1967 che svolge molte attività caritative ed educative in America Latina. Oggi conta circa 100 missioni tra Brasile, Ecuador, Bolivia e Perù, con circa 500 volontari impegnati sul posto, e oltre 200 gruppi in Italia formati da giovani che vogliono regalare il proprio tempo a favore dei poveri, tra cui quello scledense è storicamente molto vivace e attivo, realizzando sia campagne di raccolta viveri sia lavori di autofinanziamento (sgomberi, giardinaggio, imbiancature…) il cui ricavato è inte-

A Santorso anziani in forma

I corsi “Cocoon” e “Easy Welfare” avviati dal Comune orsiano con la Polisportiva locale stanno avendo grande successo.

ASantorso si tengono da qualche anno dei corsi di ginnastica per anziani, anche su sedia, che puntano a mantenere in forma questa fascia di età. Il Comune li ha promossi partendo poco prima della pandemia e riprendendoli appena è stato possibile. Ora “Cocoon” e “Easy Welfare” vanno alla grande.

“Ho creduto fin dall’inizio nell’idea di un’insegnante specializzata che ci ha proposto delle attività per tenere attive le persone anziane – dice Elena Zavagnin, vicesindaco e assessore all’istruzione, allo sport e alle associazioni -. La nostra Polisportiva, a cui in un secondo momento abbiamo affidato i corsi, oltre a organizzarne per adulti

e bambini, si è in questi anni specializzata proprio in quelli per anziani, e otteniamo finanziamenti regionali per promuoverli. Sono veramente alti i numeri delle persone della terza età che fanno ginnastica a Santorso; c’è chi arriva pure dai comuni limitrofi, soprattutto da Schio e da Piovene”. Per otto mesi di attività motoria nella palestra comunale, da ottobre a maggio per due ore a settimana, si pagano 250 euro, grazie a un accordo fra il Comune e la Polisportiva; attualmente i corsi sono sei, tre di ginnastica in piedi e tre su sedia, per un totale di 120 anziani iscritti. In un paese di 5.600 abitanti, il numero è un vero successo. Gli obiettivi ottenuti riguardano il miglio -

La comunità in cui operano come volontari i coniugi Rigon-Salin

ramente devoluto alle missioni, senza intermediari.

Com’è nello stile dell’OMG Francesco ed Elisabetta non partiranno “a mani vuote”. Oltre ai bagagli porteranno con sé anche i viveri donati in occasione di una raccolta porta-a-porta organizzata nelle scorse settimane a Magrè con l’aiuto dei giovani della parrocchia e i fondi raccolti in una cena organizzata a Palazzo Boschetti, cui hanno partecipato tanti amici e sostenitori dell’associazione.

Francesco è anche “figlio d’arte” in quanto i suoi genitori, Federico e Giovanna, vivono già in Sudamerica da 25 anni avendo scelto di dedicarsi totalmente all’attività missionaria, sempre da volontari dell’OMG. Il giovane ingegnere ci tiene però a ricordare che la scelta presa con sua moglie non dovrebbe essere considerata un atto eccezionale o fuori dal comune: «Siamo persone normali, che credono che nella vita sia bello coltivare dei sogni. E visto che di vita ce n’è una sola tutti dovrebbero cercare di realizzarne almeno qualcuno. Tutti possono fare la differenza, basta solo iniziare a dedicare un po’ di tempo e di cura al prossimo». ◆

ramento della socializzazione, lo sviluppo della coordinazione, un costante e benefico lavoro articolare e muscolare; sono state stimolate la memoria e la concentrazione, si è rallentato il peggioramento di alcune patologie, migliorato la circolazione sanguigna e l’equilibrio. Considerato l’invecchiamento della popolazione, l’iniziativa si inserisce perfettamente nell’ottica del “prevenire è meglio che curare”: una popolazione anziana attiva è una risorsa, non un peso per la società. ◆ [M.D.Z.]

Attualità

“Gli alberi sono organismi viventi: crescono, si ammalano, invecchiano – dice il tecnico forestale Giovanni Dalle Molle -. Se una pianta diventa pericolosa per persone o cose, è dovere intervenire. Ma sempre e solo dopo una verifica tecnica da parte di professionisti qualificati».

egli ultimi mesi a Schio sono tornati sotto i riflettori gli abbattimenti di alberi in aree urbane. Dopo l’ultimo intervento, nella zona a parcheggio nel retro della stazione ferroviaria, le immagini delle ceppaie rimaste a terra hanno alimentato il dibattito tra residenti, ambientalisti e amministratori. A far discutere non è stato solo l’effetto visivo, ma anche il timore che simili operazioni avvengano senza un disegno preciso. Eppure, dietro a ogni taglio c’è un processo tecnico articolato, fatto di misurazioni, valutazioni diagnostiche e decisioni che tengono conto di sicurezza, contesto urbano e ciclo vitale della pianta.

A raccontarlo è Giovanni Dalle Molle, dottore forestale, che affianca il collega Giorgio Cocco, da tempo consulente del Comune di Schio, nelle verifiche condotte prima degli abbattimenti.

«Abbiamo effettuato rilievi strumentali utilizzando un dendrodensimetro – spiega -. Si tratta di uno strumento che misura la densità del legno, permettendo di individuare cavità o altri segnali di degrado interno che non sono visibili dall’esterno.

Quando l’albero va giù

I recenti abbattimenti di alberi a Magrè lungo la discesa verso il ponte, davanti al cimitero e in zona stazione dei treni hanno riacceso il dibattito sulla gestione del verde urbano. Ma cosa succede davvero prima che una pianta venga rimossa?

I risultati parlavano chiaro: molte delle paulonie presenti erano compromesse, sia a livello radicale che sulle chiome, dove presentavano notevoli criticità dovute a capitozza ture eseguite in passato. Piante cresciute rapidamente, in un ambiente difficile come quello di un’area in prossimità di un’ex massicciata ferroviaria che aveva provocato uno sviluppo superficiale delle radici».

La paulonia, albero di origine asiatica spesso impiegato in ambito urbano per la sua velocità di crescita e l’aspetto ornamentale, è una specie che tende a degenerare in tempi relativamente brevi se collocata in contesti sfavorevoli. Ed è proprio il contesto uno dei temi chiave sottolineati dal tecnico. «Tagliare una pianta non è un delitto – afferma Dalle Molle -. Viviamo in ambienti urbani fortemente antropizzati, dove la natura deve essere gestita. Gli alberi sono organismi viventi: crescono, si ammalano, invecchiano. Se una pianta diventa pericolosa per persone o cose, è dovere intervenire. Ma sempre e solo dopo una verifica tecnica da parte di professionisti qualificati». La sicurezza, infatti, è uno degli elementi imprescindibili. E nei luoghi dove le persone transitano o sostano – parcheggi, viali, marciapiedi – la soglia di rischio deve essere molto bassa. «Negli ambienti urbani

bisogna sempre considerare dove insiste la pianta – chiarisce Dalle Molle - Se si trova in un’area frequentata, e mostra segni di instabilità, non è possibile lasciarla lì solo perché è ancora verde in apparenza. È diverso, naturalmente, il caso dei parchi o dei boschi urbani, dove gli spazi sono più ampi e il margine di tolleranza differente». Secondo Dalle Molle, il cambiamento climatico è solo uno dei fattori in gioco: «La degenerazione delle piante in città è dovuta principalmente allo stress dell’ambiente urbano. Pensiamo ai sottoservizi – fognature, linee elettriche, tubature, cavi della fibra ottica – che vengono installati tagliando le radici. O al calpestio continuo del terreno, che ne compromette la struttura. Poi certo, negli ultimi anni si è aggiunta la nuova ordinarietà degli eventi estremi: bombe d’acqua, ondate di calore, siccità prolungate. È la somma di questi elementi che porta a una degenerazione più rapida degli alberi cittadini».

Per alcune specie, l’effetto dei cambiamenti climatici è più evidente. «Penso ai cedri, ad esempio – continua -. Soffrono l’innalzamento delle temperature e la scarsità progressiva di piogge. Sono alberi che in determinate condizioni possono vivere anche centinaia d’anni, ma non in città, e non con questi ritmi climatici».

Il grande esemplare di pauionia abbattuto nel piazzale sul retro della stazione ferroviaria
I “resti” di uno dei cipressi dell’Arizona tagliati davanti al cimitero di S.Croce

Proprio per questo, la scelta delle varietà da piantare oggi è fondamentale. Non si tratta solo di selezionare alberi belli da vedere, ma piante capaci di resistere nel tempo alle sollecitazioni dell’ambiente urbano. «Ci sono specie più adatte – suggerisce Dalle Molle -. Tigli e platani, per esempio, tollerano meglio lo stress cittadino e sono più longevi. Una buona pianificazione guarda al futuro, scegliendo alberi che possano convivere con la città di oggi, ma anche con quella di domani».

A Schio, precisa il tecnico, non si lavora a caso. «C’è una buona pianificazione della manutenzione – sottolinea -. Da circa 30

anni si lavora pianificando il verde, con un ufficio dedicato. Gli abbattimenti non avvengono mai in modo arbitrario. Ogni pianta viene valutata singolarmente, con rilievi strumentali, prove, osservazioni prolungate. Quando si arriva a tagliare, è perché non ci sono alternative».

Un altro elemento da considerare è il ciclo vitale della pianta. «Molti alberi urbani sono a rapido accrescimento – spiega -. Crescono in fretta, ma hanno una vita breve: 40 o 50 anni. Poi la struttura comincia a indebolirsi, si formano cavità, marciumi. È naturale».

Gli alberi, insomma, conclude Dalle Mol-

Come appare la “discesa del Molo” che dallo stadio di calcio porta al ponte di Magrè dopo la piantumazione del nuovo filare di giovani alberelli in sostituzione delle piante abbattute nei mesi scorsi

Adesso gli interventi sono spiegati meglio

Da qualche tempo sembra che qualcosa sia cambiato (in positivo) nella comunicazione degli interventi di abbattimento di alberature da parte del Comune. Adesso i tagli vengono spiegati e motivati con maggior attenzione.

AStefano Tomasoni

lberi che vanno, alber(elli) che arrivano. Negli ultimi tempi si sono registrati in città tre casi di tagli di alberature che non potevano rimanere inosservati. Il primo, ormai qualche mese fa, è stato il taglio (in tempi diversi) del doppio filare di alberi a Magrè lungo la discesa dell’ex “parco della nave”, ora più noto come Molo 531. In quell’occasione avevamo scritto su queste colonne che ci pareva che un taglio così importante (circa 30 alberi lungo una passeggiata molto frequentata) non fosse stato comunicato da chi di dovere con spiegazioni adeguate. Bisogna dire che da allora – non per merito

nostro, intendiamoci, ma per una qualche coincidenza temporale - sembra che qualcosa sia cambiato in meglio nella comunicazione di questi interventi da parte del Comune. Intanto, il filare della discesa del Molo è stato ripristinato, anche se “a futura memoria”, visto che è stato piantato un filarino di alberelli che sarà in grado di prendere davvero il posto delle piante tagliate fra non meno di una ventina d’anni. Ma il punto è un altro, ovvero che ci pare di notare che finalmente si sia iniziato a informare con spiegazioni più circostanziate e trasparenti, quando vengono programmati interventi di impatto sul verde cittadino. È successo con i 9 cipressi dell’Arizona tagliati davanti al cimitero di S.Croce. Prima

Attualità

le, non devono essere visti come presenze eterne. «Ci affezioniamo a loro, certo. Ma sono esseri viventi: nascono, si sviluppano, e a un certo punto devono essere sostituiti. E la loro sostituzione è fondamentale, perché quando si abbatte una pianta non deve rimanere un vuoto. Il nostro compito è accompagnarli nel loro percorso, monitorarli con strumenti adeguati e intervenire quando necessario. Dietro ogni abbattimento c’è una scelta tecnica». ◆

di procedere, il Comune è uscito con un comunicato in cui ha spiegato il problema: “La decisione è stata presa a seguito dell’accertamento di problematiche fitopatologiche all’apparato radicale di uno degli alberi, che ha portato alla caduta di quest’ultimo. Purtroppo, ci sono elevate probabilità che il patogeno si sia esteso anche agli altri alberi, considerando che nel lontano passato furono piantati molto vicini l’uno all’altro. Per garantire la salute del nostro patrimonio arboreo e la sicurezza della comunità, è fondamentale intervenire tempestivamente”. Il comunicato si è poi chiuso spiegando che chi voleva ulteriori spiegazioni poteva contattare il Servizio Ambiente. È successo poi una seconda volta con l’abbattimento di altri alberi non di poco conto nel parcheggio sterrato nel retro della stazione. In questo caso un comunicato comunale ha spiegato che si era “verificata la caduta di un albero di Paulonia nel parcheggio di via Milano”, che “le verifiche effettuate hanno evidenziato che, sebbene il tronco dell’albero fosse sano, l’apparato radicale presentava marciumi diffusi, causa dello sradicamento improvviso”, e che “alla luce di queste valutazioni, a tutela della pubblica incolumità, si è iniziato con l’abbattimento degli altri alberi che condividevano lo stesso apparato radicale, anch’essi ritenuti a rischio caduta”. Infine, si è spiegato che “è già previsto l’impianto di nuovi alberi nel parcheggio di via Milano, con l’obiettivo di garantire sicurezza, valorizzazione ambientale dell’area e limitare l’effetto “isola di calore”. Un cambio di passo comunicativo interessante. Perché se da un lato non si discute la necessità di abbattere determinati alberi (ne parliamo nell’articolo principale di questa pagina), dall’altro ci pare opportuno che in questi casi siano ben presentate all’esterno le motivazioni degli interventi. Visto che avevamo criticato quanto successo in precedenza, è giusto prendere atto della novità, confidando che diventi strutturale. ◆

Il prof. Michele Di Cintio (secondo da sinistra) alla recente conferenza sull’intercultura svoltasi a Rabat, in Marocco

PAttualità

er far luce sulla complessità del conflitto russo-ucraino il prof. Michele Di Cintio ha pubblicato con la casa editrice Ex Libris “Russia e Ucraina – una storia complessa”: opera rigorosa, scritta con l’intento di fornire un quadro sintetico e chiaro della genesi e dello sviluppo di due realtà che non ci sono mai state tanto vicine. Nel testo, dove la storia delle due nazioni è raccontata nei particolari con dettagliate ricostruzioni e notizie curiose, viene dimostrato che alcune interpretazioni che riconoscono l’Ucraina dipendente dalla Russia sono un falso storico; Di Cintio raggiunge così l’obiettivo, precipuo in tutti i suoi testi, di far emergere storie da troppo tempo negate, di dar voce a popoli i cui diritti sono stati misconosciuti e violati per secoli. Già docente di storia e filosofia, preside di liceo e ispettore ministeriale, Di Cintio ha insegnato didattica della storia per la SISS del Veneto e didattica interculturale della storia all’Università di Padova, per i master di studi interculturali. Premiato dal Parlamento Europeo, oggi presiede il CIRFDI (Centro Internazionale di Ricerca e Formazione per il Dialogo Interculturale), la sezione vicentina della Società Filosofi-

Di Cintio lancia il Parlamento mondiale della gioventù

L’ex ispettore ministeriale è al lavoro per favorire la nascita di un organismo internazionale rivolto alle nuove generazioni, per promuovere un mondo con al centro l’essere umano.

ca Italiana e l’accademia di studi filosofici “Areté”; è autore di oltre quaranta volumi, di numerosi saggi e articoli.

Con l’appoggio della Regione Sicilia incontrerà a fine anno i giovani del PES (Parlamento Europeo degli Studenti) nel ventesimo dell’istituzione, gettando le basi per un’iniziativa simile anche in Africa, dove

VISTO DAL CASTELLO / 23

di recente, all’università di Rabat, ha tenuto un’importante conferenza sull’intercultura. Ha una grande ambizione, da ex docente che ha sempre creduto nei giovani e nel valore dell’insegnamento della Storia: arrivare alla costituzione di un parlamento mondiale della gioventù, che promuova finalmente un mondo con al centro l’essere umano. ◆

Lettera di un ciclista incattivito

Se tu dici “Bianco” io dico subito “Nero”. No neanche per cattiveria, ma per dire una cosa diversa da te. E se qualcuno mi dice: “Ninte ‘ndare sul marciapiede in bicicletta”, io sono svelto a saltar su e risigare i pedoni, che ogni volta prendono spavento. I pedoni prendono paura per niente: prova tu a correre più forte che puoi come a voler centrarne uno e all’ultimo momento schìncalo: vedrai che spavento che prende. Che rìdere! Attento solo a non centrarlo per da bon, se no dopo arrivano i caranba e non finiscono più di far domande. E poi le cose che dici vogliono scriverle con quella lingua caranbesca. Se il pedone è un vecchio, c’è da rìdere il doppio se non il triplo.

Se hai un monopattino come me, meglio: i pedoni prendono ancora più paura. A

me capita spesso di andare in via Mazzini contromano, col monopattino e facendo anche sèsti da mato e di andar fori di slancio al Corobbo, senza poter vedere se magari arriva una macchina da via Baratto. Rischi la vita, ma ti godi. Una volta un vecchio mi ha gridato “Ciò inbessile, vuto coparte e coparme anca mi?” Sono smontato dal monopattino e gli ho gridato: “Ciò, vecchio rimbabito, vuto ca te spaca el muso?” Che strà da rìdare: il vecchio non ha più detto niente, ha girato i tacchi ed è andato via. Se avesse avuto le gambe bone si sarebbe messo a correre. “Se te trovo ‘n’altra volta su la me pista, te vegno dosso” gli ho gridato.

A me piace anche andare in bicicletta nei giorni di mercato: passare in mezzo ai banchi e sbuzare la folla. “No te pui mia smontare, diobon? Bisogna ca te passi montà?” mi dice qualcuno da incazzato. Mi tocca

andar via a serpentina e così faccio fatica a stare in equilibrio e mi vengono i nervi. Se qualcuno mi dice ancora qualche cosa, giuro che gli vado dosso e lo rovino. Cosa farò in futuro? Qualcosa di grande. Andare in bicicletta sulla balaustra di S. Piero, sù alto che vedano tutti e, arrivato in fondo, con un colpo di reni riuscire a girarmi senza smontare (al volo) e tacare un’altra volta a andare nella direzione contraria. Perché io sono un candalosti: mi piace fare le cose più roverse che drite. E se mi mandano i caramba per tirarmi giù, meglio, così poi verrò fuori non solo sui giornali, ma anche nella TV e sui social.

Potrebbe capitarmi di cascare e di sfracellarmi sulla piazza sotto, ma se non casco, mi godo. E se qualcuno viene a dirmi qualcosa, gli sputo dosso.

Mi firmo

Il Facciadasberle

Mariano Castello

Attualità

Luciano Gaggia, Alberto Castaman e Marco Cappello hanno presentato la cover in salsa veneta del brano “Roma-Bangkok, un vero e proprio inno nel quale i tre descrivono l’attaccamento e l’orgoglio per la propria terra.

I “Leoni Veneti” hanno lanciato la hit “Veneto xe stupendo”, una cover del brano “Roma-Bangkok”, lanciato da Baby K con la collaborazione di Giusy Ferreri, che il

Detto tra noi

La hit del Veneto by Gaggia

I “Leoni Veneti”, ovvero Luciano Gaggia, Alberto Castaman e Marco Cappello, hanno presentato la cover in salsa veneta del brano “RomaBangkok, una specie di inno.

dj Luciano Gaggia aveva ideato sette anni fa e che, su richiesta del presidente della Regione Luca Zaia, è stato reinterpretato in musica e video come un vero e proprio inno.

“Veneto xe stupendo, Veneto fino in fondo, Veneto xe il me mondo, lontano neanche un secondo”, è l’inizio di un testo che descrive l’attaccamento e l’orgoglio per la propria terra.

I “Leoni Veneti” sono Luciano Gaggia, Alberto Castaman e Marco Cappello. “Ho avuto questa idea ascoltando una vecchia canzone dell’Anonima Magnagati, che parla a sua volta delle città del Veneto. Ho voluto realizzare una hit da discoteca con le nostre province. Ho chiamato Marco Cappello che ha scritto il testo e Alberto Castaman che ha composto la musica, poi abbiamo lanciato la cover.

L’anno scorso, quando al Vinitaly ho presentato il mio libro ‘Vinili Veneto’, che abbina 100 vini veneti a 100 curiosità musicali, avevo inserito ‘Veneto xe stupendo’. Il presidente della Regione Luca Zaia l’ha voluta far sentire ed è piaciuta moltissimo, mi ha detto ‘Luciano, questo è un inno per il Veneto’. Quindi abbiamo sistemato la cover, risuonata, depositata in Siae, siamo usciti con la Warner Records, abbiamo fatto il video e lo abbiamo presentato al Vinitaly di quest’anno. Abbiamo raggiunto un milione di visualizzazioni in 8 giorni, è stato condiviso in tutte le province”.

E c’è anche una novità in arrivo: “A breve uscirà ‘Monte Berico Stratosferico’ – conclude Gaggia – , un vecchio ricordo che verrà rifatto completamente e dedicato alla provincia di Vicenza e ai vicentini”. ◆

Per inviare lettere e contributi a SchioMese, scrivere a: schiothienemese@gmail.com

Si prega di inviare i testi soltanto via posta elettronica e di contenere la lunghezza: testi troppo lunghi non potranno essere pubblicati a prescindere dai contenuti.

Adesso sulla discesa del Molo 531 serve un guard-rail per mettere in sicurezza pedoni e ciclisti

Già prima de “Quegli alberi tagliati” (SchioMese n° 130 di febbraio), mi ero documentato con una serie di foto antecedenti e successive al “misfatto” (tale lo considero) del taglio del filare di alberi sopra l’ex “parco della Nave”, ora Molo 531. Tutte condivisibili naturalmente le considerazioni fatte dal direttore: anch’io mi sono chiesto se fossero veramente malate quelle belle alte piante dal fogliame fitto e rossastro pensando appunto che l’unica risposta al loro abbattimento in massa (tutte?!) dipendesse da una malattia tanto grave quanto misteriosa e invisibile. Infatti, nessuna foglia era gialla e/o appassita. Il filare era bello compatto e dava una certa amenità al vialetto sottostante, pista ciclopedonale, corredato da alcune panchine molto utilizzate da studenti, coppiette, da anziani che magari avevano bisogno de ciapar fia’ a metà salita, ma anche da mamme con passeggini, visto l’adiacente parco giochi. Non ho il pollice verde, tantomeno capisco i sintomi di una pianta malata. Certo che

quello rimasto a raso del terreno non sembrava essere il tronco di una pianta malata e comunque col pericolo che si spezzasse al soffiare del primo venticello. Ma tant’è! Io però, che percorro quotidianamente via Campo Sportivo, sono testimone del traffico che transita di lì: al mattino poi, dalle ore 7,30/7,45 fino alle ore 8 ca., la colonna di mezzi inizia all’altezza della BVR Banca fino al ponte sul Leogra e semaforo di viale Trento-Trieste. Ora questo serpentone di mezzi, compresi pullman di linea, transita a filo del pendio occupato prima dal filare delle piante tagliate. Mi sono preso la briga di misurare l’altezza del piccolo profilo in cemento che delimita a destra la carreggiata rispetto al piano strada: da zero a 12/15 centimetri max. Chiedo: nessuno si è preoccupato della pericolosità legata al fatto che a un minimo contatto, sbandata, distrazione o qualsivoglia incidente, un mezzo potrebbe facilmente superare quel minimo profilo e “ruzzolare” giù per il pendio piombando ora senza nessun altro ostacolo sul vialetto sottostante? Non

solo ma addirittura, viste le pendenze, passare al parco giochi e più giù finanche al Molo 531! Mi si contesterà che quel filare di piante tagliate non rappresentava una barriera insormontabile: giusto, ma avrebbe potuto frenare, imbrigliare, rallentare, insomma limitare almeno i possibili danni.

Vedrei l’immediata necessità di un guardrail, certo più impattante dal lato estetico; una staccionata sarebbe più indicata, ma forse insufficiente allo scopo. L’Amministrazione comunale si è attivata con la messa a dimora di nuove piante sia in sostituzione di quelle abbattute, sia di nuove poste all’altro lato della pista ciclopedonale. Certo è che, ai fini delle considerazioni di cui sopra, l’effetto barriera si avrà forse tra cinquant’anni. Sono convinto che una protezione più “solida” sarebbe opportuna e auspicabile, anche perché le pericolose manovre di certi utenti in quel tratto di discesa continuano, a rischio di chi vuole passeggiare o stazionare, per ora al sole, in attesa che madre natura, con i suoi tempi, provveda a rinvigorire i nuovi teneri virgulti appena piantumati. Ottorino Orizzonte

Luciano Gaggia, al centro, con Castaman e Castello

ASpettacoli

nche quest’anno il Sacrofest si presenta con un programma che definire di tutto rispetto è diminutivo. Arrivano Maurizio Artale e Nicolò Govoni (attivisti), Giancarlo Caselli (magistrato antimafia), Ron (cantautore), Fabio Baggio (cardinale, esperto in politiche migratorie), Gad Lerner (giornalista opinionista), Stefano Massini (autore e narratore), Rick Dufer e Carol Mag (musica e filosofia), Pé No Chao (gruppo di ballerini etnici), Giovanni Giusto (conoscitore della tradizione popolare veneta). Uno dei factotum dell’organizzazione, da sempre, è Alberto Vitella. Il Sacrofest ha varcato i confini del quartiere e della città, aumentando di anno in anno l’offerta. Il tutto viene gestito da volontari e da sponsor convinti. Quando si mette in moto la vostra macchina organizzativa?

“Partiamo più o meno a settembre e all’inizio è coinvolta circa una decina di persone: amici, più che un formale comitato promotore. Nei primi mesi il lavoro consiste nell’individuare idee, valutare proposte, ricercare e favorire contatti con i potenziali protagonisti, verificare le diverse ipotesi e disponibilità al fine di costruire un programma di eventi completo, stimolante e coinvolgente. Il lavoro operativo vero e proprio parte da marzo in poi. Siamo organizzati per ambito di intervento (pubblicità, logistica, cucina, chiosco bar, tecnici di teatro ecc.) e ci adoperiamo per arrivare a giugno il più preparati possibile. Lo svolgersi della manifestazione richiede l’impegno di più di un centinaio di persone, che gratuitamente mettono a disposizione il loro tempo e le loro capacità”.

Anche stavolta il calendario degli incontri è degno di una stagione culturale in piena regola. Che criteri utilizzate per la scelta dei protagonisti? Quali sono le idee-base?

“Fin dalla prima edizione il principale obiettivo del Sacrofest è stato ed è quello di riunire, come in un caleidoscopio, proposte diverse che sappiano suscitare emozioni e spunti

Un incontro dell’edizione dell’anno scorso al teatro Pasubio. Sotto, lo stand gastronomico che anima le serate del festival

Un altro Sacrofest tutto da vivere

Si avvicina la nuova edizione dell’atteso cartellone di spettacoli, attualità e cultura. “Non c’è un preciso e unico filo conduttore – spiega Alberto Vitella - ma c’è il desiderio di offrire occasioni di confronto, di riflessione, di spettacolo in un programma versatile, ricco di spessore culturale e sociale”.

di riflessione in un pubblico variegato e dalle differenti sensibilità. Volutamente non c’è un preciso e unico filo conduttore, ma c’è il desiderio di offrire occasioni di confronto, di riflessione, di spettacolo in un programma versatile, ricco di spessore culturale e sociale. Evidente che i desiderata, le aspirazioni e le scelte che poi si realizzano non possono prescindere dalla reale disponibilità degli auspicati protagonisti, e dalla fattibilità anche economica delle proposte”.

I vostri sponsor sono parecchi...

“Evviva gli sponsor! Non finiremo mai di dire il nostro grazie alla sensibilità, alla generosità, allo spirito di condivisione delle diverse persone, imprenditori e non, che ci supportano economicamente rendendo possibile il tutto. Mi piacerebbe, e sarebbe giusto, citarli uno per uno; naturalmente a tutti va la nostra riconoscenza, ma sono consapevole che per problemi di spazio devo citare solo i mainsponsor, che quest’anno sono HDR System, Rieco System, For Horses, Farmacia Pasubio e Ro-Bi. Collaborate con il Comune o con altri enti per l’organizzazione?

“Preziosa è da sempre la collaborazione con più realtà territoriali, in particolare con la parrocchia del Sacro Cuore, il Cineforum Alto Vicentino e, naturalmente, con l’amministrazione comunale di Schio, che

dà il suo patrocinio. Con diverse impiegate e addetti del Comune (ufficio cultura, magazzini comunali ecc.) negli anni si è consolidato un solido e proficuo rapporto di cooperazione. Per le ultime edizioni abbiamo partecipato al Bando Cultura della città, fruendo di un contributo che ci permette quest’anno di utilizzare gratuitamente il teatro Astra per una serata”. Ecco, veniamo agli spazi: concordiamo sul fatto che il “Pasubio” è il “vostro” teatro, ma certi appuntamenti meritano location come il Civico o l’Astra.

“Negli anni la nostra rassegna culturale è via via cresciuta e l’idea di trasformarla da festa di quartiere a evento di più ampio respiro è un obiettivo che perseguiamo da tempo e che, almeno in parte, ci sembra proprio di aver realizzato. In quest’ottica, da un paio d’anni, si inserisce la proposta di organizzare almeno uno spettacolo al di fuori del Teatro Pasubio, che ci ospita dagli inizi e a cui siamo legati. Quest’anno saremo nuovamente all’Astra in compagnia di Ron (uno dei più importanti e amati cantautori italiani, protagonista indiscusso della musica d’autore) e ci auguriamo quanto prima, forse già dalla prossima edizione, di poter incontrarci in un’altra struttura simbolo della nostra città, il Teatro Civico”. ◆

Tra buffoni all’inferno e streghe maledette

Due spettacoli, “Buffoni all’inferno” e “Strighe maledette!”, hanno chiuso

Schio Grande Teatro con un’autentica maratona dilatata nella notte, tra immagini, maschere e memorie antiche.

Con “La lunga notte dei Buffoni e delle Strighe” , Stivalaccio Teatro ha regalato al pubblico del Civico un’esperienza sospesa tra farsa e incubo, tra carnevale e catarsi. Due spettacoli, “Buffoni all’inferno” e “Strighe maledette!”, hanno chiuso Schio Grande Teatro con un’autentica maratona che si è dilatata nella notte, come un sabba di immagini, maschere e memorie antiche.

Nel primo lavoro, “Buffoni all’inferno”, gli interpreti hanno dato corpo e voce a tre spiriti dannati che Belzebù richiamava all’arte di far ridere. I loro lazzi, ben più che semplice intrattenimento, si son fatti specchio deformante della nostra condizione umana,

come nei migliori canovacci della Commedia dell’arte. Gli attori, impeccabili per ritmo e presenza scenica, hanno condotto il pubblico in un viaggio infernale che rievocava tanto il Decameron quanto le grottesche cerimonie dei Lupercalia romani. Fra stornelli demoniaci e pupazzi allucinati, la scena si è animata di una poesia sulfurea, in cui la risata diventava rito contro l’orrore.

La seconda pièce, “Strighe maledette!”, cambiava registro senza tradire la cifra della compagnia: le quattro attrici scolpivano figure di donne accusate, perseguitate, sopravvissute. Streghe, certo, ma anche madri, amanti, guaritrici. In una chiesa diventata luogo di confessione e resa, si snodava

Giovani da Italia, Serbia e Slovenia

per uno spettacolo sulla diversità

Con lo spettacolo “Delivery” si è chiusa la rassegna teatrale “Schio Tempo presente”.

Con “Delivery”, del Collettivo Elevator Bunker, la Fondazione Teatro Civico ha chiuso anche la stagione “Schio Tempo Presente”, portando in scena uno spettacolo realizzato nell’ambito dello scambio di giovani Erasmus+, cofinanziato dall’Unione Europea. Ideato e diretto da Matteo Maffesanti, “Delivery” vede in scena performer diversamente abili, in un allestimento per un numero limitato di spettatori sul palco.

È stata un’emozione, di quelle che uniscono musica, movimento, immagini, di quelle profonde; un viaggio per tutti i presenti a dimostrazione che la felicità è aspirazione e patrimonio comune, e che la fragilità può diventare un punto di forza.

Dal 4 al 14 maggio il nostro teatro storico ha accolto 25 ragazzi dai 18 ai 26 anni provenienti da Serbia, Slovenia e Italia, per riflettere insieme sulla diversità e su come gli spazi culturali possano essere luoghi accoglienti; “Delivery” ha coronato il per-

corso dimostrando che la felicità sta nelle relazioni, nei legami con la famiglia e con gli amici, nella libera espressione. Originale e toccante la narrazione coreografica, dove i performer si sono esibiti al meglio, invitando alla fine il pubblico in un ballo travolgente, all’insegna del “Don’t worry, be happy”, condiviso e liberatorio. Vogliamo ricordare qui anche il compleanno del Teatro Civico, che verrà festeggiato domenica 8 giugno con “Qualcosa da Amare”; sono in programma interviste per raccogliere testimonianze legate allo stesso teatro, un intervento di Dance Well con partecipazione del pubblico, una visita guidata per un massimo di 40 persone alle 18.30. Le attività saranno a offerta libera con prenotazione obbligatoria per le visite e le interviste. ◆ [M.D.Z.]

una veglia tragica e comica, dove la decisione finale su chi sarebbe dovuto bruciare diventava metafora universale di colpa e solidarietà femminile.

Marco Zoppello, regista di entrambi gli spettacoli, ha orchestrato il tutto con sapienza, mantenendo viva la tensione drammaturgica anche nelle ore più tarde, segno tangibile di uno spettacolo riuscito, che ha saputo essere popolare senza essere mai populista, poetico senza diventare lezioso.

Stivalaccio Teatro ha confermato la propria maestria nell’intrecciare parola e gesto, memoria e invenzione. Le maschere non nascondono, ma rivelano. E la notte, lunga e densa, diventa essa stessa teatro. ◆ [T.F.M.]

A fine aprile è mancata dopo lunga malattia l’artista Maria Chiara Toni, residente in città con il marito Vladimiro Elvieri dal 2021. Disegnatrice, incisora di fama internazionale, pittrice, era una tra le più significative e innovative artiste nell’ambito dell’incisione calcografica contemporanea. Con il coniuge condivideva la vita e il lavoro artistico, che per lei erano la stessa cosa: la loro ultima grande mostra risale allo scorso anno, in Serbia. Sperimentatrice instancabile, premiata più volte a livello nazionale e internazionale, nel 1999 con lo stesso Elvieri aveva fondato una biennale internazionale a Cremona, proseguita per ben dieci edizioni. Aveva fatto di Schio la sua città di adozione, proponendo una personale con il marito in più occasioni: purtroppo non se n’è fatto nulla, e spiace aver perso l’opportunità, colta comunque al volo dal capoluogo di provincia, dove al Museo Civico entrambi gli artisti sono presenti con una donazione. [M.D.Z.]

Addio a Chiara Toni

Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.