Il Libero Professionista Reloaded #38

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PRIMO PIANO

Dottor Jekyll e Mister Hyde

PROFESSIONI Pubblica amministrazione? No, grazie

RIVOLUZIONE Z

CULTURA Week end romano

PER LEGGERE L’ARTICOLO

(clicca sul titolo dell’articolo per accedere ai link)

La Gen Z si ribella di Alessia de Luca

Frattura generazionale di Claudio Plazzotta

Lavoro, la rivoluzione è iniziata di Nadia Anzani

In cerca di un progetto comune di Giuditta Bernardone

Manovra double face di Giovanni Francavilla Pnrr, conto alla rovescia per la revisione di Laura Ciccozzi

L’Europa davanti allo specchio dell’energia di Edoardo Somenzi

Pubblica amministrazione?

No, grazie

di Camilla Lombardi e Ludovica Zichichi

Notai über alles di Michaela Camilleri

Genitorialità, una sfida ancora aperta di Diana Larenza

Stressati dal lavoro di Isabella Colombo

Il miraggio della sicurezza alimentare di Andrea Sonnino

Banane made in Sicily di Matteo Durante

Verso un nuovo tipo di audit di Laura Bordoli

IA, il modello europeo e italiano di Massimiliano de Luca

Cartoline

Osaka di Maria Teresa Pasceri

Week end romano di Romina Villa

Stregati dal fantacalcio di Carlo Bertotti

Un dentista rock di Roberto Carminati

L’Editoriale di Marco Natali

News From Europe a cura del Desk europeo di ConfProfessioni

Pronto Fisco

di Lelio Cacciapaglia e Maurizio Tozzi

Welfare e dintorni

Recensioni di Luca Ciammarughi

In vetrina in collaborazione con BeProf

Post Scriptum di Giovanni Francavilla

Autore televisivo e produttore musicale. Ha lavorato per Rai, Mediaset, Endemol, firmando programmi come Stracult, Dritto e Rovescio, Fuori dal Coro, W l’Italia, X Style, #Hype, Domenica 5, Base Luna, Scalo 76. Ha anche collaborato con diverse case di produzione come autore di documentari storici. È membro del gruppo di musica elettronica Delta V e come autore e arrangiatore ha collaborato tra gli altri con Ornella Vanoni, Baustelle, Steve Hackett (Genesis), Mario Venuti, Angela Baraldi, Garbo. Da anni collabora con il Comune di Modena per il progetto artistico Sonda, nato per sostenere la creatività in ambito musicale e sviluppare il percorso di giovani artisti.

Dottore commercialista e Revisore Legale. Ministero dell’Economia e delle Finanze – Dipartimento Finanze – Area Reddito d’Impresa. Membro dell’Advisory Board Assoholding. Autore di numerosi libri in materia fiscale e articoli su riviste di settore. Relatore in eventi delle principali organizzazioni convegnistiche.

Laureata in Economia dei mercati e degli intermediari finanziari presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ha affinato le proprie competenze nei settori assicurativo, previdenziale e sanitario conseguendo il Master Universitario di II livello M.A.P.A. promosso dall’Università Liuc – Carlo Cattaneo e da Itinerari Previdenziali, con cui collabora dal 2015. In particolare, per il Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali si occupa dell’analisi dei sistemi di welfare pubblico e integrato del Paese, con particolare riferimento alle dinamiche giuridiche, socio-economiche e finanziarie dei sistemi di previdenza pubblica e complementare e al monitoraggio della gestione dei patrimoni degli investitori istituzionali italiani.

“La manovra di finanza pubblica interviene in un contesto in cui permangono forti elementi di incertezza. L’impegno del Governo, in questo scenario, è proseguire da un lato nell’azione di sostegno del potere di acquisto delle famiglie, delle imprese e per il sociale, dall’altro assicurare la sostenibilità della finanza pubblica. Essa è coerente con il percorso della spesa netta indicato nel Piano strutturale di bilancio di medio termine 2025-2029 e confermato nel Documento programmatico di finanza pubblica 2025”.

— Giancarlo Giorgetti, Ministro dell’Economia e delle Finanze

Giornalista professionista, responsabile della newsletter quotidiana ISPI Daily Focus e del Focus USA 2024 Dal 2005 al 2009 è stata corrispondente per il Medio Oriente e l'Africa settentrionale. Precedentemente ha lavorato per Skytg24 e ha collaborato anche con la RAI e Radio Vaticana.

Carlo Bertotti Lelio Cacciapaglia Alessia de Luca Michaela Camilleri

Ricercatore presso la Fondazione Eni Enrico Mattei (FEEM), all’interno del programma Technologies for Energy Transition, dove si occupa di analisi e sviluppo di soluzioni a supporto della decarbonizzazione e della trasformazione dei sistemi energetici. Parallelamente, svolge attività consulenziale nel settore energetico, collaborando con enti pubblici e privati a livello internazionale. La sua attività integra competenze economiche, ingegneristiche e strategiche, con l’obiettivo di contribuire alla definizione di politiche e modelli di business efficaci per una transizione energetica sostenibile e competitiva.

Presidente della Fidaf (Federazione italiana dottori in agraria e forestali); insegna Produzioni vegetali di qualità per il Corso di laurea in Scienze e culture enogastronomiche dell’Università Roma Tre. Ha lavorato presso l’Enea e la Fao, ha all’attivo oltre 150 pubblicazioni su riviste scientifiche internazionali e nazionali. È socio ordinario dell’Accademia dei Georgofili, socio corrispondente dell’Accademia nazionale di agricoltura.

Il Libero Professionista

Mensile digitale di informazione e cultura

direttore responsabile

Giovanni Francavilla

redazione

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hanno collaborato

Giuditta Bernardone, Carlo Bertotti, Laura Bordoli, Lelio Cacciapaglia, Michaela Camilleri, Roberto Carminati, Luca Ciammarughi, Laura Ciccozzi, Isabella Colombo, Alessia de Luca, Massimiliano de Luca, Matteo Durante, Diana Larenza, Camilla Lombardi, Maria Teresa Pasceri, Claudio Plazzotta, Edoardo Somenzi, Andrea Sonnino, Maurizio Tozzi, Romina Villa, Ludovica Zichichi

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Edoardo Somenzi Andrea Sonnino

Manovra, il test di credibilità con i professionisti

La manovra non si giudica dai titoli ma dalla capacità di dare continuità alla riforma fiscale, traducendo i principi in procedure chiare e tempi prevedibili. Per i professionisti il banco di prova è duplice: meno incertezza amministrativa, più convenienza a investire in organizzazione, tecnologia, persone. Il resto è rumore.

Primo: rapporto fisco-contribuente. Gli adempimenti restano farraginosi e l’incertezza del diritto erode fiducia e produttività. Servono calendario e regole stabili, niente proroghe dell’ultimo minuto né cambi di rotta a metà esercizio: è qui che si misura la distanza tra obiettivi della delega e decreti attuativi.

Secondo: dimensione degli studi. Il principio di neutralità nelle operazioni di aggregazione è un passo avanti, ma va completato eliminando storture che frenano la crescita, a partire dalla duplicazione del contributo integrativo in alcune Stp. Aggregarsi non è un vezzo lessicale: è la condizione per competere, integrare competenze, dotarsi di piattaforme digitali e servizi evoluti. Servono incentivi mirati agli investimenti realizzati dentro strutture aggregate, Stp e Sta in testa.

Terzo: parità ed equità fiscale. La riforma degli incentivi promette accesso uniforme tra imprese, autonomi e liberi professionisti; ora occorre mantenerla nei bandi,

premiando gli investimenti “pro-competenza” e non le etichette. Finché due redditi uguali pagano in modo diverso per forma giuridica, il sistema resta iniquo: l’equità orizzontale non è uno slogan, è architettura dell’imposta.

Quarto: previdenza. Le Casse non sono un residuo corporativo, ma investitori istituzionali che finanziano sviluppo, occupazione qualificata e welfare. Va attuato, senza ulteriori rinvii, il principio che elimina la doppia tassazione sui rendimenti, allineando il trattamento a quello degli altri investitori di lungo periodo. Servono regole stabili e trasparenti sugli investimenti, un perimetro chiaro per infrastrutture, innovazione e transizione energetica, evitando vincoli formali che penalizzano la gestione prudente. Parità di trattamento fiscale, chiarezza sugli utili reinvestiti e semplificazione degli adempimenti: così la previdenza dei professionisti diventa leva di crescita, non voce passiva del bilancio pubblico.

Infine, metodo: cooperative compliance sì, ma davvero inclusiva. L’Italia è fatta di Pmi e studi professionali; il modello deve essere semplice, accessibile, utile al tessuto produttivo, senza nuovi albi o registri che moltiplicano burocrazia e depotenziano il valore dell’iscrizione ordinistica. La compliance si rafforza con un’amministrazione che dialoga, semplifica, accompagna.

La manovra può essere l’anno zero di un patto credibile tra Stato e professioni. Bastano tre mosse più una: certezza delle regole, spinta alle aggregazioni, equità effettiva e previdenza come motore d’investimento.

Il resto seguirà per inerzia: produttività degli studi, qualità dei servizi, occupazione qualificata. È qui che si vede il coraggio riformatore. E qui che i professionisti sono pronti a fare la loro parte.

I fatti, le analisi e gli approfondimenti dell’attualità politica ed economica in Italia e in Europa. Con un occhio rivolto al mondo della libera professione

COVER STORY

LA GEN Z SI RIBELLA

Dal web alle piazze la rivolta dei giovani tra i 15 e i 25 anni scuote il Sud del mondo e non solo. Reclamano giustizia sociale, lavoro e dignità. Non hanno leader né bandiere. Il loro megafono sono i social network dove si condividono parole d’ordine e organizzano flash mob, si diffondono codici e simboli comuni. Un’onda d’urto che nasce da una frattura generazionale e rischia di trasformarsi in una frattura politica, travolgendo modelli e sistemi sociali

di Alessia de Luca

Dal Nord Africa al Sudest asiatico, dal Madagascar al Perù, un vento di ribellione percorre il Sud globale. È la Generazione Z — i nati tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila — a guidare un’ondata di proteste che attraversa continenti, travolge governi e reclama giustizia sociale, lavoro e dignità.

Senza leader né bandiere, questi giovani tra i 15 e i 25 anni usano lo smartphone come megafono e i social network come piazze virtuali. Su TikTok, Instagram, Discord o Telegram si condividono parole d’ordine, si organizzano flash mob, si diffondono codici e simboli comuni. Da Buenos Aires a Katmandu, da Lima a Manila, una generazione intera esprime l’urgenza di un cambiamento.

In Argentina, dopo l’ennesimo femminicidio, le strade si sono riempite di giovani donne; in Nepal e nelle Filippine la rabbia si è diretta contro la corruzione e la

paralisi delle élite. In India le proteste per l’autonomia del Ladakh hanno generato violenti scontri, mentre in Perù la frustrazione contro il governo di Dina Boluarte è sfociata in manifestazioni di massa. Persino in Europa si avvertono scosse di questo movimento globale: in Serbia migliaia di giovani scendono in piazza da mesi contro i nuovi piani di austerità.

Il fenomeno non poteva escludere l’Africa, il continente giovane per eccellenza: in Madagascar è notizia di queste ore che il presidente Andry Rajoelina sarebbe in fuga, dopo che una parte dell’esercito si è schierata con i manifestanti.

Non è chiaro come evolverà la situazione ma lo stesso capo di stato ha trasmesso su Facebook il suo appello alla popolazione: ha detto di voler mantenere la propria carica, e ha detto di essersi dovuto nascondere in un luogo sicuro perché la sua vita era a rischio. Al contrario, ad altre latitudini, le rivolte represse nel sangue hanno lasciato dietro di sé solo altra rabbia: è un’onda d’urto che nasce da una frattura generazionale e rischia di trasformarsi in una frattura politica, travolgendo modelli e sistemi sociali.

NESSUN ASCENSORE SOCIALE

Così, mentre i loro coetanei europei e americani esprimono la propria frustrazione abbracciando politiche e partiti sempre più radicali, la Generazione Z del Sud globale - che diventa maggiorenne in un contesto di crescenti disuguaglianze, incertezza economica, instabilità geopolitica e pressioni climatiche - si ribella contro un ordine percepito come ingiusto: leader anziani più attenti ai propri interessi che a quelli delle società che governano, corruzione diffusa, disoccupazione cronica e modelli di sviluppo che lasciano indietro i più giovani e i più poveri. Le opportunità che un tempo avevano permesso ai genitori di migliorare la propria

condizione sociale sono quasi svanite. E l’effetto domino che ne deriva rischia di trasformare la frattura generazionale in un vero e proprio spartiacque politico.

«Ciò che rende unica l’attuale ondata di mobilitazione giovanile è la convergenza di condizioni simili in contesti molto diversi», osserva Bilal Bassiouni, analista della società di consulenza Pangea-Risk. «I giovani si trovano a fronteggiare inflazione e crescita stagnante, mentre il potere resta concentrato nelle mani di élite che faticano a lasciare spazio al rinnovamento».

Un esempio emblematico è il Nepal, dove la rabbia dei manifestanti ha preso di mira i cosiddetti Nepo kids, i figli privilegiati dell’élite politica che ostentano il loro stile di vita online. La rivolta ha travolto il governo: il primo ministro e diversi funzionari si sono dimessi dopo giorni di scontri che hanno provocato oltre 70 morti e centinaia di feriti.

L’EVOLUZIONE DELLA PROTESTA

Simili per certi versi alle Primavere arabe che scossero i Paesi mediterranei a partire dal 2011, le nuove mobilitazioni condividono un tratto distintivo: l’assenza di leader riconosciuti o di portavoce.

È il riflesso di una sfiducia radicata nei confronti dei partiti tradizionali e dei sindacati, percepiti come parte del problema. Ma la protesta della Gen Z non è solo politica: è esistenziale. I giovani contestano un ordine economico che non offre prospettive, un sistema educativo incapace di garantire mobilità sociale, e istituzioni distanti o corrotte.

In Marocco, il movimento GenZ 212 ha portato in piazza studenti e laureati disoccupati che chiedono riforme nel sistema sanitario, educativo e giudiziario. Denunciano la scarsità di investimenti nei servizi di base mentre il governo destina miliardi alla costruzione di stadi e infra-

strutture in vista dei Mondiali di calcio del 2030. Le proteste, esplose dopo la morte di alcune donne durante parti d’urgenza, hanno messo in luce il collasso del sistema sanitario. La risposta dello Stato è stata dura: tre morti, centinaia di feriti e decine di arresti.

UN MALESSERE GLOBALE

Dall’Asia all’Africa, dal Medio Oriente all’America Latina, la mappa della rabbia giovanile si allarga come un contagio emotivo. La loro protesta non ha un’ideologia unitaria, ma una motivazione comune: chiedere spazio in un mondo costruito da altri. Il costo della vita, la corruzione e il nepotismo, il ricorso alla forza come unica risposta al dissenso sono temi persistenti.

L’ordine del presidente kenyano William Ruto alla polizia antisommossa di sparare alle gambe dei giovani manifestanti è forse il più spietato e incendiario, ma

tattiche simili sono state impiegate altrove. In Togo la repressione ha portato alla morte di un numero imprecisato di giovani. In Angola, 30 persone sono state uccise solo a luglio. Ciò che questi leader non capiscono è che i manifestanti non se ne andranno così facilmente.

Questo perché i giovani, attori chiave di queste manifestazioni, sono una percentuale dominante in molti paesi. In Madagascar, il 68% della popolazione ha meno di 30 anni. In Nepal, gli under 30 rappresentano il 56% della popolazione; l’Angola, dove a luglio almeno 30 persone sono rimaste uccise in una repressione brutale della polizia, ha un'età media di soli 16 anni.

E mentre i governi oscillano tra repressione e paternalismo, la Gen Z sembra aver trovato la propria voce — collettiva, fluida e globale — e non pare intenzionata a smettere di usarla. ■

9 settembre 2025. Kathmandu, Nepal. La protesta della Gen Z brucia il singha durbar e la protesta contro la corruzione dei giovani nepalesi

FRATTURA GENERAZIONALE

Fino a ieri stavano sdraiati sul divano a scrollare compulsivamente i social media. Oggi scendono in piazza a protestare. Per Gaza, per l’ambiente e per le questioni sociali. In Italia sono 8,6 milioni.

Nativi digitali, cresciuti nella precarietà, senza fiducia nelle istituzioni e senza lavoro. Chi sono e che cosa vogliono i ragazzi della Gen Z

di Claudio Plazzotta

Per descrivere la Gen Z italiana, ovvero i ragazzi tra i 13 e i 29 anni, prendiamo in prestito le freschissime osservazioni dello scrittore Alessandro Baricco, che ha chiesto di condividerle: «I giovani tra i 15 e i 25 anni: faceva strano vederli tirare fuori quelle bandiere palestinesi, d’improvviso usciti dal loro letargo politico. Voglio dire, erano ragazzi con cui era difficile parlare di Salvini, di Meloni, perfino di Trump. Non sembravano interessati. Cambiamento climatico e identità di genere, quelle erano le cose che li appassionavano. Poi, un giorno, te li ritrovi in piazza, quattro gatti, con quella bandiera di una terra lontana di cui, obiettivamente, non sapevano quasi nulla. Oggi che centinaia di migliaia di persone, in tutto il mondo, scendono in piazza con quella bandiera addosso, bisogna ammettere che quei ragazzi erano un quarto d’ora davanti a tutti: e adesso è molto, davvero molto importante capire in cosa hanno anticipato gli altri, e qual è il salto concettuale che hanno fatto con una velocità di cui nessun altro è stato capace. C’è una falda, e noi ci abitiamo giusto sopra.

Da una parte la terra emersa del Novecento, con i suoi valori, i suoi principi e la sua storia tragica. E dall’altra un continente, ancora spesso sommerso, che sta staccandosi dal Novecento, spinto della rivoluzione digitale, motivato dal disprezzo per gli orrori passati e diretto da un’intelligenza di tipo nuovo. Dove si consuma la frattura, la terra trema. Il Novecento non cede, e il nuovo continente continua a strappare. Non nutrirei grandi dubbi su come andrà a finire: il Novecento andrà alla deriva, continente quasi inabitato, destinato ad essere studiato nei libri e nei musei. Al di là dell’istintiva e dolorosa pietas che Gaza ispira, l’insulto vero è sentirsi scippare, con violenza, arroganza e ferocia, di una cosa troppo preziosa: il futuro che vogliamo. Chi poteva capirlo meglio che dei ragazzini?».

Baricco, da par suo, ha dato le pennellate fondamentali del maestro. E adesso noi apprendisti di bottega proviamo a completare il quadro. La Gen Z 13-29 anni, in base ai dati Istat-Eurosat, rappresenta circa 8,6 milioni di persone, il 13,5% della popolazione italiana, il 12% di quelli che lavorano. Si tratta dei primi nativi digitali, cresciuti con Internet, social ed e-commerce a portata di mano grazie ai device mobili. È una generazione, come evidenzia una ricerca del Politecnico di Milano, cresciuta in una situazione di precarietà, frutto di una serie di crisi che si sono accavallate negli ultimi anni, dalle recessioni economico-finanziarie del 2008 e del 2012 alla pandemia Covid-19, fino alla crisi climatica

POCA FIDUCIA NELLE ISTITUZIONI

e ai conflitti esplosi in diverse regioni del mondo. E, come sottolineava pure Baricco, sono ragazzi più interessati che in passato agli impatti ambientali e sociali delle azioni, con scarsa fiducia nei confronti delle istituzioni, dallo Stato alle organizzazioni private, col timore di non trovare lavoro, o di trovarlo ma lontano dal proprio di titolo di studio oppure con contratti da fame. Per questo la Gen Z italiana, tenuto conto dei costi della vita e dei salari fermi o addirittura in flessione negli ultimi 30 anni, valuta con attenzione anche i mercati stranieri, giudicati più inclusivi e rispettosi: l’80% si dice pronto a cercare un impiego fuori dai confini nazionali, un fenomeno che già tra il 2011 e il 2023 ha investito oltre mezzo milione di giovani italiani 18-34enni.

LONTANI DAGLI STATUS SYMBOL

In generale, comunque, crolla la vecchia idea di scalata dei ruoli aziendali: prevale, invece, la voglia di difendere la propria sfera personale, di valutare gli impieghi

in base all’impatto sul mondo e sul significato della propria vita. Il lavoro, cioè, non è un più uno status symbol o lo strumento necessario per raggiungere gli status symbol classici, una bella macchina, una bella casa. L’aspetto individuale, personale, è prevalente. E questo è evidente dall’importanza che si dà all’equilibrio con la vita privata. Proprio una indagine della Sda Bocconi School of Management mostra che i ragazzi della Gen Z mettono al centro la socialità, ovvero la possibilità di avere del tempo per curare le proprie relazioni interpersonali; la stabilità, poiché gli shock economici, l’instabilità geopolitica e la pandemia hanno reso la Gen Z avversa al rischio e più propensa alle routine, anche decisionali; la sostenibilità, anche se qui la relazione diventa contraddittoria, dichiarando un impegno per le tematiche ambientali che però non sempre è coerente con le scelte soprattutto relative ai consumi, rimanendo un

impegno più teorico che reale. Cresciuti in società più diversificate etnicamente, i Gen Z sono maggiormente propensi a considerare prospettive sfaccettate su numerosi argomenti, tipo la giustizia sociale e i diritti Lgbtq+. E per informarsi e comunicare usano in prevalenza i social media: Instagram (storie e messaggistica diretta), TikTok (video brevi e trend, e pure news soprattutto fino ai 15-16 anni), YouTube, poiché i Gen Z preferiscono un apprendimento visivo rispetto a quello testuale.

DISAGIO GIOVANILE

Si parlava, in precedenza, delle relazioni interpersonali. Ed ecco che il loro approccio in questo campo è molto diverso rispetto al passato: è considerato normale svolgere diverse attività con gli amici “a distanza”, oppure chiudere una relazione con un messaggio. La differenza sostanziale rispetto a qualche anno fa è che un tempo i genitori avevano i mezzi per capire quello che i loro figli stavano vivendo, mentre ora, secondo Istat e Censis, non hanno un’idea chiara delle dinamiche di vita della Gen Z. Questo si riflette sui giovani, che se da una parte vogliono essere indipendenti, dall'altra avrebbero anche un segreto desiderio di essere capiti. La situazione, perciò, è critica: un adolescente su due manifesta segni di disagio giovanile, mentre tra i 18 e i 25 anni quasi il 50% dei giovani combatte con problemi di ansia e depressione. Il profilo tracciato dai due istituti di ricerca è chiaro: il disagio giovanile è in crescita esponenziale e riflette una trasformazione radicale rispetto al passato. L’era digitale, unita a sfide sociali e ambientali, ha modificato profondamente la condizione degli adolescenti, rendendo ormai impossibile un confronto con le generazioni precedenti.

UN DESTINO TUTTO DA SCRIVERE

Si può parlare, allora, di una Gen Z arrabbiata? Giuseppe De Rita, fondatore del Censis, non è di questa idea: «Nel Ses-

santotto e negli anni seguenti chi ha fatto la guerra civile era una generazione di universitari incompiuti, arrabbiati. Come riferimento avevano leader internazionali del calibro di Adorno o Marcuse. Ora chi sono i riferimenti? Greta o Francesca Albanese? Oggi i giovani non si sentono incompiuti e non mi sembrano arrabbiati, non mi sembrano proprio in grado di pensarsi violenti. Anzi, i violenti li mandano via dalla loro piazza. I giovani non hanno più il conflitto nella pelle. Possono creare un bel manifesto, portare una bella bandiera e cantare Bella Ciao, in nome di un rimpianto per una resistenza di 80 anni fa. Dentro di loro non c'è alcuna rabbia profonda, ma solo un grande sentimento di pace, di bontà per chi soffre. Sinceramente, la loro mi sembra una manifestazione di preti più che una manifestazione di conflitto. Non sono figli del Vietnam, né del G8 di Genova, né di altro. Ogni generazione ha il suo destino e questo è ancora tutto da scrivere». ■

La formazione continua si confronta Punti di vista su temi, modelli, strumenti e possibili evoluzioni

Mercoledì 5 Novembre 2025

dalle ore 10.30 alle ore 14.00

Teatro Golden, Via Taranto 36 - Roma

Apertura dei lavori

DANILO LELLI Vicepresidente Fondoprofessioni

Obiettivi della giornata, modalità e contenuti

FRANCO VALENTE Direttore Fondoprofessioni

Disputa “La certificazione delle competenze nella formazione continua”

Presenta la “quaestio” e modera

ARDUINO SALATIN Professore ordinario Istituto Universitario Salesiano Venezia

Oratore: MARCO RUFFINO Esperto in processi di apprendimento

Avvocato del diavolo: FERRUCCIO CAVALLIN Psicologo dell’organizzazione

Confronto e voto del pubblico con app

Pausa con musica dal vivo

Disputa “L’IA per e nella formazione continua”

Presenta la “quaestio” e modera VIVALDO MOSCATELLI

Ambassador per la Comunità Europea nel progetto EDSC sulla certificazione delle competenze digitali

Oratore: EMANUELE FRONTONI Professore ordinario di Informatica

all’Università di Macerata e co-director del VRAI Vision Robotics & Artificial Intelligence Lab

Avvocato del diavolo: CATERINA COPERNICO Applicativo di Intelligenza Artificiale

Confronto e voto del pubblico con app

Tavolo di sintesi “Riflessioni sui contributi emersi e sulle possibili evoluzioni”

Modera FRANCO VALENTE Direttore Fondoprofessioni

ANTONIO CAPONE Direttore delle Aree di Produzione di Sviluppo Lavoro Italia

BEATRICE LOMAGLIO Presidente Associazione Italiana Formatori

SUSANNA SANCASSANI Responsabile del Centro Metodi e Tecnologie Innovative per la Didattica del Politecnico di Milano

Premiazioni premio fotografico “I sentieri dell’apprendimento”

Saluti finali

MARCO NATALI Presidente Fondoprofessioni

Buffet

Esposizione mostra fotografica “I sentieri dell’apprendimento”

LAVORO, LA RIVOLUZIONE È INIZIATA

Per loro il posto fisso non è una priorità e lo stipendio è importante ma come strumento abilitante per una vita dignitosa, non come obiettivo di realizzazione personale. Perché il lavoro deve avere prima di tutto uno scopo che sia in linea con i loro valori e i loro interessi. Sono in cerca di aziende con un buon clima interno, un buon piano di welfare, orari flessibili. Ai manager chiedono una comunicazione inclusiva, trasparenza e la possibilità di esprimersi. Così la GenZ sta ridisegnando il mondo professionale

Sono nati tra il 1995 e il 2012, oggi costituiscono il 12% della forza lavoro italiana e raggiungeranno il 30% di quella globale entro il 2030. E’ la generazione più istruita di sempre, caratterizzata da un approccio al lavoro pragmatico, digitale e orientato al risultato. Cresciuti in anni di incertezza e instabilità politico-economica, questi giovani hanno fatto il loro ingresso nel mondo del lavoro in un periodo segnato da cambiamenti strutturali del mercato e questo li ha resi più propensi a cercare flessibilità, opportunità di crescita e possibilità di personalizzazione del percorso professionale. Per la GenZ il lavoro fisso non è una priorità, tanto che solo il 17% di loro prevede di restare per sempre nella stessa azienda, contro il 30% della Generazione X, mentre Il 37% pensa di cambiare entro un anno e il 25% entro due, come riportato nell’ultimo Randstad Workmonitor Pulse.

E, contrariamente a quello che l’opinione pubblica pensa, hanno idee chiare in testa su quello che vogliono dalle imprese alle quali chiedono soprattutto benessere, crescita professionale, flessibilità oraria, inclusione sociale e rispetto per l’ambiente. Retribuzione e benefit rimangono importanti, ma vengono interpretati come strumenti abilitanti per una vita dignitosa, non come obiettivi di realizzazione personale. Nuove logiche che stanno ridisegnando il mercato del lavoro.

«Dalla nostra analisi annuale condotta su un campione di 1.500 giovani emerge chiaramente che il clima aziendale e il welfare occupano il primo posto nella classifica dei desiderata che un’azienda deve offrire, entrambi con un punteggio del 32,6%», commenta Silvia Vitale, area manager di Hunters Group, società di ricerca e selezione di personale qualificato e consulenza in ambito Hr. «Per loro è importante avere orari flessibili (il che non significa necessariamente smart working

Silvia Movio, Hunters Group

perché l’ufficio con le sue relazioni resta un luogo importante; meglio la settimana corta), un buon piano di welfare aziendale che preveda anche congedi di paternità oltre a quelli di maternità e la possibilità di avere un supporto psicologico in caso di necessità.

Il welfare, insomma, diventa un modo per sentirsi valorizzati non solo economicamente ma anche come persone». In altre parole, l’azienda ideale deve aiutare a vivere meglio, dentro e fuori dall’ufficio.

COMUNICAZIONE TRASPARENTE

I piani di carriera, invece, contano solo il 17, 9% e perde terreno anche la brand reputation aziendale (2,1%), ciò significa che i giovani sono meno legati al brand di una azienda rispetto a quanto lo erano i Millennials. E non è l’unico distinguo. «Tre sono gli aspetti che maggiormente distinguono la GenZ da quella precedente: comunicazione inclusiva, trasparenza e possibilità di esprimersi. Ovvero un clima

aziendale dove è possibile un confronto sincero con colleghi e manager di riferimento», precisa Vitale. «Per i giovani di oggi avere un feedback continuo con i diretti superiori è vitale, tanto che nel momento in cui non dovesse esserci sono più indotti rispetto ad altre generazioni a cambiare il posto di lavoro».

LE AZIENDE INIZIANO A RISPONDERE

Richieste che le aziende non possono ignorare vista la scarsità di talenti disponibili. Basti dire che oggi in Italia il 78% delle imprese segnala difficoltà nel trovare personale qualificato. Percentuale che posiziona il nostro Paese tra i primi 15 più colpiti dal talent shortage.

E il fenomeno è in aumento. Ma se multinazionali e grandi aziende made in Italy si sono mosse cercando di mettere in campo strategie per attrarre nuove leve con le giuste competenze, le Pmi, soprattutto quelle a conduzione famigliare fanno ancora fatica a riorganizzarsi in ottica GenZ.

«Molte medie e grandi organizzazioni nazionali stanno rivedendo i loro piani di welfare e quelli legati agli incentivi per attrarre giovani talenti della GenZ.

E stanno prestando maggiore attenzione a temi come inclusività sociale e rispetto per ambiente», continua Vitale «ma anche a piani di formazione personalizzati, aspetto questo di estrema importanza per i giovani lavoratori, e a processi di onboarding al passo con i tempi, il che significa utilizzare piattaforme online, video e moduli interattivi per la formazione e l'orientamento. Ma le Pmi faticano ancora a muoversi in queste direzioni, anche se qualcosa lentamente si sta muovendo».

PMI IN CERCA DI CAMBIAMENTO

Del resto in un Paese come il nostro alle prese con una bassa natalità, invecchiamento della popolazione, allungamento della vita professionale, per tutte le aziende, indipendentemente dalla loro grandezza e dal settore di operatività, è

prioritario adottare un approccio proattivo per attrarre e trattenere giovani talenti se l’obiettivo è quello di non perdere la partita della competitività. In questo quadro complesso una Pmi potrebbe iniziare a muoversi a piccoli passi: «La prima cosa da fare è guardarsi all’interno e fare un’attenta analisi della prima linea manageriale per capire se ci sono profili con le giuste competenze per gestire l’ingresso di nuove risorse lavorative», afferma l’esperta. «E se non ci sono occorre formare le figure senior affinché acquisiscano le skill necessarie. Un passo fondamentale per iniziare a cambiare ottica e prepararsi a guidare una nuova generazione con tutte le sue esigenze. Il secondo passo è quello di rivedere o realizzare da zero qualora fosse mancante, un piano di welfare. Un processo può essere fatto a piccoli passi, magari iniziando con qualche benefit come i buoni pasto o l’abbonamento in palestra. E poi attenzione al modo in cui ci si rivolge a questi giovani: è importante utilizzare un linguaggio inclusivo, non aggressivo e non offensivo.

E non bisogna mai dare nulla per scontato». I giovani non vogliono slogan o promesse vuote. La trasparenza diventa parte integrante della comunicazione aziendale: capire davvero cosa significa lavorare in un’organizzazione e percepirne la coerenza tra valori dichiarati e pratiche concrete è basilare. Questo vale fin dalle prime fasi di colloquio durante le quali le aziende devono essere chiare e trasparenti sulle competenze che stanno cercando e su quale sarà la giornata tipo della risorsa in fase di selezione. «Se si vuole impostare un rapporto di lavoro duraturo con i giovani è importante spiegare esattamente quella che sarà la loro attività giornaliera in modo che abbiano consapevolezza di quello che andranno a fare, esplicitando gli obiettivi che devono raggiungere, il loro ruolo e il fine della loro attività», precisa Vitale.

LAVORO PER AVERE UN IMPATTO Già perché un altro aspetto importante per la GenZ è quello che gli inglesi chiamano purpose, ovvero per loro il lavoro deve avere uno scopo che sia in linea con i loro valori e i loro interessi. Per la GenZ il lavoro non è solo ciò che si fa per vivere, ma il modo in cui si sceglie di esistere nel mondo.

Ora, come scrive nel suo blog Alessandro

Guidi, Ceo di Restart, società di consulenza d’impresa la vera domanda da farsi è la seguente: «E’ possibile costruire un’economia dove il profitto e il purpose non sono in conflitto, ma si alimentano a vicenda?». Per arrivare all’obiettivo le aziende devono essere pronte, come giustamente evidenzia Guidi «a trasformare il purpose da slogan per attrare le nuove generazioni a strategia». Non ci resta che attendere. ■

IN CERCA DI UN PROGETTO COMUNE

Anche la Gen Z italiana scende in strada. Ma le manifestazioni sono poco organizzate e motivate da cause specifiche. Manca un’identità generale. La sfida per i nostri giovani resta quella di trasformare la rabbia in proposte collettive e durature

Nepal, Bangladesh, Sri Lanka, Madagascar. Scenari differenti, molto distanti geograficamente, ma accomunati dal 2022 (Sri Lanka) a oggi (Madagascar), da numerose proteste che, in alcuni contesti, hanno portato al rovesciamento di governi in essere. A trovarsi nelle strade e nelle piazze, molti giovani e giovanissimi con un’età che va dai 13 ai 28 anni, meglio conosciuti come GenerazioneZ.

L’età non è il solo tratto comune, a distanza di chilometri che si fanno continentali troviamo contesti demografici simili, che vedono i giovani in grande proporzione sulla distribuzione della popolazione (cfr. Fig. 1).

Giovani, tanti, che si sono opposti a una classe dirigente anziana e ritenuta poco efficiente nel fronteggiare problemi come corruzione politica e crisi economiche.

In quasi tutte le proteste menzionate la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata un sopruso politico, un atto che ha limitato le libertà dei diversi cittadini, in contesti in cui le diseguaglianze tra la classe politica e il resto della popolazione sono marcate.

A fare da catalizzatore delle proteste le piattaforme web, che hanno facilitato la circolazione delle informazioni, delle controinformazioni, confermandosi strumenti efficaci e veloci di organizzazione.

Ci sono dunque degli elementi che caratterizzano chi porta avanti queste proteste che vanno oltre la dimensione generazionale e che rendono “GenerazioneZ”, nei contesti che sono stati menzionati prima, un «termine ombrello per diversi tipi di partecipanti, sia individuali che collettivi, compresi i nuovi arrivati senza esperienza precedente, i sindacati stu-

FIG. 1 - EVOLUZIONE NEL TEMPO DELL’ETÀ MEDIANA

Il grafico mostra che nei Paesi che hanno visto le proteste molto partecipate dalla GenZ la metà della popolazione è under30.

Fonte: UN, World Population Prospects (2024)

ITALIA SRI LANKA BANGLADESH NEPAL MADAGASCAR

denteschi e i centri sociali». Così come nella pubblicazione Strikes, assemblies and blockades: The dynamics of repertoire change in grassroots climate action in Italy (2018-2023), Lorenzo Zamponi, Alice Ferro e Giuseppe Cugnata hanno definito Fridays For Future, movimento internazionale di protesta per la giustizia climatica che tra il 2018 e il 2023 ha portato nelle strade di diverse città oltre un milione di giovani.

UN GRUPPO DISOMOGENEO

Ma cosa differenzia i movimenti dei giovani di oggi in Italia da quelli in Asia e in Africa? Anzitutto nel nostro Paese «la GenerazioneZ non costituisce un gruppo omogeneo, né possiede un’identità collettiva condivisa o un soggetto coeso in grado di agire unitariamente. L’universo giovanile, anche di chi protesta, è caratterizzato da una frammentazione dei profili: studenti medi, universitari, ragazzi di seconda generazione, gruppi locali o militanti dei centri sociali partecipano a mobilitazioni differenti, spesso motivate da cause specifiche e non da un’identità comune», spiega Katia Pilati, ordinaria di Sociologia dei fenomeni politici all’Università degli Studi di Trento

«Sicuramente, tra alcuni giovani esistono sentimenti di rabbia e frustrazione legati alla mancanza di opportunità lavorative, al costo della vita e all’esclusione socioeconomica. Tuttavia, questi sentimenti da soli, nella maggior parte dei casi, non conducono alla protesta, poiché possono esprimersi in isolamento sociale, in subculture o in altre forme di reazione all’esclusione», prosegue Pilati, che si riaggancia a sua volta all’esempio dei movimenti per il clima del 2018-2023. «In Italia, proteste più organizzate si sono osservate in passato, alcune con un forte senso di identità e progettualità comune, come nel caso di Fridays For Future».

Katia Pilati, ordinaria di Sociologia dei fenomeni politici all’Università degli Studi di Trento

ASSENZA DI UN PROGETTO COMUNE

Ma oggi l’assenza di «un progetto alternativo comune di trasformazione sociale capace di unire le diverse componenti della GenerazioneZ, porta più che altro a episodi che hanno una durata breve, talvolta caratterizzata da sentimenti di distruzione, violenti, poco organizzati e di natura spontanea», evidenzia la docente. Episodi del recente passato come l’Onda del 2008 e del 2010 contro la riforma firmata da Mariastella Gelmini nel campo dell’Istruzione, le proteste contro l’austerità nel 2012 o più recentemente le manifestazioni a supporto della causa palestinese sono unite più che da una visione comune da un nemico comune, ma in questi casi «la coesione deriva dalla contrapposizione, la protesta è difensiva rispetto alla minaccia o alla concreta limitazione di alcuni diritti, slegata da una visione e un progetto condiviso di cambiamento e tende perciò a dissolversi nel tempo».

IL MEGAFONO DEI SOCIAL

Resta comunque l’uso delle piattaforme digitali come strumento per facilitare la circolazione di informazione, la costruzione del consenso e l’azione collettiva. «I social network non esistono solo online», precisa Pilati.

«Oggi, come evidenziano anche diversi studi, queste piattaforme fungono da ponte tra attivismo online e offline, consentendo di passare rapidamente dalla comunicazione digitale alla protesta concreta nello spazio pubblico, riducendo così i costi legati alla mobilitazione».

Ma al di là dell’efficacia delle piattaforme come strumento organizzativo, quello che manca ancora alla GenZ italiana è una causa comune e condivisa e organizzazioni che sappiano coordinare l’azione come era stato in passato il caso di Fridays For Future. «Non si deve però correre il rischio di dare un ordine gerarchico o di

importanza alle lotte», mette in guardia Pilati. «Per quanto quelle della cosiddetta GenZ italiana manchi a ora di una visione comune di cambiamento, mostra comunque «l’interesse e l’impegno civico e politico di molti giovani in un contesto in cui abbiamo percentuali altissime di disinformazione tra le nuove generazioni».

Non vuol dire però che in Italia siano del tutto da escludere fenomeni tanto di massa e tanto impattanti come quelli nei Paesi asiatici o in Madagascar. «La sfida per la GenZ nazionale, come altrove, resta quella di trasformare la rabbia in proposte comuni e durature. Finché ciò non accade, le alleanze tenderanno a essere temporanee e frammentate», chiosa Pilati. ■

Le storie, i personaggi e le notizie di primo piano commentate dalle più autorevoli firme del mondo della politica, dell’economia, dell’università e delle professioni

PRIMO PIANO

MANOVRA DOUBLE FACE

di Giovanni Francavilla

Il consolidamento della finanza pubblica e la riduzione del debito sono le priorità di una legge di Bilancio che stenta a decollare a causa della cronica carenza di investimenti nell’economia reale. Gli interventi per ridurre la pressione fiscale e sostenere il ceto medio non soddisfano appieno i professionisti, che chiedono di accelerare la riforma del fisco e misure strutturali per rafforzare il potere d’acquisto dei lavoratori autonomi

Riduzione del debito, sostenibilità dei conti pubblici, allentamento della pressione fiscale e sostegno al ceto medio. L’intonazione di fondo della legge di Bilancio non si discute; ma la cronica carenza di investimenti nell’economia reale rischia di sterilizzare le politiche di sviluppo del Paese e, in particolare, del comparto del lavoro professionale che sconta ancora l’assenza di una organica strategia di incentivazione per favorire, da un lato, le aggregazioni e lo sviluppo tecnologico degli studi professionali; e dall’altro, per sciogliere una volta per tutte il nodo dell’equità orizzontale.

I tempi sono maturi per superare il modello frammentato delle politiche professionali e per mettere al centro dell’azione pubblica la

modernizzazione e valorizzazione delle libere professioni, elemento chiave per una ripresa duratura e una crescita competitiva del sistema economico nazionale.

ABROGARE L’ARTICOLO 129

Se dunque la priorità della manovra si incentra correttamente sul risanamento del quadro di finanza pubblica con interventi mirati sulla riduzione della pressione fiscale e il sostegno al ceto medio, restano ancora parecchie misure da “affinare” per sostenere la crescita del comparto professionale. A cominciare dall’eliminazione di una norma che Confprofessioni non esita a definire “sproporzionata, discriminatoria e irrazionale”. La legge di Bilancio ha infatti introdotto all’art. 129, comma 10, un provvedimento che potrebbe avere un impatto devastante per i liberi professionisti e che subordina il pagamento di una prestazione professionale da parte della pubblica amministrazione al regolare adempimento degli obblighi fiscali e contributivi. «Si trattano i professionisti alla stregua di evasori», tuona il presidente di Confprofessioni, Marco Natali «Ancora una volta si cerca di curare una “patologia” colpendo nel mucchio un’intera categoria che tiene in piedi la pubblica amministrazione; si continuano ad alimentare stereotipi nei confronti dei liberi professionisti che devono essere superati una volta per tutte; si aggiunge ulteriore burocrazia alle procedure di pagamento della P.A. che, al di là della piena attuazione del principio dell’equo compenso, spesso non garantisce la puntualità dei pagamenti come viene garantita ai dipendenti».

Marco

IL NODO DELL’EQUITÀ ORIZZONTALE

Per certi versi è un’altra delle mille facce che ruotano intorno al principio di equità orizzontale, sancito dall’art. 5 della legge delega sulla riforma fiscale che stenta a prendere piede nel nostro ordinamento, come ribadito - per l’ennesima volta - da Confprofessioni. Già, perché ancora oggi, a parità di reddito, permangono significative differenze in termini di prelievi fiscali tra lavoratori dipendenti e lavoratori autonomi, a tutto danno di questi ultimi. Lo scorso 3 novembre davanti alle Commissioni Bilancio di Camera e Senato nel corso dell’audizione sulla manovra di bilancio, il vicepresidente di Confprofessioni, Andrea Dili, ha osservato che «il disallineamento tra tassazione dei redditi di lavoro dipendente e di lavoro autonomo raggiunge livelli record proprio in corrispondenza dei redditi bassi e medi: un lavoratore autonomo con un reddito di 20 mila euro paga un’imposta di circa quattro volte superiore a quella dovuta da un lavoratore dipendente con il medesimo reddito».

POCHI SPICCIOLI

Dopo il taglio delle detrazioni della scorsa legge di Bilancio e la stabilizzazione delle tre aliquote Irpef, la strada imboccata dal Governo per sostenere il potere d’acquisto del ceto medio, si concentra ora sul taglio di due punti percentuali (dal 35% al 33%) dell’aliquota Irpef sui redditi del secondo scaglione, quelli compresi tra i 28 mila euro e i 50 mila euro. Si tratta di un risparmio piuttosto modesto che va da 40 euro all’anno per chi guadagna 30 mila euro fino a un massimo di

440 euro per chi guadagna da 50 mila euro all’anno in su. Certo, la coperta è corta e il risanamento dei conti pubblici impone sacrifici per riportare il rapporto deficit/Pil al di sotto del 3 %; tuttavia resta una distanza tra le ambizioni della riforma fiscale e l’impatto effettivo sul reddito disponibile delle famiglie e dei professionisti. Se il Governo fosse riuscito a reperire le risorse necessarie per ampliare lo scaglione fino a 60 mila euro, come inizialmente ipotizzato, la riduzione fiscale sul ceto medio e sui liberi professionisti avrebbe consentito un maggior reddito disponibile e un significativo stimolo ai consumi. C’è da aggiungere che la proposta di detassare gli aumenti dei rinnovi contrattuali - seppur in ritardo per intercettare la stagione dei rinnovi del settore terziariopuò rafforzare il potere d’acquisto

Giancarlo Giorgetti, ministro dell'Economia e delle Finanze

dei lavoratori, se inquadrata all’interno dei contratti collettivi stipulati da organizzazioni realmente rappresentative (per contrastare il dumping contrattuale) ed estesa anche alle piccole realtà, spesso prive di contrattazione integrativa.

PARITÀ DI TRATTAMENTO

Risorse che hanno imboccato direzioni diverse. La manovra di bilancio, per esempio, ha stanziato 4 miliardi di euro per aumentare l’ammortamento per gli investimenti in beni strumentali e per incrementare gli incentivi alle Pmi per l’acquisto di macchinari e attrezzature. L’obiettivo del Governo è quello di superare il logoro sistema dei crediti d’imposta per la transizione 4.0 in vista della conclusione del Pnrr; tuttavia gli strumenti di incentivazione introdotti nella legge di Bilancio fanno

riferimento ai titolari di reddito d’impresa (nel caso dell’ammortamento per gli investimenti in beni strumentali) e prevedono l’iscrizione alla camera di commercio (nel caso degli incentivi per l’acquisto di macchinari): un collaudato meccanismo per lasciare fuori dalla porta i lavoratori autonomi che però è in palese contraddizione con il principio di parità di trattamento di tutti gli operatori economici sancito dal nuovo Codice degli incentivi che, fino a ieri, rappresentava un punto dirimente della linea politica del Governo.

Oggi gli studi professionali, dalla medicina all’ingegneria, dall’odontoiatria all’architettura, sono chiamati a investire risorse in ammodernamento tecnologico e lo sforzo da destinare all’adeguamento delle attrezzature è estremamente impegnativo. Basterebbe introdurre un incentivo specifico alla rottamazione dei beni strumentali obsoleti e di un credito d’imposta sugli investimenti nei processi di aggregazione professionale per liberare risorse, accelerare il ricambio tecnologico e favorire una più rapida diffusione di tecnologie digitali e sostenibili negli studi, sottolinea la Confederazione presieduta da Natali: «ma le istituzioni faticano a comprendere che la crescita del comparto libero-professionale si ripercuote positivamente sull’intera economia nazionale, in una fase in cui il settore dei servizi è sempre più rilevante nelle società avanzate. Le competenze dei liberi professionisti italiani necessitano del sostegno delle istituzioni per raggiungere dimensioni organizzative che consentano di dominare

il mercato, e non cedere agli interessi dei capitali stranieri, sempre più ingolositi dal mercato italiano dei servizi, come dimostrano i processi già in atto nell’odontoiatria e nella consulenza societaria».

PROFESSIONISTI E P.A.

Negli ultimi anni è cresciuto il peso e il ruolo delle libere professioni nell’economia e nella società del Paese e i tempi sono maturi per riconsiderare il coinvolgimento dei liberi professionisti, anche e soprattutto in un più ampio programma di revisione e riorganizzazione della pubblica amministrazione. Nel capitolo della spesa pubblica, la manovra dedica particolare attenzione alla spending review delle amministrazioni centrali, con stime di risparmio superiori ai 7 miliardi di euro nel

triennio. Tuttavia, il taglio lineare della spesa e la rimodulazione delle dotazioni ministeriali rischiano di apparire un mero esercizio contabile e di breve respiro senza una ricognizione analitica di funzioni e competenze delle amministrazioni centrali, che individui aree di inefficienza, duplicazioni e sovrapposizioni, e favorisca un modello basato su filiere di processo piuttosto che sul tradizionale apparato burocratico.

E anche in questa prospettiva, sostiene la Confederazione, i liberi professionisti possono essere il partner ideale per una amministrazione pubblica che intenda snellire il proprio apparato, aggiornare le proprie competenze e acquisire una mentalità pragmatica, orientata alla soluzione dei problemi. ■

Il vicepresidente di Confprofessioni, Andrea Dili, in audizione al Senato sulla legge di Bilancio

PNRR, CONTO ALLA ROVESCIA PER LA REVISIONE

La Commissione europea stringe i tempi per le ultime modifiche al Piano. Il Governo italiano punta a rimodulare 34 interventi per un totale di 14 miliardi di euro. Rafforzati gli investimenti per imprese, settore agricolo e agroalimentare. Focus sulla missione Istruzione e ricerca

Quando mancano solamente 9 mesi e 2 rate alla conclusione del Pnrr, la Commissione europea ha fissato al 31 dicembre la scadenza per gli Stati membri che intendono revisionare ulteriormente i loro Piani nazionali. Queste le opzioni disponibili: la riduzione delle risorse per le misure non attuabili nei tempi; il contestuale rafforzamento delle misure che stanno producendo buoni risultati; il frazionamento dei progetti in modo da tenere nel Pnrr solo le parti realizzabili entro la scadenza; l’utilizzo di strumenti finanziari per incentivare gli investimenti privati attraverso il trasferimento di risorse ad un gestore finanziario indipendente, secondo lo schema della facility.

Ma gli Stati membri potranno anche scegliere di destinare le risorse del Pnrr a sostegno dei programmi spaziali dell’Ue ovvero del Programma europeo per l’industria della difesa.

LA REVISIONE DEL GOVERNO

La proposta di revisione del Governo italiano, approvata lo scorso 26 settembre dalla Cabina di regia presieduta dal Ministro Tommaso Foti, che ha visto la partecipazione – tra gli altri - di Confprofessioni, prevede la rimodulazione finanziaria di 34 investimenti per un totale di circa 14 miliardi uro. Tale somma verrà interamente utilizzata per altri progetti, lasciando invariata la dotazione complessiva del Piano. Inoltre, quattro misure particolarmente complesse saranno finanziate attraverso l’impiego di strumenti finanziari al fine di consentirne il completamento: connettività, infrastrutture

idriche, alloggi universitari e parco agrisolare. Tra le misure rafforzate ci sono gli investimenti a sostegno delle imprese, gli investimenti nei settori agricolo e agroalimentare, il Programma innovativo della qualità dell’abitare, il credito di imposta per il Mezzogiorno e la Zes unica.

IL CRONOPROGRAMMA

Nel frattempo, si procede secondo il cronoprogramma. Lo scorso giugno il Governo italiano ha inviato alla Commissione europea la richiesta di pagamento dell’ottava rata che vale 12,8 miliardi di euro per il conseguimento di 40 obiettivi. Con la liquidazione, l’Italia avrà ottenuto 153 miliardi corrispondenti all’80% circa della dotazione finanziaria complessiva del Piano. Tra gli investimenti realizzati nell’ambito dell’ottava rata, spiccano quelli della missione 4 (Istruzione e ricerca): per le scuole l’erogazione di oltre 1.000 corsi linguistici e metodologici ai docenti, e l’attivazione di progetti per aggiornare l’offerta e orientare gli studenti verso le competenze Stem; per le università il finanziamento di 5.000 Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale (Prin), l’assunzione di circa 2.300 nuovi ricercatori e l’assegnazione di oltre 550 borse di ricerca.

IL PNRR SCUOLA

Per accelerare i tempi della missione Istruzione, lo scorso giugno il Governo ha adottato il Decreto legislativo n. 48/2025, il cosiddetto “decreto Pnrr scuola”, che ha dato un impulso agli investimenti e all’implementazione di riforme quali la riforma degli istituti tecnici

Tommaso Foti, Ministro per gli affari europei, il Pnrr e le politiche di coesione. © Credit Dipartimento per le politiche di coesione

superiori, l’istituzione di nuove tipologie di incarichi universitari diversi dal già esistente contratto di ricerca (incarichi post-doc e incarichi di ricerca) e la riforma del sistema di reclutamento dei docenti. In concomitanza con la riapertura delle scuole, l’istruzione non può non essere al centro del dibattito. Tanto più che l’investimento per la creazione di nuovi posti per servizi di educazione per la prima infanzia ha affrontato gravi difficoltà di realizzazione, che hanno condotto al dimezzamento del target finale originariamente previsto. Il cosiddetto “piano asili nido”, con 3.227 progetti da 3,24 miliardi, rimane comunque uno dei più centrali di tutto il Pnrr anche perché rappresenta una risposta al problema, particolarmente sentito e attuale, del sostegno pubblico alla natalità e alla genitorialità.

Il bilancio è, invece, più positivo per gli interventi migliorativi dell’edilizia scolastica: la costruzione di mense, palestre e infrastrutture per la digitalizzazione delle scuole procede ad un buon ritmo, per un totale di circa 3 miliardi e mezzo e quasi 20.000 progetti. Naturalmente, una volta terminati gli interventi edilizi sarà necessario garantire le risorse per la gestione ordinaria. In altri termini, occorre essere consapevoli che investire sulle strutture scolastiche senza investire sul capitale umano, e più in generale sulla futura sostenibilità dei progetti finanziati, significa creare cattedrali nel deserto.

FORMAZIONE PROFESSIONALE

Il Pnrr punta molto sull’istruzione professionale terziaria per la formazione di figure professionali

altamente specializzate nelle aree tecnologiche strategiche, prevedendo sia una importante riforma del settore sia investimenti per il potenziamento dell’offerta scolastica in questo ambito. L’obiettivo è raddoppiare il numero di iscrizioni annuali agli istituti tecnici superiori, portandolo a 22.000 dagli attuali 11.000. Fondamentale è la creazione di network tra gli istituti e imprese, università e centri di ricerca tecnologica e scientifica, ma anche con le autorità locali.

Anche sul fronte della ricerca universitaria, la parola d’ordine del Pnrr è sinergia con il mondo del lavoro e produttivo: un modus operandi che in Italia è stato fino ad ora fortemente trascurato – a differenza dei Paesi del Nord Europa che ne rappresentano esempi virtuosi – ma che trova oggi

sempre maggior affermazione grazie a progetti quali i dottorati industriali, vale a dire svolti in collaborazione con le imprese oppure con gli uffici pubblici.

La misura non sembra aver prodotto un forte incremento del numero di dottorati industriali, ma comunque ne risultano attivati 1.785, per un investimento totale di 385 milioni. Rientra, invece, nell’ultima revisione del Pnrr il taglio degli incentivi all’assunzione dei ricercatori da parte delle imprese.

In linea con l’obiettivo di impiegare tutte le risorse a disposizione, i fondi non spesi potrebbero essere destinati al finanziamento delle borse di studio per l’accesso all’università degli studenti in difficoltà socioeconomica per l’anno accademico 2025-2026. ■

L’EUROPA DAVANTI ALLO SPECCHIO DELL’ENERGIA

di Edoardo Somenzi

Sul fronte delle rinnovabili il Vecchio continente è stato tra i primi a muoversi nei primi anni 2000. Poi ha giocato male le sue carte e ha perso terreno. Così il Green Deal, che avrebbe dovuto essere la nostra rivoluzione industriale, è diventato un campo minato di burocrazia e slogan inneggianti alla neutralità tecnologica. Ed è stata la paralisi. Ora l’Ue deve capire che "potersi permettere" la transizione non è più un tema di spesa, ma di visione imprenditoriale

C’è qualcosa di profondamente paradossale nel modo in cui l’Europa parla di energia e transizione: si comporta come una potenza morale in un mondo di potenze industriali. Alla Fondazione Eni Enrico Mattei (FEEM), durante la presentazione del volume Oltre il falso dilemma: energia, crescita e il futuro dell’Europa di Simone Mori e Alfredo Macchiati, questo cortocircuito è stato messo a nudo. L’incontro non è stato un processo alle politiche europee, ma un momento di riflessione condivisa: al centro, la consapevolezza che la transizione energetica non è più una scelta tra crescita economica e sostenibilità ambientale. L’Europa ha cominciato prima di tutti, con le prime direttive sul clima e sull’energia già nei primi anni Duemila –dalla Direttiva 2001/77/CE, che promuoveva le fonti rinnovabili, fino al pacchetto Clima-Energia 20-20-20 del 2009 – ed è stata effettivamente un faro mentre il resto del mondo brancolava nel buio. Tuttavia, ha corso male, confondendo la virtù con la strategia, l’etica con la geopolitica. Mori lo dice senza giri di parole: «Abbiamo venduto la transizione come leadership morale, senza costruire un disegno industriale coerente». E Macchiati rincara: «Trasformare il gas in una mera commodity da scambiare sui mercati spot è stato come dimenticare che l’energia è potere prima ancora che prezzo». Quando la guerra in Ucraina ha fatto saltare gli equilibri, il continente si è scoperto nudo, privo di una vera sovranità energetica, con una “piattaforma comune” che di comune aveva solo l’etichetta. Il Green Deal avrebbe dovuto essere la nostra rivoluzione industriale, ma è diventato un

campo minato di burocrazia e slogan inneggianti alla tanto discussa neutralità tecnologica, sbandierata come virtù, che poi si è trasformata in paralisi. Mentre Stati Uniti e Cina decidevano dove puntare — gigafactory, batterie, idrogeno, mobilità elettrica — l’Europa si perdeva nel dibattito su cosa “non escludere”. In altre parole, mentre gli altri costruivano, noi discutevamo.

NESSUN VINCOLO MORALE

Il nodo, però, non è solo economico ma anche narrativo: per anni abbiamo raccontato la transizione come penitenza – meno carbone, meno emissioni, meno consumi – utilizzando un linguaggio di

sottrazione che ha prosciugato il consenso. Eppure, nessuna rivoluzione nasce dalla rinuncia. Il termine stesso “transizione energetica” — coniato nella Germania degli anni ’70 con il concetto di Energiewende — nasceva per descrivere un passaggio evolutivo, una spinta verso un modello di sviluppo più moderno e indipendente. Allo stesso modo, oggi l’Europa deve riscoprire quello spirito pionieristico: la transizione non come vincolo morale, ma come strumento di libertà economica e politica per tornare competitiva e sovrana. Mori lo ribadisce: «Non dobbiamo più parlare di transizione come di un sacrificio, ma come di una rivoluzione tecnologica. Un salto avanti, non un passo indietro».

I TARGET NON BASTANO

La sostenibilità è ormai la nuova grammatica del potere. Ogni euro investito in tecnologie pulite genera più lavoro e più PIL di qualsiasi sussidio fossile, e la cosiddetta electrotech revolution – come l’hanno definita i relatori – non è una semplice moda semantica, ma il cuore del nuovo capitalismo industriale, quello che integra energia, digitale e manifattura. Tuttavia, l’Europa continua a muoversi come se la transizione fosse una tassa da pagare per sentirsi virtuosa, non la leva per tornare protagonista. Mentre gli Stati Uniti trasformano l’Inflation Reduction Act in una macchina da guerra per attrarre capitali e la Cina consolida il controllo su intere filiere di batterie e fotovoltaico, l’Europa rincorre obiettivi “neutrali” con regole “armonizzate”, ma prive di una reale direzione. Il risultato è un continente che si vanta di fissare target climatici, ma delega a

terzi la produzione delle tecnologie necessarie per raggiungerli: un atteggiamento che non rappresenta leadership, ma vero e proprio outsourcing della sovranità.

PIÙ SCELTE

Vi è poi un aspetto spesso dimenticato: l’adattamento. L’Italia ne è l’esempio più evidente. Macchiati è tranchant: «Se avessimo investito nella prevenzione idrogeologica quanto nelle rinnovabili, oggi avremmo forse un po’ più di CO₂, ma meno disastri ogni volta che piove». Mitigazione e resilienza sono due facce della stessa medaglia. Cosa fare, dunque? Non servono nuovi slogan, ma scelte. Un vero mercato unico dell’energia, con regole d’asta europee e una governance dei gestori di rete basata sui bacini elettrici, non necessariamente sui confini politici. Una politica industriale selettiva,

capace di dire sì a poche filiere strategiche — nucleare a fusione, inverter, pompe di calore — e no a mille rivoli di incentivi improduttivi. E, soprattutto, un cambio di mentalità: smettere di lamentarsi calcolando quanto “costa” la transizione e iniziare a chiedersi quanto "costa" non farla, o farla così male. Il “falso dilemma” del titolo del libro di Mori e Macchiati non è mai stato tra crescita e clima. È tra visione e inerzia, tra paura e coraggio. L’Europa non è povera di risorse, ma di decisioni. La storia non premia i più virtuosi, ma chi sceglie per primo la direzione giusta. E in questo gioco globale, restare neutrali significa semplicemente restare indietro. Forse è tempo che l’Europa comprenda che "potersi permettere" la transizione non è più un tema di spesa, ma di visione e audacia imprenditoriale. ■

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NEWS FROM EUROPE

Le news più rilevanti dalle istituzioni europee selezionate dal Desk europeo di Confprofessioni
Pe: salari e pensioni divario di genere da colmare

Nonostante i progressi normativi, le disuguaglianze economiche tra uomini e donne nell’Unione europea restano profonde e strutturali. È quanto afferma la relazione sul divario retributivo e pensionistico di genere nell’Unione europea, redatta dalla Commissione per l’occupazione e gli affari sociali e dalla Commissione per i diritti delle donne e l’uguaglianza di genere, e pubblicato lo scorso 29 settembre dal parlamento europeo. Nel 2023, il divario di genere nelle retribuzioni orarie si attestava al 12%, con punte superiori al 18% in alcuni Stati membri. Il divario occupazionale di genere resta attorno al 10% e cresce fino al

16,5% per le donne con figli. Solo il 7,7% degli uomini lavora a tempo parziale, contro il 27,9% delle donne, spesso costrette a ridurre l’orario per motivi di assistenza familiare. Queste disuguaglianze si riflettono anche sulle pensioni: nel 2023 il divario pensionistico di genere ha raggiunto il 25,4%, rendendo le donne anziane più esposte al rischio di povertà. La relazione segnala inoltre l’effetto del cosiddetto “handicap della maternità”, ovvero il divario retributivo tra madri e padri o tra donne con e senza figli, che rappresenta un ostacolo strutturale alla parità economica e alla stabilità demografica dell’Ue.

LEGGI IL DOCUMENTO
PROGETTO DI RELAZIONE SUL DIVARIO DI GENERE NELL'UE

2025: L’Ue riparte dai

territori

La 23ª edizione della EU Week of Regions and Cities si è confermata il principale laboratorio europeo sul futuro delle città e delle regioni, su temi chiave come inclusione di genere, diritto alla casa, transizione verde e sviluppo locale. Uno dei dibattiti più partecipati ha riguardato la parità di genere nella pianificazione urbana e nelle politiche locali per garantire alle donne spazi sicuri, accessibili e sostenibili, migliorando la qualità della vita per tutti. Un secondo asse tematico ha riguardato la crisi abitativa in Europa, con dati allarmanti: circa il 79% della popolazione vive in territori dove acquistare un appartamento di 75 m² richiede oltre 30 anni di reddito medio. Il progetto House4all ha mostrato come la scarsità di alloggi accessibili stia aggravando le disuguaglianze territoriali. Un altro fronte decisivo è quello della transizione energetica. Durante il side event organizzato dalla Cpmr (Conference of Peripheral Maritime Regions), regioni del Nord e del Sud Europa hanno condiviso esperienze sulle strategie territoriali per elettricità rinnovabile, idrogeno e infrastrutture. Per il Desk europeo di Confprofessioni, questi temi si collegano al futuro delle professioni e delle comunità locali e rappresentano ambiti in cui competenze professionali, tecniche e sociali convergono, rafforzando il ruolo dei territori come protagonisti della trasformazione europea.

Parità

di genere, la Strategia europea

per la 2026–2030

La Commissione per i diritti delle donne e l’uguaglianza di genere (Femm) del Parlamento europeo ha approvato il 13 ottobre scorso la relazione d’iniziativa sulla “Strategia per la parità di genere 2025”. La relazione definisce la parità di genere come valore fondativo dell’Unione europea e condizione essenziale per la piena attuazione dello Stato di diritto. Il Parlamento invita la Commissione a presentare una strategia ambiziosa e vincolante, fondata sull’integrazione sistematica della dimensione di genere in tutte le politiche europee (gender mainstreaming) e sull’adozione di un approccio intersezionale, capace di affrontare le discriminazioni multiple che colpiscono donne migranti, persone Lgbtq+, donne con disabilità e gruppi minoritari. Tra i pilastri del testo, la lotta alla violenza di genere, definita come una delle violazioni più diffuse dei diritti fondamentali nell’Unione. Inoltre, il Parlamento sollecita la Commissione a garantire l’accesso universale a un’assistenza sanitaria sensibile alla dimensione di genere, riducendo le disuguaglianze territoriali e sociali; mentre sul piano socio-economico, la Commissione Femm pone l’accento sul divario retributivo e pensionistico di genere.

Cntratti scritti per i tirocinanti

La Commissione per l’occupazione e gli affari sociali (Empl) del Parlamento europeo ha adottato la relazione sulla proposta di direttiva europea sui tirocini, avviando i negoziati interistituzionali con il Consiglio. La direttiva introduce una definizione precisa di tirocinio, inteso come un’attività a tempo determinato rivolta a giovani in fase di transizione dall’istruzione al mercato del lavoro. L’obiettivo è distinguere i tirocini da forme di lavoro non regolamentato, garantendo che siano sempre attività con finalità formative e non semplicemente sostitutive di personale dipendente. Le attività previste devono essere entry-level e collegate a obiettivi di apprendimento concreti e misurabili, coerenti con il percorso formativo del tirocinante. La direttiva non si applica ai tirocini obbligatori inseriti in programmi di istruzione o formazione riconosciuti. Questa definizione rappresenta un passo cruciale per creare trasparenza e uniformità nella gestione dei tirocini tra i diversi Stati membri. Ogni tirocinio dovrà essere formalizzato tramite un contratto scritto e i tirocinanti devono avere accesso a un adeguato sistema di protezione sociale, comprendente assicurazione sanitaria, contributi pensionistici e indennità di disoccupazione. Uno degli obiettivi principali della direttiva è prevenire l’uso dei tirocini come sostituti del lavoro dipendente.

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COMMISSIONE EMPL
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STRATEGIA PARITÀ DI GENERE

Analisi, tendenze e avvenimenti del mondo professionale, raccontati dai protagonisti delle professioni

PROFESSIONI

PUBBLICA AMMINISTRAZIONE? NO, GRAZIE

Solo il 27% dei professionisti lavora con la PA e i ricavi sono pochi spiccioli. La committenza pubblica attira più donne che uomini. Ingegneri, professioni culturali, architetti e geometri le attività più coinvolte. Soprattutto nel Centro e nel Sud

di Camilla Lombardi e Ludovica Zichichi
Osservatorio delle Libere Professioni

Solo il 27,9% dei professionisti dichiara di lavorare con la Pubblica Amministrazione, da cui proviene in media l’8,6% del fatturato. L’indagine realizzata dall’Osservatorio delle Libere Professioni tra luglio e agosto 2025 su un campione di 832 professionisti delinea un quadro ampio e approfondito del rapporto tra le libere professioni e il settore pubblico, da cui si evince come la committenza pubblica risulti significativa, ma non dominante.

Una prima evidenza riguarda la distribuzione della quota di fatturato proveniente dalla Pubblica Amministrazione tra le diverse categorie professionali. L’analisi mostra come la collaborazione con enti pubblici sia in molti casi limitata a una minoranza di professionisti: pochi concentrano una parte consistente del fatturato, mentre la maggioranza registra valori prossimi allo zero.

LA MAPPA DELLE PROFESSIONI

Nella maggior parte delle professioni, la quota di reddito derivante dalla PA è infatti molto contenuta, inferiore al 10%, segno che il lavoro pubblico rappresenta un canale marginale o occasionale. In particolare, consulenti del lavoro, commercialisti e altre professioni economico-finanziarie mostrano una netta prevalenza di valori bassissimi, a conferma della loro forte dipendenza dal mercato privato.

Diverso il quadro per ingegneri, architetti, geometri, archeologi e altre professioni tecnico-specialistiche, dove la distribuzione risulta più ampia e variabile: se per molti la committenza

pubblica pesa poco, per altri rappresenta una fonte rilevante di reddito, spesso legata a progetti infrastrutturali, edilizi o di tutela del patrimonio. Le professioni mediche e sanitarie evidenziano un legame disomogeneo con la PA: in molti casi marginale, ma per figure come i medici di famiglia strutturale, data la dipendenza quasi totale dal Servizio Sanitario Nazionale.

PIÙ DONNE CHE UOMINI

Le differenze di genere risultano significative: in molte categorie le professioniste mostrano una maggiore incidenza della committenza pubblica sul proprio fatturato rispetto ai colleghi uomini, in particolare nelle professioni culturali, tra architetti e geometri e tra avvocati e notai. Tale tendenza può riflettere verosimilmente una più elevata propensione femminile a orientarsi verso committenti stabili e istituzionali, in grado di offrire continuità e condizioni contrattuali più prevedibili, ma potrebbe anche essere legata alle maggiori difficoltà incontrate dalle donne nell’accedere ai segmenti più competitivi e remunerativi del mercato privato.

Anche l’età incide sul rapporto con la Pubblica Amministrazione. I professionisti più giovani (fino a 44 anni) mostrano una maggiore presenza di commesse pubbliche, probabilmente perché attratti dalla stabilità e dalle opportunità di apprendimento offerte dagli incarichi istituzionali. Nelle fasce centrali della carriera (45-64 anni), invece, il coinvolgimento tende a ridursi, grazie alla progressiva diversificazione della clientela e alla consolidata autonomia nel mercato privato.

Alcune categorie tecniche e ingegneristiche mostrano un rinnovato coinvolgimento con la Pubblica Amministrazione nelle fasi più avanzate della carriera, segnalando come il settore pubblico possa continuare a rappresentare un canale professionale strategico anche per i senior.

Questo andamento potrebbe riflettere la domanda di competenze altamente specialistiche, che i professionisti con lunga esperienza sono in grado di offrire. Tra archeologi e professioni culturali, invece, l’incidenza cresce progressivamente con l’età, mentre avvocati e notai mostrano un calo continuo.

IL DIVARIO TERRITORIALE

Il territorio costituisce un altro elemento chiave nella relazione con la Pubblica Amministrazione. La

PA riveste un ruolo più significativo nel Centro e nel Mezzogiorno, dove rispettivamente il 36,9% e il 40,7% dei professionisti lavorano con enti pubblici, mentre nel Nord Ovest e nel Nord Est la sua incidenza risulta decisamente più contenuta. Questa differenza riflette probabilmente la maggiore presenza di mercati privati nel Nord, mentre nel Centro e nel Mezzogiorno la Pubblica Amministrazione assume un ruolo più centrale come fonte stabile di reddito.

Alcune professioni evidenziano specificità territoriali: per ingegneri, altre professioni tecnico-specialistiche e professioni sanitarie, la quota media di fatturato derivante dalla PA nel Mezzogiorno raggiunge circa un terzo, mentre per architetti, geometri e archeologi il Cen-

tro risulta il territorio più rilevante, con incidenze superiori a un quarto del fatturato. In sintesi, la Pubblica Amministrazione si conferma un interlocutore importante ma non dominante per le libere professioni italiane. Il suo peso economico varia sensibilmente tra le categorie: è fondamentale per ingegneri, professioni culturali, architetti e geometri, mentre rimane marginale per commercialisti, consulenti del lavoro e altre professioni economico-finanziarie. Le differenze di genere, età e territorio confermano come le caratteristiche professionali e sociodemografiche siano determinanti nel definire il rapporto con il settore pubblico, che, pur mantenendo un impatto complessivo contenuto, rappresenta per molti professionisti un canale di attività strategico. ■

DISTRIBUZIONE PERCENTUALE DELLA QUOTA DI FATTURATO DEI PROFESSIONISTI

PROVENIENTE DALLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE, DIVISIONE PER PROFESSIONE

La significatività dei dati è limitata dalla composizione del campione. Dati luglio/ agosto 2025.

tecnico-specialistiche

Quota fatturato dei professionisti proveniente dalla PA

Fonte: elaborazioni a cura dell'Osservatorio delle libere professioni su dati dell'indagine "Uno sguardo sul mercato delle libere professioni"

NOTAI ÜBER ALLES

L’ultimo Osservatorio di Itinerari

Previdenziali dedica un focus ai redditi 2024 dei Liberi professionisti. Poche le sorprese: nella top five troviamo al primo posto i notai seguiti da attuari, commercialisti, chirurghi e dentisti. Agli ultimi posti, invece: psicologi, periti agrari, biologi, giornalisti free lance e co.co.co. Ma la buona notizia è che si è registrato un generale incremento per tutti dopo il 2020, l’annus horribilis del Covid

L’ultimo Osservatorio Itinerari Previdenziali sulle dichiarazioni IRPEF consente di operare un confronto sui redditi dichiarati dalle varie categorie professionali. Dalla rielaborazione dei dati MEF e Agenzia delle Entrate relativi ai redditi prodotti nel 2023 e dichiarati nel 2024 emerge innanzitutto che su una popolazione di poco meno di 59 milioni di cittadini 42,57 milioni hanno presentato una dichiarazione dei redditi. A versare almeno 1 euro di IRPEF, però, solo 33,54 milioni residenti, vale a dire poco più della metà degli italiani; il che significa che ogni contribuente “ha in carico” 1,386 abitanti.

Il totale dei redditi dichiarati nel 2024 ai fini IRPEF è ammontato a 1.028 miliardi, per un gettito IRPEF generato - al netto di TIR e detrazioni - di 207,15 miliardi (di cui 185,58 miliardi relativi all’IRPEF ordinaria), in aumento del 9,43% rispetto all'anno precedente.

Crescono sia i dichiaranti sia i versanti con valori addirittura superiori a quelli record del 2008. Mentre, da un lato, salgono i contribuenti con redditi dai 20mila euro in su, dall’altro, diminuiscono i dichiaranti per tutte le fasce di reddito più basse.

Ciononostante, anche per effetto di bonus e detrazioni, non ci sono variazioni sostanziali nella ripartizione del carico fiscale, che pesa soprattutto sulle spalle del cosiddetto ceto medio: su 42,57 milioni di dichiaranti il 76,87% dell’intera IRPEF è pagato da circa 11,6 milioni di contribuenti, mentre i restanti 31 ne pagano solo il 23,13%.

FIGURA 1 – REDDITO MEDIO DICHIARATO E NUMERO DI ISCRITTI ALLE CASSE DI PREVIDENZA DEI LIBERI PROFESSIONISTI, ANNO 2023

NOTAI

FARMACISTI

ATTUARI

COMMERCIALISTI

CHIRURGHI

ODONTOIATRI

INGEGNERI

RAGIONIERI

PERITI INDUSTRIALI

CONSULENTI DEL LAVORO

AVVOCATI

CHIMICI E FISICI

GEOMETRI

GEOLOGI

AGRONOMI E FORESTALI

ARCHITETTI

VETERINARI

INFERMIERI

PSICOLOGI

PERITI AGRARI

BIOLOGI

GIORNALISTI LIBERI PROFESSIONISTI

Fonte: Osservatorio sulla spesa pubblica e sulle entrate 2025 Itinerari Previdenziali

Delineato il quadro generale, quali i redditi dichiarati dai liberi professionisti? Partendo dalle informazioni contenute nei bilanci d’esercizio delle relative Casse di Previdenza, l’Osservatorio evidenzia come tra gli iscritti liberi professionisti, che possono in alcuni casi avere anche contratti di lavoro subordinato, i 5.005 notai guidano la classifica con un reddito medio annuo – stimato come rapporto tra volume dei repertori e numero di iscritti - di 160.546 euro, seppure in calo negli ultimi due anni a causa della battuta d’arresto registrata dall’attività professionale notarile per effetto principalmente del calo delle compravendite residenziali.

Al secondo posto si classificano i 24.400 farmacisti titolari di farmacie soci, associati in partecipazione e collaboratori familiari, con

circa 107mila euro (dato rilevato dalle pubblicazioni Federfarma), seguiti dai 243 attuari con 100mila euro di redditi dichiarati. Seguono, sotto la soglia dei 100mila euro, gli oltre 73.000 commercialisti con 88.366 euro lordi annui, i chirurghi (74 mila euro) e i dentisti (67mila euro). In fondo alla classifica, invece, i circa 20mila giornalisti liberi professionisti (17.342 euro) e i 5 mila co.co.co (11mila euro, in lieve flessione rispetto allo scorso anno per il mancato rinnovo di alcuni contratti nell’ambito della pubblica amministrazione), i 18mila biologi (20.922 euro), i 3.440 periti agrari (23.101 euro) e gli 81.761 psicologi (25.657 euro).

Guardando all’andamento del reddito dichiarato dai liberi professionisti negli ultimi anni, si nota un generalizzato incremento dopo

il 2020 – anno in cui a causa della crisi pandemica quasi tutte le categorie hanno subito una riduzione dell’attività lavorativa – con particolare rilevanza per geometri (+82% la variazione tra il 2020 e il 2023), architetti (+81%), ingegneri (+80%), e periti industriali (+78%).

L’incremento reddituale registrato da queste categorie di professionisti è dovuto in larga parte all’introduzione e all’ampliamento di bonus per il settore dell’edilizia e delle costruzioni, uno fra tutti il Superbonus 110%.

L’agevolazione fiscale, disciplinata dal decreto Rilancio del maggio 2020, ha riguardato le spese sostenute per la realizzazione di interventi finalizzati all’efficienza energetica e al consolidamento

statico o alla riduzione del rischio sismico degli edifici, inclusa l’installazione di impianti fotovoltaici e delle infrastrutture per la ricarica di veicoli elettrici negli edifici. Si tratta, dunque, di interventi che hanno richiesto il supporto tecnico da parte dei professionisti citati.

In particolare, per ingegneri e architetti l’aumento reddituale è coinciso con l’incremento del numero dei professionisti iscritti all’Albo, soprattutto giovani, legato non solo all’accelerazione delle attività del settore delle costruzioni ma anche alla semplificazione degli Esami di Stato, i cui effetti però sembrano ad oggi esauriti.

Ragionamento simile per la categoria degli psicologi, che - di pari passo con l’aumento degli iscritti

2 – L’ANDAMENTO DEL REDDITO MEDIO DICHIARATO DA ALCUNE CATEGORIE PROFESSIONALI DAL 2017 AL 2023

(dai 68.037 del 2020 agli 81.761 del 2023) - ha registrato una crescita dei redditi, passati da una media di circa 17.000 euro lordi nel 2020 a circa 25.000 nel 2023. In particolare, all’incremento relativo agli ultimi anni ha, in parte, contribuito anche in questo caso l’incentivo introdotto dal Governo (cosiddetto “bonus psicologo”). Ma non solo: l'isolamento e le difficoltà relazionali causate dalla pandemia da COVID-19 hanno determinato, di per sé, un aumento significativo della domanda di supporto psicologico soprattutto per sintomi legati ad ansia e depressione. ■

FIGURA
Fonte:

GENITORIALITÀ, UNA SFIDA ANCORA APERTA

Indennità di maternità, congedi parentali, malattia. Le misure di protezione sociale stabilite dall’Unione europea prevedono parità di trattamento tra dipendenti e autonomi. Ma per i liberi professionisti la strada è ancora tutta in salita. Qualcosa comincia a muoversi in Parlamento. Sulla spinta del Cnel e di Confprofessioni

Il dibattito sulla conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro è una questione che interessa ciascun cittadino, che si fa però più complessa se parliamo di liberi professionisti. Per i liberi professionisti, infatti, per cui la personalità della prestazione è un elemento essenziale del rapporto con il cliente, in particolar modo nelle realtà più piccole, è più difficile concepire ed organizzare periodi di assenza dalle proprie strutture, anche quando si tratti di cure genitoriali. È infatti con la genitorialità e con l’insorgenza delle responsabilità di cura che si creano le prime crepe e interruzioni nei percorsi professionali, soprattutto delle donne.

IL FRENO DELLA MATERNITÀ

I dati riguardanti le libere professioniste e le lavoratrici autonome ci mostrano infatti una situazione particolarmente critica sul fronte del gap reddituale di genere nella fase centrale della carriera, nonché, in generale, sull’accesso alle misure di tutela e sostegno alla genitorialità. Un’indagine dell’Osservatorio delle Libere Professioni ha messo in luce, di fatti, come vi sia una forte preoccupazione delle professioniste sull’impatto che la maternità può avere sui percorsi professionali e di carriera. Se per il lavoro dipendente il legislatore nazionale e la contrattazione collettiva creano costantemente strumenti per favorire un miglior bilanciamento tra le responsabilità di cura familiare e quelle lavorative, per i liberi professionisti le tutele in vigore non sono ancora abbastanza.

IL DIVARIO DELLE TUTELE

In generale le prestazioni dedicate ai lavoratori genitori, come i

congedi di maternità, paternità o parentali, fanno parte delle misure di protezione sociale tutelate in primis dall’Unione europea. Tuttavia, sebbene con la raccomandazione del Consiglio dell’8 novembre 2019 l’Ue abbia esplicitato il principio per cui gli strumenti di protezione sociale debbano coprire tanto i lavoratori dipendenti quanto i lavoratori autonomi, tra le due categorie di lavoratori si fa sempre più evidente un divario delle tutele. È, per questo motivo, di fondamentale importanza, il lavoro delle parti sociali che rappresentano i liberi professionisti che, tramite un di-

battito costruttivo con le istituzioni, sono riuscite, negli anni a raggiungere diverse importanti tutele per i lavoratori autonomi.

I LAVORI IN COMMISSIONE

Si discutono in questi giorni presso la Commissione Lavoro della Camera dei deputati, alcune proposte di legge, dedicate alla genitorialità, finalizzate principalmente ad implementare i relativi periodi di congedo e le connesse indennità. Anche per i liberi professionisti si sono prospettati alcuni adeguamenti ed innalzamenti delle tutele già in vigore,

tuttavia, quello che suggeriscono diversi studiosi nonché Confprofessioni, la principale associazione di rappresentanza dei liberi professionisti in Italia, è un cambio di prospettiva. Per esempio, una strada che potrebbe far ottenere garanzie di continuità professionale e reddituale ai liberi professionisti, anche nei periodi in cui sono impegnati in attività di cura, è quella delle forme aggregative come le società tra professionisti (Stp) e le società tra avvocati (Sta). Queste forme giuridiche consentono infatti di superare le limitazioni dello studio individuale tradizionale, offrendo la possibilità di una maggiore capitalizzazione, di una gestione più strutturata – effettiva e permanente – e di un fruttuoso interscambio tra le competenze e l’apporto dei singoli. E per favorire tali forme aggregative sarebbe fondamentale un sostegno tramite forme di incentivazione, anche differenziate e graduali basate sul grado di strutturazione dell’aggregazione stessa, al fine di creare una realtà organizzativa capace di assorbire senza traumi le vicende personali del professionista.

SULLA SCIA DELL’ISCRO

Un’ulteriore idea è stata quella di adattare le proposte contenute nei disegni di legge, come quella di prevedere un’indennità pari al 100% del mancato fatturato determinato da esigenze di cura, agli strumenti già in vigore, come la disciplina in materia di Iscro, l’indennità straordinaria di continuità reddituale e operativa, rivolta ai lavoratori autonomi iscritti alla Gestione Separata Inps, che interviene come ammortizzatore sociale in caso di calo del reddito

del professionista, a prescindere dalla causa che l’ha determinato. Nella stessa occasione Confprofessioni ha poi ricordato che, tra i lavoratori autonomi, una posizione di particolare fragilità è quella degli iscritti alla Gestione separata Inps, che non godono della protezione offerta dalle Casse di previdenza, ma sono soggetti a un sistema di protezione non ancora adeguato. A tal proposito si è segnalata la proposta di legge elaborata dalla Consulta del lavoro autonomo del Cnel in materia di welfare dei professionisti iscritti alla Gestione separata Inps che si pone l’obiettivo di integrare le prestazioni assistenziali degli stessi, concentrandosi sull’indennità di maternità, sui congedi parentali, sulla malattia, nonché sulle semplificazioni in materia di accesso all’Iscro. L’art. 1 della proposta di

legge Cnel stabilisce, ad esempio, un importo minimo per l’indennità di maternità cui hanno diritto le lavoratrici autonome professioniste iscritte alla Gestione separata. La conciliazione tra genitorialità e libera professione rappresenta oggi una delle sfide più complesse, ma anche più urgenti, per la costruzione di un mercato del lavoro più equo e sostenibile. Le proposte di riforma e le iniziative delle parti sociali mostrano una crescente consapevolezza sociale e istituzionale dell’esigenza di garantire a tutti strumenti di tutela adeguati e realmente accessibili. Tuttavia, per realizzare interventi realmente efficaci è necessario un cambio di paradigma culturale e organizzativo: promuovere modelli aggregativi, incentivare la cooperazione tra professionisti, riconoscere il valore sociale della cura. ■

PRONTO FISCO

Le novità tributarie e il loro impatto sulle professioni nel commento di Lelio Cacciapaglia e Maurizio Tozzi

Decreto correttivo 2025: le nuove regole sul reddito di lavoro autonomo

A partire dal 2025, entrano in vigore nuove regole fiscali che incidono sulla deducibilità delle spese di trasferta sostenute da lavoratori autonomi e liberi professionisti. Vitto, alloggio e viaggi saranno detraibili solo se pagati con strumenti tracciabili. Novità anche su rimborsi, riaddebiti e perdite su crediti.

Il 2025 porta con sé importanti novità fiscali per professionisti, artisti e tutte le figure che rientrano nella categoria del reddito di lavoro autonomo. Con il cosiddetto decreto fiscale (per i più introdotti, decreto correttivo) Decreto-legge 17 giugno 2025, n. 84 “Disposizioni urgenti in materia fiscale” in (GU n.138 del 17/6/25) (entrata in vigore a partire da specifiche date del 2024 e 2025), il legislatore è intervenuto per porre rimedio ad una serie di gravi incongruenze derivanti dal mancato coordinamento del decreto legislativo di Riforma del Tuir con la Legge di bilancio 2025.

Quest’ultima norma, come noto, ha introdotto il requisito della tracciabilità dei pagamenti per le spese di trasferta senza tener conto tuttavia del nuovo regime fiscale introdotto per le spese in questione dall’articolo 5 del decreto legislativo n. 192 del 2024, entrato in vigore il 31 dicembre 2024, bensì considerando ancora il testo previgente dell’articolo 54 del TUIR.

Ne è risultata una completa incoerenza del testo con conseguente concreta ingestibilità della novellata disciplina delle trasferte cui il legislatore ha posto rimedio non proprio con tempestività. Dunque, a partire dal 2025, entrano in vigore nuove regole fiscali che incidono in modo significativo sulla deducibilità delle spese di trasferta sostenute da lavoratori autonomi e liberi professio-

nisti. Il principio fondamentale introdotto dal decreto correttivo è quello della tracciabilità dei pagamenti: spese come vitto, alloggio, viaggi, e trasporti effettuati con taxi o noleggio con conducente (NCC) saranno deducibili dal reddito solo se pagate con mezzi tracciabili, ossia tramite bonifici bancari, carte di credito/debito o altri sistemi previsti dalla normativa.

Il legislatore ha modificato in particolare l’articolo 54 e il nuovo articolo 54-septies del TUIR. Queste norme prevedono che, per essere deducibili, le spese devono essere state effettivamente sostenute e documentate in modo analitico, e soprattutto pagate senza uso di contanti. In caso contrario, anche se il cliente rimborsa le spese al professionista, queste verranno considerate reddito imponibile per quest’ultimo.

Una delle novità più rilevanti è che il vincolo della tracciabilità non riguarda solo le spese anticipate dal professionista per sé stesso, ma anche quelle sostenute per conto di altri collaboratori o dipendenti, nel caso in cui vengano poi riaddebitate al committente. Inoltre, sono state introdotte nuove regole anche per la deducibilità dei rimborsi spese ricevuti. Se, ad esempio, un commercialista riceve un rimborso dal cliente per un viaggio e un pernottamento, ma ha pagato tutto in contanti, a partire dal 1° gennaio 2025 quel rimborso verrà tassato come

se fosse un compenso. In più, quelle stesse spese non potranno più essere dedotte, né dal professionista né dal cliente che le ha rimborsate.

Il decreto stabilisce due diverse date di decorrenza:

▪ Le spese sostenute e non riaddebitate saranno soggette a queste regole dal 18 giugno 2025, cioè dalla data di entrata in vigore del decreto.

▪ Le spese riaddebitate al committente o datore di lavoro, invece, seguono queste nuove regole già per tutto il periodo d’imposta 2025.

Un altro tema affrontato riguarda le perdite su crediti: se un professionista anticipa delle spese per conto del cliente (ad esempio, spese di trasferta), e poi non riesce a ottenere il rimborso, queste spese diventano deducibili solo in alcuni casi particolari.

Per esempio, se il committente è fallito, è in procedura concorsuale, oppure se la riscossione è divenuta impossibile (per prescrizione o tentativi di recupero infruttuosi). In ogni caso, anche in questa ipotesi, la deducibilità è subordinata alla prova del pagamento tracciato delle spese.

È stata inoltre introdotta una semplificazione per le perdite su crediti di piccolo importo: se l’importo totale del credito non supera i 2.500 euro (incluse le spese e il compenso), ed entro un anno dalla fatturazione il professionista non ha ricevuto il rimborso, potrà dedurre la perdita. Anche qui, però, è necessario che le spese siano state anticipate con modalità tracciabili.

STRESSATI DAL LAVORO

I liberi professionisti sono i lavoratori più esposti a stress, ansia e burnout. La mancanza di confini tra lavoro e vita privata, il carico di responsabilità, la pervasività della tecnologia, le aspettative e la concorrenza spingono molti verso un pericoloso logorio psicofisico

Marco Vitiello, vicepresidente di Siplo (Società Italiana Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni).

Barbara De Mei, ricercatrice del Centro nazionale di Epidemiologia, sorveglianza, promozione della salute dell’Istituto Superiore di Sanità

Né i precari sottopagati, né i dipendenti con mansioni umili e turni assurdi: i lavoratori più esposti al rischio burnout sono i liberi professionisti. Lo rivela un sondaggio di Fiscozen che ha intervistato 237 psicologi in tutta Italia sulle condizioni lavorative dei loro pazienti: tutti, negli ultimi cinque anni, hanno registrato un aumento dei problemi di salute mentale legati al lavoro, con ansia, stress e burnout tra le manifestazioni più diffuse. Le cause? La precarietà insita nel regime libero professionale, certo, ma soprattutto l’eccessiva competizione e il sovraccarico di impegni e responsabilità.

POCHE TUTELE

Se per i dipendenti, che nella scala degli “stressati dal lavoro” vengono subito dopo i liberi professionisti, la legge ha introdotto

apposite misure nel Testo Unico sulla sicurezza sul lavoro, per chi lavora in autonomia non esiste alcuna forma di tutela o prevenzione: niente sportello psicologico, nessun monitoraggio, solo l’autodiagnosi. Con l’aggravante che, in assenza di confini chiari tra vita e lavoro, il rischio è sempre dietro l’angolo.

«Non riuscire a separare il lavoro da tutto quello che non lo è genera stress e spesso anche senso di colpa per il fatto stesso di non riuscire a staccare e rilassarsi» spiega Marco Vitiello, vicepresidente di Siplo (Società Italiana Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni). «Questa doppia frustrazione può generare livelli altissimi di angoscia e, a cascata, nervosismo e svariati altri sintomi». E anche se ogni sintomo ha radici personali, i campanelli d’allarme sono comuni. Com’è comune il fatto di ignorarli o considerarli “normali”».

SINTOMI ED EMOZIONI PARLANO

Quando si tratta di dipendenti, i segnali del cosiddetto stress lavoro correlato sono più facili da rilevare: assenteismo, eccessiva rotazione del personale, conflittualità elevata, infortuni. Per i liberi professionisti questi criteri non valgono e bisogna quindi porre attenzione agli altri segnali, quelli più intimi e personali: «Per esempio ai disturbi di tipo cognitivo come la difficoltà di concentrazione e di assumere decisioni o i pensieri negativi persistenti» spiega Barbara De Mei, ricercatrice del Centro nazionale di Epidemiologia, sorveglianza, promozione della salute dell’Istituto Superiore di Sanità. «Oppure

ai segnali di tipo emozionale come perdita di entusiasmo, irritabilità, preoccupazione diffusa, ai sintomi fisici come palpitazioni, dolori muscoloscheletrici e disturbi gastrici, e a quelli comportamentali come calo della performance, disturbi del sonno o dell’alimentazione, uso eccessivo di alcol o tabacco, difficoltà relazionali».

CONFINE LABILE

A volte, il confine tra un periodo stressante e l’incipit di un problema di salute mentale è labile. «Tutti abbiamo sperimentato la sensazione di non riuscire a tenere il passo e andare in confusione» dice Vitiello. «Quando questa sensazione comincia a diventare cronica e non riusciamo a rispondere alle richieste e alle aspettative, ecco, questo è un campanello

Secondo lo studio di Fiscozen, i disturbi più comuni rivelati dai liberi professionisti agli psicologi sono l’ansia nel 25% dei casi, lo stress nel 21%, il burnout, cioè

l’esaurimento psico-fisico (15%), l’insonnia (12%), le difficoltà relazionali (10%) fino alla depressione (8%)

importante: siamo svuotati, privi di emozioni, non abbiamo voglia di creare, di trovare nuove idee. Questo ci fa sentire male con noi stessi e con gli altri. In più, l’assenza di feedback positivi da parte di clienti e colleghi si somma al malessere e si rotola sempre più in basso».Ma cosa esattamente genera stress in ufficio?

«Le richieste ambientali che vengono percepite come eccessive e mettono a rischio il benessere individuale» risponde De Mei. «Molto dipende dal significato attribuito alla situazione fonte di stress e dal modo in cui l’individuo elabora strategie per farvi fronte. Infatti non è il tipo di stressor a determinare la gravità della risposta ma il modo in cui viene percepito, valutato e affrontato dalla singola persona».

TECHNOSTRESS

Il ricorso sempre più spinto alla digitalizzazione ha intensificato le situazioni di stress sul lavoro. «Occorre riflettere sulla tendenza ad andare oltre gli orari di lavoro previsti senza fare pause e rimanendo costantemente connessi, con effetti negativi sull’equilibrio tra vita professionale e privata, sull’efficacia lavorativa e sul benessere» prosegue De Mei. «Al contrario, un’altra criticità può riguardare la scarsa alfabetizzazione informatica: è motivo di stress quando il lavoratore percepisce le proprie competenze come inadeguate di fronte a un compito da svolgere e alla complessità dovuta all’uso delle tecnologie. Queste criticità possono essere all’origine di uno dei rischi psicosociali emergenti, il technostress».

Staccare la spina in senso letterale e metaforico è difficile ma necessario. «È importante impostare il tempo per ogni attività e svolgerne quanto più possibile una per volta» consiglia l’esperta. «Anche stabilire un orario in cui terminare il lavoro e spegnere i dispositivi elettronici è una tattica utile. Bisogna riuscire cioè a prendersi una pausa senza sentirsi in difetto o in colpa, darsi la possibilità di riconsiderare il proprio modo di lavorare».

DAL LOGORIO AL BURNOUT

Se lo stress lavoro-correlato si prolunga senza interventi, si rischia il burnout: crollo della motivazione, problemi di autostima, insonnia, apatia. L’equilibrio psico-fisico è compromesso. La prevenzione, come sempre, evita il disastro. «Ai primi segnali che qualcosa non va bisogna intervenire, anche cercan-

do aiuto» avverte Vitiello. «Bisogna riuscire a trovare spazi di vita in cui riusciamo a fare le cose che ci piacciono; individuare, tra le attività lavorative, quelle che ci soddisfano di più e trovare soddisfazione in esse. Poi, è importante prendersi momenti di recupero fisico. Uscire fisicamente dagli ambienti di lavoro aiuta molto: per esempio, una passeggiata anche breve aiuta a rientrare in contatto con il proprio corpo». Allenarsi a rallentare, stare nel “qui e ora”, prendersi periodicamente pause di ricarica sono altre tecniche utili. «Soprattutto, imparare a organizzare le priorità, sapendo che la prima deve sempre essere il proprio benessere» conclude Vitiello. «Senza paura del cambiamento e senza perdere contatto con le proprie motivazioni e i propri ideali». ■

Crescita economica e stress: un legame pericoloso

La crescita economica, anche quanto è leggera come quella attuale, ha dei risvolti negativi sulla salute mentale dei lavoratori. Lo afferma il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla povertà estrema e i diritti umani, Olivier De Schutter, che ha evidenziato come la crescente “flessibilizzazione” del lavoro abbia contribuito all’aumento dei problemi di salute mentale: ne soffrono circa 970 milioni di persone nel mondo, cioè l’11% della popolazione globale. Questo è vero soprattutto per i lavoratori a basso reddito, ma lo studio mette in luce anche gli effetti del lavoro precario, e quindi di quello autonomo sul quale spesso i precari ripiegano: mancanza di sicurezze contrattuali, retribuzioni incerte e orari imprevedibili rendono impossibile mantenere un sano equilibrio tra vita lavorativa e personale ed ecco che il burnout è dietro l’angolo. ■

IL MIRAGGIO DELLA SICUREZZA ALIMENTARE

Conflitti, eventi climatici, inflazione dei prezzi alimentari, instabilità geopolitica contribuiscono ad alimentare un fenomeno che ogni anno costringe 673 milioni di persone a soffrire la fame

Presidente Fidaf - Federazione Italiana dei Dottori in Scienze Agrarie e Scienze Forestali

Come ogni anno, la Fao, in collaborazione con le altre agenzie delle Nazioni Unite Ifad, Unicef, Wfp e Who, ha recentemente pubblicato il rapporto annuale sullo stato globale della sicurezza alimentare e della nutrizione (State of Food Security and Nutrition in the World 2025). La prima considerazione che scaturisce dalla lettura del rapporto è che ancora nel 2024 circa 673 milioni di persone soffre la fame, ossia una persona su 12 non può contare su di una alimentazione sufficiente a condure una vita sana e attiva. Conflitti, eventi climatici, inflazione dei prezzi dei prodotti alimentari, instabilità geopolitica a livello globale contribuiscono ad alimentare il fenomeno.

Non si può negare che è stato conseguito qualche lieve miglioramento nei confronti degli anni passati, ma la situazione continua ad essere inaccettabile: se si continua con questo ritmo di riduzione della popolazione cronicamente denutrita, sembra assai improbabile che si possa raggiungere l’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile (OSS) 2.1 dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, vale a dire l’eradicazione totale della fame.

E tantomeno l’obiettivo 2.2 “Eliminare tutte le forme di malnutrizione e soddisfare le esigenze nutrizionali di ragazze adolescenti, in gravidanza, in allattamento e delle persone anziane”. Le enormi ricadute sociali ed economiche della perdurante insicurezza alimentare sollecitano quindi un deciso cambio di passo nelle politiche nazionali ed internazionali di contrasto della denutrizione.

GLI SQUILIBRI DEL PIANETA

La seconda considerazione riguarda la distribuzione geografica di questo fenomeno. Come al solito, le medie mondiali nascondono forti squilibri tra le varie aree del pianeta. Se qualche progresso verso l’eradicazione della fame è stato infatti registrato in America meridionale ed in Asia meridionale ed orientale, in Africa la prevalenza della denutrizione cronica raggiunge il 20%, ovvero una persona su 5, in Africa centrale addirittura il 30%, quasi una persona su 3.

È quindi su queste aree che si deve concentrare l’iniziativa internazionale. Certamente le misure che possono, che debbono essere adottate dal sistema intergovernativo e dai governi dei singoli Paesi sono molteplici, complesse e integrate fra loro.

Non si può infatti prescindere dalla ricerca di risoluzione dei molti conflitti locali, non si può ottenere risultati significativi se non mediante strategie di adattamento ai cambiamenti climatici, mentre è essenziale il miglioramento del quadro macroeconomico generale e dei Paesi a più alta insicurezza alimentare, come pure una maggiore trasparenza dei mercati di derrate alimentari per contrastare la volatilità dei prezzi e, in conseguenza, l’aumento dell’inflazione al livello dei consumatori.

Le politiche di protezione sociale delle classi svantaggiate, opportunamente integrate alle altre misure, hanno dato significativi risultati in alcune aree del mondo, e potranno in futuro avere impatti

considerevoli anche altrove. Il rapporto suggerisce anche il perseguimento di un rapporto equilibrato tra produzione locale, esportazioni ed importazioni di prodotti agroalimentari.

Non si abbracciano quindi posizioni pregiudizialmente contrarie a import ed export di prodotti agricoli, ma si riconosce che il commercio internazionale, sia di derrate alimentari, che di prodotti ad alto valore aggiunto, può contribuire a aumentare la sicurezza alimentare, migliorare il quadro macroeconomico e contribuire al reddito di piccoli e grandi agricoltori. Infine si indica l’obiettivo del miglioramento delle capacità produttive, sia per garantire che la produzione agricola sia resiliente agli shock climatici, che per ade-

guare la disponibilità di alimenti alla crescita demografica e si riconosce come necessaria l’integrazione di tecnologia, innovazione e conoscenze scientifiche nelle pratiche agricole.

Due argomenti questi ultimi –quello relativo al commercio internazionale e quello riguardante scienza e tecnologia – che possono sembrare banali, ma che non sono sempre scontati. ■

LEGGI IL DOCUMENTO
THE STATE OF FOOD SECURITY AND NUTRITION IN THE WORLD 2025

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BANANE MADE IN SICILY

Chiquita annuncia la prima piantagione in Sicilia, ma da anni alcuni agricoltori siciliani spingono su avocado, mango e altri frutti tropicali. Colpa del cambiamento climatico. Che però può aprire nuove opportunità

di Matteo Durante

Evoi, siete pronti a mangiare banane Made in Italy? Avete capito bene: tra Marina di Ragusa e Santa Croce Camerina, nel sud est siciliano, presto cresceranno banane italiane. E a coltivarle sarà Chiquita, azienda leader mondiale del settore, che ha scelto la Sicilia per la sua prima piantagione europea.

L’accordo, siglato con la cooperativa agricola Alba Bio, prevede l’impianto di 20mila piante biologiche su una superficie iniziale di oltre 10 ettari, con i primi raccolti previsti già nel 2026.

È un progetto che guarda lontano - verso la filiera corta e la riduzione delle importazioni - ma che affonda le radici in un’evidenza ormai sotto gli occhi di tutti: la Sicilia è diven-

tata terra buona anche per i frutti tropicali. Segno di un’agricoltura che sta cambiando volto seguendo il ritmo e le variazioni del clima.

SICILIA, TERRA ESOTICA

«Gli effetti del cambiamento climatico in Sicilia non sono univoci», spiega Paolo Caruso, agronomo, fondatore di Foodiverso.it e collaboratore di ricerca al Dipartimento Agricoltura, Alimentazione e Ambiente dell’Università di Catania. «In alcune zone, come la fascia ionica da Acireale a Fiumefreddo o la parte tirrenica, messinese e palermitana, le nuove temperature hanno creato microclimi favorevoli a specie tropicali. Lì, dove si può irrigare, la frutticoltura esotica è una reale opportunità, con risultati economici importanti e una qualità dei frutti molto apprezzata dai consumatori».

Mango, avocado, frutto della passione, annona: nomi che fino a pochi anni erano messi tra gli “esotici”, oggi punteggiano le campagne del Val di Noto, i territori vulcanici dell’Etna, le piane di Siracusa o Messina. Ma in realtà, la storia della frutta tropicale in Sicilia non nasce oggi.

Già negli Anni ‘50 e ‘60 del secolo scorso, alla Stazione Agricola Sperimentale di Acireale, insieme all’Università di Catania, si testavano piante di avocado e mango, anche se allora mancava la spinta climatica a cui assistiamo oggi.

Ed è con Andrea Passanisi, fondatore di Sicilia Avocado, che questa intuizione è diventata impresa. Un’impresa di famiglia, nata dalla consapevolezza che le pendici dell’Etna e la costa ionica etnea

potessero essere microcosmi di un’agricoltura tropicale italiana. Con gli anni, il progetto Sicilia Avocado è cresciuto fino a diventare punto di riferimento nazionale, con il controllo costante della filiera biologica, identità territoriale e sostenibilità al centro.

IL PARADOSSO CLIMATICO

Ecco il paradosso climatico che la Sicilia sta attraversando: il clima che regala opportunità ortofrutticole sulle coste, sta mettendo in ginocchio le coltivazioni cerealicole del centro dell’Isola. Caruso in questo senso è netto: «Parlare di tropicalizzazione va bene, ma fino a un certo punto.

Cioè solo se si ha il coraggio di guardare anche l’altra faccia della medaglia, quella dei grani antichi, dei pascoli, delle colline arse che

Paolo Caruso, agronomo, fondatore di Foodiverso.it e collaboratore di ricerca al Dipartimento Agricoltura, Alimentazione e Ambiente dell’Università di Catania.

oggi vive una crisi profonda. Nelle aree collinari e cerealicole della Sicilia centrale, dove non si può irrigare, la situazione è drammatica.

Le piogge sono più rare e violente: in un’ora cade l’acqua di due mesi. Il risultato è che le colture tradizionali, non irrigue, non riescono più a completare il ciclo. Nel 2024, nella piana di Catania, non si è raccolto nemmeno il grano: le spighe erano come prosciugate».

Un dato simbolico: all’inizio del Novecento in Sicilia si coltivavano 900 mila ettari di grano, oggi siamo a poco più di 160 mila.

IL NUOVO BUSINESS

A spingere le nuove coltivazioni, però, c’è anche il mercato. Inserito nel paniere Istat dal 2018, l’avocado «cresce a doppia cifra ogni

anno ed è un prodotto consumato per la maggior parte dalla generazione X e Z che sono le due generazione che spendono di più per il cibo sano», dice Francesco Mastrandrea, imprenditore agricolo ed esperto in agribusiness, che dal 2022 guida Halaesa, società agricola benefit nata a Tusa, nel messinese, con l’obiettivo di guidare la produzione dell’avocado italiano, puntando su un’agricoltura rigenerativa (filiera corta, tracciabile e tecnologicamente avanzata).

La start up, con 45 collaboratori e già tre importanti appezzamenti tra Tusa (ME), Noto (SR) e Collesano (PA) è il simbolo più evidente di questa “rivoluzione verde”: entro il 2030 coltiverà 500 ettari ad avocado. «E potremo soddisfare il circa il 7% della domanda nazionale. Ma il nostro obiettivo» spiega Ma-

strandrea: «è costruire un modello agricolo moderno e responsabile, in grado di unire innovazione, economia e rispetto della terra. L’avocado è una pianta adattabile, non "idrovora" come erroneamente si pensa. Quanto meno, non più del limone». Halaesa ha scelto di puntare sulla varietà Hass (quello più popolare, dalla classica buccia verde), capace di adattarsi ai terreni siciliani, e di utilizzare tecnologie 4.0 per il controllo costante dei parametri di coltivazione.

«Ma parlare di tropicalizzazione della Sicilia è fuorviante», spiega ancora Mastrandrea. «Piuttosto si tratta di adattarsi con intelligenza a un cambiamento già in atto. Il clima sta mutando: negarlo non serve, subirlo è pericoloso. Quando si parla di avocado o mango, si pensa subito a consumo d’acqua o impatto ambientale. Ma con le tecniche di precisione, la sensoristica, l’irrigazione calibrata e la conoscenza agronomica, queste colture possono diventare alleate dell’ambiente. La vera sfida è l’equilibrio».

L’AGRICOLTURA CAMBIA PELLE

E così, vista dall’alto, la Sicilia è un mosaico nuovo: nei terreni dove si raccoglievano arance e limoni spuntano filari di avocado, mentre tra i muretti a secco di Ragusa si sperimentano le prime piantagioni di banano biologico.

«Il segnale è chiaro» conclude Caruso: «gli imprenditori agricoli, soprattutto nelle zone costiere, stanno ragionando su nuove colture a lungo termine. Ma non è una soluzione per tutti. Sono investimenti pesanti, che richiedono studio, ca-

pitali e una conoscenza profonda del territorio. Invito quindi a non generalizzare: non tutta l’isola può diventare "tropicale". Dove manca l’acqua o i terreni non sono adatti, le colture tradizionali restano l’unica via». E così, la frutta tropicale siciliana da semplice esperimento, potrebbe diventare percorso, progetto, strategia. Un modo cioè per reagire al cambiamento climatico non solo adattandosi, ma traendone valore.

E forse, per i giovani, anche un modo per restare: restare in campagna, restare in Sicilia, restare legati a una terra che cambia ma può offrire loro un futuro fruttuoso. E allora, la novità non sono le banane Chiquita o gli avocado Halaesa, ma l’idea che la Sicilia possa reinventarsi. Ancora una volta. ■

PAGINA A CURA

Anrev

Associazione nazional revisori contabili

Laura Bordoli, presidente Anrev

Verso un nuovo tipo di audit

La revisione legale sta entrando in una nuova fase evolutiva: l’IA non è più un supporto marginale, ma un elemento strutturale del processo di audit. Tuttavia, la tecnologia non sostituisce il revisore: lo affianca, trasferendo il baricentro dell’attività dal controllo numerico alla valutazione critica e alla supervisione dei sistemi. È l’inizio di un audit ibrido, dove competenze professionali e intelligenza artificiale coesistono in equilibrio

Il futuro della revisione legale sarà ibrido: un sistema in cui la tecnologia automatizza i processi standardizzati, mentre il revisore presidia le scelte strategiche e i profili di rischio. Il modello ideale è quello dell’“auditing intelligente”: una piattaforma in cui i controlli si adattano ai dati, l’analisi dei rischi è predittiva e la rendicontazione è integrata con i sistemi informativi aziendali.

Ma l’intelligenza artificiale porta anche una nuova responsabilità: quella di garantire che le decisioni automatiche rispettino i principi di trasparenza, tracciabilità e indipendenza. È un terreno ancora poco regolato, ma già decisivo per la credibilità della professione.

L’IA sta spostando il baricentro del lavoro di revisione: non più la verifica di dati e saldi, ma la validazione della logica con cui il sistema li elabora. Il revisore diventa garante della qualità degli algoritmi, non solo della correttezza dei conti. In questo senso, il nuovo modello di audit è più vicino a un ecosistema di vigilanza digitale che a un procedimento di controllo tradizionale. Le piattaforme di audit analytics già oggi integrano flussi XBRL, mastri contabili e database di rischio, producendo analisi predittive e scenari di coerenza in tempo reale.

Le fasi di revisione si fondono in un flusso dinamico: l’acquisizione automatica dei bilanci, la riconciliazione dei movimenti, l’individuazione di scostamenti e la generazione dei report avvengono in pochi minuti. Il revisore può concentrarsi sulle aree a rischio elevato e sul significato dei risultati, non più sulla raccolta manuale dei dati. La revisione legale si trasforma così in un processo continuo. È un cambio di paradigma: dall’audit annuale all’audit permanente.

I vantaggi operativi sono evidenti: velocità, riduzione del rischio di errore umano, disponibilità costante dei dati e capacità predittiva nella valutazione dei rischi. Tuttavia, la dipendenza crescente da sistemi automatizzati apre questioni delicate. Gli algoritmi sono potenti, ma non

neutri: apprendono dai dati, e se i dati sono distorti, anche i risultati lo saranno. Il rischio di bias - decisioni falsate o incoerenti - è reale.

Così come quello di perdere, gradualmente, competenze umane chiave. La revisione legale non può ridursi a un esercizio di validazione automatica: il giudizio professionale, lo scetticismo e l’etica restano elementi insostituibili. Un errore di classificazione o un’anomalia ignorata dal sistema possono generare effetti gravi sul bilancio o sulla continuità aziendale.

Il professionista del futuro sarà un revisore “aumentato”: capace di leggere i dati, dialogare con gli algoritmi e, soprattutto, interpretare ciò che la macchina non può spiegare. Servono nuove competenze: data analytics, cybersecurity, modellazione predittiva, governance informatica. L’IA non sostituisce il revisore: lo costringe a evolversi. ■

PAGINA A CURA

Cipa

Confederazione Italiana Professionisti e Artisti

Massimiliano de Luca, avvocato

IA,

il modello europeo e italiano

L’intelligenza artificiale è una realtà tecnologica complessa, dinamica e multiforme, difficile da definire in modo esaustivo e univoco. Questa difficoltà ha reso problematico adottare un quadro giuridico preciso, necessario per garantirne un utilizzo regolato, sicuro e rispettoso dei diritti fondamentali ed evitare pericolose derive legate a un incontrollato sviluppo tecnologico, contrastante con gli inderogabili e fondamentali valori etici posti a tutela dell’essere umano

Isistemi computazionali di intelligenza artificiale (IA) a differenza degli esseri umani non hanno bisogni proprie, né sono in grado di darsi in via autonoma fini da raggiungere, che sono sempre indotti e assegnati in via eteronoma dall’uomo, sicché le macchine non possiedono coscienza e intenzionalità proprie. Ad oggi è del tutto teorico il concetto di IA forte, intesa quale capacità di apprendere, pensare e agire come gli esseri umani, mentre i sistemi di IA debole (che sono quelli che conosciamo) sono progettati per svolgere compiti specifici, imitando le capacità cognitive umane in un dominio ristretto.

Il primo impianto normativo sistematico al mondo, con il quale è stato disciplinato il fenomeno dell’IA, è il Rego-

lamento UE 2024/1689 (c.d. AI Act), la cui entrata in vigore è stata prevista in maniera graduale a partire dal 1 agosto 2024. Con tale normativa l’Unione europea ha voluto affermare un modello di IA antropocentrica etica ed affidabile, tutelando la salute, la sicurezza e i diritti fondamentali, senza soffocare l’innovazione, con il fine ultimo di migliorare il benessere degli esseri umani. Il Regolamento definisce l’IA come un sistema automatizzato in grado di produrre effetti sul mondo reale o virtuale in maniera autonoma.

L’AI Act pur partendo dal dato tecnologico e nascendo come strumento di armonizzazione del mercato interno (art. 114 TFUE), esalta il fenomeno legandolo indissolubilmente al principio che pone il benessere dell’uomo (con i suoi bisogni, principi etici e diritti fondamentali universalmente riconosciuti) al centro del progetto di applicazione e sviluppo tecnologico, altrimenti privo di significato positivo.

Con l’AI Act, l’Europa ha voluto porre in equilibrio la libertà di mercato e la salvaguardia dei principi costituzionali ed etici, tra cui diritti fondamentali dell’uomo, Stato di diritto, democrazia e sostenibilità ambientale. L’approccio europeo, basato sulla valutazione del rischio e sulla responsabilità degli operatori, si differenzia dai modelli americano e cinese: il primo più orientato alla innovazione libera, il secondo improntato a un controllo centralizzato dello Stato.

L’AI Act, identifica quattro livelli di rischio connessi all’uso dell’IA: inaccettabile, alto, limitato e basso, a cui corrispondono crescenti doveri di trasparenza, sicurezza e tutela. L’obiettivo è assicurare che l’IA sia sempre uno strumento al servizio della persona, che

rispetti e promuova i diritti fondamentali e i valori dell’Unione Europea. Inoltre, l’AI Act dispone che ad esso debbano conformarsi anche le imprese extra-UE qualora vogliano operare nel mercato europeo, garantendo così un rispetto omogeneo delle regole e una competizione leale.

L’Italia, in linea con l’AI Act, ha approvato la L. n. 132/2025, in vigore dal 10 ottobre, che stabilisce principi e regole per un’IA trasparente, responsabile e umanocentrica. La normativa italiana prevede speciali attenzioni per settori cruciali come sanità, lavoro, libere professioni, pubblica amministrazione e giustizia, affermando sempre la centralità della decisione umana e stabilendo regole per l’utilizzo dell’IA da parte dei minori. Inoltre, sono state introdotte norme penali per reprimere l’uso illecito dell’IA, la diffusione illecita di deepfake, la manipolazione fraudolenta di dati e contenuti.

Per garantire una governance integrata sono stati definiti compiti precisi per Agid (L’Agenzia per l’Italia Digitale) e Acn (l’Agenzia per la cybersicurezza nazionale), designate autorità nazionali per l’intelligenza artificiale e chiamate ad operare in sinergia con altre autorità e soggetti pubblici. Inoltre, sono promossi formazione digitale e investimenti per rafforzare la sovranità tecnologica, favorendo un ecosistema innovativo, etico e competitivo, capace di coniugare progresso e rispetto dei diritti.

In sintesi, il modello europeo e quello italiano propongono un equilibrio virtuoso tra innovazione tecnologica e salvaguardia dei diritti costituzionali, fondando l’uso dell’intelligenza artificiale su principi etici, sicurezza e rispetto della dignità umana, per un futuro sostenibile ed inclusivo. ■

WELFARE E DINTORNI

Il Contratto collettivo nazionale degli studi professionali ha costruito un’articolata rete di tutele intorno a tutti coloro che operano all’interno di uno studio professionale. In questa rubrica le ultime novità dalla bilateralità di settore

Gestione professionisti Al via a garanzia PRO-VAX 2025

Anche quest’anno Gestione Professionisti e Beprof confermano la garanzia PROVAX, introdotta già dall’anno 2020, rivolta e attivata automaticamente e senza costi aggiuntivi in favore di tutti i Professionisti titolari di copertura, anche volontaria. PRO-VAX 2025 consente di ottenere direttamente da Gestione Professionisti il rimborso delle spese sostenute dal 01/10/2025 al 31/01/2026 per l’acquisto e/o la somministrazione delle vaccinazioni antinfluenzale stagionale e/o anti pneumococco relative all’inverno 2025 – 2026. La domanda

può essere inoltrata autonomamente dalla piattaforma BeProf (sezione PRODOTTI E SERVIZI/I MIEI SERVIZI ATTIVI/SALUTE E WELFARE/PROVAX 2025), allegando la documentazione prevista, dal 15/10/2025 al 31/03/2026, comunque successivamente alla data di attivazione della copertura principale. Per chi non fosse ancora titolare di copertura, in deroga a quanto previsto per tutte le altre prestazioni previste per i Professionisti titolari, il diritto al Rimborso PRO-VAX 2025, si attiva contestualmente all’acquisto della copertura principale su BeProf.

MAGGIORI

Fondoprofessioni

più opportunità per la formazione

Sulla rampa di lancio i primi tre Avvisi dell’anno 2026, dedicati al finanziamento della formazione negli studi professionali e nelle aziende, per uno stanziamento previsto di 6,4 milioni di euro. Anche per il prossimo anno, Fondoprofessioni conferma tre strumenti principali: Avviso a catalogo (voucher-formazione), Avviso one to one e Avviso monoaziendale. L’Avviso a catalogo permette di scegliere corsi già approvati dal Fondo, rimborsabili con l’erogazione di voucher formativi. Una soluzione semplice e veloce, perfetta anche per gli studi con un solo dipendente. Gli interventi one to one consentono, invece, di formare singoli dipendenti o piccoli gruppi (massimo tre allievi), con lezioni realizzabili anche direttamente in studio. Un modo pratico per rafforzare le competenze individuali, personalizzando i contenuti e la didattica. Infine, con l’Avviso monoaziendale il singolo studio/azienda potrà presentare un proprio piano formativo, progettato per almeno quattro dipendenti. È la formula ideale per chi vuole organizzare un programma di corsi, in presenza o a distanza, tarati sulle esigenze di lavoro e crescita del team.

Lavoro e genitorialità, tra Ente e Cassa

Nel settore degli studi professionali, il welfare bilaterale composto da Ebipro e Cadiprof costituisce un alleato concreto per la genitorialità e la conciliazione vita-lavoro degli iscritti. I due enti operano in sinergia offrendo un ampio ventaglio di servizi e rimborsi dedicati ai figli: dalle spese per asili nido, ai centri estivi, fino alle coperture sanitarie pediatriche e alle indennità per congedo parentale. Per la varietà e complementarità delle misure disponibili, è fondamentale sapersi orientare correttamente tra le prestazioni dei due enti, così da valorizzare al meglio ogni opportunità di tutela e sostegno economico. Queste iniziative, comunque legate al principio mutualistico, non solo agevolano la vita delle famiglie ma rafforzano la partecipazione femminile al lavoro, contrastando la child penalty e promuovendo una cultura della parità. Ebipro e Cadiprof si confermano motore di un welfare bilaterale moderno, inclusivo e capace di generare benessere diffuso nel settore delle professioni.

Cadiprof, più tutele per la famiglia

Tra le novità introdotte nel piano assistenziale Cadiprof 2025 di rilevante importanza è la garanzia Infortuni a tutela dei familiari del lavoratore iscritto, nell’ambito delle prestazioni dirette del Pacchetto Famiglia. La copertura riguarda il coniuge o convivente e i figli minorenni, che abbiano subito un ricovero, un’ingessatura o sostenuto spese mediche a seguito di un infortunio. La garanzia è attiva per eventi occorsi e relative cure successivi al 1° gennaio 2025, purché avvenuti in costanza di copertura del lavoratore iscritto. L’infortunio deve essere certificato dal Pronto Soccorso, con verbale che indichi luogo, giorno, ora dell’evento, le cause che hanno determinato l’infortunio, corredato da certificato medico con indicazione di entità e sede delle lesioni. I rimborsi previsti sono Diaria per ricovero: 50 euro al giorno, fino a un massimo di 30 giorni Diaria per ingessatura: 50 euro al giorno, dal giorno di applicazione fino alla rimozione, fino a un massimo di 30 giorni Rimborso spese mediche: fino a 5.000 euro per persona e per anno assicurativo, con scoperto del 20% e franchigia minima non indennizzabile di 75 euro. Le richieste di rimborso devono essere presentate in un’unica soluzione, al termine delle cure, e per ciascuna garanzia va aperta una pratica distinta. Una volta chiuso l’evento, non sarà possibile integrarlo con ulteriori richieste.

CARTOLINE DAL GIAPPONE

di Maria Teresa Pasceri
Fotografie di Anna Aldighieri

Ci sono luoghi dove l’energia del presente si mescola con la visione del futuro. Expo 2025 Osaka è uno di questi. Una vetrina globale dove i Paesi si raccontano, si confrontano, si aprono a nuovi scenari di cooperazione e sviluppo. Una grande piazza globale dove innovazione, cultura e diplomazia si incontrano per costruire nuove alleanze. In questo contesto straordinario, Confprofessioni ha avuto l’opportunità di estendere il proprio sguardo e rafforzare la propria presenza internazionale, partecipando attivamente al dialogo tra istituzioni, professionisti e imprese.

La missione di Confprofessioni in Giappone ha permesso di favorire lo scambio di buone pratiche e a promuovere nuove opportunità di cooperazione tra i due Paesi. «Abbiamo portato in Giappone competenze trasversali e una profonda conoscenza dei contesti imprenditoriali italiano e giapponese.

Il confronto diretto con i colleghi giapponesi sarà fondamentale per costruire relazioni solide e durature». A capo della missione di Confprofessioni, il presidente di Confprofessioni Marco Natali è il promotore di una vera e propria diplomazia economica, che attraverso Apri International, partner operativo dell’iniziativa, ha facilitato l’accesso a tavoli di lavoro e progetti transnazionali grazie a una rete consolidata di relazioni con enti governativi e istituzioni estere. «Le nostre missioni internazionali dimostrano che le relazioni istituzionali possono trasformarsi in piattaforme operative per la crescita delle professioni», conferma

Luigi Carunchio, presidente di Apri International. La missione di Confprofessioni e Apri International in Giappone si è snodata tra i padiglioni dell’Expo, dove - grazie all’attività degli Advisor di Apri International – è stato possibile ampliare il network con numerosi Paesi: Austria, Germania, Kenya, Arabia Saudita, Vietnam, Canada, oltre al padiglione dedicato all’empowerment femminile.

Un’agenda intensa, che ha incluso incontri ufficiali presso l’Ambasciata italiana e con la Camera di Commercio italiana in Giappone.

PADIGLIONE ITALIA

La delegazione di Confprofessioni ha partecipato alle celebrazioni ufficiali presso il Padiglione Italia, accolta dal Commissario Generale per Expo 2025 Osaka, Ambasciatore Mario Vattani. La visita ha rappresentato un momento significativo di confronto e di riconoscimento per l’impegno profuso nel promuovere l’eccellenza italiana nel contesto globale. Il Padiglione Italia si è distinto tra le partecipazioni internazionali ricevendo il prestigioso BIE Award per il Theme Development, un riconoscimento che premia la qualità progettuale e narrativa del percorso espositivo, perfettamente in linea con il tema generale dell’Expo “Designing Future Society for Our Lives”. «Essere presenti a Osaka ci ha offerto un’occasione preziosa per mostrare come la competenza italiana possa dialogare con il mondo, contaminarsi, crescere», ha dichiarato Natali. «I professionisti italiani incarnano una figura nuova: quella dell’“international professional”, un ponte tra culture, sistemi e competenze. Donne e uomini che sanno muoversi tra diritto e tecnologia, tra economia e ambiente, tra impresa e ricerca, portando con sé il metodo, la sensibilità e la visione del nostro Paese».

Quello di Osaka, per l’Ambasciatore Vattani, è stato l’Expo dell’Italia. Il Padiglione italiano ha infatti vinto l’oro confermando un successo senza precedenti. L’Ambasciatore ha inoltre tenuto a evidenziare come siano ancora poche le aziende italiane presenti in Giappone rispetto alle potenzialità di business offerte dal mercato nipponico, sottolineando che i

professionisti di Confprofessioni possono rappresentare un fondamentale anello di congiunzione per agevolare questo processo di crescita e interscambio.

Essere presenti a Expo significa riconoscere il valore del Sistema Italia: una rete viva di attori pubblici e privati che, insieme, promuovono il nostro Paese nel mondo. Confprofessioni partecipa a questo sforzo con il suo contributo specifico: dare voce alle professioni, portare competenze nei processi decisionali, creare ponti tra territori, saperi e persone. Internazionalizzare non è solo esportare servizi, ma anche condividere idee, offrire strumenti, immaginare nuove strade per la cooperazione tra Paesi. In questo, il ruolo delle professioni è cruciale: per leggere i cambiamenti, tradurli in opportunità, accompagnare la transizione con visione e strumenti concreti. In occasione della chiusura di Expo 2025 Osaka, la delegazione di Confprofessioni ha in-

contrato il Console d’Italia a Osaka, Filippo Manara, per condividere esperienze, progetti e prospettive legate all’internazionalizzazione delle libere professioni italiane. All’incontro ha partecipato anche il Direttore dell’Holy See Pavillon, Stefano Riccardi, in un momento di confronto istituzionale e culturale ad alto livello.

Durante il colloquio, Confprofessioni ha presentato l’esperienza del “Corso Consoli”, progetto formativo giunto alla seconda edizione, pensato per creare una rete di professionisti in grado di supportare i processi di internazionalizzazione e rafforzare i rapporti con le sedi consolari italiane nel mondo, grazie anche al contributo attivo della rete di Advisor di Confprofessioni, che in questi mesi ha lavorato per avviare nuove relazioni con Paesi strategici, consolidarne altre già esistenti e costruire ponti tra professionisti, imprese e istituzioni.

L’AMBASCIATA ITALIANA

La delegazione di Confprofessioni è stata ricevuta presso l’Ambasciata d’Italia a Tokyo da S.E. Gianluigi Benedetti, Ambasciatore d’Italia in Giappone. Un incontro istituzionale che ha rappresentato un momento di riflessione condivisa sul potenziale strategico della cooperazione tra istituzioni diplomatiche, sistema imprenditoriale e libere professioni italiane. Al centro del colloquio: la volontà comune di rafforzare il Sistema Italia in Giappone, promuovendo il dialogo con le imprese locali e creando nuove opportunità per i professionisti italiani che operano o desiderano operare in Asia. L’Ambasciatore Benedetti ha evidenziato come i rapporti tra Italia e Giappone siano oggi solidi e promettenti, anche alla luce del nuovo interesse giapponese verso l’Europa come partner economico e commerciale.

«Abbiamo riscontrato grande disponibilità da parte dell’Ambasciatore Benedetti nel rafforzare le sinergie tra professioni e diplomazia economica», ha dichiarato Natali. «Questo incontro consolida il percorso di internazionalizzazione che Confprofessioni sta portando avanti, con l’obiettivo di accompagnare i professionisti italiani nei mercati esteri e sostenere l’espansione delle nostre imprese in Giappone». In questo contesto, l’impegno di Confprofessioni si inserisce in un più ampio lavoro di lungo termine che punta a favorire l’apertura del mercato giapponese a un numero crescente di aziende italiane, valorizzando il ruolo chiave delle competenze professionali nei processi di internazionalizzazione e cooperazione tecnica.

LA CAMERA DI COMMERCIO

Presso la Camera di Commercio Italiana in Giappone (ICCJ), la delegazione di Confprofessioni è stata accolta dal General Manager Davide Fantoni, insieme a Ryota Takahashi, Head of Business Assistance ICCJ e Fabrizio Lasaponara, Head of the International Corporate Desk - Intesa San Paolo S.p.A. Tokyo Branch. All’incontro cono intervenuti anche Fujiko Amano, Director for Investment Collaboration METI (Ministry of Economy, Trade and Industry) e l’avv. Daniele Bagalà dello studio Bagala & partners.

Si è trattato di un importante momento di confronto operativo sulle dinamiche di internazionalizzazione del sistema produttivo e professionale italiano in Giappone. Sono stati approfonditi strumenti e percorsi a sostegno dell’attrazione degli investimenti, delle partnership tecnico-professionali e del ruolo strategico che possono assumere

le professioni nell’accompagnare le imprese nei processi di ingresso nel mercato nipponico.

Un dialogo che ha confermato l’importanza di una regia condivisa tra attori istituzionali, professionali e imprenditoriali, per valorizzare al meglio le potenzialità di scambio tra Italia e Giappone.

La missione giapponese rappresenta dunque un ulteriore tassello del progetto strategico portato avanti dalla Confederazione per estendere la rete internazionale dei professionisti e contribuire, in modo strutturato, alla promozione del sistema Paese nel mondo.

Torniamo da Osaka con uno sguardo più aperto e la consapevolezza che le libere professioni italiane hanno molto da offrire al mondo. E che, se ben connesse, possono essere protagoniste di una diplomazia nuova: fatta di sapere, di ascolto, e di azione. ■

Gli eventi, le mostre, i film e i libri del momento in Italia e all'estero da non perdere per fare un pieno di cultura e di bellezza

CULTURA

Week end romano

La capitale è una di quelle destinazioni evergreen. E tornarci in autunno ne vale sempre la pena. Magari per scoprire musei poco conosciuti ospitati in edifici sorprendenti. Chicche di meraviglia che riempiono gli occhi e il cuore

di Romina Villa
Nella pagina a fianco: MNR Palazzo Altemps l'Altana dopo il restauro

Metti un fine settimana a Roma. D’autunno, per godere di splendide giornate soleggiate che invitano a stare all’aperto, seduti al tavolo di un caffè con un invitante maritozzo davanti. Non è un caso, infatti, che anche in questa stagione, la città attiri turisti da tutto il mondo, soprattutto quest’anno con il Giubileo in corso. Un’occasione da non farsi scappare. Dopotutto Roma è una di quelle destinazioni evergreen anche se ogni volta che ci si torna, si ha la tendenza a ripercorrere le stesse strade, a rivedere piazze, chiese e musei già visitati. Perché durante i soggiorni precedenti si è rimasti ammaliati e si vorrebbe riassaporare le sensazioni della prima volta. Che, puntualmente, si ripresentano. La città è un contenitore di bellezza che ti irretisce e ti manda in confusione.

Meglio andare sul sicuro, che nel mondo social di oggi, corrisponde alla ricerca dei luoghi instragrammabili. Chi frequenta musei e siti archeologici sa che è meglio arrivare in città con le prenotazioni in tasca, solo così ci si assicura l’ingresso e si saltano le code. All’en-

nesima visita della capitale, si ha anche l’ardire di pensare di conoscere quasi tutto. I Musei Vaticani? Visti tre volte. Galleria Borghese, Capitolini, Colosseo e Fori? Non esistono più segreti.

Ci sta tutto, ma a Roma, più che in altre città del mondo, mentre attraversi a piedi i quartieri, per raggiungere la solita e meravigliosa meta, tralasci a ogni passo qualcosa di altrettanto interessante. Nella capitale ci sono musei dove non c’è mai la coda all’ingresso.

Non si tratta di istituzioni secondarie, semplicemente rimangono sconosciute ai più. Vai a capire il perché. Poi, una volta a caso, capita di entrare in uno di questi luoghi e alla fine ci si domanda come mai non ne avevi mai sentito parlare. Scoprire Roma più a fondo richiede esercizio costante, uno sforzo che però ripaga sempre. Suggeriamo qui due musei ancora poco conosciuti, che hanno elementi in comune: sono ospitati in edifici sorprendenti e conservano il meglio della statuaria romana antica.

PALAZZO ALTEMPS E LA STRAORDINARIA COLLEZIONE BONCOMPAGNI LUDOVISI

Per comprendere appieno lo spirito di Palazzo Altemps, bisogna ripensare alla storia del Rinascimento romano, quando si sviluppò il collezionismo antiquario tra le nobili famiglie cittadine. Nel 1506, sul Colle Oppio, fu rinvenuto il Laocoonte, una delle opere più leggendarie dell’antichità. Ad assistere allo scavo c’erano anche Michelangelo e l’architetto Giuliano da Sangallo, che riconobbero

l’opera citata da Plinio il Vecchio nella sua “Naturalis Historia”. I due artisti erano stati mandati lì nientedimeno che da Papa Giulio II, che non ci pensò due volte ad acquistare l’imponente gruppo scultoreo, oggi ai Musei Vaticani. La scoperta del Laocoonte fu sensazionale ed ebbe una eco gigantesca. Il sottosuolo di Roma nascondeva tesori ovunque e i papi avevano già cominciato a collezionare opere antiche, seguendo quello spirito rinascimentale che volgeva lo sguardo alla classicità.

MNR Palazzo Altemps, Ermete Loghios

Nella pagina a fianco

MNR Palazzo Altemps, La loggia dipinta

Per le nobili famiglie, come i Borghese, i Farnese e i Barberini, costituire una prestigiosa collezione da esporre in palazzi e giardini, dava la misura della loro importanza e del loro potere.

Palazzo Altemps riassume perfettamente la storia di quell’epoca. La nobile dimora fu fatta edificare dalla famiglia Riario nel XV secolo, ma fu nel 1568, quando il cardinale Marco Sittico Altemps acquistò la proprietà, che il palazzo assunse il magnifico aspetto che ancora oggi lo contraddistingue.

Il cardinale fece rinnovare l’edificio dall’architetto Martino Longhi il Vecchio, che ideò lo stupefacente cortile, che comprende anche una raffinata loggia dipinta e l’altana, primo esempio di torre-belvedere tra i palazzi romani di quell’epoca.

Una soluzione architettonica che fece scuola. Nel cortile, sotto gli archi del portico e nelle sale affrescate, erano esposti preziosi marmi antichi e statue, oltre ai dipinti di artisti contemporanei, facenti parte della collezione di Altemps.

La proprietà della famiglia terminò nella seconda metà del XIX, quando il palazzo fu venduto alla Santa Sede. L’edificio subì in quel periodo ulteriori interventi. Lo Stato lo acquistò nel 1982 per destinarlo alla Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma.

Qui nel 1997 sono confluite le collezioni storiche di statuaria antica che fanno parte del Museo Nazionale Romano (di cui Palazzo Altemps fa parte), inclusa la Boncompagni Ludovisi, indicata come

MNR Palazzo Altemps, l'Altana dopo il restauro dettaglio della volta affrescata

MNR Palazzo Altemps, l'Altana dopo il restauro

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MUSEO NAZIONALE ROMANO PALAZZO ALTEMPS

una delle più raffinate collezioni del Seicento romano e in assoluto tra le più rilevanti di tutta la statuaria romana antica. Palazzo Altemps è il sontuoso contenitore di questo museo. Lungo il percorso, le sale affrescate o decorate da marmi, si alternano a scaloni e tracce antiche, come nella grande sala ad angolo, detta della Torre, perché durante la costruzione dell’edificio ai tempi dei Riario, vennero alla luce resti di età imperiale e quelli di una torre medievale, ancora oggi visibile.

Il piano nobile accoglie, tra i tanti, i pezzi cardine della collezione Ludovisi e l’appartamento del cardinale, con la camera da letto e lo studiolo che si affacciano sulla Loggia Dipinta, certamente lo spazio più suggestivo del museo.

MNR Palazzo Altemps, Sala del Galata - Archivio Fotografico MNR, foto R. D'Agostini, L. Mandato

MNR Palazzo Altemps, Trono Ludovisi foto di Stefano Castellani

In alcune sale, inoltre, sono alcuni pregevoli pezzi di scultura egizia. Dal luglio scorso, dopo un restauro, è stata riaperta al pubblico l’altana, visitabile con una guida ogni secondo e terzo fine settimana del mese. Un’occasione per vedere da vicino i decori della torre-belvedere e dare un lungo sguardo sui tetti e le cupole di Roma.

MUSEO IBRIDO

Bisogna spingersi fuori dal centro per raggiungere questo museo, ma si tratta di brevi passeggiate a piedi se già vi trovate nei pressi della Piramide Cestia o, dalla parte opposta, alla Basilica di San Paolo Fuori le Mura. In questa zona, nel 1912 fu inaugurato il primo impianto pubblico di produzione di energia elettrica, tre anni dopo l’istituzione dell’Azienda elettrica municipale. Fu Giovanni Monte-

In queste pagine alcuni scatti del polo museale della Centrale Montemartini, dove la tecnologia in commistione con la statuaria antica, i mosaici e gli affreschi, trasforma questo luogo in una esperienza diversa dal solito

martini, allora Assessore al Tecnologico, a ideare un innovativo piano di sviluppo industriale del neonato impianto. L’architettura della Centrale Montemartini rispecchia quella di altre centrali nate in Italia nello stesso periodo, quando imperava il gusto Liberty, con le grandi vetrate che inondano gli interni di luce naturale, i raffinati decori e la ricercatezza degli arredi. La funzionalità unita all’eleganza.

Quando negli anni ’60 perse la sua funzione produttiva, la centrale fu adibita a magazzini e uffici, decisione che portò in breve tempo ad un sostanziale stato di abbondono. Alla fine degli anni ’80, l’Acea avviò il restauro di tutto il complesso per trasformarlo in polo culturale, attivando il primo cantiere cittadino di recupero di un’area di archeologia industriale.

Nel 1995, in occasione della riorganizzazione dei Musei Capitolini, avvenne la trasformazione della centrale in polo museale. Negli ambienti erano ancora presenti le turbine, i motori, le macchine a vapore che costituirono il primo nucleo di un museo tecnico-scientifico.

Il restauro riportò allo splendore anche l’architettura e nel 1997, una mostra temporanea portò alla centrale numerosi pezzi di scultura antica, provenienti da magazzini e da altri palazzi della capitale. Il connubio fu magico e quel che doveva essere un evento temporaneo, si è trasformato in un raro esempio di museo ibrido permanente. La tecnologia in commistione con la statuaria antica (ci sono anche mosaici e affreschi),

ha trasformato la Centrale Montemartini in un’esperienza estetica e di contenuti, diversa dal solito. Il museo ospita spesso eventi e mostre temporanee, come quella in corso fino a febbraio 2026, dedicata Maria Barosso, artista e archeologa, che con i suoi acquerelli ha documentato monumenti e rovine nella Roma dell’800, in piena trasformazione edilizia. ■

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Stregati dal Fantacalcio

Una fantasquadra di calcio (con veri calciatori della serie A), 11 giocatori acquistati all’asta, una partita/ campionato “virtuale” sul web. Vince chi ha i voti più alti nelle app dedicate. Ne parlano trasmissioni in radio, articoli sulla stampa sportiva e impazza sui social media. Fenomenologia di un fantasy game che coinvolge sei milioni di appassionati e muove un business a sei seri

di Carlo Bertotti

Era nato come un gioco per pochi amici e oggi è diventato un fenomeno di culto dalle dimensioni imponenti. In Italia il Fantacalcio è infatti una vera e propria fede, un qualcosa di inimmaginabile rispetto ai primi anni 90 quando ha lentamente cominciato a diffondersi. Le cifre parlano chiaro: quando si superano i sei milioni di appassionati coinvolti ogni settimana nella gestione della propria fantasquadra non ci sono grandi dubbi sulla reale portata dell’evento. Al Fantacalcio vengono poi dedicate intere trasmissioni in radio, articoli sulla stampa sportiva, rubriche dedicate all’aggiornamento delle situazioni relative alle varie squadre con la lista dei probabili titolari, delle riserve e delle condizioni degli infortunati. Una passione che negli ultimi anni si è anche trasformato in un business dalle varie declinazioni.

UNA STORIA LUNGA TRENT’ANNI

Il Fantacalcio fu inventato alla fine degli anni 80 da Riccardo Albini, un giornalista milanese che prese spunto dal fantasy football statunitense. Anche se negli anni il meccanismo di gioco e le regole principali non hanno subito trasformazioni epocali l’organizzazione delle leghe e il conteggio delle votazioni all’inizio era abbastanza complicato perché non esisteva ancora internet e i calcoli si facevano a mano, con matita e calcolatrice. Nei primi anni 90 un apporto decisivo alla diffusione del gioco fu dato da una partnership con la Gazzetta dello Sport che pubblicò il Fantacalcio sulle sue pagine mostrando i voti per poter calcolare i punteggi delle varie fantasquadre. Ci fu quin-

di un consenso sempre crescente che portò successivamente alla creazione di una piattaforma dedicata interamente al gioco.

Da quel momento il web è diventato il territorio per definizione del fantacalcio fino a quando nel 2017 il marchio è stato acquistato da Quadronica Srl, un’azienda che ha ulteriormente fatto crescere il Fantacalcio arrivando a fatturare nel 2023 quasi 5 milioni di euro e le cui fonti di guadagno sono fondamentalmente sponsorizzazioni ed abbonamenti. Oggi Fantacalcio.it, il portale web ufficiale e la piattaforma di gioco online del gioco che mette a disposizione notizie, voti, statistiche, pagelle e un servizio di gestione per le leghe di fantacalcio, conta tra i 6 e i 10 milioni di utenti unici al mese.

LE REGOLE DEL GIOCO

Ma come funziona il Fantacalcio? L’obiettivo del gioco è quello di dirigere ad ogni turno di campionato una propria fantasquadra, composta da calciatori in carne e ossa delle squadre del campionato italiano di serie A, in un torneo che porterà il vincitore ad aggiudicarsi il trofeo in palio. Ogni team viene assemblato in un’asta, momento decisivo del gioco, in cui si compone una rosa di giocatori divisi per ruolo (portieri, difensori, centrocampisti, attaccanti).

Ogni lega di Fantacalcio è costituita da un numero di squadre variabile (abitualmente tra le 4 e le 12) mentre ciascun giocatore è sia il presidente che acquista i giocatori nell’asta iniziale che l’allenatore della propria squadra. Il risultato

di ogni partita viene determinato dalla somma dei voti assegnati nelle pagelle ai calciatori della propria squadra dalle app specializzate o da una testata in particolare a cui vanno poi aggiunti i punti "bonus" e "malus" dovuti a variabili come il modulo utilizzato, i gol fatti o subiti, le ammonizioni, etc Chiaramente i calciatori (reali) delle big del campionato di serie A sono molto richiesti in sede d’asta, anche se non è detto che un giocatore fortissimo in campo lo sia automaticamente anche al Fantacalcio dove i criteri dei bonus e malus possono cambiare le carte in tavola.

Al netto del valore reale di un calciatore un centrocampista capace di portare gol e assist può portare più punti di un mediano d’inter-

dizione. Senza contare che il Fantacalcio crea sovente dei legami di affezione verso determinati calciatori, a volte anche solo per simpatia o scaramanzia.

UN GIRO D’AFFARI A SEI ZERI

In alcune declinazioni il Fantacalcio, oltre ad essere un gioco appassionante, sta diventando anche un vero e proprio business, una forma d’investimento dove l’aspetto ludico passa in secondo piano. Ad esempio la start up francese Sorare ha realizzato un mercato online per giocare tornei virtuali di calcio e contemporaneamente collezionare figurine degli atleti. Un’operazione che, dal 2019, ha avuto una crescita incredibile con investimenti da diversi milioni di dollari.

In questo incrocio tra Fantasy Games come il Fantacalcio e collezioni di figurine come ad esempio quelle della Panini o quelle di Fifa Ultimate Team (che qualche stagione fa ha cominciato a vendere “pacchetti” digitali dove si trovano i campioni con cui allestire la propria squadra), vengono create delle apposite card dei giocatori delle principali leghe europee, ognuna con la sua quotazione.

Queste carte hanno un numero sempre più limitato: comuni, limitate, rare, super-rare e uniche (di queste ultime solo una per giocatore). Le figurine sono a tutti gli effetti degli NFT, Non-Fungible Token che, salvati su blockchain, (una sorta di quaderno digitale condiviso dove le transazioni sono registrate in “blocchi” collegati in una catena sicura) attestano la proprietà di un’opera digitale,

escludendo che ce ne siano altre oltre a quelle previste in origine; per questo i pezzi più rari (che possono essere scambiati tra giocatori) arrivano a cifre incredibili, tanto che la figurina “unica” di Cristiano Ronaldo è stata venduta lo scorso marzo per 245 mila euro.

Volendo investire e scartando quindi fuoriclasse dai costi proibitivi come Haaland o Bellingham, si può provare ad investire su qualche prospetto in divenire pescando nei mercati sudamericani per poi rivenderlo, una volta esploso, e passare all’incasso qualche anno dopo. Il meccanismo del gioco pre-

vede che ogni settimana i giocatori possano schierare cinque carte di calciatori per partecipare ai tornei e ottenere così dei punti in base alle prestazioni dei loro calciatori in campo, come nel classico fantacalcio, oltre ad avere bonus relativi al valore delle proprie carte. In base ai punteggi ottenuti e alla rarità delle carte che si possiedono, i giocatori possono poi vincere ulteriori premi come nuove carte o ricompense.

Il giro complessivo di scambi di Sorare ha superato i 150 milioni di dollari, con più di 600,000 utenti registrati tra cui compaio-

no anche ex calciatori come Gerard Piqué, Rio Ferdinand, Oliver Bierhoff e André Schürrle. In Italia un fantasy game sul calcio è stato invece sviluppato da Ipermatch, una startup che si vuole rivolgere al giocatore di Fantacalcio medio, quello già abituato a spendere al massimo un centinaio di euro con gli amici a cui si vuole dare l’opportunità di un guadagno maggiore e di un’esperienza più coinvolgente.

L’idea è quella di convertire l’utente in un manager che possa gestire una squadra con un valore reale.

IL FANTA SUL WEB

Uno dei motivi principali per cui il fantacalcio ha avuto un aumento esponenziale in questi ultimi anni è legato alla tecnologia: oggi infatti App e piattaforme digitali permettono ai fantallenatori di gestire direttamente le loro squadre in tempo reale con la possibilità di condividere le proprie strategie con la propria community. Oltre alle gettonatissime rubriche di radio e stampa con i consigli per le formazioni esistono poi degli influencer e creator che periodicamente rispondono alle domande o ai dubbi dei fantallenatori sulla base di accurate analisi o anche solo di sensazioni.

“Cosa cambia al fantacalcio?». È una domanda ormai automatica dopo l’infortunio o la cessione all’estero di un calciatore, o magari dopo il cambio di un allenatore.

Su TikTok poi i contenuti legati al gioco ultimamente sono letteralmente esplosi, raggiungendo un sempre più vasto pubblico di appassionati.

Mattia Albera, con la sua app AlgoFantacalcio è diventato in un tempo relativamente breve una vera e propria star dei social raggiungendo centinaia di migliaia di fan. Albera è convinto che uno dei segreti del Fantacalcio risieda nella differenza effettiva tra le prestazioni reali dei calciatori sul rettangolo verde e il loro valore relativo al gioco.

Un calciatore può infatti essere fortissimo sul campo, risultando però molto meno appetibile in sede di fantamercato se non porta bonus utili per il Fantacalcio.

Lorenzo Cantarini è invece un influencer con più di 100 mila follower su Instagram. Da casa sua pubblica numerosi video in cui consiglia ad esempio quali calciatori acquistare durante l’asta e quali invece schierare prima di un turno di campionato.

Per gli appassionati è diventato un punto di riferimento e lui, nonostante il Fantacalcio rimanga un hobby, comincia anche a capitalizzare con sponsorizzazioni e abbonamenti

Fabrizio Romano invece è uno dei più conosciuti giornalisti sportivi italiani e fondatore di Sos Fanta, importante testata di informazione fantacalcistica in cui poter recuperare tutte le informazioni necessarie in modo gratuito e approfondito: da chi acquistare all’asta, le probabili formazioni, chi schierare nei vari ruoli. Romano è stato uno dei primi a credere nel fantacalcio, non solo come gioco, ma anche come un nuovo modello di business, in un’epoca

in cui pochi credevano alle potenzialità editoriali del gioco e delle sue “ramificazioni”.

SERIE A E FANTACALCIO

Il legame tra Lega Serie A e Fantacalcio è quanto di più saldo e naturale possibile visto che quest’ultimo esiste perché esiste la Serie A. Viceversa molte persone guardano la massima serie anche o soprattutto per via del fantacalcio: per un fantallenatore infatti non esiste una grandissima differenza tra il derby di cartello del sabato sera e una partita di seconda fascia il venerdì perché lui vuole vedere l’andamento di

tutte le partite per capire come stanno andando i “suoi” giocatori, per altro controllando anche i voti che cambiano in tempo reale e descrivendo così un’idea di tifo trasversale assolutamente innovativa rispetto ai canoni tradizionali. Il fantacalcio potrebbe quindi diventare presto uno dei fattori chiave in grado di trainare l’intero mondo del pallone. E in un momento storico in cui il calcio vive una fase di interrogativi e dubbi sul suo futuro, andare incontro ad un pubblico più giovane che riconosce codici nuovi e differenti rispetto alla tradizionale idea di tifo, diventa molto importante. ■

Un dentista rock

Sino al 2010 ha gestito una sua attività ad Alessandria e negli ultimi anni opera come consulente in odontoiatria e collaboratore di altri studi. Ma il grande amore di Rudi Bargioni è la musica che pratica ad alti livelli e in svariati contesti sin dai tempi dell’adolescenza

Nella pagina a fianco: Rudi Bargioni e la moglie Antonella Marti Martinelli, foto di Laura Marinelli

Poco dopo aver concluso l’intervista a Il Libero Professionista Reloaded un messaggio e alcune foto inviati via Whatsapp ci informano che fra le passioni di Rudi Bargioni ci sono anche i fumetti e che all’odontoiatra alessandrino si deve una delle prime monografie pubblicate sul mitico Tex Willer. Questo tanto per dire che il personaggio è poliedrico e la sua innata versatilità è il quid che gli ha permesso di mantenersi in perfetto equilibrio nel corso dei suoi 72 anni di esistenza terrena fra gli studi e il lavoro da dentista e l’attività di musicista che coltiva senza sosta da quando era bambino.

FRA LA VIA EMILIA E LIVERPOOL

«Ho cominciato a sei anni con il pianoforte», ha esordito Bargioni, «e mi sono avvicinato alla chitarra anche perché si tratta di uno strumento indubbiamente più comodo da portarsi a spasso per suonare con gli amici. Già a 16-17 anni giravo fra la pianura padana e la Svizzera esibendomi con un gruppo chiamato Privilege. Eseguivamo il tipico repertorio di tanti complessi dell’epoca spaziando dal blues al soul sino ai Rolling Stones e ai Beatles, senza disdegnare cover di Battisti». Inevitabile che i concerti si tenessero in prevalenza nei fine settimana ed è facile immaginare quanto traumatico potesse essere il ritorno fra i banchi di scuola il lunedì mattina. Al medico piemontese la perizia da strumentista è poi servita per autofinanziarsi l’università a Milano e al tempo stesso ha contribuito a rallentarne il cammino verso la Laurea, conseguita nel 1986. Districarsi fra le sudate carte e le

serate nei club e pianobar non è sempre un’impresa semplice e in mezzo c’è stata anche l’epoca del movimentismo.

«L’impegno politico e la ricerca sulla canzone popolare», ha ricordato, «hanno rappresentato uno snodo fondamentale anche perché mi hanno consentito di entrare in contatto con alcuni autori e interpreti di spicco di quel panorama. Il perimetro cui mi riferisco è in particolare quello del Cantacronache e, solo per citarne alcuni, i nomi sono quelli di Fausto Amodei, Sergio Liberovici, o ancora di Franco Castelli e Italo Calvino con Dove vola l’avvoltoio».

SOTTO IL CIELO DELLA CHANSON

Ma il rock ‘n’ roll e la Beatlemania sono malattie croniche che hanno continuato a covare sotto la cenere: da un quarto di secolo ormai Rudi Bargioni ripropone reinterpretandole le pietre miliari del funky e della musica nera - più un pizzico di italianità - con il quartetto The Definitives. Ne fa parte il nipote cantautore Dado con il quale ha dato vita a un progetto ambizioso e fortunato. «Per una radio alessandrina», ha detto, «abbiamo realizzato 17 anni fa un ciclo di otto puntate interamente dedicate all’arte dei fab four. Sono state messe in onda tutte le loro composizioni in versione originale o rivisitata live in pri-

ma persona; oppure ancora nelle incisioni di altri artisti. È stato un lavoro mastodontico che si è concluso con un nostro show ospitato dalla terrazza dell’emittente». Tali e tanti sono stati i riscontri dell’iniziativa di racconto-canzone che Bargioni ha pensato di declinarla in altri modi insieme alla moglie Antonella Marti Martinelli. «Abbiamo allestito lo spettacolo Sous le ciel de Paris», ha spiegato, «che è centrato sulla tradizione francese; e lo stesso abbiamo fatto con la plurisecolare storia della melodia napoletana dal medioevo a Pino Daniele. Adesso è la volta della scuola milanese con un viaggio che va da La bela Gigogin a Enzo Jannacci».

POCHI MA BUONI

Dietro ai tour del duo, due voci e una tastiera, non c’è una vera spinta promozionale e i palcoscenici sono alternativamente i piccoli e piccolissimi teatri o persino le case private, perché «l’essenziale per un musicista è avere di fronte una platea attenta e disposta all’ascolto: questo fa la differenza». Innamorato di Stefano Bollani «per la levità e spontaneità» e appassionato, fra classica e leggera, dei grandi come Eric Satie, Georges Brassens, Conte e Fossati - «e considero inarrivabili la francese Barbara e Aretha Franklin», ha detto - Bargioni trova il pubblico giusto nelle occasioni più varie. «Lo scorso ottobre», ha detto, «abbiamo proposto ad Alessandria una scaletta composta dai successi del night di una volta in uno spazio da 25 posti che serviva un menu studiato ad hoc. Buscaglione, Buongusto, Peppino di Capri hanno colto nel segno e si può dire che per certi versi l’esibizione, ancora una volta fatta di musica e

narrazione, sia stata più una lezione di musica che un concerto». Non è tutto: destare l’attenzione e la partecipazione emotiva degli ospiti di una residenza per anziani non è di minore soddisfazione e anzi risiede proprio nel risveglio di sensazioni sopite il grande potere che le note sono sempre e da sempre in grado di esercitare. È per eccellenza la cura, come e più di quella che il dottore esercita alla poltrona. «Ma non ricordo», ha concluso, «un tempo della mia vita in cui non abbia suonato: ricordo invece di non essere stato odontoiatra. La musica mi è consustanziale e la vivo senza ansie: cosa che al contrario mi accade quando ho di fatto

nelle mani la salute di un paziente. Nondimeno, il mio lavoro di ogni giorno mi ha insegnato a gestire la tensione e acquisirne il controllo senza perdere la concentrazione. E in comune con il piano e la chitarra ha il fatto di implicare uno status di piena responsabilità individuale, quindi di solitudine. Forse, come lo stesso Jannacci ha detto di sé, avrei potuto trarre qualcosa in più dalla medicina. Di sicuro voglio farlo con il pentagramma perché non rinuncio all’idea di registrare qualcosa di mio». ■

The Definitives, foto di Laura Marinelli

RECENSIONI

Cinema, balletto, musica e libri.

Un vademecum per orientarsi al meglio tra gli eventi culturali più importanti del momento

a cura di Luca Ciammarughi

VIRTUOSISMI E RARA NOBILTÀ

“Sacro furore” era il titolo del concerto vivaldiano che Carlo Vistoli, uno dei controtenori più brillanti e profondi delle nuove generazioni, ha tenuto per lo splendido festival Concerts d’Automne di Tours, per la direzione artistica dell’italiano docente alla Sorbonne Alessandro Di Profio. Con l’ensemble francese su strumenti originali “Les Accents” ben diretto dal violinista Thibault Noally, Vistoli ha affrontato una pagina apparentemente spoglia ma di

IL CONCORSO FA DISCUTERE

Come sempre (e più di sempre) ha fatto discutere il Concorso “Chopin” di Varsavia, competizione pianistica quinquennale che in passato ha visto l’affermazione di pianisti oggi diventati miti (alcuni viventi) come Maurizio Pollini, Martha Argerich o Krystian Zimerman. È stato lo statunitense di origini cinesi Eric Lu, già vincitore a Leeds nel 2018, ad aggiudicarsi il concorso dopo una riunione dei giurati di circa cinque ore. L’affermazione di un pianismo completo, sobrio e per certi versi dalla poesia zen ha lasciato insoddisfatti i cultori di un approccio più immaginifico e dionisiaco, come per esempio quello del georgiano David Khrikuli, escluso dai premiati, o di un talento di rilucente evidenza come quello della cinese Tianyao Lyu, classificatasi solo quarta. Nelle fasi finali, anche due italiani hanno dato prova di immenso talento: Gabriele Strata e Ruben Micieli

ardua interpretazione come lo Stabat Mater, risolto con delicatezza espressiva ma senza rinunciare del tutto a vibrato e ornamentazioni (evitando così l’effetto “fischietto”). L’apice della serata è stato però nella seconda parte, quando, con voce più calda, Vistoli ha fatto mirabilia nelle arie “di furore”. Un virtuosismo acceso, il suo, ma sempre governato da un gusto di rara nobiltà. Notevolissimo anche il raro lavoro sacro In furore justissimae

TRA COMMOZIONE E

TALENTO

Si è tenuto a Parigi, dal 15 al 19 ottobre nell’acustica splendida della lignea Salle Cortot, un piccolo Festival commemorativo dedicato ai 100 anni dalla nascita del grande Valentin Berlinsky, indimenticabile violoncellista del Quartetto Borodin. Nella magnifica serata di chiusura, l’incredibile Mikhaïl Kopelman (che del Borodin è stato primo violino), alcuni membri del Quatuor Modigliani, Dmitri Sitkovetsky, la pianista Ludmila Berlinskaya (figlia di Berlinsky e organizzatrice della rassegns) e una guest star a sorpresa, Elisabeth Leonskaya, hanno dato vita a un programma cameristico entusiasmante, con il Quintetto “La trota” di Schubert, un momento dal Dittico di Shchedrin, scomparso circa un mese fa e il gran Sestetto di Glinka. Fra commoventi testimonianze verbali e intensi dialoghi sonori fra generazioni diverse unite dal talento cameristico, la serata ha avuto un valore storico.

IL TRITTICO DI DANZA NON DELUDE MAI

I Trittici di danza contemporanea proposti dal Teatro alla Scala non deludono mai: l’eterogeneità dei lavori presentati, lungi dall’essere disturbante, è emblema di quanto la programmazione sia divenuta scevra da pregiudizi e aperta a differenti possibili impostazioni coreografici. Al mondo virtuosistico un po’ calligrafico di Harald Lander, che in Etudes tratteggia la giornata dei danzatori (dagli esercizi di riscaldamento fino allo spettacolo finale) su musiche che ogni giovane pianista conosce bene (gli Studi di Carl Czerny, nell’affascinante orchestrazione di Riisager), ha fatto da contraltare la potenza visionaria e perturbante di Kylián nell’ormai classica Petite mort, in cui la musica di Mozart dialoga con il silenzio e con lo sventagliare di spade (il titolo è già una dichiarazione di eros e thanatos). A chiudere, il Boléro di Ravel nella dichiaratamente sensuale coreografia di Béjart. Straordinario il livello di ballerine e ballerini scaligeri.

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Wopta per te Vita è l’assicurazione pensata per garantire un sostegno concreto nel caso di imprevisti che possono compromettere la stabilità economica tua e della tua famiglia. Per gli iscritti BeProf condizioni esclusive. Le garanzie incluse sono: Vita: in caso di decesso, un capitale a tua scelta, fino a 500.000 euro, a sostegno dei Beneficiari da te individuati. Invalidità totale permanente: in caso di invalidità permanente, pari o superiore al 60%, da malattia o da infortunio, il capitale è a tua completa disposizione. Inabilità temporanea totale: in caso di temporanea totale impossibilità di lavorare, a causa di infortunio o malattia, un indennizzo, ogni mese, in sostituzione del mancato reddito, fino a 3.000 euro. Malattie gravi: un capitale, fino a 100.000 euro, a tua disposizione, in pochi giorni dalla prima diagnosi di Cancro, Ictus, Infarto, Chirurgia aorto-coronarica (bypass), Insufficienza renale (fase finale di malattia renale), Trapianto di organi principali (cuore, polmone, fegato, pancreas, rene o midollo osseo). Wopta ha pensato a tutto per renderti la vita più serena. Con le garanzie e le prestazioni di «Wopta per te Vita» puoi da subito beneficiare di un aiuto nei principali momenti di difficoltà.

APRI FORMAZIONE: SERVIZI AI PROFESSIONISTI PER LE SFIDE DEL FUTURO

Apri Formazione è lo strumento operativo di Confprofessioni per la formazione e ha lo scopo di assistere i professionisti nel fronteggiare le sfide dettate dalle trasformazioni tecnologiche, economiche e sociali attraverso lo sviluppo di competenze. Apri Formazione progetta e gestisce corsi di formazione e progetti finanziati e si avvale delle strutture del Sistema Confprofessioni per monitorare in modo efficace i fabbisogni del mondo delle libere professioni. In particolare attraverso l’Osservatorio delle libere professioni, l’organismo di Confprofessioni per la produzione di studi, ricerche, rapporti ricorrenti sulle trasformazioni in corso nel vasto mondo delle libere professioni. La continua interazione con gli stakeholder e con le diverse associazioni di professionisti della Confederazione consente di anticipare i fabbisogni del mondo delle libere professioni, di cogliere le opportunità di crescita e di divulgare le buone pratiche sviluppate nei territori. Grazie a BeProf puoi ottenere sconti esclusivi sul catalogo di Apri Formazione - Sconto 25% per gli iscritti a BeProf e Sconto 50% per gli iscritti a BeProf e in copertura con Gestione Professionisti.

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Posto che l’unica certezza è l’incertezza, si respira un cauto ottimismo intorno all’economia del nostro Paese. Non sarà quella moderata ripresa che tira nel resto dell’Eurozona, ma piccoli balzelli che portano avanti una crescita inchiodata attorno allo “zero virgola”. Secondo le ultime stime della Banca d’Italia il prodotto interno lordo aumenterà dello 0,6% quest’anno e nel 2026 e dello 0,7% nel 2027, rispetto a una media europea che si attesta tra l’1,3% e l’1,5%. Intanto, l’apprezzamento dell’euro nei confronti delle principali valute e l’impatto dei dazi statunitensi sulle nostre esportazioni hanno già determinato una revisione al ribasso del Pil 2026 di 0,2 punti percentuali rispetto a sei mesi fa; tuttavia l’espansione dei consumi, favorita dalla ripresa del reddito disponibile reale, e degli investimenti, grazie alle misure del Pnrr e della discesa dei costi di finanziamento, dovrebbero sostenere la crescita seppur ancora troppo fragile. Inoltre, gli sforzi del Governo di contenere il deficit pubblico entro la soglia del 3% - tanto elogiati dalla Banca centrale europea e dal Fondo monetario internazionale - cominciano a produrre i primi effetti, grazie all’aumento delle entrate ma anche della pressione fiscale (cresciute rispettivamente di 1 punto e di 1,3 punti percentuali di Pil negli ultimi tre anni). Se nel 2025 il deficit è previsto al 3,3% del Pil, le stime del Mef per il 2026 indicano una previsione del 2,8% e un’ulteriore riduzione al 2,6% al 2027. Una marcia a tappe forzate che ci libererebbe dalla morsa della procedura di infrazione per deficit eccessivo dell’Unione europea, che dal 2012 al 2021 ci è costata complessivamente 800 milioni di euro in sanzioni, non esattamente una somma stratosferica per il bilancio pubblico. Sull’altro piatto della bilancia pesa come un macigno l’enorme debito pubblico accumulato a causa dell’incremento delle disponibilità liquide dl Tesoro e dei rimborsi dei titoli di Stato. Secondo l’ultimo report della Banca d’Italia ad agosto il debito pubblico è aumentato di 25,4 miliardi, toccando la soglia record di 3.082,2 miliardi di euro. E in uno scenario di crescita da “zero virgola” è un fardello che dovremo portarci sulle spalle ancora per molto tempo.

di Giovanni Francavilla
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