LeSiciliane-Casablanca n.89

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Definisci genocidio

Un secolo senza

Giuseppe Fava, ma le sue parole risuonano più forti che mai.

100 anni dalla nascita di Giuseppe Fava (1925-2025)

GAZA

Graziella Proto

IL PARADOSSO DI GAZA: DOVE SONO LE DEMOCRAZIE?

Gaza, l’ultima domanda: a chi importa?

Perché Abu Mazen è scomparso dalla scena politica?

Perché Netanyahu tratta con Hamas e non con il presidente Abu Mazen?

Dove sono finiti gli stati convinti che la democrazia si possa e si debba esportare?

Come mai le loro navi non sono davanti alle coste di Israele?

Al loro posto, i civili si stanno esponendo con flottiglie private

per portare conforto ai palestinesi. L’obiettivo, oltre a portare solidarietà, è rompere il criminale blocco israeliano che sta facendo morire di fame gli abitanti di Gaza. Un grande, forse il più grande, gesto umanitario fatto finora per spingere tutti gli stati, nazioni e continenti a muoversi. A intervenire. A fare qualcosa per interrompere il genocidio in atto. Purtroppo, invece, siamo già alla conta su chi dovrà costruire riviere, resort e grattacieli. L’immobiliarista Trump l’aveva già annunciato. E questa volta

nessuno ha voglia di esportare la democrazia utilizzando diplomazie e carri armati. La verità è che per l’Occidente Israele è il ponte per il Medio Oriente, e questo basta a giustificare tutto.

A GAZA MUORE UN BAMBINO OGNI ORA

Le immagini che ci arrivano, trasmesse dalle televisioni o catturate dagli obiettivi fotografici, hanno dipinto e continuano a dipingere un quadro di distruzione totale a Gaza, un dolore che quelle

stesse immagini non riescono a contenere. Ogni angolo della Striscia è stato inghiottito dalle macerie: case, ospedali, scuole, persino i rifugi più innocenti dei bambini.

Eppure, in questo panorama di dolore, c’è chi si rifiuta di lasciare che la speranza si sbricioli. C’è chi alza la mano contro l’oblio, chi crede che il cuore umano non smetta di battere. C’è chi si ostina a credere che l’ignoranza non debba essere il destino dei più piccoli e che il buio non debba impossessarsi dei bambini. Qualcuno lotta con tutte le sue forze per accendere una luce di speranza, per far sì che l’infanzia di oggi non sia solo un ricordo di guerra domani. Con un gesto di profonda, inaudita resistenza, queste persone improvvisano scuole e cercano di regalare ai bambini qualche ora di normalità, un fragile attimo di pace. Fra i bambini sopravvissuti, solo una

manciata ha ancora la possibilità di andare a scuola. Sono bambini che, come tutti gli altri, sono spaventati, terrificati, traumatizzati da ciò che sta succedendo sotto ai loro occhi. Tuttavia, vengono accompagnati a scuola sfidando i “quadricotteri”, orrendi droni che imitano una richiesta di aiuto per attirare le persone e bombardarle.

Save the Children parla di 20mila bambini morti, uno ogni ora in 23 mesi di guerra.

HAMAS: DAALLEATO A NEMICO ASSOLUTO

Israele tratta con Hamas quasi sicuramente perché, ufficialmente, vuole far partire la decisione del genocidio dal 7 ottobre 2023, addossando tutta la responsabilità ad Hamas. Ma Lucio Caracciolo, fondatore e direttore della rivista italiana di geopolitica “Limes”, ha raccontato in televisione e sui giornali che Netanyahu

considerava Hamas un punto di forza di Israele, perché controllava Gaza ed era finanziato da Israele e dal Qatar. Ora Hamas è diventato il nemico assoluto da abbattere, altrimenti Netanyahu avrebbe fallito la sua missione.

Ciò che sembra ancora più paradossale è che, per mancanza di alternative, Hamas sia ormai considerato il rappresentante della Palestina. Abu Mazen – fino a oggi –presidente della Palestina non è autorizzato a trattare.

Recentemente, la regina Rania di Giordania, di fronte a tanto dolore, ha attaccato Israele dicendo pressappoco che a Gaza la popolazione è stremata dall’assedio, privata di ogni risorsa vitale. I medici, stremati e affamati, lottano per curare i feriti con scorte quasi inesistenti. Nel frattempo, i giornalisti che raccontano la realtà sul campo continuano a essere uccisi impunemente.

Il Popolo della Pace in piazza per Gaza

Un'onda di solidarietà per la Palestina. Oltre mezzo milione di persone, tra adulti e studenti, sono scese in piazza in tutta Italia per chiedere il cessate il fuoco a Gaza e urlare 'No al genocidio'. Dai 300mila manifestanti a Roma alla marea umana di Milano, il Paese si è mobilitato per la pace. Cortei pacifici e colorati hanno invaso le città, da Milano a Palermo, compresa Catania, unendo famiglie, studenti e cittadini in un'unica, potente voce di solidarietà per il popolo palestinese. Ogni corteo è stato un'espressione di solidarietà con il popolo palestinese e un sostegno alla missione della Global Sumud Flotilla diretta a Gaza.

Il popolo in rivolta scriverà la storia, Resistenza fino alla vittoria! è uno dei tanti cori di un lunghissimo corteo che attraversa, come un fiume colorato in cerca di speranza, le arterie più importanti del capoluogo etneo per giungere fino al porto. Ma oggi non è scesa in piazza solo Catania, ma tantissime città italiane, dalle più import anti, come Milano, Roma, Genova, a molte altre che non saranno visibili nei media ma che hanno certamente fatto la differenza come piccole fiaccole di testimonianza civile.

Tutti coloro che sono nelle strade, migliaia e migliaia di persone, hanno una sola motivazione e un unico obiettivo: sono stufi dell'orrore.

Ovunque i cortei sono stati imponenti, animati da una moltitudine pacifica e rumorosa di insegnanti, studenti, lavoratori e di molti altri la cui etichetta può essere solo quella di appartenenza al genere umano.Da

anni non si vedeva una partecipazione emotiva e sincera sia da parte di chi sciopera o manifesta sempre, sia di chi non va mai. Questi ultimi sono il segno evidente che le intenzioni autentiche della gente vanno protette perché le parole possono distorcere l'informazione, scambiando la parte con il tutto. Ne

è un esempio l'incivile trambusto alla stazione di Milano. Non si può manifestare per la pace e mettere a soqquadro i beni della comunità, soprattutto perché il danno è doppio: si mette in ombra la causa del popolo palestinese e chi la sostiene, facendo additare questi ultimi quali pericolosi terroristi o sovvertitori dell'ordine pubblico. Portare scompiglio vuol dire mettere in ombra il serpentone colorato delle persone pacifiche e perbene che, attraversando le vie delle città, protestano contro l'orrore; vuol dire porgere il fianco a coloro che, contrari alla democrazia e alle sue manifestazioni, vogliono farci credere che una vetrina danneggiata, e subito aggiustata, valga più di 30.000 bambini palestinesi uccisi. Per loro nessun aggiustamento è previsto. Questo non si può accettare! A Catania, un lunghissimo corteo con le bandiere della Palestina è partito dal porto verso

Piazza Castello Ursino. Un corteo allegro, arrabbiato e colorato. Una manifestazione pacifica e ordinata, fatta da persone speciali che, in questa narrazione, devono essere idealmente accomunate: volti conosciuti e non che camminano spinti da un urgente bisogno di fermare la strage di innocenti.

MANIFESTANTI E LORO SENTIMENTI

Frida, una bambina di cinque anni, è accompagnata dal papà e mi dice che vuole tenere in mano la bandiera della Pales tina per sentirsi vicina alle persone che soffrono.

Chiedo a due ragazze del Gruppo Scout Catania 1, di 16 anni, in che modo lo spirito scout marcia con loro nel corteo. La prima parola che pronunciano è Speranza, quella forza che spinge ad andare avanti nonostante le difficoltà. Il loro pensiero va ai coetanei palestinesi, alle loro vite bloccate dalla fame e dalla guerra, e a come, in confronto, i nostri problemi diventino piccoli e marginali.

nia. Il sindaco Giovanni Burtone, di Militello in Val di Catania, si fa portavoce di un sentire comune rimarcato con forza e chiarezza: "Dopo 80 anni di democrazia pensavamo di essere stati liberati da atti brutali e barbari, invece assistiamo al genocidio di Gaza. È un grido di dolore la manifestazione di oggi per aiutare persone che muoiono di fame e di sete.”

La piacevole sorpresa sono le mamme con i passeggini, con i loro piccoli mossi da un profondo senso di pietà. Tutte queste madri si commuovono e

casa e faccio la doccia, penso a Gaza dove si muore di sete e la casa ti cade addosso. Non si può più andare avanti così." Anche a Palermo la partecipazione è stata notevole, pacifica e straordinaria. I manifestanti chiedono di fermare il genocidio a Gaza, di difendere la Flotilla e di porre fine all'economia di guerra, come si legge sullo striscione in testa al corteo. Le loro richieste includono anche l'aumento dei salari e la riduzione delle spese militari.

La manifestazione, che secondo gli organizzatori ha rag-

Camminando tra la gente quattro fasce tricolori, quattro sindaci: tre della provincia di Enna e uno della provincia di Cata-

piangono. "Ho sentito di dover venire per i bambini palestinesi. Mia figlia è nata quando tutto è iniziato e per questo lo sento di più," mi spiega Maria Concetta. Roberta ha una bimba di 9 mesi e mi racconta di essere alla manifestazione per trasmetterle fin da subito il senso della comunità. "Noi siamo sempre più chiusi, mentre l'umanità oggi è qui a Catania. Quando apro il rubinetto di

giunto le 20.000 presenze, vede sventolare bandiere dei sindacati USB, della Palestina e il tricolore italiano, proprio come nelle altre città d'Italia. La speranza è tanta.

La gente, le persone, i cittadini stanno facendo il loro dovere, e non si capisce perché i governi non stiano intervenendo.

"Il popolo in rivolta scriverà la storia, Resistenza fino alla vittoria!"

GAZA NEL CUORE: Intervista ad Antonio Mazzeo

Graziella Proto

Intervista ad Antonio Mazzeo, giornalista, scrittore, ecopacifista e antimilitarista. Antonio era salpato con l'equipaggio dell'imbarcazione

Handala della Freedom Flotilla Coalition per raggiungere Gaza via mare e portare aiuti umanitari. Come accaduto ad altre imbarcazioni in precedenza, la Handala è stata intercettata in acque internazionali e sequestrata. Abbiamo rivolto ad Antonio alcune domande sulla sua missione. Le emozioni a bordo della Handala

Sei stato a bordo della nave Handala, della Freedom Flotilla pro-Gaza. Quali emozioni e sentimenti ti ha suscitato questa missione? Emozioni tantissime, belle e brutte. Ricordi che mi rimarranno per sempre e mille, diecimila spunti di riflessione: sul genocidio del popolo palestinese, sulle responsabilità dei governi (a partire da quello italiano e dell’Unione Europea), sulla catastrofica condizione del mondo, sulle odierne guerre che insanguinano il pianeta, sulla necessità di rafforzare ovunque le opposizioni al modello unico socio-economico e militare imperante.

Durante la lunga navigazione nel Mediterraneo, otto giorni

lontani dalla terraferma, con il mare e solo il mare all’orizzonte e la Via Lattea ogni notte, ho pensato al senso della vita, alle immani ingiustizie che insanguinano il pianeta e alla coraggiosa resistenza di un popolo che incarna le radici dell’ulivo alla madre terra. Giorno dopo giorno mi sono convinto sempre più della necessità e dell'importanza di promuovere e rafforzare esperienze come quella della Freedom Flotilla: metterci i corpi, i volti e i sorrisi per testimoniare solidarietà e bisogno di giustizia, l’impegno a restare umani, comunque, sempre.

La scelta di partecipare Premesso che le iniziative della flottiglia rappresentano forse il gesto umano più rivoluzionario che si possa

compiere nei confronti e per la Striscia di Gaza, perché e cosa ti ha spinto a partecipare?

Ci sono momenti della propria vita personale che si intrecciano con vicende di enorme rilevanza storica. E allora ci si interroga se si sta facendo tutto quello che può essere fatto per urlare la propria rabbia, esprimere il proprio dolore e la vicinanza alle sorelle e ai fratelli vittime di genocidio.

In questi anni ho scritto e denunciato tanto sui crimini israeliani a Gaza, in West Bank e in buona parte del Medio Oriente o sulle partnership strategiche politiche, economiche e militari che Tel Aviv ha costruito con l’Italia e le sue maggiori aziende a capitale pubblico (penso in

particolare a Leonardo e al Gruppo ENI). E quante volte ho provato a spiegare il ruolo delle maggiori installazioni militari siciliane prima fra tutte Sigonella nelle operazioni di supporto logistico, riarmo e intelligence ai raid israeliani nella Striscia di Gaza o nel sud del Libano, Siria, Yemen e Iran. Poi vedi che sta per partire l’imbarcazione Handala con il suo carico di aiuti umanitari e l’umanità intera a bordo, e allora decidi che tutto quanto hai fatto prima non basta più. Senti che vuoi provare a guardare negli occhi e ad abbracciare chi ha subito le peggiori nefandezze della storia, perché il tuo Paese, con la collaborazione diretta e indiretta di tante forze politiche, sociali ed economiche, si è insozzato le mani, il volto, il corpo e le gambe del sangue di decine di migliaia di bambini palestinesi. E allora non ci pensi più un attimo e chiedi di imbarcarti perché è quello che oggi puoi e devi fare. Sì, forse l’ho fatto anche per non dovere vergognarmi fino alla nausea di fronte ai miei alunni in classe. Loro sanno quanto sta accadendo a Gaza e si interrogano ogni minuto sulle ipocrisie e l’ignavia di noi adulti. E noi stiamo tradendo la loro fiducia in un mondo migliore, di pace.

L'eredità di un sogno infranto Cosa ti rimane di questa esperienza rischiosa, appassionante ed emozionante?

Dicevo a me stesso che mi restano vive mille immagini, ma non sono riuscito ancora a rielaborare il lutto, la frustrazione di non aver potuto toccare la terra di Gaza, nonostante ne sentissi nell’aria l’odore, i profumi, la calda umidità di quel pezzo di Mediterraneo sud-orientale. È come se mi avessero privato di mille energie: a meno di 40 miglia nautiche dal porto di Gaza saremmo arrivati, rispettando il mandato che avevamo assunto principalmente con le bambine e i bambini siciliani e pugliesi: quello di consegnare ai “cuginetti” di quell’altra parte del mare i peluche e gli orsacchiotti che ci avevano portato in dono nelle banchine dove sostava l’Handala. Il senso di logoramento e sfinimento che mi ha preso anima, corpo e mente al momento dell’assalto delle truppe d’élite della Marina militare israeliana in acque internazionali me lo porto ancora addosso. È come se ci avessero stuprato un sogno, il nostro sogno, intendo il nostro, mio e dei bimbi italiani e di Gaza. Se lo staranno chiedendo ancora, quei bimbi: perché l’umanità è così cieca e cinica, perché abbiamo perso ogni senso d’umanità?

Riflessioni sulla Global Sumud Flotilla

Una breve riflessione sull'attuale Global Sumud Flotilla?

Sono in tensione costante, a

bordo delle imbarcazioni ci sono tanti amici e compagni di lotte e di vita, di marce e azioni dirette non violente. Compagne e compagni di utopie. Sono cosciente delle tante criticità e imperfezioni di questa missione, ma andava fatta e nei tempi che la storia purtroppo ci impone. So che potrà accadere di tutto, ma proprio di tutto. Proprio perché non c’è mai stato nulla di simile, gli israeliani possono rispondere in tutti i modi possibili e pensabili; dal lasciar passare una o più barche per far vedere al mondo quanto siano “democratici” (la democrazia dello sterminio), a utilizzare i sistemi già impiegati nel maggio 2010, quando assaltarono la Mavi Marmara della Freedom Flotilla, assassinando barbaramente dieci attivisti (nove turchi e uno statunitense) e ferendone più di un centinaio.

Inutile dire che già dormivo poco e che adesso ancora meno, per non parlare dei risvegli sotto i macigni dell’angoscia. Israele pagherà anche questo di fronte a Dio e di fronte all’umanità, e non ci sarà tribunale della storia che avrà pietà di loro. I crimini efferati contro i palestinesi sono crimini contro l’umanità intera. Intanto però, che il buon vento conduca la Global Sumud Flotilla nel porto di una speranza fin troppe volte negata.

Grazie Antonio, grazie a tutti i compagni e non delle varie flottiglie.

GENOCIDIO nella STRISCIA di GAZA Pulizia Etnica in CISGIORDANIA

Fulvio Vassallo Paleologo

Le parole devono essere chiare: genocidio nella striscia di Gaza. Pulizia etnica in Cisgiordania. Basta con la tragica farsa di Israele come Stato democratico, che deve annientare il popolo palestinese come risposta alle stragi del 7 ottobre. Il 19 luglio dello scorso anno, nell’indifferenza generale, la Corte internazionale di giustizia ha riaffermato l’unitarietà dello stato della Palestina, compresa Gerusalemme Est, condannato l’occupazione e intimato ad Israele a non compiere genocidi. Non è servito a bloccare il piano - condiviso da Netanyahu e Trump - per lo sfruttamento economico e di appropriazione delle ricchezze del territorio, della Giordania, del Libano e della Siria. Tutto sotto gli occhi del mondo. Un mondo fatto di ciechi o complici?

L'avanzata di partiti populisti e nazionalisti sta minando le basi delle democrazie liberali, fondate su libertà e pace. In nome del suprematismo e della discriminazione, questi movimenti politici stanno erodendo i principi costituzionali che hanno garantito la stabilità postbellica.

Lo sterminio del popolo palestinese, tollerato o agevolato dalla comunità internazionale, è l'espressione di un deterioramento globale dei rapporti politici, economici e sociali.

Decenni di linguaggio d'odio e il rovesciamento del diritto internazionale – a partire da tutte le risoluzioni delle Nazioni Unite sullo Stato di Palestina rimaste senza esito – hanno prodotto in tutto il mondo, e

anche nei paesi arabi, una generale assuefazione a violazioni quotidiane dei diritti umani. Queste violazioni sono state ampiamente sperimentate nei confronti dei popoli migranti, schiacciati da politiche di esclusione, e si sono tradotte nella sistematica commissione di crimini contro l’umanità. Oggi, con l’occupazione militare di Gaza, tutto ciò non viene neppure nascosto dai governanti israeliani e dai loro complici.

La Quarta Convenzione di Ginevra e il primo Protocollo del 1977 riconoscono agli abitanti del territorio occupato la qualifica di "persone protette". L'articolo 49, VI cpv. della stessa Convenzione, vieta alla potenza occupante di "trasferire parte della propria popolazione civile in territorio

occupato".

Ai sensi dell’articolo 8(2)(b)(viii) dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale, il "trasferimento, diretto o indiretto, ad opera della potenza occupante, di parte della propria popolazione civile nei territori occupati o la deportazione o il trasferimento di tutta o di parte della popolazione del territorio occupato all’interno o all’esterno di tale territorio" costituisce un crimine di guerra. Da oggi non si potrà più parlare, ammesso che sia stato possibile in passato, di diritto di difesa di Israele, ma si dovrà considerare, prima di tutto, il diritto di difesa del popolo palestinese.

Finisce qui la tragica farsa di Israele come Stato democratico, con la

Le Nazioni Unite:

motivazione dell’annientamento del popolo palestinese come risposta alle stragi del 7 ottobre. Una nuova Nakba che non si basa sull'esigenza di garantire sicurezza agli israeliani, ma costituisce la premessa per un piano di sfruttamento economico e di appropriazione delle ricchezze del territorio. Questo piano si inserisce in una più vasta politica imperialistica a danno della Giordania, del Libano e della Siria, condivisa da Netanyahu e da Trump. La situazione del popolo palestinese sta rapidamente peggiorando anche in Cisgiordania, dove bande di coloni, protetti dalla polizia e dalle forze armate israeliane, stanno conducendo azioni sistematiche di espropriazione arbitraria e di espulsione violenta che si possono configurare come una vera e propria pulizia etnica. Per non parlare delle torture sistematiche a cui sono sottoposti tutti i palestinesi, anche se minori, arrestati e reclusi nelle carceri israeliane. Il 19 luglio dello scorso anno, nell’indifferenza generale, la Corte internazionale di giustizia ha riaffermato l’unitarietà dello

Stato della Palestina, compresa Gerusalemme Est, condannando l’occupazione e intimando a Israele di non compiere atti riconducibili alla categoria di genocidio.

LA COMPLICITÀ INTERNAZIONALE E LA VIA D'USCITA

Adesso non sarà più possibile escludere la configurabilità di uno stato di occupazione della Striscia di Gaza ai sensi dell’articolo 42 del Regolamento annesso alla IV Convenzione dell’Aia sulle leggi e gli usi della guerra terrestre. E solo a settembre di quest’anno le Nazioni Unite hanno riconosciuto l’esistenza di un genocidio in corso. Un riconoscimento che si cerca di svuotare con il rilancio delle critiche a chi utilizzerebbe un "discorso d'odio" o assumerebbe posizioni antisemite, quando i principali propagatori di discorsi d'odio sono stati per anni proprio i vertici israeliani e chi li sostiene in diversi paesi del mondo.

Nessuno potrà mai dimenticare l’assassinio politico di Rabin, il 4

novembre del 1995, con l’abbandono degli accordi di Oslo, quando anche in Israele sembrava prevalere una prospettiva di pacificazione con il popolo palestinese. La decisione di occupare Gaza, assunta da Netanyahu, come la pulizia etnica in corso in Cisgiordania, allontanano forse definitivamente qualsiasi possibilità di pace nell’intera regione. Questi fatti legittimano la resistenza armata e soprattutto renderanno impraticabile la soluzione dei "due Stati" e il riconoscimento dello Stato di Palestina, suggerita anche dalle Nazioni Unite.

Con la morte di altre migliaia di persone e la deportazione di massa degli abitanti di Gaza, si mira a eliminare quell'elemento costitutivo dello Stato che è la popolazione. Una vera e propria strategia di annientamento che riporta alla memoria il periodo nazista, non per lavori forzati o eutanasia dei malati, ma con la fame di massa e il blocco delle cure mediche.

Inoltre, con l’occupazione militare di queste ultime settimane, verrà meno l’altro elemento costitutivo di uno stato: il territorio. Un obiettivo perseguito da anni da Israele, che ormai controlla, oltre ai territori occupati, la maggior parte della Striscia di Gaza, nella totale impunità garantita

Le Nazioni Unite: genocidio in corso

dalla comunità internazionale. Per mesi, anche nel nostro paese, nessun esponente di governo ha raccolto gli appelli di pace, schierandosi sempre a fianco di Israele. L’Unione europea si è trovata divisa e alla mercé delle piroette di Trump, vanamente inseguito da Giorgia Meloni.

L’ITALIA RICONOSCA

IMMEDIATAMENTE LO STATO

DI PALESTINA

Per questa ragione oggi è ancora più evidente la complicità di tutti quegli stati, come l’Italia, che, nonostante i tardivi ripensamenti sul genocidio in corso, non hanno ancora riconosciuto lo Stato di Palestina, continuando a rifornire di armi e munizioni l’esercito israeliano. Quello stesso esercito che spara su civili indifesi, persino sui bambini, in cerca di acqua, cibo e cure mediche. Per queste ragioni, piuttosto che discutere sull’uso di parole come genocidio o pulizia etnica, andrebbero immediatamente bloccati i rifornimenti militari e i progetti di cooperazione economica con lo Stato di Israele, sottraendosi a un

ricatto che, con il passare del tempo, potrebbe condizionare i governi europei fino al punto da intaccarne le basi democratiche già sotto attacco.

I fatti sono molto più forti delle contese terminologiche nelle quali si vorrebbero sminuire le responsabilità del governo israeliano e dei suoi sostenitori, senza i quali quel governo non sarebbe al potere e non potrebbe commettere i crimini contro l’umanità di cui si sta macchiando.

La guerra in Palestina non è neppure una guerra, ma un vero e proprio genocidio, oltre che pulizia etnica in tutta la Cisgiordania, che trova base e

scopi in sordidi accordi commerciali, sui cadaveri delle vittime innocenti.

L'ingresso dei carri armati e delle ruspe dell'IDF a Gaza City ribalterà i rapporti di forza non solo nell'intero scacchiere medio-orientale, ma su scala molto più ampia, perché il modello israeliano rischia di estendersi a macchia d’olio. Su questi temi, strettamente connessi all’opposizione alla guerra e all’autoritarismo che dilagano ovunque, occorre avviare una vasta mobilitazione su iniziative concrete e partecipate, a partire dalla richiesta di riconoscimento immediato dello Stato di Palestina, con denunce circostanziate dei responsabili e con una capillare riflessione critica sui nessi tra politica estera e questioni sociali (casa, lavoro, ambiente, sanità).

L’obiettivo è individuare modi e tempi che restituiscano protagonismo alle tante persone che sono rimaste escluse dai canali della rappresentanza e della partecipazione, ma che non possono prosciugare nell'astensionismo la linfa della democrazia.

Io ti lancio una pietra Tu rispondi con una cannonata

Nel 135 d.C., Roma, dopo una sanguinosa repressione, decise di cambiare il nome alla provincia di Giudea, che venne riorganizzata territorialmente e rinominata Syria Palaestina. Il 30 novembre 1947 le Nazioni Unite decisero (risoluzione 181) la spartizione della Palestina in due Stati, uno arabo e uno ebraico, nonché il controllo dell'ONU su Gerusalemme. E fra il 30 novembre 1947 e il 1 febbraio 1948 furono uccisi 427 arabi, 381 ebrei e 46 britannici e furono feriti 1035 arabi, 725 ebrei e 135 britannici. Sono numeri che raccontano la violenza e la ferocia da sempre. L’Occidente ufficialmente o no aveva bisogno di un ponte in Medio Oriente. Ecco Israele. E’ difficile scrivere della questione mediorientale senza cadere nella retorica o nel luogo comune. Per comprendere i fatti odierni è necessario conoscere il passato. Quindi cominciamo col dare qualche cenno storico. La Palestina è una regione caratterizzata da insediamenti umani da fin da epoche preistoriche. Gerico è la città abitata in modo continuativo più antica al mondo, essendolo dal 9000 a.C.

La denominazione Palestina fu adottata ufficialmente per designare una provincia romana, nel 135 d.C., anno in cui Roma, dopo una sanguinosa repressione, decise di cambiare il nome alla

provincia di Giudea, che venne riorganizzata territorialmente e rinominata Syria Palaestina. Le guerre con Roma avevano causato la morte di una parte consistente della popolazione ebraica del territorio, ma già da decenni le comunità ebraiche che vivevano lontane, note come Diaspora, erano molto consistenti.

Nel VII secolo la Palestina fu conquistata dagli arabi. Successivamente dai turchi ottomani e rimase sotto tale dominio per circa 400 anni, fino alla fine della prima guerra mondiale, quando la Società delle Nazioni affidò all’autorità britannica il mandato sulla Palestina. Già nel 1917 il Regno Unito aveva espresso

l'intenzione di creare in Palestina, un focolare nazionale ("national home") che potesse dare asilo non soltanto ai pochi ebrei di Palestina che già vi abitavano da secoli, ma anche agli ebrei dispersi nelle altre nazioni. «Caro Lord Rothschild, È mio piacere fornirle, in nome del governo di Sua Maestà, la seguente dichiarazione di comprensione per le aspirazioni dell'ebraismo sionista che sono state presentate, e approvate, dal governo. "Il governo di Sua Maestà vede con favore la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico, e si adoprerà per facilitare il raggiungimento di

questo scopo, essendo chiaro che nulla deve essere fatto che pregiudichi i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina, né i diritti e lo status politico degli ebrei nelle altre nazioni"

Le sarò grato se vorrà portare questa dichiarazione a conoscenza della federazione sionista. Con sinceri saluti, Arthur James Balfour»

Palestina: una eterna questione

La questione fu comunque molto dibattuta, perché il termine (volutamente?) ambiguo "national home" non richiamava direttamente alla costituzione di uno Stato. Del resto i britannici avevano promesso, nel 1915, l'indipendenza agli arabi, come paese indipendente o come parte di una grande nazione araba, per l'aiuto dato nella lotta contro l'Impero turcoottomano. Questo fece sì che il sostegno britannico alle richieste del movimento sionista si scontrasse con la maggioranza araba palestinese, contraria alla formazione di uno Stato non islamico in Palestina.

IL RUOLO POLITICORELIGIOSO DEL FIUME

GIORDANO

Nel 1922, il Regno Unito separò l'amministrazione della Transgiordania da quella della Palestina, limitando l'immigrazione ebraica alla Palestina ad ovest del Giordano, tra le proteste dei sionisti, che avrebbero voluto una patria su entrambe le rive del fiume. I territori a est del

Giordano furono organizzati dai britannici in uno stato semiautonomo, che diverrà poi la Giordania, con una maggioranza di popolazione araba, mentre l'area a ovest del Giordano venne gestita direttamente dal Regno Unito. Nel censimento del 1922, a cinque anni dall'inizio dell'ondata migratoria che era seguita alla dichiarazione di Balfour, la popolazione ebraica era di 83.790 unità su un totale di 752.048 persone, circa l'11% della popolazione totale; appena superiore alla comunità cristiana di 71.464 unità e inferiore alla comunità (circa 103.000) di nomadi beduini, il cui stile di vita nomade e dedicato alla pastorizia fu causa dei primi contrasti con i coloni ebrei, per l'uso dei terreni.

Sempre nel 1922, i britannici rassicurarono la popolazione araba sul fatto che la Jewish National Home in Palestine non era da intendersi come una nazione ebraica in Palestina. I successivi venticinque anni (1922-1947), videro un

massiccio aumento della popolazione ebraica (passata dagli 83.000 abitanti agli inizi degli anni 20 ai circa 610.000 del 1947) e furono caratterizzati da episodi di intolleranza e di violenza, che sfociarono in diverse rivolte. Sia il Rapporto Shaw (1929) che la Commissione Hope-Simpson (1930), individuarono nella massiccia immigrazione ebraica e nelle politiche di assegnazione delle terre ai coloni i principali motivi di instabilità sociale. Negli anni successivi, diverse proposte di creare uno stato ebraico abitato solo da ebrei e uno stato arabo abitato solo da arabi, fallirono. Nel 1939 i britannici, nell'impossibilità di creare due stati indipendenti, con continui attentati, sia da parte di gruppi terroristici ebrei contro i suoi soldati e contro la popolazione civile, sia da parte araba contro i coloni ebrei, decisero di mettere un limite all'immigrazione ebraica (stabilendo un massimo di 75.000 coloni nei successivi 5 anni)

Palestina: una eterna questione

Con la seconda guerra mondiale i gruppi ebraici si schierarono con gli Alleati, mentre molti gruppi arabi guardarono con interesse l'Asse, (Roma, Berlino, Tokio) nella speranza che una sua vittoria li liberasse dalla presenza britannica. Il 30 novembre 1947 le Nazioni Unite decisero (risoluzione 181) la spartizione della Palestina in due Stati, uno arabo e uno ebraico, nonché il controllo dell'ONU su Gerusalemme. La maggior parte dei gruppi ebraici accettò la risoluzione, pur lamentando la non continuità territoriale tra le varie aree loro assegnate. Gruppi più estremisti, come la Banda Stern, la rifiutarono, essendo contrari alla presenza di uno Stato arabo in quella che consideravano "la Grande Israele", oltre che al controllo ONU su Gerusalemme.

Tra gli arabi la risoluzione fu rifiutata, con posizioni diversificate: alcuni negavano totalmente la possibilità della creazione di uno Stato ebraico, altri erano possibilisti, criticando soltanto la spartizione del territorio.

UN PONTE OCCIDENTALE

NEL MEDIO ORIENTE

La decisione delle Nazioni Unite fu seguita da un'ondata di violenze, sia da parte di gruppi militari e paramilitari sionisti, sia da parte di gruppi paramilitari arabi. Fra il 30 novembre 1947 e il 1 febbraio 1948 furono uccisi 427 arabi, 381 ebrei e 46 britannici e furono feriti 1035 arabi, 725 ebrei e 135 britannici.

Il 14 maggio 1948, contestualmente al ritiro degli ultimi soldati britannici, il Consiglio Nazionale Sionista,

riunito a Tel Aviv, dichiarò costituito nella terra di Israele lo Stato Ebraico. Uno dei primi atti del governo israeliano fu quello di abrogare le limitazioni all'immigrazione del 1939. Gli arabi palestinesi non proclamarono il proprio stato, manifestando, il 15 maggio, il proprio intento, col supporto della Lega degli Stati Arabi, di creare uno "Stato unitario di Palestina" al posto dei due Stati previsti dall’ONU. USA e URSS definirono l'ingresso degli Stati arabi in Palestina un'aggressione illegittima, mentre la Cina sostenne le rivendicazioni arabe.

Entrambe le parti in conflitto accrebbero la loro forza nei mesi seguenti, ma il vantaggio d'Israele aumentò, visto l'afflusso di oltre 10.000 immigranti ogni mese. L'ONU proclamò una tregua che entrò in vigore l'11 giugno.

Il mediatore delle Nazioni

Unite, lo svedese Folke

Bernadotte, presentò un nuovo Piano di ripartizione che avrebbe assegnato la Galilea (la regione più settentrionale della Palestina) agli ebrei e il Negev (la regione più meridionale) agli arabi, ma entrambe le parti respinsero la proposta. Il 18 luglio, grazie agli sforzi diplomatici dell'ONU, entrò in vigore una seconda tregua.

Il 16 settembre Folke

Bernadotte propose una nuova ripartizione in base alla quale la Transgiordania avrebbe annesso le aree arabe. Vi sarebbe stato uno Stato ebraico nell'intera Galilea, l'internazionalizzazione di Gerusalemme e il ritorno alle proprie terre dei rifugiati, o il loro indennizzo. Anche questo piano fu respinto da entrambe

le parti. Il 17 settembre, Bernadotte fu assassinato dal gruppo ebraico della Banda Stern. Non sarà l’ultima volta che gli estremisti di destra israeliani ricorreranno all’assassinio di chi ostacola i loro piani.

Nel 1949 Israele firmò armistizi separati con Egitto, Libano, Giordania e Siria. E tracciò i propri confini, che comprendevano un territorio doppio rispetto a quanto concesso dal Piano di partizione dell'ONU. La Striscia di Gaza e la Cisgiordania furono occupate rispettivamente da Egitto e Giordania.

I 711.000 palestinesi, metà della popolazione araba della Palestina dell'epoca, fuggirono, emigrarono o furono allontanati con la forza. I 10.000 ebrei che risiedevano nella zona della Palestina assegnata ai territori arabi dovettero abbandonare i loro insediamenti; oltre 800.000 ebrei che vivevano in vari Paesi arabi lasciarono i propri luoghi natali; 600.000 di loro emigrarono in Israele.

Il fatto era compiuto; l’Occidente aveva la sua testa di ponte in Medio Oriente.

GENOCIDIO DI SREBRENICA

Srebrenica, Bosnia orientale, luglio 1995. Questa data e questo luogo rimarranno scolpiti nella memoria collettiva come l'orrore che, a cinquant'anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, dimostrò che le deportazioni e le violenze di massa non erano cessate. Migliaia di musulmani bosniaci furono sterminati con ferocia inaudita. La Corte internazionale di giustizia ha riconosciuto il massacro come genocidio, una manifestazione aberrante di un'antica e distorta logica di vendetta. Un'offesa che supera di gran lunga il danno che si pretende di vendicare, colpevolizzando e massacrando persone innocenti, nate molto tempo dopo i fatti a cui si rivolge la ritorsione

La ricorrenza del trentesimo anniversario della strage di Srebrenica (luglio 1995) ci offre spunti di riflessione per le stragi a cui assistiamo oggi, a partire dalle questioni che riguardano le definizioni di genocidio e/o etnocidio, riportate all’attenzione del mondo proprio in quell'occasione. Fu un ritorno di attenzione dalla fine della Seconda guerra mondiale, perché per la prima volta la guerra ritornava in Europa e mostrava quel volto terribile

con stragi e deportazioni, come negli anni Quaranta. Srebrenica è una città della Bosnia orientale che ospitava migliaia di musulmani bosniaci. Nel 1993 divenne una zona demilitarizzata sotto la tutela della missione UNPROFOR delle Nazioni Unite. Tuttavia, nel luglio del 1995 le forze militari serbe invasero la città,

uccidendo circa 7-8000 uomini (musulmani su circa 27mila) ed espellendo sistematicamente donne, bambini e anziani. Il Tribunale penale internazionale per l'ex Iugoslavia (Nazioni Unite) emise sentenze per crimini di guerra e contro l’umanità. Successivamente la Corte internazionale di giustizia affermò che il massacro di Srebrenica era configurabile come genocidio, riconoscendo l’intenzione di annientare i bosniaci musulmani da parte dell’esercito dell’allora Repubblica Serba, ma ritenne la Serbia non

Un cancro che riemerge dal passato

responsabile di tale crimine. Con queste sentenze si riapriva la controversia, avviata già alla fine della Seconda guerra mondiale, sulla definizione giuridica del delitto di genocidio, ma si riproponeva uno scenario complesso fatto di vendette e ritorsioni, oltre che di rivendicazioni "vittimarie" a giustificazione delle atrocità commesse. I serbi, accusati di aver massacrato i musulmani bosniaci, ricordavano i massacri sofferti dagli stessi serbi per mano delle formazioni di SS musulmane al servizio dei tedeschi durante la Seconda guerra mondiale. È solo un esempio di giochi di rimbalzo, fatti di accuse e controaccuse, talvolta supportate da una valutazione esagerata del numero delle vittime subite. I serbi lamentavano oltre un milione di vittime, mentre una ricerca recente sostiene che i morti non erano più di 110.000. La differenza non riduce certo la gravità dei fatti narrati e dei lutti subiti, ma dice qualcosa sulla volontà di creare uno stato emozionale a favore o contro qualcosa, in questo caso a favore della giustificazione della vendetta perpetrata nel 1995.

LA PACE È POSSIBILE

e quelle divisioni, solo la constatazione di causa ed effetto, e anche la constatazione che patti di convivenza pacifica o, meglio, di pacificazione che erano stati stipulati alla fine della Seconda guerra mondiale non erano stati efficaci, tanto da sciogliersi come neve al sole con la fine del potere sovietico che li garantiva.

maggiore del danno ricevuto, perpetrata nei confronti di persone neanche nate al tempo dei fatti che si vogliono vendicare. Una variante un po’ più raffinata della vecchia legge del taglione.

Si può restare prigionieri della memoria e del risentimento?

La storia, come forma di conoscenza, serve semmai a elaborare il passato in modo da

A cosa erano dovute queste forti eredità di odio con conseguenti azioni di vendetta? Penso all’esplodere dei nazionalismi a stento compressi durante il periodo della guerra fredda e poi esplosi dopo la caduta del muro di Berlino. Sia chiaro, nessun rimpianto per quel muro

La constatazione di un limite, dunque, che aveva fatto leva su sentimenti nazionali e di solidarietà tra popoli, poi facilmente messi in crisi. Ancora oggi assistiamo a massacri, genocidi, etnocidi ecc. perpetrati in nome di una storia che dovrebbe legittimarli, in nome di una condizione di vittime. Quello che viene chiamato "paradigma vittimario", e cioè il diritto alla difesa estrema e senza limiti che chi ha subito un’ingiustizia pensa di poter avere nei confronti del mondo. Una difesa che diventa offesa

liberarsi da questa prigionia, per cercare vie d’uscita dal risentimento e dalla vendetta, personale e collettiva. In tempi recenti un grande esperimento in questa direzione è stato compiuto in Sudafrica, dopo la fine dell'apartheid che tanto odio e risentimento aveva creato. Mandela e Tutu diedero vita a una commissione per il perdono, che non cancellava il passato, ma lo rielaborava in vista di una nuova convivenza. La pace è possibile. Invece la legge del taglione, occhio per occhio, come diceva Gandhi, creerebbe un mondo di ciechi.

Separazione delle carriere dei magistrati

Graziella Proto

In questo periodo si parla spesso di separazione delle carriere dei magistrati. Dietro a questo dibattito si nasconde una delle riforme più cruciali per il futuro della giustizia italiana, un tema che tocca direttamente la credibilità del sistema e la percezione dei cittadini, in quanto si tratta di una proposta di modifica della nostra Costituzione.

È un argomento che nelle aule del Parlamento crea un’alta tensione, portando persino a litigi e “baruffe” inopportune e vergognose in sedi istituzionali. Nondimeno, per la maggior parte delle persone, il tema resta un concetto vago e tecnico. Alle persone interessa la Giustizia: la sua imparzialità, la sua celerità e la certezza della pena.

Ma cosa significa separare le carriere?

In Italia, i magistrati possono svolgere due funzioni distinte: quella giudicante, con i giudici che hanno il compito di essere

terzi e imparziali, e quella requirente, con i pubblici ministeri che rappresentano l’accusa.

riforma ritengono che la separazione delle carriere rafforzerebbe la terzietà e l’imparzialità dei giudici. I critici, al contrario, temono che la riforma possa indebolire l’autonomia della magistratura, aprendo la strada a un maggiore controllo politico.

È un’analisi che non è affatto facile, poiché si tratta di una questione molto tecnica e interna all’universo della giustizia, che include anche il Consiglio Superiore della Magistratura (CSM).

Tuttavia, confrontarsi è doveroso.

Sulla magistratura se ne “dicono di cotte e di crude”, anche perché si assiste a decisioni difficili da comprendere, soprattutto per coloro che hanno subito una ingiustizia, il linguaggio è spesso troppo tecnico e le riforme hanno complicato la già difficile situazione dei tribunali.

Attualmente è possibile, seppur con vincoli introdotti da riforme recenti (come quella di Mario Draghi), passare da una funzione all’altra. L’ex Presidente del Consiglio ha introdotto un limite: i magistrati possono cambiare funzione una sola volta e solo entro i primi nove anni di servizio.

La proposta di riforma del governo, invece, mira a rendere queste carriere completamente separate, con percorsi professionali autonomi e definitivi.

Il tema solleva questioni complesse perché i sostenitori della

L’autonomia e l’indipendenza del potere giudiziario – previste dalla Costituzione Italiana –sono pilastri fondamentali del nostro sistema democratico.

L’attuale proposta di modificare la Costituzione solleva importanti interrogativi perché andrebbe a toccare il terzo potere dello Stato e il delicato equilibrio costituzionale.

Un cambiamento così profondo, in un momento storico particolare, richiederebbe un consenso politico che superi le divisioni attuali. Non dovrebbe essere la decisione di una sola

Separazione delle carriere

parte politica, ma l’espressione della volontà di tutte le forze in campo. Questo includerebbe anche le aggregazioni politiche minori, quelle che non hanno seggi in Parlamento ma che rappresentano comunque una parte della popolazione. Persone, elettori, che anche se rappresentano lo zero... esistono. Anche il loro contributo è importantissimo.

LE OMBRE DEL PASSATO E LE SFIDE DEL PRESENTE

La presenza di un “arco costituzionale” (espressione obsoleta) completo, ovvero un consenso che includa tutte le forze politiche, è fondamentale per modificare la nostra Costituzione antifascista, nata dalla Resistenza, altrimenti, si rischia di minarne la legittimità e di far sentire una parte della popolazione non rappresentata.

alle urne? Quale significato e valore politico avrebbe il voto di un rimanente 50% diviso tra chi fa opposizione che ha già bocciato questa proposta e chi governa che rappresenterebbe, al massimo, il 25% della popolazione avente diritto? La democrazia dovrebbe rappresentare la maggioranza. Per assurdo sarebbe come dire che forse dovrebbe governare chi non si reca alle urne.

Non possiamo assolutamente svilire così la nostra Carta Costituzionale. Non possiamo non pensare a un uomo come il Presidente Sandro Pertini e a ciò che avrebbe fatto.

Oggi la maggioranza al potere rappresenta una minoranza della popolazione e, almeno da ciò che si percepisce fuori dal “Palazzo”, non sembra volerne sapere del contributo delle opposizioni e di tutti gli altri. Negli anni, a prescindere dal colore politico del governo, ci sono state molte proposte di riforma della giustizia, ma sono sempre naufragate. Alcuni, in

questo disegno di legge del governo Meloni, vedono il compimento di piani “scellerati” vecchi di decenni, risalenti ai governi Berlusconi persino all’era pre-Berlusconi e vagheggiati dal capo della loggia massonica P2, Licio Gelli. Piani che miravano a una revisione dell’ordinamento dello Stato in chiave autoritaria.

Si dice spesso che dopo l’approvazione della legge ci sarà il referendum, il voto democratico...

Ma quale sarebbe il significato di un referendum popolare in un momento in cui quasi il 50% della popolazione non si reca

Lontani dai pregiudizi partitici, ciò che preoccupa non è tanto il merito di cui “i poveri mortali” sono lontani, ma la modalità e la leggerezza con cui si vuole modificare la Costituzione. Essa non deve essere granitica, certo, ma va modificata nel rispetto delle rappresentanze politiche e delle priorità del Paese.

Sul tema della modifica costituzionale e della separazione delle carriere abbiamo interpellato alcune magistrate e posto loro tre domande. Tre pareri messi a confronto.

SEPARAZIONE DELLE CARRIERE

Nel dibattito attuale sulla riforma della giustizia, si ripropone con forza il tema della separazione delle carriere. Tema spesso presentato come un modo per superare il sospetto, anche solo potenziale, di parzialità del giudice. ( Vero, in molti ordinamenti stranieri la separazione delle carriere è una realtà consolidata.). Nella sua esperienza quotidiana, quanto è avvertita la necessità di una distinzione più netta e formale tra il ruolo di chi accusa e quello di chi giudica ? E quali crede che sarebbero le reali implicazioni operative?

DORA BONIFACIO

È vero che in alcuni paesi esiste la separazione delle carriere ma è parimenti vero che nella maggior parte di questi paesi il PM è sottoposto al potere esecutivo.

Tuttavia ciò che mi preme precisare è che:

Dottoressa Dora Bonifacio consigliere della Corte di Appello di Catania, in magistratura dal 1994: pretore a Caltanissetta, giudice civile e penale a Catania dal 1998 al 2018, sino al 2022 consigliere di Corte d’Appello a Brescia; dal 2010 al 2014, componente della GES dell’Anm del distretto di Catania.

Ogni paese ha una sua storia e un suo ordinamento quindi la semplice comparazione non dice nulla (ci sono paesi in cui non c’è la separazione delle carriere ma c’è la sottoposizione del PM al potere esecutivo altri - la maggior parte- in cui c’è la separazione e la sottoposizione del pm al potere esecutivo)

Non si comprende il perché la separazione delle carriere garantirebbe la terzietà del giudice : è una narrazione scorretta dire che oggi il giudice non è imparziale perché inserito nella medesima carriera del pubblico ministero e ciò perché:

a. non solo questa affermazione è smentita dai dati - che appunto ci dicono che almeno la metà delle richieste del pubblico ministero vengono rigettate dai giudici (si pensi a quando il pubblico ministero chiede l’archiviazione e il giudice invece gli impone il rinvio a giudizio o quando il pubblico ministero chiede la condanna e il giudice assolve)

b. ma anche perché significherebbe dire che tutti i processi che si sono svolti dal 1989 ad oggi sarebbero viziati da questa mancanza di autonomia

b) Infine, non può sottovalutarsi il dato -anche questo ormai chiarissimo - che l’appartenere alle medesime carriere non significa affatto che ci sia una confusione tra funzioni, visto che il passaggio dall’una all’altra funzione è consentito solo una volta durante l’intera carriera del magistrato e nei fatti oggi il passaggio da una funzione all’altra avviene sono nello 0,1% dei casi. Quindi, non si avverte l’esigenza di una separazione più netta.

c) Viceversa Il pericolo e le possibili implicazioni negative sono evidenti perché la formazione comune del giudice e del pubblico ministero ha sempre consentito una cultura identica nel garantire i diritti dei cittadini: un pubblico ministero che abbia consapevolezza di cosa è necessario per giungere a una sentenza di condanna da parte del giudice consente di evitare proprio quei procedimenti fondati su prove insufficienti o contraddittorie. Basti pensare che la maggior parte di quei pubblici ministeri che oggi riteniamo essere stati i più validi nella lotta alla mafia (Terranova, Falcone e Borsellino solo per citarne alcuni) hanno prima svolto le funzioni di giudici (anche civili)

MARZIA SABELLA

Sono in magistratura dal 1993 e ho vissuto gli alterni periodi di santificazione e di demonizzazione dei pubblici ministeri. Indubbiamente tante cose c’erano e ci sono da cambiare, ma, per chi vive le

Separazione

aule di giustizia, la separazione delle carriere non è mai stata un bisogno e, ancor meno, un’urgenza. Mai abbiamo avvertito l’influenzabilità del giudice in quanto appartenente al medesimo ordine del pubblico ministero. Del resto, se così fosse, non solo non avremmo sentenze di assoluzione, ma dovremmo confrontarci con un diverso e ben più grave problema, quello dell’incapacità dei giudici italiani di essere terzi non solo rispetto ai colleghi (peraltro nella fisiologia del sistema), ma anche e soprattutto rispetto a qualsiasi forma di potere.

Dottoressa Marzia Eugenia Sabella è una magistrata italiana, dal 2017 procuratrice aggiunta della Repubblica presso il tribunale di Palermo. Ha iniziato a lavorare presso la procura di Palermo dopo la stagione delle stragi di Falcone e Borsellino. Dal 1996 indagò su casi di stupri e pedofilia: il primo processo interamente istruito da Marzia Sabella fu ai pedofili di Ballarò, a Palermo, in cui, grazie alla giovane magistrata, fu emessa una sentenza «destinata a imprimere un precedente in giurisprudenza».

In realtà, si è diffusa una visione miope sulla questione della separazione, come se fosse punitiva del (presunto) strapotere dei PM e risolutiva delle eventuali storture giudiziarie. Però, in molti non sanno che la “poltrona” del PM ha solo da guadagnarci e che, dall’altro lato, assisteremo, non tanto al possibile ruolo dell’esecutivo nell’amministrazione della giustizia, ma al tramonto della cultura della terzietà dei magistrati inquirenti. Il lavoro più importante del PM è quello che non si vede: quando di notte dispone l’immediata liberazione del padre di famiglia arrestato, quando motiva una richiesta di archiviazione, quando cestina un’informativa o una denuncia pretestuose, quando non crede ad un calunniatore, quando evita un’autopsia superflua per restituire il cadavere alla famiglia, quando non attacca o stacca una intercettazione. Questo è ciò che mancherà al popolo nel cui nome si amministra la giustizia.

ENZA DE PASQUALE

Personalmente non ho mai avvertito la necessità della separazione formale delle carriere tra giudici e pm né ho sentito in pericolo l’imparzialità che connota il mio ruolo e quello dei giudici con cui ho lavorato per il fatto che il pm sia un magistrato con lo stesso background di formazione e l’appartenenza allo stesso , unico, ordinamento. Ipotizzare che il giudice inclini verso una tesi piuttosto che un’altra non in ragione delle risultanze probatorie , della legge, della giurisprudenza e dell’equilibrio di giudizio ma solo perché quella tesi è sostenuta dal pm piuttosto che dal difensore significa negare il senso profondo del giudizio che ci vene costantemente insegnato nel percorso formativo e la stessa professionalità dei giudici. E quanto questo sia vero si riscontra continuamente nelle aule di giustizia in cui si registra una significativa percentuale di discostamenti delle decisioni dei giudici dalla prospettazione accusatoria. Credo che la separazione prospettata non avrebbe nessuna utile ricaduta sulle criticità del sistema giustizia e potrebbe invece dar luogo ad effetti operativi profondamente negativi: allontanare i pm di domani dalla cultura che vuole, oggi, tutti i magistrati volti alla realizzazione equilibrata della giustizia, non consentendo loro di respirare in alcun momento (né nel tirocinio né con variazione di funzioni) i valori che li accomunano ai giudici nella tensione verso l’accertamento della verità quale scopo di interesse pubblico, li formerà sempre più lontani da quell’equilibrio, accentuando in loro la mentalità di una parte che deve sostenere comunque l’accusa a fronte della parte che sostiene comunque la difesa. Dubito che nel futuro sentirei tutte le richieste assolutorie che i magistrati del pm oggi formulano, con uno sguardo aperto sulle prove raccolte, non avendo da dimostrare di essere bravi accusatori ma piuttosto bravi magistrati. E questo sarebbe non a favore ma a discapito della giustizia, e quindi dei cittadini. Per non dire degli orizzonti che vedrebbero assai agevolata l’ipotesi del controllo da parte del potere politico su un Organo di accusa separato, con effetti condizionanti dell’autonomia e dell’efficacia del servizio giustizia che ritengo porterebbero davvero indietro tutto il sistema giurisdizionale

La dottoressa Enza ( detta Cinzia) De Pasquale è una magistrata di Catania attuale Presidente della sezione penale del Tribunale etneo.

Il mio Compagno di banco

La scelta di Ignazio Cutrò

Franco Plataroti

Intervista a Ignazio Cutrò, imprenditore edile che a differenza di altri testimoni di giustizia che hanno lasciato la propria terra, ha scelto di restare in Sicilia, a Bivona. Nonostante i rischi, continua a vivere nella sua isola e a denunciare le mafie. Racconta che a volte, chiudendo gli occhi, rivede le strade della sua terra tinte di sangue innocente, versato a causa della violenza mafiosa. Una Sicilia che, secondo Cutrò, genera sia la mafia che i suoi anticorpi: i boss come Provenzano e Santapaola, ma anche eroi come Falcone e Borsellino.

Ignazio Cutrò era un giovane imprenditore, contento del suo lavoro, non conosceva la mafia: «a scuola non si parlava di mafia, si diceva che la mafia non esisteva e io non avevo mai visto un mafioso di persona. Ho girato tutta la Sicilia e dove incontro la mafia? La incontro a Bivona; e chi era il mafioso in questione? Il mio compagno di banco». Luigi Panepinto che, nel 2013, è stato condannato in via definitiva, con il fratello Maurizio, Giovanni Fava e Domenico Parisi, per associazione mafiosa e estorsione a seguito dell’inchiesta “Face off”, incardinata proprio sulla testimonianza di Ignazio Cutrò. Una vicenda di estorsioni che dura a lungo, inizia nel 1999, ed è un crescendo di

intimidazioni, incendi ai mezzi nel cantiere, lettere minatorie, sino al 2006, anno terribile e in cui si arriva, attraverso le intercettazioni ambientali, ad arrestare il clan che vessava l’imprenditore.

con l’arresto dei mafiosi la storia non finisce, anzi, comincia un altro calvario, dal volto duplice: economico, da un lato, con il progressivo

esaurimento delle risorse finanziarie di Ignazio, la cui impresa fallisce, e sociale e morale, a seguito del graduale sfilacciamento della comunità dalla famiglia Cutrò, che resta, invece, compatta, coesa, la moglie di Ignazio e i due figli, all’epoca minorenni. - «non ho mai puntato il dito contro nessuno di quelli che ci hanno abbandonato. In un piccolo paese, metà sono parenti miei e metà sono parenti loro, metà erano amici miei e metà amici loro. Per cui è tutto comprensibile» .

Ignazio conosce la solitudine del testimone di giustizia, un qualcosa che fa male, che risponde a una logica che si sforza di comprendere , ma è un uomo reattivo, non ama piangersi addosso e puntualizza e sottolinea che non lo si

definisca ‘ collaboratore di giustizia’

Ci tiene a spiegare che si tratta di figure diverse, a lungo confluite nello stesso alveo legislativo, confuse l’una con l’altra. Il collaboratore, dice, è il “pentito” o, almeno, il dissociato dalla mafia, quello che ha deciso di collaborare con le istituzioni – se un giorno qualcuno si pentisse davvero, nell’intimo della coscienza, «andrei a piedi da Bivona, dal centro della Sicilia, a stringergli la mano» , mentre il testimone di giustizia non ha nulla a che vedere con le logiche mafiose, non ha ucciso nessuno, anzi, di fatto, è stretto nella morsa dei clan o ha visto qualcosa che riguarda la violenza mafiosa.

Non ama piangersi addosso e reagisce. Attraverso una lunga battaglia, condotta anche con l’ausilio di altri testimoni di giustizia fonda un’associazione che li rappresenti, si incatena davanti al ministero, chiede che lo statuto di testimone di giustizia venga riconosciuto e ben distinto da quello dei “pentiti”. Non è una lotta inutile. Nell’arco di alcuni anni, tra il 2013 e il 2018, grazie a questi sforzi, a queste battaglie si riesce a dar vita a due leggi –una valida per la regione Sicilia e l’altra estesa a tutto il territorio nazionale – che dispongono l’assunzione presso la pubblica amministrazione di chi rientra nella categoria dei testimoni di giustizia.

Il mio Compagno di banco

“ME LA DAI LA CARAMELLA?”

Ha ben chiaro, Ignazio, che la sua lotta – ossia la lotta di ogni individuo non colluso con la mafia , costretto a combatterla – si svolge su quattro fronti: la prima con sé stesso, «perché in ognuno di noi e nel nostro DNA, c’è un filo di mafiosità»; una battaglia, quindi, per cancellare, sradicare quel filamento di mafiosità intesa come un fatto culturale e psicologico. Poi, c’è una seconda battaglia, quella, appunto, contro i clan, contro la loro pretesa. Un atteggiamento arrogante mafioso con cui si

che lo indigna. «La persona addetto a redigere il documento della seconda perizia ha fatto nomi e cognomi di chi ha fatto fallire la mia azienda e non c’erano i nomi di Totò Riina, di Matteo Messina Denaro, non c’erano i nomi dei mafiosi. Sul documento era scritto a chiare lettere che l’impresa di Ignazio Cutrò è stata costretta a chiudere per colpa dell’Agenzia delle entrate, della prefettura di Agrigento, dell’Inps, dell’Inail, che non hanno applicato la legge».

Infine, la lotta con la comunità, con la mafiosità non aperta, non osteggiata, un rumoroso silenzio, di chi sta intorno e l’allontanamento di chi denuncia, fa nomi, non sta zitto.

esplicita la richiesta di caramelle. Sì, caramelle. «Perché, oggi, il mafioso viene e ti chiede: ‘me la dai la caramella’? Dopo una settimana, viene e vuole tutto il pacco di caramelle e tu rimani senza.

C’è, poi, una terza linea di conflitto, quella con le istituzioni, con la burocrazia delle istituzioni, con la ‘mafia istituzionale’, quella burocrazia che fa sì che due perizie concernenti la sua azienda vengano secretate e a lui venga vietato l’accesso ai documenti. Quando lo ottiene, dopo anni, scopre qualcosa

Ignazio in questa lotta non è stato completamente solo, è stato supportato e protetto dalla sua famiglia, alcuni amici cari, altri testimoni di giustizia, una parte delle istituzioni, i suoi “angeli”, come chiama i carabinieri addetti a proteggerlo per qualche anno. Oggi, Ignazio non ha più alcuna forma di protezione. Dal 2018, avendola revocata ai suoi familiari, l’imprenditore ha praticamente rinunciato alla sua scorta. «Sono consapevole di essere un morto che cammina», dice, evocando inevitabilmente quel Paolo Borsellino, figlio della stessa terra che produce mafiosi , cittadini che tacciono, uomini che decidono, a vario titolo, di non tacere.

Una scelta che Ignazio ha pagato e sta pagando.

Un tributo al Capitano Ciancarella

Graziella Proto

Il lettore che si accinge a leggere il libro “SI PUÒ SI DEVE” scritto dal capitano Mario Ciancarella, pubblicato dalla casa editrice PIGRECO, si trova di fronte a un’esperienza che trascende la semplice critica letteraria. La storia che si dischiude al lettore è tragicamente affascinante, quasi inverosimile, eppure il suo protagonista, pur avendo vissuto un calvario, non è mai stato dichiarato incapace di intendere e di volere.

Sopravvissuto a un’ingiustizia immane, il capitano Ciancarella è stanco ma ancora vivo, a dispetto di tutto. Di solito, quando si legge un libro per commentare, analizzare, raccontare, si è usi mettere in luce codici e registri letterari. La prosa di Ciancarella è un elemento sorprendente. Raffinata, a tratti arcaica e aristocratica, evita ogni eccesso barocco, alternando un registro ricercato e tecnico a uno appassionato e viscerale. È la scrittura di chi, in buona fede, ha subito un’ingiustizia e ancora ne ricerca la verità e i responsabili. La trama, così intricata e avvincente, cattura completamente il lettore,

costringendolo a mettere da parte ogni operazione di critica letteraria, ogni distrazione per seguire il filo di una vicenda umana e delle emozioni che ne scaturiscono: incredulità, indignazione, solidarietà e profonda amarezza.

“Si può si deve” narra una storia kafkiana, inquietante e assurda, in cui eventi inauditi vengono trattati come routine. L’autore, capitano dell’Aeronautica, aveva un sogno: portare onestà e democratizzazione all’interno della sua Arma. Si ribellò al nonnismo, ai depistaggi sulla tragedia di Monte Serra, alla strage di Ustica e alle misteriose morti di numerosi testimoni: suicidi singolari, incidenti aerei strani, infarti senza base clinica corrispondente. A tutto ciò Mario Ciancarella si è ribellato, ha replicato, ha scritto, ha denunciato. La sua denuncia, però, non trovò ascolto, ma si scontrò contro un muro di gomma fatto di reticenza, avversione, omertà e indifferenza.

Come mai? Perché? Ha disturbato?

Per isolarlo e metterlo a tacere, i “manovratori” utilizzarono ogni

mezzo illecito e scorretto, fino a radiarlo per indegnità. Non un decreto, ma un pezzo di carta mai mostrato all’interessato, firmato – gli dissero – dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Il capitano non credette mai all’autenticità di quella firma, a quella radiazione; in passato lui e il presidente partigiano si erano incontrati e c’era fra loro una specie di segreto accordo. Il Presidente Pertini che lo stimava lo aveva anche incoraggiato.

LA FALSA RADIAZIONE. LA FALSA FIRMA

Dopo trentatré anni, il tribunale di Firenze gli diede ragione, dichiarando falso il documento e la firma del presidente. L’informazione? Latitante. Innanzi a una storia così grande e tragica, solo uno sparuto numero di giornalisti armati di buona volontà si è mosso. Ha cercato di venirne a capo. Altri hanno preferito buttare fango. Altri ancora –sotto i loro riflettori – hanno preferito imbastire e sostenere altre tesi.

La rivista antimafia e femminista “Le siciliane/Casablanca”, invece,

Un tributo al Capitano Ciancarella

non è mai rimasta in silenzio, portando avanti la lotta di Ciancarella con serietà e rigore etico.

Quante iniziative fatte insieme. Quanti dibattiti.

Quando apri questo libro, ti aspetteresti di leggere la storia

dell’autore, un racconto intimo della sua vita professionale e personale. Ma la sorpresa è grande: ti immergi in eventi e pezzi di storia che, pur lontani dalla sua biografia, hanno lasciato un segno indelebile. Vicende che hanno modellato il

MARIO CIANCARELLA: LAVERITÀ, OLTRE L’INGIUSTIZIA

Ho conosciuto Mario più di 15 anni fa. La prima cosa che mi colpì furono i suoi modi gentili, amorevoli, di grande disponibilità. Parlava poco ma con i suoi occhi dolci comunicava molto. La sigaretta sempre accesa fra le labbra cercava di starsene al “suo” posto come se pensasse che potesse disturbare. Io, caciarona e ironica, cercavo di trascinarmelo sempre. E lui si faceva coinvolgere con la sua pacatezza, il suo modo da gran signore. Ci siamo sempre voluti bene, rispettati, stimati reciprocamente. E in tutti questi anni, ho capito che si tratta di una amicizia e una stima vicendevole, che va oltre le parole. Un’amicizia che mi ha arricchito e continua a farlo.

Tutti e due abbiamo vissuto intensamente la stagione culturale e politica del ’68, un fatto che ci univa ancora di più nella dialettica politica e nel riconoscimento dei valori.

Ci eravamo conosciuti grazie all’Associazione Antimafie Rita Atria – di cui facciamo parte – che aveva adottato il capitano Ciancarella, se lo coccolava e si è sempre battuta per la sua causa. L’associazione, dopo la sentenza della falsa radiazione, ha anche scritto al Presidente della Repubblica Mattarella, chiedendo che Mario Ciancarella venga ricevuto al Quirinale “dalle più alte cariche istituzionali, insieme alla sua famiglia, per riconoscergli l’onore civile e militare a lui dovuto per avere sacrificato la propria vita e quella dei suoi familiari sull’ara della fedeltà allo Stato Italiano, che egli venga riabilitato nell’Arma dell’Aeronautica con il conferimento del massimo grado spettante alla sua carica di Ufficiale”.

suo pensiero sulla libertà e la democrazia, un percorso parallelo al suo impegno nelle forze armate dell’aeronautica al cui interno ha lottato a fianco di un movimento democratico che chiedeva più libertà, contro quel tipo di “obbedienza cieca che non dovrebbe avere diritto di cittadinanza nella civiltà dell’uomo”. È un libro che sorprende. Mario Ciancarella, così come scrive lui, “nato alla coscienza politica con i movimenti del ’67-’68”, un capitano dell’Aeronautica fiero della sua scelta professionale, ligio al dovere e non alla sudditanza, convinto sostenitore della democrazia, fedelissimo al giuramento fatto alla carta costituzionale nata dalla resistenza, con grande amarezza scopre e scrive: “Sperimentai infatti che, tranne per pochi dei nostri ‘educatori’, la Resistenza era un argomento tabù”. LA BUROCRAZIA CONTRO LA SICUREZZA: UN EPISODIO EMBLEMATICO

Un episodio in particolare, narrato nel capitolo “Sicurezza dei velivoli – La grande ispezione”, svela la facilità con cui si falsificava la realtà per salvare l’immagine dell’Aeronautica.

Un giorno, durante un controllo, il capitano Ciancarella in qualità di pilota collaudatore rileva un’anomalia nel peso del velivolo, ma il responsabile – un

Un tributo al Capitano Ciancarella

ufficiale tecnico di base –travolto da ordini e pressioni superiori, invece di affrontarla di petto cerca di nasconderla con una nota frettolosa e non veritiera.

La verità viene presto a galla, quando una commissione d’inchiesta “benevola” (come la definisce sarcasticamente l’autore) lo smaschera. Ma la cosa più incredibile accade dopo: l’ufficiale tecnico non viene criticato per aver falsificato un documento ufficiale, ma per il modo in cui lo ha fatto! Gli chiedono: “È almeno cancellabile?!”, rimproverandolo per aver usato la penna anziché la matita. L’autore, nel ricordare l’episodio, scrive: “C’era da diventare matti!”, un grido di frustrazione e impotenza di fronte a una burocrazia che mette in secondo piano la sicurezza a favore di un dettaglio ridicolo. L’episodio sottolinea soprattutto il conflitto di un ufficiale, diviso tra fare il proprio dovere e obbedire

ciecamente agli ordini dei superiori. Come se falsificare un dato fosse l’unica strada –disperata – per evitare conseguenze ben più gravi. Il libro ci spiegherà che tali

episodi non erano casuali, dietro c’era molto di più, celavano interessi personali, lucri e ricatti.

Lo stesso paragrafo ci mette di fronte a una descrizione il cui obiettivo è comunicare informazioni precise e dettagliate; un registro e un codice tecnico e rigoroso, che si concentra sulla manutenzione degli aerei. Pur tuttavia la scrittura trasmette perfettamente un forte senso di lotta contro un sistema rigido e illogico, che dà più peso alle formalità che alla verità e alla sicurezza. Veramente – come scrive l’autore – “C’era da diventare matti!”.

LA STRAGE DI USTICA: UNA VERITÀ SCOMODA

E tutti questi avvenimenti,

riflessioni e opinioni Ciancarella, con un continuo tormento, li mette in relazione, se non altro per le modalità con cui sono avvenuti. Fatti percepiti, assimilati, raccontati. Informazioni confidate.

Insomma, non è la solita storia. Per capirne di più sulla vicenda del capitano Mario Ciancarella, è necessario ricordare in particolare tre vicende: il movimento di democratizzazione all’interno delle forze armate, la tragedia di Monte Serra e la strage di Ustica. Tre vicende su ciascuna delle quali Mario ha una sua tesi che ha raccontato, denunciato, pagando per questo con tutta la sua vita. La strage di Ustica è avvenuta la sera del 27 giugno 1980, un piano segreto, ambizioso e brutale, per rovesciare il governo libico del colonnello Gheddafi. L’obiettivo presunto era un Mig libico nascosto nella scia del velivolo ITAVIA, con a bordo anche il colonnello Gheddafi. Un “…progetto

Un tributo al Capitano Ciancarella

militare di invasione della Libia, con ‘l’eliminazione’ del colonnello Gheddafi e il ribaltamento del suo regime. Progetto ideato, secondo la nostra ricostruzione, dal nostro dominus, gli USA. Il progetto d’invasione della Libia, per la sua efficace realizzazione, aveva bisogno dell’obbedienza e supina collaborazione dei vertici del governo italiano e di una parte della nostra Forza armata. Il piano era architettato alla perfezione e con buone probabilità sarebbe andato a buon fine. Ma ci fu l’intromissione di una fazione politica e degli uomini dei servizi italiani che a essa rispondevano, per la quale l’invasione della Libia non doveva avvenire. Il colonnello Gheddafi fu avvertito in tempo e tornò a Tripoli prima che venisse messa in atto la

congiura per ribaltare il suo governo. Se non ci fosse stato l’intervento che fece fallire il piano, oggi sui libri di storia ci sarebbe un capitolo con una narrazione diversa… In quel capitolo ci sarebbe scritto che la Libia nel giugno del 1980 è stata conquistata dalle forze della Nato”

Il piano, architettato alla perfezione, dunque, fu sventato da una fazione politica e dai suoi alleati nei servizi segreti italiani che si opposero, avvertendo Gheddafi. Per costoro l’operazione andava bloccata, ma non andò così. Secondo il capitano Ciancarella, “fu cinicamente eseguita un’orribile strage ai danni dei cittadini italiani. […] Una strage volontaria e premeditata”.

La verità ufficiale è ancora un mistero; una “ipotesi di verità”,

per la quale Ciancarella ha pagato un prezzo salatissimo, è ancora ufficiosa, ma si erge come un’accusa devastante contro un sistema corrotto. Una Verità per la quale continua a pagare prezzi altissimi e per la quale ci sono state anche diverse morti: “morti collaterali”, saranno definite.

Per tutto il libro si percepisce un senso di impotenza e disillusione, riassunto in immagini crude, una per tutte: “bruciare alla fine anche noi e le nostre speranze”, che evoca non solo il dolore delle vittime ma anche la cruda sensazione che sia stata distrutta la speranza in una giustizia possibile.

Una sensazione di ingiustizia sociale, che non si affievolisce e che fa rivivere un’atmosfera opprimente, intrisa di “un sapore di morte”.

“L’Attimo Fuggente”

"Dead poets society" – "Il circolo dei poeti morti" è la traduzione del titolo originale di uno dei film più conosciuti di Peter Weir che vede come figura portante quella di Robin Williams. La traduzione errata del titolo porta lo spettatore a porre maggiore attenzione sulle parole “carpe diem” estremamente ricorrenti nel corso della narrazione filmica.

Nel film vengono rappresentate le vicende di alcuni adolescenti iscritti in una prestigiosa scuola conservatrice all’interno della quale emergono le lotte interiori, le privazioni e i sogni di ognuno di loro. Si tratta di piccoli uomini che combattono con il mondo interiore e il mondo esteriore. Il titolo originale del film e

l’apparenza di questi personaggi si ricollegano a tre figure cardine della letteratura francese: Rimbaud, Baudelaire e Verlaine conosciuti con l’appellativo di “poeti maledetti”.

I poeti maledetti si sentono soffocati da un mondo sterile, mirato alla soddisfazione delle più basse inclinazioni, perdita dell’essenza dell’essere umano; si sentono incompresi, isolati, desiderosi di vivere a qualsiasi costo. La diretta conseguenza di questa

insoddisfazione viscerale nei confronti della società si riversa sulle loro vite private caratterizzate da anticonformismo, abuso di sostanze e oscenità.

Il circolo dei poeti maledetti viene ripreso con la creazione del personaggio del Professor Keating, ex studente sregolato, il quale incarna - in età adultauna figura guida, razionale e calma al centro della vita di questi ragazzi.

Il professor Keating accompagna i ragazzi durante le lezioni di letteratura inglese in maniera non convenzionale: non utilizza libri e volumi, ma esperienze sensoriali. La poesia non viene vista come fonte di insegnamento, ma come

forma di espressione. I ragazzi creano un “circolo”, una società ristretta che si riunisce nel boschetto dell’istituto all’interno della quale si confrontano e leggono i loro scritti basati sulle prime esperienze di vita personali. All’interno di questa società i giovani si sentono ascoltati, supportati e i loro sentimenti vengono per la prima volta validati.

Durante l’intera narrazione ricorrente è il tema del “carpe diem”, cogliere l’attimo. Da qui deriva la traduzione del titolo in italiano “attimo fuggente” che ci riporta alla mente un concetto conosciuto da molti e messo in pratica da pochi.

È il professor

Keating che riesce a far comprendere ai suoi studenti l’importanza del carpe diem nella vita di tutti i giorni.

Proprio grazie a questa guida i ragazzi iniziano a riflettere sulle loro vite interiori, passioni, opportunità. Nell’esatto momento in cui alcuni di essi interiorizzano questo concetto, inizia ad alternarsi un’atmosfera di agonia mista ad estasi. L’agonia è legata al sentimento di oppressione presente in un piccolo mondo circoscritto da regole incomprensibili, aspirazioni non

“L’Attimo

Fuggente”

proprie e desiderio di ribellione. L’estasi è data da quei piccoli istanti di libertà dove i ragazzi riescono ad esprimere se stessi.

L’arte, l’amore e la capacità di esprimersi sono i temi che caratterizzano i tre studenti che più si distinguono in questo percorso di conoscenza del sé: Todd il quale ha difficoltà a leggere ad alta voce e ad esprimere i propri pensieri, Neil che una volta compresa la propria vocazione inizia a sentire il peso delle ambizioni che altre persone hanno su di lui e Knox che dopo aver conosciuto l’amore è disposto a

lottare con le unghie e con i denti pur di difenderlo. Le tematiche che smuovono i tre ragazzi sono differenti ed è proprio questo a rendere particolare lo svolgimento delle vicende. Tutti loro vivono il carpe diem in momenti diversi, per motivi diversi, ma tutti e tre sono disposti ad andare controcorrente pur di rendere valore a questo concetto. Questo film di Peter Weir è un inno alla libertà, la quale non viene estetizzata e romanticizzata, ma rappresentata con estrema crudeltà. L’epilogo lascia lo spettatore con l’amaro in bocca, facendo allo stesso tempo comprendere quanto ogni attimo di vita possa essere essenziale. Tra tutti gli insegnamenti e punti di riflessione che possono generarsi dalla visione di questo film, il più importante riguarda il significato di libertà. Il libero arbitrio in una società omologata è un concetto spesso impossibile da raggiungere e in molti casi il prezzo da pagare per rispettare i propri ideali equivale a morire.

“Una giornata meravigliosa”

Clara Artale

“Una giornata meravigliosa” di Paolo Di Stefano presentato ad Avola, tra pietre antiche e parole nuove.

Mercoledì 17 settembre è stato presentato, presso i Giardini di palazzo di Città di Avola, il romanzo “Una giornata meravigliosa”, edito da Feltrinelli, scritto da Paolo Di Stefano, giornalista e scrittore

A dialogare con l’autore il professore Sebastiano Burgaretta.

Tra sguardi attenti e profumo di gelsomino è andata in scena la cultura, grazie alla presenza di due illustrissimi concittadini. Il professore Burgaretta, scrittore e studioso di tradizioni popolari, ha intervistato Di Stefano, scrittore, giornalista e inviato speciale del Corriere della Sera.

Paolo Di Stefano vive e lavora a Milano, ha scritto molti romanzi di successo e ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti, tra cui il Premio Viareggio 2013. Lo scrittore e critico letterario è originario di Avola, cittadina in cui torna con molto piacere. Il romanzo presentato ha vinto il Premio Vigàta.

All’autore abbiamo posto qualche domanda.

Mi parli della storia raccontata nel suo ultimo

lavoro.

“È l’attraversamento di una sola giornata, un 28 settembre. Si parte dalle 7 del mattino e si arriva fino alla serata inoltrata. In questa giornata si intrecciano storie diversissime, tragiche, felici, infelici, sorprendenti. Si inizia con un minacciato femminicidio, che poi si concluderà a suo modo alla fine della giornata, e si prosegue con incontri strani, per esempio un senegalese che vende dei giornali; siamo a Milano ma poi ci spostiamo in altre zone, tra cui Avola appunto. Qui in particolare c’è questo signore, un ricercatore universitario che scopre di aver vinto con un biglietto comperato all’aeroporto di Catania la somma incredibile di 92milioni al superenalotto e medita di lasciare la moglie e di scappare. Tutto si conclude in modo strano o non si conclude, rimane sospeso. È la compressione di tante cose dentro una sola giornata”.

Che rapporto ha con Avola e la Sicilia?

“È un rapporto di quello che non avrei mai pensato di avere, di nostalgia profonda, cioè un senso di incompiutezza, di dire “sto qui troppo poco”. Tutte le volte che arrivo penso “che peccato, tra 5 giorni devo ripartire”. È sempre qualcosa di

incompiuto e insieme di bellissimo, perché l’incompiuto riserva anche degli aspetti molto belli. Per me rappresenta pure tornare dove sono sepolti i miei genitori, dove hanno avuto una vita di rapporti, di sentimenti, di amore, di angosce, di dolori”.

Qual è la giornata meravigliosa della sua vita?

“Ce ne sono diverse di giornate meravigliose, alcune più private, fatte di incontri bellissimi, anche con donne, di amori molto belli, amicizie molto belle, incontri che fanno scattare e rimangono accesi per tutta la vita. Altre sono fatte di lavoro, sono stato fortunato e ho avuto tante soddisfazioni; le coincidenze devono essere sempre importanti. In sintesi, la giornata meravigliosa è fatta di persone. Quando penso a momenti felici della mia vita penso a persone fisiche, importanti, che hanno rappresentato molto per me. L’altra coincidenza bella è negli incontri che costruiscono a poco a poco la tua fisionomia, sono convinto che siamo fatti di tante tessere che gli altri ci hanno regalato. E questo è molto bello”.

Grazie a Paolo Di Stefano che ci regala giornate meravigliose grazie alla lettura dei suoi meravigliosi romanzi.

In Italia c’è sempre più mafia e ci sono sempre meno mafiosi. Dalle stragi sono passati oltre trent’anni e la Sicilia oggi si mostra felice, esotica, come un’isola da cartolina. Palermo è tornata Palermo: lontana, silenziosa, seducente, con tutti i suoi piaceri e i suoi misteri. Non si spara più e ci dicono che lo Stato ha vinto. Catturati uno dopo l’altro i boss più importanti, sono rimasti liberi, spesso incensurati, solo coloro i quali li hanno sempre appoggiati dall’esterno. Questa rete, composta innanzitutto da imprenditori, poi da commercialisti, avvocati, notai, da amministratori locali e alti burocrati, da broker, negoziatori, da esperti del lavaggio del denaro o di architetture finanziarie per nasconderlo, rappresenta la borghesia mafiosa. È quella che comanda oggi in Sicilia. I mafiosi hanno un nome e un cognome, un volto, un indirizzo, un gruppo sanguigno, una scheda segnaletica, condanne e obblighi di legge. La borghesia mafiosa al contrario è un’entità eterea, impalpabile, ignota: non lascia mai impronte. Ogni epoca ha la sua mafia e anche quella in cui viviamo ne ha una: è «la mafia degli incensurati». Attilio Bolzoni racconta un’Italia che, ancora una volta, ha perso la memoria, e ripercorrendo gli ultimi dieci anni, ci scaraventa in un passato che credevamo chiuso per sempre, con la giustizia e l’antimafia che sembrano tornate ai tempi prima del Maxiprocesso e di Giovanni Falcone. Nascosta dietro ai tamburi di guerra che minacciano l’Europa e il mondo, coperta dalla distrazione ormai pervasiva sui media, secondo i quali non fa notizia, se non quando scattano arresti di personaggi che ormai vivono da emarginati nella trama reale del potere criminale, la mafia si è ripresa il potere. È più che mai necessario un nuovo racconto per smascherarla.

Un romanzo autobiografico. Un cammino nell’anima tormentata dell’autrice. Un viaggio in Messico. Un’esplorazione dell’invisibile, di quanto trascende il mondo fisico. Il legame indissolubile tra madre e figlia. Un viaggio nel viaggio, ricco di forza, coraggio. Una narrazione dai ritmi incalzanti. Ironia e sarcasmo come fil rouge in una storia da leggere d’un fiato.

Romanzettaè la storia di un amore, anzi di due amori, quello tra Rosa e Tina, giovani donne siciliane che vivono a Catania, e l’amore e l’impegno per la lotta antifascista partigiana. Siamo agli inizi del 1943 e infuria la seconda guerra mondiale. Rosa, apprendista fotografa, orfana di padre, caduto nella prima guerra mondiale, sente di dovere fare qualcosa per contrastare il regime fascista che sta conducendo, assieme ai nazisti, il mondo verso il baratro di una guerra crudele e insensata. Rosa vive con la madre Francesca, detta Gina, la sorella Anna e la gatta Principessa in un palazzo antico nel quartiere di Cibali, dove vive anche Tina. La loro storia si sviluppa in parallelo all’impegno di Rosa in un gruppo segreto antifascista, conosciuto tramite la sua amicizia con Gaetano, giovane studente universitario, allievo di un professore di Giurisprudenza che è il capo di questa cellula clandestina, figura storica realmente esistita, Antonio Canepa. In un crescendo di emozioni amorose e politiche, Rosa sviluppa l’amicizia con Caterina, una transessuale che si prostituisce nel quartiere di San Berillo e che fa parte del gruppo, legandosi a lei e a Gaetano non solo per l’antifascismo ma anche per la condizione di invisibilità nella quale vivono la loro omosessualità e identità di genere.

La storia di sport e riscatto dei Briganti di Librino (CT)

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