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La violenza contro i civili nei Balcani: le guerre balcaniche
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In meno di un anno, dall’ottobre del 1912 al luglio del 1913, gli stati nazionali della penisola balcanica, che fino ad allora avevano avuto in quanto soggetti autonomi solo un ruolo marginale nello spazio europeo, si ritrovarono al centro di cambiamenti radicali che sconvolsero ogni aspetto della loro esistenza e della vita pubblica e privata dei loro abitanti.
Dal punto di vista politico, gli stati balcanici si erano ingranditi territorialmente e demograficamente e si erano definitivamente disfatti della presenza turca, mentre al contempo le rispettive politiche nazionaliste, le cui aspirazioni erano dirette spesso verso obiettivi comuni, erano entrate in una fase di collisione aperta e duratura. Dal punto di vista economico, avevano raggiunto una situazione quasi di bancarotta e si erano salvati grazie all’indebitamento con le grandi potenze; i nuovi territori acquisiti infatti non solo non erano in grado di sopperire ai bisogni impellenti delle casse statali, anzi richiedevano essi stessi enormi investimenti per uscire dalla condizione di arretratezza in cui si trovavano. Questo non solo perché le nuove terre di per sé non erano molto produttive, quanto perché le guerre avevano portato una distruzione delle colture (l’agricoltura era il principale ramo economico) e una frantumazione del tessuto sociale e dei rapporti economici esistenti sotto il dominio turco. Ciò riguardò tutti i territori strappati dai piccoli paesi balcanici al regime ottomano: dal Sangiaccato di Novi Pazar e dal Kosovo, spartiti tra Regno di Serbia e Regno di Montenegro, alla Tracia e alla Macedonia orientale ed egea presa da bulgari e greci, per terminare con la Macedonia centrale, la regione che dai laghi di Ohrid e Prespa ad ovest si estendeva fino al fiume Strumica ad est, con al centro le vallate del fiume Vardar.
Proprio la Macedonia centrale o del Vardar, obiettivo principale conteso da bulgari, serbi e greci, era stata la regione più colpita: centinaia di migliaia di turchi erano stati costretti a lasciare le loro case e stessa sorte ebbero decine
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di migliaia di macedoni bulgari e greci, di albanesi, e in minima parte di macedoni serbi.
La struttura economica vigente era stata spazzata via: ai chiflik, sistema basato su grandi latifondi, e all’ingombrante oppressione fiscale dello stato ottomano si erano sostituiti i contadini cristiani che erano prima loro sottoposti; e i commercianti, molti dei quali ebrei, fulcro delle principali città macedoni, non solo dal punto di vista economico – a Bitola (Monastir nella toponomia turca, Bitolj in serbo) erano seimila, a Salonicco la metà della popolazione – di colpo si ritrovarono senza i loro clienti più importanti e senza la posizione di privilegio di cui godevano con l’Impero ottomano, cosa che per molti significò cadere in disgrazia.
Oltre che essere divenuti sudditi di nuovi paesi e aver attraversato un periodo tanto breve quanto traumatico, bisogna almeno ipotizzare (non ci sono ancora dati complessivi precisi), che i civili furono vittime di fame - gli eserciti requisivano bestiame e alimenti, le colture nel 1913 subirono danni enormi etc. -, di malattie – gli eserciti, in particolare quello bulgaro, ebbero più vittime a causa del colera e del tifo che per i combattimenti, e certo tali epidemie colpirono anche i civili – e che l’inesistenza delle strutture sanitarie, la confusione delle nuove autorità e le rivolte che scoppiarono tra gli albanesi contro il regime serbo contribuirono ulteriormente a peggiorare il quadro economico e sociale fuoriuscito dalle guerre balcaniche.
Tutte queste tematiche, ognuna delle quali meriterebbe uno studio approfondito, ancora oggi non sono state affrontate se non in maniera molto limitata o, nel caso delle storiografie nazionali balcaniche, risentono forse della retorica nazionalista del periodo precedente le guerre del 1912-1913 che nel corso del XX secolo è riuscita a mantenersi saldamente in vita.
E proprio nella comprensione di quella che si può definire «catastrofe macedone», un posto particolare va riservato alle politiche nazionaliste messe in atto dalle élites dei paesi balcanici in lotta.
Nell’Impero ottomano il criterio per definire una comunità era religioso: ogni gruppo confessionale (musulmani, cristiani ortodossi, ebrei) rappresentava un millet a sé stante con un proprio rappresentante a Costantinopoli. Questo fino al 1870, quando su pressioni esterne il sultano concesse ai bulgari di avere una propria chiesa, l’esarcato bulgaro. Questa data, precedente al Congresso di Berlino, segnò l’ingresso definitivo dei nazionalismi nei territori della Turchia europea e l’inizio della disgregazione sociale, dell’omogeneizzazione etnica e delle politiche nazionaliste contrapposte. Da allora le istituzioni ecclesiastiche bulgare, serbe e greche, ma anche quelle scolastiche create e finanziate dai rispettivi governi, cominciarono una penetrazione in Macedonia il cui obiettivo era guadagnare i favori della popolazione locale per giustificare un’eventuale annessione del territorio.
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Masse analfabete di contadini che parlavano una lingua simile al bulgaro e al serbo, ma che spesso conoscevano almeno un altro idioma per poter comunicare con ne usava uno diverso, così come gruppi urbani alfabetizzati ed in grado di parlare anche tre o quattro lingue, furono il bersaglio di un’omogeneizzazione che li costrinse a dichiararsi in senso nazionale, nella maggior parte dei casi bulgari, serbi o greci. Quando le istituzioni non bastarono più intervennero bande armate spesso inviate dai paesi vicini, comitadji bulgari, cetnici serbi e andartes greci, che operarono sia contro i turchi sia le une contro le altre, e soprattutto contro la popolazione ritenuta nemica, provocando un grave inasprimento delle contrapposizioni su base etnica. Tuttavia, la realtà del territorio era così complessa e anazionale che solo una politica di omogeneizzazione di massa avrebbe dato i suoi frutti.
Si scoprì infatti che in Macedonia vivevano, mischiati tra loro, slavi macedoni nazionalmente non determinati, slavi macedoni con sentimenti bulgari, serbi o greci, albanesi – ghegi e toschi, e tra loro musulmani, ortodossi e cattolici -, turchi, ebrei, cincari o arumeni (valacchi), rom, bulgari musulmani (pomaki), slavi musulmani (goranci) e altri. La categorizzazione nazionale si trovò in crisi e come unica soluzione si affidò alla violenza: espulsioni di massa, distruzioni di villaggi, massacri furono il metodo utilizzato per l’omogeneizzazione nazionale del territorio e quando non bastò, ovvero quando si insediarono le nuove autorità, tutti i nuovi sudditi furono sottoposti ad una massiccia nazionalizzazione che attraverso l’uso della lingua e dell’educazione nazionali doveva portare (o riportare, secondo i suoi fautori) la cultura dominante. A tal proposito non mancarono gli studi scientifici destinati a sostenere l’appartenenza delle popolazioni macedoni alla propria nazione.
Questo quanto accadde in loco. Ma mentre avveniva tutto ciò, nelle corti europee la situazione non preoccupava se non riguardava direttamente i propri interessi. L’imperativo era far fronte al crollo turco e all’entrata in scena di nuove forze con le quali fare i conti nella propria politica verso i Balcani e verso l’Oriente. Nulla venne intrapreso per fermare le atrocità contro i civili; anzi, i resoconti dei giornalisti mandati a seguire i conflitti, Henry Barbi per «Le Journal», Lev Trotsky per la «Kievskaja Mysl’», Crawford Price del «Times», Gino Berri del «Corriere della Sera» e molti altri, seppur per noi oggi preziosissimi per la ricostruzione storica, contribuirono in maniera determinante a consolidare l’idea che già era dominante, secondo cui i Balcani erano abitati da barbari, senza cultura, violenti, all’estremo opposto della civiltà europea, e le guerre in corso erano semplicemente una normale resa dei conti tra questi popoli. Lo stesso approccio ebbe la commissione inviata dalla Fondazione Carnegie per indagare sui crimini commessi.1
1 La commissione considerò la violenza contro i civili una «normale» e costante presenza nei
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