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1.5 L’esercito alla prova: il 1848 ed il 1849

La cavalleria fu così organizzata: una grande divisione con le tre brigate di cavalleria. Una brigata constava di due reggimenti, ciascuno dei quali in tre divisioni. Ogni divisione era suddivisa in due squadroni e quest’ultimo in due mezzi ranghi da 50 uomini. Ogni mezzo rango era costituito da due plotoni da 25 uomini132 .

I generali di Carlo Alberto e lo stesso sovrano avevano, per la conduzione della campagna, il chiaro modello napoleonico incentrato sulla guerra lampo, la Blitzkrieg, che doveva risolvere tutta la campagna militare con una battaglia decisiva cercando così di risparmiare uomini, munizioni e soprattutto vettovagliamento133. Lo sapeva bene proprio Napoleone che, in Russia, dopo la battaglia di Borodino (7 settembre 1812), aveva invano chiesto la pace allo zar in quanto conscio di trovarsi nel cuore della Russia all’indomani dell’inverno e senza rifornimenti. Dunque, ecco un altro problema, i rifornimenti. Per poter intraprendere una campagna militare bisognava innanzitutto conoscere bene la conformazione geografica del territorio di conquista e bisognava disporre di uno Stato Maggiore che avesse preparato in modo adeguato tutta una serie di rilevamenti per poter indicare le strade da utilizzare e le posizioni da assumere in territorio nemico.

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Un’inspiegabile incognita fu la soppressione dei reparti leggeri da parte del San Martino e il loro mancato ripristino da parte del Villamarina. In effetti la fanteria leggera si era rivelata sin dalla rivoluzione americana alla base del nuovo modo di fare la guerra, certo restavano le cariche alla baionetta e le scariche di moschettieri ben allineati e che marciavano a passo cadenzato, ma le unità leggere avevano rappresentato una novità formidabile, esse potevano, infatti, avanzare in ordine sparso, ingaggiare schermaglie con le unità nemiche e cercare di mantenere il campo finché non fosse giunto il grosso dell’esercito. L’addestramento del fante leggero, poi, differiva da quello di linea per l’utilizzo dell’arma, a canna rigata e non liscia, e l’esercizio del tiro al bersaglio. Già Sir David Dundas (1749-1826), nel 1788, costatava che la fanteria leggera avesse iniziato a costituire il nerbo più importante dell’esercito

132 Ivi, pp. 86; 286. 133 A. Barbero, op. cit., p. 65.

inglese. All’interno di questo contesto, Napoleone, non aveva mancato di sfruttare a suo favore questa nuova tattica, migliorandola, e creando reparti con i nomi di chasseurs, tirailleurs o voltiguers 134 . Nell’armata piemontese, invece, pare che il Villamarina non comprese a pieno questa nuova innovazione. Egli, è bene ricordarlo, si ritirò dalla vita militare nel 1801 e probabilmente la sua concezione dell’esercito era un po’ antiquata non avendo, infatti, militato in nessun grande esercito europeo nel periodo di apice di Napoleone , restando, invece, in Sardegna135 . Le compagnie cacciatori dei reparti di linea, comunque, erano equipaggiate alla “pesante” e non avevano le funzioni della fanteria leggera autonoma. Di questa mancanza se ne rese conto Alessandro Ferrero La Marmora (1799-1855). Egli, infatti, nel 1835, presentò al re la soluzione di dotarsi di reparti leggeri autonomi come una volta ma, di fronte al le rimostranze del Villamarina, dovette accontentarsi di formare nel 1836 due sole compagnie di bersaglieri, una fanteria leggera che era ben addestrata nel tiro al bersaglio e che il Pinelli, da buon osservatore del suo tempo, ritiene uomini ottimamente a ddestrati e con un buon equipaggiamento136. Durante la campagna di Lombardia, i bersaglieri giunsero a constare tre battaglioni che, comunque, il Pinelli ritiene insufficienti rispetto alla fanteria leggera austriaca, autonoma e constante venticinque o addirittura trenta battaglioni137 .

Per quanto concerne la cavalleria, la soppressione dei reparti leggeri e l’amalgama, mantenuto dal Villamarina, delle due specialità di cavalleria, leggera e pesante, in unici reggimenti, fu altrettanta cosa inspiegabile. La ca valleria leggera aveva il compito di condurre, in analogia agli omologhi della fanteria, ricognizioni ed esplorazioni sia per procurarsi foraggio sia per individuare gli eventuali spostamenti nemici. In un terreno come quello lombardo, imbevuto di fiumi ed alquanto acquitrinoso e sconnesso, essere privi di cavalleria leggera poteva essere un problema non poco da sottovalutare138. La cavalleria pesante servì sempre come forza d’urto, come ariete sfondante un portone di un castello, ed era per niente adatta alle attività di ricognizione 139 . La cavalleria piemontese era genericamente chiamata, ad esempio, Savoia Cavalleria, senza lasciare trasparire alcuna specializzazione in leggera o pesante. A parte il Piemonte Reale, unico reparto rimasto di

134 Ivi, pp. 61-62. 135 B. Montale, op. cit., p. 134. 136 N. Brancaccio, op. cit., pp. 265-266; F. A. Pinelli, Alcuni cenni sull’infanteria piemontese, Torino, f.lli Canfari, 1849, p. 9. 137 Ivi, p. 10. 138 P. Pieri, Storia militare del Risorgimento op. cit., p. 173. 139 A. Barbero, op. cit., p. 50.

“grossa cavalleria”, i restanti reggimenti erano quelli che si potrebbero chiamare “cavalleria media”, una specie di dragoni, una specialità di cavalleria pesante più economica140, ma armati di lancia141. Una cavalleria di questo tipo, ritenuta eccellente dal Pieri142, poteva senza dubbio ottenere ottimi risultati in campo aperto ma, per quanto riguarda i compiti propri dei cavalleggeri, era poco versatile. La cavalleria austriaca, invece, era l’antesignana del concetto di cavalleria leggera di età moderna, famosissimi erano infatti i suoi ulani ed ussari ungheresi, copiati in tutti gli eserciti europei 143 fuorché quello piemontese del primo risorgimento.

La fanteria di linea ebbe problemi di natura gestionale. Le compagnie erano troppo grosse rispetto a quelle austriache, quattro compagnie di 200 uomini ciascuna rispetto alle sei compagnie austriache di 175 uomini ognuna. Per la campagna del 1849 il ministro della Guerra Alfonso Ferrero La Marmora (1804-1878) decise di ridurre le compagnie da 200 a 150 uomini sempre divisi, però, in quattro compagnie. E degli 840 uomini tolti da un reggimento di linea, che farne? Il ministro desiderava creare nuovi battaglioni ritenuti più agili ma ciò trovo la ferma opposizione del Bava c he non riteneva fosse il modo né il momento di operare una tale grande riforma. Alla fine i meno idonei finirono per essere assegnati ai battaglioni di riserva144 .

Un altro problema fu quello delle riserve. In aprile del 1848 erano state chiamate, infatti, le tre classi 1817-18-19 che erano andate a costituire, insieme alle reclute lombarde, la 2ª divisione di riserva e, inoltre, la sola classe 1819 avrebbe anche rinfoltito i ranghi della linea. Le classi “anziane”, cioè quelle dal 1812 al 1817, e quelle giovani del 1825-26-27 avrebbero costituito insieme i 38 battaglioni di riserva145. Il Pinelli, uomo immerso nel mondo militare di quegli anni, sostiene che la promozione per merito introdotta dal Broglia fosse molto mal vista. Il personale dei battaglioni di deposito che, improvvisamente, venne posto in servizio attivo allo scoppio della guerra, era composto, asserisce sempre il Pinelli, da uomini anziani che non avevano mai partecipato ad una guerra in vita loro146 .

140 Ivi, p. 51. 141 N. Brancaccio, op. cit., p. 286. 142 P. Pieri, Storia militare del Risorgimento op. cit., p. 173. 143 A. Barbero, op. cit., p. 51. 144 P. Pieri, Storia militare del Risorgimento op. cit., pp. 271-272. 145 Ivi, p. 268. 146 F. A. Pinelli, Alcuni cenni op. cit., p. 19.

Nell’inverno del 1848, il nuovo ministro La Marmora decise di congedare tre delle classi più anziane, 1812-13-14, chiamando invece i più giovani del 1828 e del ’29. Il primo battaglione di riserva avrebbe dunque avuto riservisti del ’19-’20 mentre il secondo battaglione di riserva quelli dal 1815 al 1818 più le aliquote di seconda categoria del 1825-26-27. Il La Marmora intese, dunque, estromettere i più anziani, gli ammogliati, e introdurre invece i più giovani. Nel 1849 le due classi 1820-21 sarebbero state congedate e sostituite con quelle del ’28 e del ’29: il vero problema, però, consisteva nel fatto che i più “anziani” avevano combattuto e fatto esperienza nella precedente campagna e ora venivano sostituiti con riservisti che mai avevano visto una guerra in vita loro. Il problema, dunque, era sì alla radice, sin dalle scelte operate nel ’48, ma così operando il La Marmora non faceva altro che ripeterle147 .

E lo Stato Maggiore Generale? Teoricamente avrebbe dovuto essere formato da uomini capaci e con molti anni di studio alle spalle148 ma in realtà ricevette parecchie critiche sia da osservatori contemporanei come il Pinelli e sia dal giudizio storico moderno del Pieri. Come accennato nel paragrafo precedente (1.4), compito dello Stato Maggiore Generale era quello di stilare un’accorta analisi topografica del territorio su cui si sarebbero svolte le operazioni belliche, soprattutto per velocizzare i movimenti e per migliorare il trasporto dei rifornimenti149, fondamentali per quella che diverrà una guerra di logoramento. Nelle guerre di Ancien régime un esercito avrebbe potuto percorrere in media dai 10 ai 15 km circa al giorno, rallentati com’erano dalla lunga linea di rifornimenti che si doveva gestire essendo privi di buone strade150. In età napoleonica, invece, un corpo d’armata, invenzione del genio di Napoleone, avrebbe potuto percorrere circa il doppio dei chilometri, ben 30151! È certo che il pétit caporal aspirava ad una facile vittoria e il più celermente possibile. L’esercito principale di Carlo Alberto, invece, si comportò in ben altro modo. Innanzitutto partì da Pavia il 29 marzo, dopo aver varcato il Ticino, e il 4 aprile pervenne a Cremona dove si tenne un consiglio di guerra in cui il De Sonnaz avrebbe voluto varcare il Po e raggiungere il Veneto per aiutare le truppe pontificie. Si decise per altra sorte. Il giorno dopo si ripartì alla volta dell’Oglio ed il 9 si giunse a Goito dove avvenne la prima schermaglia con gli imperiali. L’11 aprile i piemontesi occuparono Valeggio sul Mincio152. Facendo un calcolo approssimativo si può dedurre che, in base alla distanza che intercorre fra Pavia e Valeggio

147 P. Pieri, Storia militare del Risorgimento op. cit., pp. 268; 270. 148 L. Mondini (a cura di), op. cit., p. 37. 149 A. Barbero, op. cit., p. 67. 150 Ivi, p. 53. 151 Ivi, p. 68. 152 P. Pieri, Storia militare del Risorgimento op. cit., pp. 201-204.

sul Mincio, seguendo ovviamente l’itinerario carloalbertino, ci sia una distanza circa di 171 km e, considerando, inoltre, che l’arco di tempo impiegato sia di 14 giorni, il chilometraggio medio impiegato dall’esercito piemontese in un giorno sia di circa 12 km, dunque ben lontano dai 30 km di un Napoleone. Lo Stato Maggiore Generale piemontese, asserisce il Pieri, iniziò la campagna senza carte topografiche, senza piani strategici e tattici e soprattutto in una situazione logistica spaventosa 153 . C’è da dire, inoltre, che a capo dello Stato Maggiore v’era un uomo che ben poco sapeva di scienza militare, un uomo più cortigiano che soldato, il conte Carlo Canera di Salasco (1796-1866)154 . Altro problema è l’aver concesso a Radetzky l’indisturbato allontanamento da Milano, senza che nessuno lo inseguisse, e l’aver permesso la raccolta delle truppe in Lombardia da poter ammassare al Quadrilatero. Una volta giunti al Mincio, il re decise di assediare Peschiera del Garda. Tutto il mese di aprile fu incentrato sull’assedio della fortezza 155. Il periodo napoleonico, invece, aveva proprio dimostrato che l’assedio di fortificazioni era cosa ormai superata e soprattutto dispendiosa di risorse e di tempo. In effetti, già in antico regime personalità come il visconte Henri de La Tour d’Auvergne de Turenne (1611-1675) ed il duca di Marlborough John Churchill (1650-1722) sostenevano che, dopo una rapida vittoria in campo aperto, le fortezze si sarebbero arrese da sé; ma in ogni caso lungo tutto il ‘700 la guerra continuò ad essere caratterizzata da lunghi ed onerosi assedi156 . Le guerre napoleoniche, invece, come già si è accennato precedentemente, dimostrarono definitivamente che il lasciare il grosso delle unità rinchiuse nei forti fosse solo pericoloso in quanto lasciava l’iniziativa all’assediante. La ricetta era: affrontarsi in campo aperto. Così, stando alle parole di Barbero, «le misure difensive per mettere una città in grado di resistere a un assedio rimasero l’ultima risorsa di chi era già stato battuto sul campo»157. Chiarite queste premesse, il canuto maresciallo austriaco aveva implicitamente comunicato ai piemontesi di aver perso, si era rintanato a Verona da dove attendeva i rinforzi dalla madrepatria e che, questi ultimi, potevano raggiungerlo soltanto dal Trentino, giacché il Veneto era insorto. Compito dei piemontesi era quello di impedire i collegamenti con la valle dell’Adige e cercare di mantenere il controllo dell’area veneta in mano ai papali ed agli insorti impedendo, così, l’arrivo dei rinforzi dall’Isonzo 158 . Per fare ciò, i piemontesi attaccarono le colline di Pastrengo il 30 aprile, ma il raggiungimento delle località fu tutto

153 Ivi, p. 206. 154 Cfr. CANERA di Salasco, Carlo Felice cfr. Fanteria p. 53. 155 P. Pieri, Storia militare del Risorgimento op. cit., p. 204. 156 A. Barbero, op. cit., pp. 53-54. 157 Ivi, p. 68. 158 P. Pieri, Storia militare del Risorgimento op. cit., p. 204.

fuorché semplice. L’inettitudine dello Stato Maggiore, infatti, si era dimostrata palese ancora una volta: la conformazione territoriale non era stata studiata e dunque il fianco destro, in cui si trovava la Brigata Savoia, ed il centro, in cui vi trovavano la Brigata Cune o con il re e Vittorio Emanuele, avanzarono lentamente bersagliate dal fuoco nemico159. L’esito restò comunque favorevole ai piemontesi ma, a causa della decisione di Carlo Alberto di non proseguire, celebre la frase «Pour aujourd’hui il y en a assez»160, il lato sinistro dell’Adige restò nelle mani austriache 161 . Altra mancanza dello Stato Maggiore fu quello di non provvedere ad un adeguato servizio di ambulanze da campo, privazione che venne tristemente notata dopo e durante la battaglia di Santa Lucia del 6 ma ggio162 . L’agognata battaglia che poteva essere decisiva fu senza ombra di dubbio quella di Goito del 30 maggio, stesso giorno in cui cadde Peschiera, ma i piemontesi non riuscirono a sfruttarla, come già era accaduto a Pastrengo un mese prima, permettendo agli austriaci di ritirarsi verso Verona163 .

Durante le due campagne si rilevarono alcuni casi di insubordinazione, anche gravi. Primo fu quello del maggior generale Antonino Faà di Bruno164 che, durante i fatti di Custoza, decise deliberatamente di abbandonare Valeggio sul Mincio e il suo prezioso ponte, importantissimo per il mantenimento dei contatti con il quartier generale piemontese a Villafranca. Il Bava, accortosi dell’accaduto, ordinò nuovamente al Faà di ritornare a Valeggio; questi lo fece ma riabbandonò nuovamente le posizioni a causa della vista del nemico165. Altro caso di disobbedienza fu quello di Hector de Sonnaz il quale, dopo la precipitosa ritirata da Custoza, aveva avuto ordine dal re di portarsi a Volta e, solo se in caso di pericolo, raggiungere Goito dove si stava dirigendo frattanto il I corpo del Bava: il De Sonnaz decise di marciare direttamente su Goito ignorando deliberatamente gli ordini del sovrano facendo in modo che gli imperiali occupassero il paese strategico166. Ma due furono i casi “esemplari” di insubordinazione avvenuti dopo la sconfitta a Custoza: il maggior generale Garretti di Ferrere e il Sommariva d’Aix167 . Mentre l’ennesimo consiglio di guerra stava valutando se attestarsi o meno sull’Oglio, i due suddetti generali decisero in piena

159 Ivi, p. 210. 160 F. A. Pinelli, Storia militare del Piemonte op. cit., vol. III, p. 316. 161 P. Pieri, Storia militare del Risorgimento op. cit., p. 212. 162 Ivi, p. 216. 163 Ivi, pp. 222-224. 164 Cfr. FAÀ di Bruno, Antonino cfr. Fanteria p. 72. 165 P. Pieri, Storia militare del Risorgimento op. cit., p. 240. 166 Ivi, p. 245. 167 Cfr. GARRETTI di Ferrere, Vittorio Romauldo e SEYSSEL d’Aix e Sommariva Bosco, Claudio in Fanteria pp. 81; 118.

autonomia di marciare verso il fiume e di attestarvisi. Il 28 luglio, tuttavia, anche il resto dell’Armata raggiunse l’Oglio. Ora, la disobbedienza del di Ferrere si fermò qua; il Sommariva, invece, fu recidivo. Il Bava, infatti, aveva dato disposizione di attestarsi lungo l’Adda e di marciare, poi, verso Lodi. Il Sommariva avrebbe avuto il compito di coprire la ritirata piemontese difendendo Crotta d’Adda ed il suo preziosissimo ponte. Il maggior generale, sostenendo che non sarebbe riuscito a difendere la posizione in caso di attacco nemico, decise di nuovo, in modo del tutto arbitrario, di lasciare Crotta d’Adda senza distruggerne il ponte e anzi di dirigersi verso Piacenza. A questa notizia, il Bava, si infuriò, ma non poté fare niente per impedirlo168 . Infine nella campagna del ’49, il generale Ramorino che abbandonò le sue posizioni per difendere Alessandria, ritenuta erroneamente nel mirino austriaco. Per questa disobbedienza – avrebbe infatti dovuto portarsi a Mortara in caso di pericolo – egli venne fucilato per ordine della corte marziale al termine della guerra169 .

168 P. Pieri, Storia militare del Risorgimento op. cit., pp. 250; 255-256. 169 Ivi, pp. 287-290.

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