3. Sacerdoti di una nazione ingrata. I militari e il mito della vittoria mutilata
Le ragioni ufficiali che spinsero prima Vittorio Emanuele Orlando e poi Francesco Saverio Nitti a rinunciare (e in taluni casi persino a proibirle) a celebrazioni pubbliche per la Vittoria nei primi mesi della pace sono state più accennate che studiate, più messe alla berlina da una lunga tradizione pubblicistica che analizzate dalla storiografia. Al di là delle ragioni di “austerità” invocate in un primo momento, la sostanza della scelta dello Stato di non sanzionare sul piano ufficiale le emozioni e l’ancora persistente corale entusiasmo per la Vittoria si legò a opzioni contingentemente politiche. Enrico Flores, che di Nitti fu stretto collaboratore, in una memoria scritta negli anni Venti nel tentativo di salvare il suo vecchio superiore dal linciaggio morale cui lo sottoponeva la pubblicistica fascista, sostenne che in realtà Nitti era animato dai migliori propositi per organizzare solenni celebrazioni per l’esercito vittorioso. Le proposte però furono esagerate perché si prevedeva una spesa di parecchie diecine di milioni, progettandosi persino l’apertura di nuove strade per il passaggio trionfale dell’esercito. Tutto ciò parve enorme di fronte alla situazione del bilancio ed alle condizioni del paese, che si dibatteva in grandi difficoltà economiche e perciò la proposta non ebbe corso, né fu mai accolta dai successivi governi1.
È invece noto come Nitti abbia particolarmente preso in considerazione la pericolosità di una pubblica e grandiosa celebrazione del 4 novembre in un momento in cui le divisioni morali e politiche all’interno del Paese stavano velocemente portando la situazione dell’ordine pubblico verso uno stato di guerra civile endemica, alimentando quella situazione di violenza quotidiana che sarebbe ben presto divenuta abi1. E. Flores, Eredità di guerra. L’opera del primo ministero del dopo guerra, Ceccoli, Napoli 1925, p. 88.