3. Questioni che si intrecciano: le rovine morali e materiali di Firenze Manlio Cancogni contribuisce a scaldare la gioventù fiorentina con le sue “proposte di un educatore”. La prima esce il 9 gennaio 1945. Cancogni propone un modello di scuola media basato su disciplina e rigore. Grossi e ardui i programmi; lunghi e dolorosi gli orari, senza eccezioni, con rare vacanze; cinque o sei ore di scuola, senza intervalli, altrettante ore di studio a casa: ore solitarie, ore piene d’amarezza e di nostalgie frenate dal timore e dal dovere; esami temuti e terribili, inappellabili100.
Come d’abitudine, risposte sui muri della città: “Morte a Cancogni”, “Cancogni alla forca”101. “È consolante avere prove «tanto visibili che le proprie parole non cadono nel vuoto […]. Ma è anche mortificante constatare che le risorse di «umorismo» della gente si sono gravemente ridotte”: Cancogni comincia così il suo secondo intervento. Dopo aver spiegato che il suo era un tono “paradossale”, confermava tutto quello che aveva già scritto. Le dichiarazioni di Cancogni spiazzano anche chi fa parte dello stesso ambiente. Il 20 gennaio, dopo una conferenza, Loria in passeggiata con Carlo Levi, fino alla “Nazione del Popolo”: «ci raggiungono anche Colacicchi e Cancogni, il ragazzo
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M. Cancogni, Modesta proposta di un educatore, “NdP”, 9 gennaio 1945, ora anche in «La Nazione del Popolo» cit., pp. 628-630. 101 Si vedano i ricordi di Giorgio Bassani che vide le scritte “a calce, a carbone, a gesso, a pece” in un pomeriggio del gennaio 1945, mentre rientrava a Firenze dopo quasi un anno trascorso a Roma: “In un pomeriggio del gennaio ’45, mentre, proveniente da Roma, entravo in Firenze a bordo di un camion militare alleato, il mio sguardo fu attratto da una scritta: «Abbasso Cancogni», che campeggiava enorme su un muro scrostato e sbreccato di periferia. Pensai subito all’amico Manlio, naturalmente, dal quale mi ero separato più di un anno prima alla stazione di Firenze in una triste sera di novembre. Era ben singolare – mi dissi – che il feroce torturatore repubblichino a cui con ogni probabilità quelle parole si riferivano portasse lo stesso suo cognome. Tra poco, quando ci fossimo rivisti, ne avremmo riso insieme. Senonché, qualche decina di metri più avanti, una nuova scritta mi fece trasecolare. Diceva: «Morte a Manlio Cancogni». Una terza poso più in là rinforzava: «Manlio Cancogni alla forca». Per farla breve: a mano a mano che il camion inglese si addentrava nell’abitato scoprii che tutta Firenze era cosparsa di scritte murarie, a calce, a carbone, a gesso, a pece, invocanti ora la gogna, ora il rogo, ora il cappio per Manlio Cancogni. Cercai di persuadere me stesso che si trattasse effettivamente di una omonimia. Ma il cuore di diceva di no, quel Manlio Cancogni fatto bersaglio di tante contumelie (le più pittoresche sono irriferibili), altri non poteva essere che il mio amico. E per un attimo, lo confesso, dubitai di lui. Ciò che era accaduto lo seppi la sera stessa dall’interessato in persona. […] «Ci è mancato poco che non mi facessero la pelle», mi disse poi, ridendo, quando ebbi finito di leggere l’articolo” (G. Bassani, Pimlico, in Id., Opere cit., pp. 1131-1134, la cit. alle pp. 1131-1132). Mario Spinella riferisce le stesse circostanze in M. Cancogni, Allegri, gioventù, prefazione di M. Spinella, Rizzoli, Milano 1980, p. I.
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